PALESTINA - BALSAM
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Relazione di Michael Warshawski

direttore dell'Alternative Information Centre

(Casa dello Studente, Roma 26 febbraio 2002)

Vengo da Porto Alegre, che è stato uno dei momenti forti di espressione di questo movimento sociale di solidarietà internazionalista. Ma sono rimasto sorpreso, devo dirlo, dalla relativa marginalità della questione della guerra nei dibattiti generali, soprattutto nei dibattiti centrali che si sono svolti a Porto Alegre.

So che non è all’Italia che devo fare questo rimprovero, dove ci sono state immense mobilitazioni di massa contro la guerra, realizzate prima e dopo l’11 settembre. Ma credo che ci sia nel movimento internazionale contro la mondializzazione capitalista e neoliberista una sottovalutazione del quadro politico in cui si compie questa mondializzazione. Al centro della riflessione prevale l’elemento economico e sociale della globalizzazione, più che le sue dinamiche politiche.

La globalizzazione non è soltanto un’economia neoliberista mondializzata: è anche un meccanismo per imporre ai popoli del mondo questo sistema economico, si tratti del Plan Colombia, delle Filippine o della Palestina. Ciò si può esprimere con la guerra, ma anche con la pace e anche con il linguaggio. Un linguaggio pieno di trabocchetti per tutti noi, soprattutto attraverso i mass media, come l’utilizzazione del concetto di violenza, che diventa un concetto astratto e generalizzato in cui tutto si confonde.

Centinaia e migliaia di organizzazioni in tutto il mondo si specializzano a livello di ricerca e messa in opera del concetto di conflitto, di prevenzione dei conflitti e di risoluzione dei conflitti. Così il mondo è paragonabile a dei bambini che litigano tra di loro e il problema è di "educare" alcune persone di buona volontà per farli riconciliare, dando una sberla a destra e una a sinistra. In questo modo il concetto di pace diventa la giustificazione del meglio o del peggio per far la guerra o la pace. Hanno imposto la guerra in nome della pace, hanno fatto massacri in nome della pace. In Israele hanno inventato il concetto di "tortura per la pace". Cioè torturare dei militanti perché è l’unico modo per fermare il conflitto, per fermare la violenza, per arrivare alla pace!

Il Medio Oriente, in questo senso, è un laboratorio direi quasi banale dell’uso combinato della pace e della guerra per imporre il nuovo ordine mondiale. Questa strategia politica inizia con una guerra, è seguita da un processo di pace e oggi sfocia in un’offensiva di violenza senza precedenti finalizzata a mettere il popolo palestinese in ginocchio. Lo stesso imperialismo statunitense (e dei suoi alleati, siano essi gli europei o gli israeliani) ha attraversato tre fasi.

La prima fase è la guerra del Golfo del 1991, che aveva come obiettivo sia quello di mettere in riga chi sembrava volesse ignorarla non accettando l’egemonia statunitense, almeno nelle forme impose da Washington, sia quello unificare lte insieme del mondo arabo sotto l’egemonia degli Stati Uniti dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Occorreva un Medio Oriente pacificato, o almeno apparentemente tale, dalla guerra internazionale contro l’Iraq. Oggi si tratta di risolvere la guerra in Palestina, guerra di "bassa intensità", come la chiamano gli strateghi statunitensi, che resta un focolaio di destabilizzazione in quel nuovo Medio Oriente realizzato da Bush sr.

La "pacificazione", antitesi del diritto

Vorrei sottolineare quattro aspetti che caratterizzano il processo di pace, o il processo di Oslo. Prima di tutto, si tratterebbe di un progetto di pacificazione della questione palestinese: almeno, è questa la definizione che hanno dato coloro che, nel quadro degli attuali rapporti di forza, tentano di imporre la concezione stessa del processo di pace.

