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1982 Beirut-2002 Jenin

Beirut 1982-Jenin 2002: dopo vent’anni il governo israeliano si ripete in un’azione di terrorismio di stato senza pari. Non sappiamo quanti morti ci sono sotto le macerie del campo profughi all’ingresso della città di Jenin e forse non lo sapremo mai.

Ma sappiamo i nomi i cognomi e le cariche governative dei mandanti, conosciamo il grado degli esecutori. Sappiamo anche che la viltà della sedicente "comunità internazionale" prevarrà sulla giustizia e che Sharon, Peres, Ben Eliezer —membri del governo di coalizione nazionale israeliano-, che Shaul Mofhaz —generale pianificatore dei massacri in Cisgiordania dal 29 marzo- non siederanno mai davanti ad alcun tribunale né locale né internazionale. I loro crimini sono uguali a quelli dei loro fiancheggiatori Usa ed Europa in Afghanistan ed in moltissime altre parti del mondo.

Powell o della falsa mediazione

Abbiamo detto che il numero dei morti, come quello dei feriti e degli arrestati a Jenin come nel resto della Cisgiordania forse non lo sapremo mai. Aggiungiamo a scanso di equivoci che non cambierebbe nulla se fossero 250, come dice l’esercito israeliano, oltre 800 come dicono all’unisono gli scampati e le fonti di soccorso palestinese. Il dato di fondo è che il governo israeliano con l’alibi della lotta al terrorismo ha scatenato una feroce punizione collettiva in Cisgiordania.

Le poche immagini che filtrano dalle zone colpite, tutte per altro filtrate dall’esercito, ci mostrano un panorama desolante, campi profughi interamente distrutti, intere strade e quartieri resi a un cumulo di macerie, da sotto le quali ancora mentre scriviamo hanno estratto cinque persone vive (un ragazzo di sedici anni, i genitori, e due bambini). Ciò significa, come era immaginabile, che le persone hanno cercato rifugio nelle cantine per sfuggire ai bombardamenti degli elicotteri da guerra, restando sepolte dalle case fatte saltare in aria con la dinamite o demolite con i buldozzer.

La "colpa" del campo profughi di Jenin è stata di aver resistito all’entrata dell’esercito, infliggendo al nemico una grave perdita: 22 soldati uccisi. In questo senso si spiega l’accanimento che per dieci giorni ha messo a ferro e fuoco un chilometro quadrato di campo profughi, dove erano rifugiati gli abitanti della zona di Haifa,scacciati dalle loro case nel 1948.

In questo contesto è a dir poco grottesca la cosiddetta azione diplomatica degli Usa. Colin Powell, ancora per alcuni poveri illusi, "colomba" della Casa Bianca ha cercato di riproporre il solito ritornello ad Arafat, il quale ha avuto la pazienza anche di ascoltarlo. Ma Powell non poteva che mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, cosa che avviene dal 1948, continuando a chiedere ad Arafat, che resiste anche egli assediato, e non ancora "liquidato" anche grazie alla presenza nel suo quartier generale di una trentina di militanti occidentali provenienti da diversi paesi, di condannare il "terrorismo". Cosa che ha peraltro anche fatto. Ma il discorso del 13 aprile 2002 di Arafat non poteva che condannare tutte le stragi di civili, quelle di Haifa e Netanya e quelle di Jenin, Nablus, Al Amari, Tulkarem. O qualcuno poteva pensare seriamente che Arafat, leader assediato di un popolo in balìa dell’esercito più potente del Medioriente, potesse scagliarsi contro gli attacchi suicidi e non dire una parola sul resto? Chi lo pensa o è incapace di intendere e volere o è in malafede! Propendiamo per la seconda ipotesi.

L’Israel Day: l’ipocrisia scende in piazza

L’iniziativa di Ferrara e degna compagnia, per fortuna, ha visto in piazza molte bandiere e poche persone. Testimoni oculari confermano che c’erano persone che avevano 5 bandiere a testa! Sia ben chiaro nessuno pensa di difendere i rigurgiti antisemiti che in queste settimane vi sono stati in Europa. Nessuno pensa neanche di difendere chi il 6 aprile alla manifestazione romana in solidarietà con il popolo palestinese ha pensato di fare una carnevalata inutile e dannosa per il popolo palestinese. Quelle poche persone, da otto a dieci, tutte italiane, che a viso coperto inneggiavano ai kamikaze, semplicemente non sanno che è difficile che i ragazzi palestinesi, che scelgono questa strada terribile per opporsi all’occupazione militare, possano passare i controlli di un super mercato o salire su un autobus a Haifa o altre città israeliane a viso coperto, magari con una maglietta col logo "Im a kamikaze"!

Ribadiamo ancora una volta che un conto è la solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese e con il popolo palestinese, altro, e molto lontano da noi, è sfogare le proprie frustrazioni politiche e individuali con atti inconsulti che danneggiano in primo luogo i palestinesi e in secondo luogo oscurano una manifestazione di solidarietà che raccoglie 50.000 persone, dimunuendone l’efficacia politica. Bel risultato!

Detto questo. Torniamo agli ipocriti del 15 aprile. In piazza c’erano fianco a fianco antisemiti di vecchia data da La Russa a Gustavo Selva, ipocriti incalliti come Ottaviano del Turco. Nel complesso però c’è da notare con tristezza che il centro sinistra non ha saputo e non ha voluto dire una parola chiara su una manifestazione che ripropone ciò che Primo Levi rifiutava: l’impossibilità di criticare la politica di Israele. Gli ebrei italiani che hanno sfilato il 6 aprile dietro lo striscione "ebrei contro l’occupazione", da Sveva Hetter fino a Daniel Amit, che in Italia coordina il sostegno ai soldati che disertano in Israele, sono antisemiti anche loro? Un po’ di serietà! A chi ha aderito all’Israel Day, esplicitamente o col silenzio o disertando le manifestazioni in solidarietà con i palestinesi, ricordiamo le parole di Michael Warshawski, ebreo israeliano, disertore nel 1982, militante antisionista in Israele: " certi dirigenti delle comunità ebraiche in Europa, (…) ricattano i movimenti di solidarietà con i palestinesi. Ciò che oggi è in gioco in Palestina non è il futuro del popolo palestinese. Il popolo palestinese è radicato nella sua terra , nonostante i metodi terribili usati dall’esercito israeliano, resiste e resisterà, non ho ombra di dubbio su questo. Ciò che rischia di essere messo in discussione grazie alla politica criminale del governo israeliano è la sopravvivenza stessa di una comunità ebraica in Medio Oriente. E qui è chiara l’irresponsabilità non solo dei dirigenti politici israeliani, ma anche di coloro che in Europa si definiscono "amici" del popolo israeliano.

Chi ha veramente a cuore l’avvenire della comunità ebraica in Medio Oriente, il futuro della comunità israeliana, deve capire che l’ultima chance che ha la nostra comunità di vivere in coesistenza e in pace nel mondo arabo e musulmano che la circonda è mettersi al primo posto nelle mobilitazioni, anche in Europa, contro la politica di guerra del governo israeliano, che ci sta portando alla catastrofe e al suicidio.

La politica dell’impunità che chiedono Israele e i suoi sedicenti amici ci sta spingendo nel baratro e sta mettendo in discussione la sopravvivenza stessa dei nostri figli in Medio Oriente!".

Cinzia Nachira, 18 aprile 2002