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I palestinesi dalla rivolta alla guerra per l’indipendenza

di Cinzia Nachira

Nelle ultime settimane la situazione in Palestina sta assumendo sempre più i contorni di una vera e propria guerra per l’indipendenza. In questi sedici mesi di confronto terribile con l’occupante i palestinesi hanno tratto alcune conclusioni, per altro ovvie. Nessun tavolo negoziale porterà Israele al ritiro da Gaza e Cisgiordania, a smantellare le colonie e a rispettare il diritto al ritorno per i profughi. Al tavolo negoziale gli israeliani devono arrivarci con la sensazione della sconfitta. Oggi anche il più diffuso giornale israeliano, Haaretz, espressione della grande borghesia aschenazita e per niente “pacifista”, accusa Sharon e la compagine governativa di non avere una strategia politica che sia in grado di portare soluzioni. La pura e semplice rioccupazione di Gaza e Cisgiordania, o anche la creazione di “zone tampone”, ciò che sta avvenendo in queste ore, non porteranno da nessuna parte. Le azioni militari da parte palestinese di questi giorni sono li a dimostrarlo.

Ciò che ha sconvolto maggiormente è stato l’attacco in cui è rimasto distrutto uno dei “gioielli” della tecnologia militare israeliana, il carro armato di ultima generazione distrutto da una mina e caduto in una imboscata, di cui i vertici militari escludevano la possibilità.

E’ evidente che i palestinesi hanno cambiato strategia nel momento in cui aumentano la loro capacità di attaccare le truppe occupanti, distruggendone, anche se, per ovvia inferiorità tecnica, in minima parte, gli strumenti. Attaccano posti di blocco riuscendo a disarmare i soldati e riuscendo a fuggire senza essere uccisi.

Il secondo episodio, che non a caso è avvolto dal mistero, è la morte di Eyal Weiss, capo degli squadroni della morte autori della pianificazione e realizzazione, con l’appoggio degli elicotteri da guerra, delle “esecuzioni mirate” e delle centinaia di arresti di militanti palestinesi seguiti alle numerose “incursioni temporanee” dell’esercito israeliano nelle città palestinesi. La versione iniziale sulla morte di Weiss era quasi comica: sarebbe rimasto vittima del crollo di una casa palestinese nel villaggio di Saida (a Nord Ovest di Nablus in Cisgiordania) insieme ad un palestinese. Non è facile immaginare Weiss che sta a rimirare la demolizione di una casa restando sotto le macerie. Weiss era lo 007 per eccellenza dei “corpi di élite” Duvdevan (ciliegia) è difficile perdesse il suo “prezioso” tempo in quel modo, anche abbastanza stupido. Più logica sembra avere la versione, ovviamente non confermata dai militari, secondo la quale Weiss sia caduto in un’imboscata appunto a Saida.

Il terzo episodio è l’attentato suicida di sabato 16 febbraio a Karnei Shomron una colonia in Cisgiordania. Sembra rivendicato dal Fronte popolare per la liberazione dell Palestina –Fplp. Questo terzo episodio lascia pensare che anche le colonie nei Territori Occupati che dovrebbero essere i posti più controllati del pianeta sono penetrabili. L’ipotesi che circola è che il kamikaze fosse un lavoratore del centro commerciale. Fatto, che se risultasse vero, non diminuirebbe in alcun modo il dato che l’occupante non riesce più a controllare più tutto e che le stesse strutture dell’occupazione rischiano di divenire utili alla resistenza.

 

Arafat interlocutore di chi?

 

Ma da dove viene il cambio di strategia palestinese? E in che cosa consiste realmente?

Dopo oltre un anno di rivolta, oltre 900 morti palestinesi, migliaia di ettari di coltivazioni distrutti, centinaia di case demolite, queste domande si impongono, alla luce soprattutto dei tentativi di vedere in Arafat contemporaneamente il capo dei “terroristi”, come in Occidente si definiscono abitualmente, i palestinesi che tentano di difendersi e l’interlocutore di un improbabile tavolo negoziale basato sulle false “mediazioni” Usa o europee.

Nel dicembre scorso i palestinesi sono stati a un passo dall’abisso della guerra civile, con la polizia palestinese che ha sparato sul proprio popolo, che oltretutto non riesce a difendere dal massacro quotidiano.

In questi ultimi giorni dopo il bombardamento della prigione di Gaza City, dove centinaia di uomini e ragazzi, hanno rischiato la morte, una folla inferocita ha letteralmente demolito le sbarre del carcere di Hebron, liberando i detenuti, con l’ottimo argomento che non si può accettare un massacro passivamente, in nome di non si capisce quale “collaborazione sulla sicurezza”. Sicurezza di chi?