Per definizione, ed è il secondo aspetto, pacificazione è l’antitesi del concetto di diritto. Il diritto è stato espunto dal processo (data la volontà di ignorare le risoluzioni dell’Onu), ed è stato sostituito da un mercanteggiamento, in cui i rapporti di forza stabiliscono chi è "realista" e chi no.

Il terzo elemento caratteristico di questo processo è dato dal fatto che esso si basa esclusivamente sui rapporti di forza esistenti. Un negoziato basato esclusivamente su rapporti di forza squilibrati si chiama diktat! E, come si è visto in questi anni, consiste nel tentativo del governo israeliano, sostenuto completamente dagli Stati Uniti, di imporre ai palestinesi le condizioni di un accordo per la pacificazione della questione palestinese.

L’ultimo elemento derivato dal processo di pace che vorrei sottolineare è la delegittimazione della lotta palestinese e del conflitto stesso: il solo fatto di negoziare, il solo fatto di sedersi e partecipare a un processo di pace ha delegittimato ogni tentativo di mettere in discussione il processo di pace stesso.

Si vede bene, dunque, che si tratta di un diktat imposto a una delle due parti; infatti, con i rapporti di forza dati, che sono gli unici possibili - come dicono gli intermediari statunitensi - ogni tentativo di mettere in discussione i diktat diventa inaccettabile, un atto di terrorismo.

Le ragioni del fallimento degli accordi di Oslo

Il fallimento del processo di Oslo e il fiasco del summit di Camp David dell’estate 2000 hanno dimostrato che le forze della resistenza sono più forti di coloro che tentano localmente e internazionalmente di imporre ai palestinesi il diktat.

Ehud Barak e Bill Clinton erano convinti di riuscire a imporre ai palestinesi il piano israeliano, e la loro sorpresa a Camp David era sincera. Non si aspettavano che un popolo, il rappresentante di un popolo così debole, isolato, sotto la continua pressione internazionale e degli stessi regimi arabi, avesse il coraggio di dire: "questo piano è inaccettabile".. E questo spiega la sorpresa di Barak e di Clinton: una sorpresa tipicamente coloniale, quella di chi è convinto di potere imporre alla popolazione indigena la propria concezione di "ordine" e "normalità". Questa sorpresa spiega anche l’odio di carattere coloniale: "come osa, questo popolo miserabile, che non ha Stato, né esercito, né potenza economica, una popolazione di rifugiati, mettere in discussione il nuovo ordine così come lo si sta imponendo e lo si intende costruire in Medio Oriente?". Questo spiega la violenza della reazione israeliana. E’ la violenza della sorpresa e dell’odio. Il mondo che immaginavano, il mondo che noi diciamo che non è l’unico mondo possibile, li rende incapaci di concepire che qualcuno possa mettere in discussione il "nostro processo di pace".

In questo senso, c’è una continuità diretta tra la reazione di Europa e Stati Uniti di fronte a Saddam Hussein e all’Iraq dieci anni fa e la reazione odierna del governo israeliano, di nuovo sostenuto dagli Usa, contro i palestinesi: "li rimettiamo in riga, gli insegniamo quali sono i confini - stabiliti da noi - che non possono essere oltrepassati". Si tratti di quelli che gli Stati Uniti definiscono "Stati canaglia", si tratti dell’Iraq, della Libia, dell’Iran o della Corea del Nord; e la lista si potrebbe allungare, a seconda delle occasioni (si potrebbe magari arrivare un giorno a inserire anche l’Italia fra gli "Stati canaglia"…). Chiunque metta in discussione i limiti fissati dall’imperialismo statunitense ed accettati pedissequamente dai suoi alleati è da richiamare all’ordine, da "rieducare".

Bisognerebbe studiare da vicino le motivazioni che sono alla base di quella che molti definisco "guerra" in Palestina. In questo caso io non parlo di "guerra". Per poter definire un conflitto "guerra" c’è bisogno di una simmetria tra le due parti. In Palestina è in atto una repressione coloniale che, nei fatti, costituisce il modello già applicato purtroppo in questi anni e che verrà applicato anche in altre parti del mondo: un modello di repressione dei popoli e dei movimenti che rifiutano di accettare i piani imperialisti, i piani coloniali che si realizzano nel mondo.

