Le Monde diplomatique, febbraio 2001

 

La pace richiede il ritiro di Israele

 

 

Il futuro delle trattative di pace resta un'incognita dopo la schiacciante vittoria di Ariel Sharon (62,5% dei voti). Le sue prime dichiarazioni su Gerusalemme «capitale una e indivisibile del popolo ebraico» sono sembrate confermare le peggiori previsioni. Ma Sharon non è così forte. La risicata maggioranza di cui dispone alla Knesset, che lo ha spinto a proporre ai laburisti un governo di unità nazionale, potrebbe presto portare Israele a elezioni anticipate. Molte sono le variabili in campo: la lacerazione dei laburisti, accentuata dalla sonora sconfitta di Barak; l'atteggiamento dell'amministrazione Bush; l'Intifada, entrata ormai nel suo quinto mese. Secondo i sondaggi, il 70% degli israeliani vuole la pace e il nuovo premier ha promesso di dargliela, insieme alla sicurezza. Ma perché ciò avvenga, occorre prendere atto dell'esaurirsi dei processo iniziato a Oslo e ribaltare la logica dei negoziati. Preliminare a tutto, il ritiro unilaterale di Israele dai territori occupati. L'alternativa a questo potrebbe essere ormai solo la guerra.

 

di HENRY SIEGMAN*

 

Il 7 gennaio 2001, alla vigilia dell'insediamento della nuova amministrazione statunitense, il presidente Clinton ha pronunciato un discorso di fronte a un'assemblea di ebrei favorevoli alla pace. Questa allocuzione ha segnato un significativo passo avanti della posizione statunitense, la cui portata è stata ampiamente sottovalutata. Lontano da ogni scadenza elettorale, il presidente Clìnton ha infatti detto alcune verità semplici ma dolorose, che vanno ben al di là di quella che era stata finora la politica di Washington in Medio oriente e che toccano il cuore stesso del confliitto.

 

Il presidente ha spiegato che i palestinesi hanno diritto a uno stato “sovrano e funzionante”. Non solo perchè ciò è conforme agli interessi a lungo termine di Israele, ma anche per una questione di diritto poiché, ha precisato, “la terra di Israele è anche la loro (dei palestinesi) terra”.

 

La volontà di Israele di accettare uno stato palestinese era implicita nell'accordo di Oslo del 1993. E’ stata esplicitata dal primo ministro Ehud Barak al vertice di Camp David del luglio 2000. Ma Israele non ha mai approvato il diritto palestinese alla sovranità, per timore di non poter imporre, nel nome della sicurezza, eventuali limitazioni di questa sovranità.

 

Pur avendo sottolineato la legittimità delle preoccupazioni di sicurezza di Israele e avendo altresì confermato l'impegno statunitense a garantirgli la superiorità militare su tutti i suoi vicini, il presidente Clinton ha anche insistito sul fatto che questa sicurezza “non ha bisogno e non dovrebbe essere assicurata a detrimento della sovranità palestinese né dovrebbe porre ostacoli all’'integritá territoriale palestinese”. La formula “non dovrebbe” è conseguenza diretta dell'affermazione che la Palestina “è anche la loro terra”.

 

Questi due punti riavvicinano Washington alle tradizionali posizioni europee e dovrebbero avere un certo impatto sui consiglieri del presidente George W. Bush sul Medio oriente. La nuova amministrazione repubblicana non ha alcuna fretta di impegnarsi nel processo di pace bloccato in Medio oriente. Preferirebbe lasciarlo da parte il più a lungo possibile. Ma se il conflitto tra Israele e i palestinesi si deteriora seriamente, l'amministrazione Bush non avrà più scelta. Dovrà gestire la crisi, anche se non formulerà i propri obiettivi a lungo termine prima della fine dell'anno.

 

* Direttore di ricerca al Council on Foreign Relations, New York. Si esprime qui a titolo personale.

 

 

 

La vittoria di Ariel Sharon porterà probabilmente a un deterioramento della situazione, anche se il partito laburista parteciperà a un governo di unità nazionale. L'eventualità di una guerra provocata forse dalle azioni di Hezbollah nel nord, non è da escludere. All'origine dell'escalation potrebbe non esserci necessariamente un'azione avventurosa di Sharon. Possiamo immaginare che quest'ultimo continuerà a coltivare l'immagine di dirigente saggio e misurato che ha assiduamente costruito durante la campagna elettorale. Ma non è tanto quello che Sharon farà, bensì ciò che egli rappresenta, almeno nell’immaginario del mondo arabo - che rischia di provocare danni irreparabili alla pace.

 

In effetti, in questo immaginario, Sharon è l'incarnazione stessa del male, l'oggetto dei più neri fantasmi sui “reali” obiettivi dello stato ebraico. La guerra del Libano del 1982, da lui scatenata con lo scopo di insediare una satrapia cristiana nel Libano, i massacri di Sabra e Chatila, la visita provocatoria al Monte del Tempio il 28 settembre 2000, senza parlare delle sue sprezzanti dichiarazioni sugli arabi, tutto fornisce argomenti ad una demonologia araba che considera come obiettivi israeliani l'egemonia su tutta la regione, la distruzione della moschea Al Aqsa e della Cupola della roccia sull'Haram al-Sharif, e la loro sostituzione con il Tempio ebraico.