Nella riunione che si è svolta Ramallah nella prigione/quartier generale, dove Arafat è rinchiuso dal dicembre del 2001, dopo l’episodio di Hebron sembra che Rajub, capo della sicurezza palestinese, si sia opposto fieramente alla richiesta di Arafat di arrestare “i responsabili”.

Anche se sembra che nelle ultime settimane Arafat abbia riguadagnato consenso, ciò non toglie che un capo detenuto, che cerca di accreditarsi come interlocutore dei propri carcerieri, non può, per forza di cose, avere il controllo di alcunché. I tentativi di Israele di sostenere le “prove” che l’Anp sia coinvolta nell’affare Karine-A (la nave sequestrata nel mediterraneo con 50 tonnellate di armi) si è trasformata in boomerang proprio per il leader palestinese. Per diversi motivi.

Il più sostanziale è che se anche i generali della marina palestinese, alcuni dei quali sono attualmente sotto processo, fossero tra gli organizzatori ciò rientrebbe, tra l’altro, nel diritto di difendersi. Così lo vivono i palestinesi, e questo quesito pongono ad Arafat: da che parte stai? Certo Arafat è necessario per mantenere i rapporti con gli interlocutori esterni, ma la lotta sul campo non gli appartiene più.

 

I Refuseniks e l’opposizione israeliana

 

Nel momento peggiore della crisi, si inserisce un altro elemento destabilizzante che viene dall’interno: 52 ufficiali pubblicano a pagamento sul più diffuso giornale israliano, Haaretz, una dichiarazione in cui rifiutano di prestare servizio nei territori occupati, si dichiarano contrari all’occupazione che definiscono come una tragedia per il popolo israeliano. Fanno pubblica dichiarazione a favore della diserzione.

In un primo momento i vertici militari tendono a sminuire il fenomeno con la magia dello stress nervoso. Chi si aspetta la carcerazione in massa resta deluso. Gli ufficiali vengono redarguiti, ma restano liberi. Si preferisce scatenargli contro i coloni, i “fratelli in trincea” le “vittime” del “terrorismo” palestinese. Tutto ciò però non ferma il disagio, la crisi morale dei tanti soldati usati come cecchini. Alle accuse di essere “al soldo” del nemico, i soldati refuseniks, rispondono testimoniando di episodi che hanno scatenato la loro crisi. Alcuni che a Gaza hanno assistito alla disperazione delle famiglie palestinesi vittime delle demolizioni di decine di case, altri che hanno assistito all’uccisione di scolari di dieci anni e anche meno che tornavano a casa, poi spacciati per quattordicenni uccisi in inesistenti sassaiole, altri ancora che avevano l’ordine di bloccare ambulanze e che hanno assistito all’agonia di vecchi, donne incinte, neonati con crisi respiratorie. Semplicemente si sono chiesti: perché tutto questo? Cosa c’entra questo con la sicurezza del paese e dei civili di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme?

Ma ormai questa “crisi di coscienza” unita alla constatazione che l’occupazione e la repressione non fa che aumentare l’insicurezza, si è diffusa nella società israeliana. In pochi giorni tra Tel Aviv e Gerusalemme oltre 10.000 israeliani sono scesi in piazza a chiedere il ritiro dai territori. Non è semplicemente il risveglio di Peace Now, che ipocritamente per tutto il periodo del governo Barak difendeva occupazione e repressione. E’ la presa di coscienza che inizia dalla parte più delicata di tutto il sistema occupante: l’esercito.

Sicuramente oggi quegli israeliani contro la guerra, che fino a pochi mesi fa venivano derisi, sbeffeggiati ed aggrediti hanno più spazio di movimento. Il movimento Yesh Gvul, “c’è un limite”, fin dal settembre 2000 ha iniziato la sua opera di controinformazione nell’esercito. Per molti mesi i soldati che rifiutavano gli ordini e il servizio militare sono rimasti isolati e molti di lohanno pagato con l’arresto. Ma il lavoro paziente paga: i Refuseniks oggi sono un fenomeno politico molto importante. Le manifestazioni di questi giorni hanno dimostrato che non si tratta di scelte individuali ma di scelta politica precisa.

 

Israeliani e palestinesi nella prospettiva di Porto Alegre

 

Da poco si sono conclusi i lavori del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. La presenza israeliana e palestinese era molto qualificata, Michel Warshawski direttore dell’Alternative Information Center, un centro di controinformazione israelo palestinese e Mustafa Barghouti, presidente della Medical Relief Commitees, medico di Ramallah. La loro presenza non era scontata, nel senso che sia Warshawski che Barghouti sono due persone “sgradite” alle autorità israeliane ed il fatto che siano riusciti ad arrivare a Porto Alegre è importantissimo.

La decisione di tenere una sessione del WFS a Gerusalemme è determinante per dare un senso alla solidarietà a due popoli che possono e devono vivere insieme.