La vendetta di fronte alla sorpresa si trasforma in volontà di annullare il popolo palestinese, per pacificarlo e imporgli ciò che ha rifiutato a Camp David.

In questo senso occorre comprendere che ciò che è più terribile nella repressione israeliana non sono gli "assassini mirati", non sono i bombardamenti delle città, bensì il blocco delle città e dei territori, l’accerchiamento delle città e dei villaggi palestinesi e lo stato d’assedio cui l’intera popolazione palestinese è sottoposta. Si tratta di una repressione di massa, di terrorismo contro un popolo intero, non solo contro i militanti della resistenza, contro i militari o gli uomini politici. Si tratta di obbligare ogni donna, ogni uomo, ogni bambino di Palestina a mettersi in ginocchio, fino alla resa incondizionata e all’accettazione del diktat israeliano.

L’11 settembre ha messo la politica israeliana in sintonia con la politica internazionale, o meglio ha sintonizzato la politica internazionale con quella israeliana. Molti tra noi hanno voluto credere che dopo l’11 settembre gli Stati Uniti avrebbero fatto pressioni su Israele per frenarla, come è successo con la guerra del Golfo del 1991, quando Bush senior chiese ad Israele di defilarsi per potere costruire la grande coalizione contro l’Iraq. Oggi, a mio avviso, si sottovaluta la nuova strategia statunitense, o comunque l’uso strumentale da parte statunitense degli attentati dell’11 settembre. Washington non negozia più con i potenziali alleati arabi e neanche con l’Europa; Washington impone. Il diktat statunitense viene passivamente accettato dall’Unione europea, anche se in parte le si ritorce contro. Il dato è che ad essere rimessi in riga oggi non sono solo i paesi potenzialmente anti-statunitensi.

E’ la quadratura del bene contro il male, della civiltà contro la barbarie. Sono le tesi di Bush junior, sono le tesi che sostanziano il sionismo da oltre cent’anni. E ciò spiega perché, oggi come mai negli ultimi vent’anni, la politica degli Stati Uniti e quella israeliana vivano in armoniosa simbiosi.

Occorre comprendere ciò che questo significa. All’epoca della prima Intifada, il comandante in capo dell’esercito israeliano, rispondendo in un’intervista televisiva alla domanda sul perché l’esercito non avesse schiacciato la rivolta nei Territori occupati, disse che Israele aveva i mezzi materiali per farlo, ma c’erano due ostacoli politici.. Il primo era la comunità internazionale: se superiamo un certo livello di violenza, rischiamo un intervento internazionale. Il secondo ostacolo era l’opinione pubblica israeliana: se superiamo una certa soglia repressiva usando metodi inaccettabili, rischiamo di dividere in due l’opinione pubblica israeliana, compreso l’esercito.

Dieci anni fa questi due ostacoli erano in grado di frenare la violenza israeliana. Cosa avviene, invece, oggi? Dopo l’11 settembre, il governo israeliano Sharon-Peres non deve più preoccuparsi troppo della comunità internazionale, della sua volontà di frenare la violenza contro i palestinesi.