 

Il fallimento di Camp David

 

QUESTA VISIONE avrebbe una certa influenza anche sui dirigenti arabi moderati che non condividono la paranoia. Stabilire relazioni con Sharon relazioni con Sharon sarebbe una minaccía per la loro stessa esistenza politica. Il processo di pace non potrà essere rilanciato. La sola speranza risiederebbe allora nella ridotta longevità dei governo Sharon, visto che la composizione del parlamento israeliano resterà immutata.

 

La risposta di Sharon al proseguimento delle violenze da parte palestinese è prevedibile. Con le sue massicce rappresaglie, che hanno provocato più di 300 morti palestinesi, Barak ha creato un precedente. E’ facile immaginare quali sarebbero state le reazioni della sinistra se queste rappresaglie fossero state promosse da un govemo di destra. Il governo del Lìkud farà valere il fatto che il suo predecessore ha approvato l'espansione delle colonie, la proliferazìone delle autostrade che frammentano la Cisgiordania e di nuove case per gli ebrei a Gerusalemme, a un ritmo uguale se non superiore a quello del governo di Benyamin Netanyahu. E’ difficile immaginare che un governo del Likud possa fare marcia indietro su questi punti.

 

Ma c'è un'altra ragione, ben più fondamentale, che ostacola la pace ed essa è nell’ íncapacità di palestinesi e israeliani a considerare nel loro giusto peso due fenomeni distinti: l'incapacità dei negoziatori di risolvere le loro controversie sui problemi riguardanti lo status permanente del futuro stato e la violenza nei territori contro l'occupazione israeliana. E’ molto diffusa l'idea che l'Intifada sia stata determinata da quelle che i palestinesi considerano le insufficienti proposte di Barak a Camp David. Che sia stata spontanea oppure fomentata da Yasser Arafat, l'Intifada viene comunque analizzata come l'espressione della rabbia popolare nei confronti del rifiuto israeliano a soddisfare ciò che i palestinesi considerano i propri diritti minimi Dunque, la violenza cesserà solo quando Israele accetterà un compromesso giusto.

 

Questa interpretazione, tuttavia, è falsa. Le ultime esplosioni di violenza in Cisgiordania e nella striscia di Gaza non miravano a rafforzare la posizione di Arafat nei negoziati, anche se il dirigente palestinese ha cercato dì utilizzarle a proprio vantaggio L'Intifada è iniziata perché la disperazione dei palestinesi aveva raggiunto un punto di non ritorno: non credevano più che il processo di pace avrebbe migliorato la loro miserevole situazione o che potesse porre fine ad un'occupazione israeliana assai dura. Sono state le restrizioni, le umiliazioni quotidiane e le usurpazioni implacabìli delle terre e delle vite palestinesi a provocare la rivolta attuale. La maggior parte dei palestinesi ignora i punti proposti da Barak e, del resto, non saprebbe cosa farsene. E’ da tempo che i palestinesi non credono più che un accordo tra dirigenti mìgliorerà le loro condizioni di vita.

 

Un nuovo testo non avrebbe quindi nessuna ripercussione diretta sulle piazze palestinesi. Sette anni di applicazione dei principi di Oslo hanno solo portato più miseria, più confische di terre e un controllo israeliano più severo sui movimenti delle persone dei beni. La disillusione e la diffidenza non possono essere cancellate con nuove promesse. Non c'è null'altro che possa mettere fine alla violenza palestinese al di fuori della fine dell'occupazione e del blocco che Israele continua ad esercitare su tutti gli apetti dell'esistenza dei palestinesi.

 

Una via d’uscita: il ritiro unilaterale

 

RIMANE PERO’ una via d'uscita: il ritiro unilaterale di Israele sulle linee proposte da Barak in occasione del vertice di Camp David nel luglio 2000, che spianerebbe la strada alla dichiarazione unilaterale dì indipendenza palestinese. Benché queste misure non abbiano bisogno di un accordo di pace formale, richiedono però quanto meno un'intesa informale e un negoziato con un medìatore terzo, all'occorrenza gli Stati uniti in coordinamento con l'Unione europea e le Nazioni unite.

 

I negoziati continuerebbero sulle questioni rimaste ìn sospeso, ma questa volta tra due stati sovrani e non più tra una potenza occupante e una popolazione occupata. Nell'agenda dei colloqui: il tracciato definitivo delle frontiere, glì accordi per la sicurezza - smilitarizzazione dello stato palestinese, controllo del suo spazio aereo da parte di Israele ecc. - la spartizione delle risorse idriche, le infrastrutture comuni, gli accordi sulla sovranità a Gerusalerrime e sui rifugiati.