Per ciò che riguarda il movimento pacifista israeliano, fino a qualche mese fa neanche questo era un elemento sostanziale di opposizione e di freno alla politica del governo. Nella sua stragrande maggioranza, l’opinione pubblica israeliana - compresi i pacifisti, i liberali non estremisti - ha creduto alle mistificazioni di Barak dopo il fiasco di Camp David. Barak, in sostanza, sosteneva di avere fatto tutto il possibile, accettato tutti i compromessi immaginabili, di avere concesso quasi tutto: eppure, i palestinesi avevano rifiutato, il che dimostra che essi volevano in realtà arrivare alla pace con Israele. Barak non ha mai detto: "noi non ci siamo messi d’accordo"; non ha mai detto: "il loro massimo e il nostro minimo non coincidono"; non ha mai detto: "non abbiamo trovato una formula in grado di portarci all’accordo"... Egli ha detto, facendo breccia nell’opinione pubblica israeliana e internazionale: "ho fatto tutti i compromessi possibili e sono andato anche oltre, e ho dimostrato che sono i palestinesi a non volere la pace. E se è dimostrato che i palestinesi non vogliono la pace, è chiaro che vogliono la guerra; se vogliono la guerra, dobbiamo difenderci, e se dobbiamo difenderci nella prospettiva dell’eterna rimessa in discussione dell’esistenza del popolo ebraico da altre nazioni, non abbiamo altra scelta che quella della guerra preventiva". Questo ha distrutto il movimento pacifista in Israele.

Nella loro stragrande maggioranza i pacifisti israeliani, coloro che in centinaia di migliaia si sono mobilitati durante la guerra in Libano del 1982 e durante la prima Intifada del 1987, hanno sostenuto prima il governo Barak e poi quello Sharon-Peres. Dopo un anno e mezzo, sembra esserci un primo risveglio , assistiamo all’apertura di alcune crepe. Lo dico con ottimismo, ma anche con molta cautela, perché non bisogna sottovalutare la portata della sconfitta, la profondità della disfatta del pacifismo israeliano.

Un nuovo movimento di rifiuto della guerra

C’è oggi, ne avrete sentito parlare, un movimento che si riaffaccia nell’esercito. Un movimento di soldati e ufficiali riservisti che rifiutano di servire nei Territori occupati; è un movimento nuovo e che si sovrappone al vecchio movimento Yesh Gvul, quello di coloro che - in genere più di sinistra — rifiutavano già il servizio militare a Gaza e in Cisgiordania.

Le mobilitazioni realizzate in Israele soprattutto dalle Donne in Nero, nel quadro della coalizioni delle donne per la pace, che inizialmente mobilitavano solo poche decine di persone, oggi sono in grado di mobilitarne più di un migliaio. Anche nella stessa classe politica si sentono alcune voci dissonanti, nel generale appiattimento consensuale di questi mesi sulle posizioni del governo. Anche l’ex capo dei servizi di sicurezza israeliani, l’ammiraglio Amil Ayalon, ha denunciato "il sistema nazista d’apartheid" nei Territori occupati, e ha detto di comprendere quei soldati che si rifiutano di andare nei Territori occupati. Il presidente del parlamento israeliano ha denunciato, per la prima volta dopo un anno e mezzo, l’occupazione come il cuore del problema, e non il rifiuto palestinese di riconoscere Israele.

Ci sono quindi dei segnali che, nel consenso dominante dopo il fallimento di Camp David, le voci dissonanti - anche se ancora ultraminoritarie - e il risveglio del movimento contro la guerra sono reali, pur se ancora estremamente modesti rispetto alle necessità... Ci sono due condizioni da realizzare - che ancora non si intravedono - per trasformare questo movimento (che non è più marginale, ma è ancora molto minoritario) in un vasto movimento d’opposizione. Si tratta di due elementi, uno dei quali interno ad Israele e l’altro esterno. Il primo è che il governo di unità nazionale (perché abbiamo ancora un governo di unità nazionale) cada e la destra si trovi sola, senza l’appoggio dei laburisti e di Peres che siede nel governo. Non ci sono mai stati movimenti di massa contro la guerra e per la pace con i laburisti al governo. Ciò mostra la responsabilità enorme che ha sulle spalle Shimon Peres rispetto ai crimini di guerra e alla strategia del terrore portata avanti nei Territori occupati. La seconda condizione è che ci sia una forte pressione internazionale. Ciò che ha favorito la nascita di movimenti contro la guerra in Israele, sia durante la guerra in Libano sia durante la prima Intifada, è stata la pressione da parte dei movimenti internazionali organizzati contro la politica israeliana, che in questo modo veniva isolata a livello internazionale.