 

Durante i colloqui, le partì dovrebbero impegnarsi a non prendere misure unilateralí. Israele dovrà rinunciare, in particolare, alla confisca di terre palestinesi per un'estensione pari a quella delle colonie. Nessun cambiamento dovrà essere portato allo statu quo demografico di Gerusalemme est e nessuna iniziativa, sia israeliana che palestinese, verrà presa senza l'accordo dell'altra parte, per affermare la sovranità su una parte di Gerusalemme. Fino all'accordo finale, Israele si impegnerà a concedere un'autononomia funzionale ai quartieri palestinesi di Gerusalemme est. La cooperazione palestinese con Israele nel campo della sicurezza dovrà essere totale.

 

Ma perché mai dovrebbe essere possibile un accordo basato su questi punti, quando il vertice di Camp David è fallito? Una prima spìegazione risiede nel fatto che nulla è possibile prima che Israele si ritiri -fisicamente e psicologicamente dalle vite e dallo spazio emozionale dei palestinesi. Per una risposta pìù dettagliata bisogna spìegare perché Arafat ha r un atteggimento espinto le proposte di Barak a Camp David. Erano proposte molto avanzate che avrebbero senza dubbio rappresentato una base negoziale per la direzione palestinese, se solo il primo ministro israeliano non avesse commesso una serie dì enormi errori durante i suoi due anni di governo.

 

Quando Barak è arrivato al potere nel maggio 1999, ha messo da parte i negoziati con i palestinesi e si è concentrato sulle trattative con la Siria. Primo grave errore. In più, ha informato Arafat che non avrebbe realizzato i ridislocarnenti di truppe in Cisgiordania, accettati peraltro dal governo di Netanyahu a Wye River. In due ccasioni ha annunciato il trasferimento sotto l’Autorità palestinese dii tre villaggi palestinesi adiacenti a Gerusalemme, ma entrambe le volte si è poi rimangiato la promessa. Ha anche dato prova di compiacenza verso i coloni e la loro ideologia, un atteggiamento in contraddizione con gli obbiettivi dichiarati.

 

Barak ha proseguito l'ìnsediamento delle colonie ebraiche in Cisgiordania e la costruzione dì case per gli ebrei a Gerusalemme, ad un ritmo più sostenuto di quello tenuto durante il governo Netanyahu. Ha ìntensificato la costruzione di importanti autostrade in Cisgiordania, per permettere ai coloni di aggirare le città e i villaggi palestinesi. Queste autostrade, va ricordato, erano state prevìste da Sharon negli anni '70 per spezzettare un eventuale stato palestinese in entità separate, più facilmente controllabili da parte dello stato ebraico.

 

Tutto ciò ha eroso la fiducia dei palestinesi e i rapporti dei servizi segreti hanno avvertito: le piazze palestinesi sono sull'orlo dell'esplosione. Quando Barak ha formulato le sue proposte a Camp David, non aveva consultato in via preliminare Arafat. Ha affermato, inoltre, che esse erano da prendere o lasciare. Aggiungendo l'ingiuria alla provocazione, ha proposto la costruzione di una sinagoga sull'Haram al-Sharif, a fianco della moschea Al Aqsa e della Cupola della roccia.

 

Nel momento in cui Israele si sarà rìtirato dai territori e i palestinesi avranno il foro stato, un accordo sulle questioni rimaste in sospeso sarà meno difficile da raggiungere. Le due parti potrebbero allora accordarsi sui tempi necessari per risolvere i problemi rimasti in sospeso, poiché l'occupazione e la violenza da essa generata saranno finite.

 

Ribaltare i paradigmi

 

Per quanto riguarda Gerusalemme, nessuna delle due parti può rinunciare alla propria sovranità sull'Haram al-Sharif-monte del Tempio; ma entrambe possono convivere con gli accordi attuali, che danno ai palestinesi il controllo dell’Haram, a condizione che Israele si impegni a non prendere nessuna iniziativa unilaterale per affermare la propria sovranità formale sul Monte del Tempio e che i palestìnesì promettano di non intraprendere scavi sotto l'Haram. Questo lascia aperta la possibilità di uno scambio futuro: la sovranità palestinese sull'Haram contro la rinuncia al diritto al ritorno dei profughi. Nell’attesa, la creazione immediata di un fondo internazionale per il reinsediarnento di quei profughi che vogliono approfittare di questa opportunità potrebbe ridurre in modo sensibile le dimensioni del problema e renderne più facile la soluzione.

 

La pace tra Israele e i palestinesi richiede un'inversione dei paradigmi che, finora, sono stati alla base dei negoziati. Per lungo tempo, Israele - con l'appoggio degli Stati uniti - ha sostenuto che un accordo di pace era una prerequísito indispensabile per un ritiro dai territori. Dagli avvenimenti recenti dovremmo trarre la lezione opposta: il ritiro israeliano dai territori occupati è la condizione essenziale per la pace.

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