A questo livello che si colloca la vostra responsabilità. Si tratta di "smuovere" la politica internazionale. In primo luogo, per un motivo puramente e semplicemente morale: non c’è alcuna assistenza a un popolo che viene massacrato, c’è un’omissione di soccorso. Ma qui non voglio entrare nel dibattito umanitario. C’è una richiesta forte che viene dai palestinesi per una forza di interposizione. Ed è ridicolo che i governi europei cerchino l’accordo dell’aggressore per mandare delle truppe a difendere gli aggrediti. E’ urgente che si facciano pressioni forti ed efficaci da parte della società civile, in particolare europea. Perché l’Europa ha, tra l’altro, posizioni diverse da quelle degli Stati Uniti riguardo al Medio Oriente, posizioni che rischiano di scontrarsi. Occorre quindi spingere perché si passi dalla teoria alla pratica.

Sono due le occasioni concrete che avete d fronte. Una è la grande manifestazione, io spero grandissima, che si sta preparando per il 9 marzo in Italia. Spero che effettivamente ci sia un movimento che richiami alle proprie responsabilità i vostri parlamentari e, per loro tramite, il parlamento europeo. La seconda occasione è l’invio di una massiccia missione civile per la protezione del popolo palestinese alla fine del mese, con la quale noi speriamo di ripetere, migliorandola e rafforzandola, la mobilitazione di Natale e Capodanno scorsi, in cui centinaia di volontari e militanti europei e statunitensi sono venuti sul terreno per esprimere solidarietà ai palestinesi, ma anche per confrontarsi pacificamente con l’occupazione, lo stato d’assedio e il blocco.

Sono tre gli effetti di queste azioni di protezione della popolazione civile, e sono importanti. Innanzitutto, la solidarietà, che i palestinesi hanno bisogno di vedere e sentire a casa propria. Poi, una pressione reale - anche se limitata - sulle forze di occupazione e sull’opinione pubblica israeliana; queste azioni sono riprese dalle televisioni, veniamo visti mentre compiamo i nostri crimini, e sono rari gli oppressori che sono contenti di mostrarli. Ma il terzo effetto, che è il più importante, è il ritorno dei militanti nei rispettivi paesi per testimoniare, per cambiare la propria opinione pubblica e rafforzare le pressioni sui parlamenti; e questo è ciò che i palestinesi e i loro amici israeliani si aspettano più di ogni altra cosa da voi e dalle missioni civili che vengono in Palestina.

Sharon mette in discussione la sopravvivenza della comunità ebraica in Palestina.

Finisco su uno degli argomenti più usati dal governo israeliano e da certi dirigenti delle comunità ebraiche in Europa, che ricattano i movimenti di solidarietà con i palestinesi. Ciò che oggi è in gioco in Palestina non è il futuro del popolo palestinese. Il popolo palestinese è radicato nella sua terra , nonostante i metodi terribili usati dall’esercito israeliano, resiste e resisterà, non ho ombra di dubbio su questo. Ciò che rischia di essere messo in discussione grazie alla politica criminale del governo israeliano è la sopravvivenza stessa di una comunità ebraica in Medio Oriente. E qui è chiara l’irresponsabilità non solo dei dirigenti politici israeliani, ma anche di coloro che in Europa si definiscono "amici" del popolo israeliano.

Chi ha veramente a cuore l’avvenire della comunità ebraica in Medio Oriente, il futuro della comunità israeliana, deve capire che l’ultima chance che ha la nostra comunità di vivere in coesistenza e in pace nel mondo arabo e musulmano che la circonda è mettersi al primo posto nelle mobilitazioni, anche in Europa, contro la politica di guerra del governo israeliano, che ci sta portando alla catastrofe e al suicidio.

La politica dell’impunità che chiedono Israele e i suoi sedicenti amici ci sta spingendo nel baratro e sta mettendo in discussione la sopravvivenza stessa dei nostri figli in Medio Oriente!

Roma 26 febbraio 2002