PALESTINA
- BALSAM
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LA NAKBA DEL 1948 E LA SUA ATTUALITÀ
Ilan Pappe
Sono qui per presentarvi la narrazione complessiva della storia dell´espulsione
e della pulizia etnica dei palestinesi nel 1948, la nakba, e la pertinenza
di questa ai fini di un programma presente e futuro di pace in Palestina.
Per gli israeliani, il 1948 rappresenta un anno in cui si sono verificate
due cose, in contrasto tra loro. Da un lato, si tratta del momento culminante
delle aspirazioni ebraiche a disporre di uno Stato, o a realizzare il vecchio
sogno di ritornare in patria dopo quello che si considera un esilio durato
duemila anni. In altri termini, il 1948 è stato considerato un evento
miracoloso, definibile solo con aggettivi positivi, di cui non si può
parlare, o che non si può ricordare, se non come di un fatto particolarmente
entusiasmante. Dall´altro lato, il 1948 ha rappresentato il capitolo
peggiore della storia ebraica. Nel 1948 gli ebrei hanno fatto in Palestina
quello che non avevano mai fatto da alcuna altra parte nei duemila anni precedenti.
Si è dunque verificata la convergenza in un unico evento della cosa
peggiore e di quella più esaltante. Quel che ha fatto la memoria collettiva
israeliana è stato di cancellare il primo aspetto della propria storia,
per coesistere e vivere soltanto con quello esaltante. Si tratta del meccanismo
costruito per risolvere una tensione impossibile tra due memorie collettive.
Dal momento che molte delle persone che oggi vivono in Israele hanno vissuto
gli avvenimenti del 1948, essi non rappresentano un ricordo remoto. Non è
come per il genocidio degli indigeni americani negli Stati Uniti.
La gente sa precisamente che cosa ha fatto e che cosa altri hanno fatto. Riesce
tuttavia a cancellarlo completamente dalla propria memoria e si batte al tempo
stesso con rigore contro chiunque tenti di presentare, in Israele o altrove,
l´altra storia, sgradevole, del 1948. Se consultate manuali di storia
israeliani, programmi scolastici, mezzi di comunicazione o discorsi politici,
vedrete come questo capitolo della storia ebraica - un capitolo fatto di espulsione,
di massacri, di stupri e di villaggi incendiati - sia completamente assente.
Non c´è. È sostituito da un capitolo fatto di eroismo,
di gloriose campagne, di racconti straordinari di ardimento morale e di superiorità,
inauditi in qualunque altra storia della liberazione di un popolo nel XX secolo.
Per cui, ogni volta che io parlo della pulizia etnica della Palestina nel
1948, dobbiamo ricordarci che non solo i termini di "pulizia etnica"
o di "espulsione" sono completamente estranei alla comunità
in cui vivo e in cui sono cresciuto, ma che la storia stessa di questo episodio
o è snaturata o è del tutto assente nel ricordo degli individui.
La strategia dei dirigenti sionisti: colonizzazione ed espulsione
Se cominciate a leggere i diari dei dirigenti del movimento sionista e fate
ricerche sulle loro ideologie o sui loro sviluppi ideologici, dalla concezione
del movimento alla fine del XX secolo, vi accorgerete che, fin dall´inizio,
essi erano consapevoli del fatto che l´aspirazione a uno Stato ebraico
in Palestina si scontrava con la realtà di una popolazione indigena
che viveva da secoli su quella terra e le cui aspirazioni contrastavano con
il progetto sionista per il paese e i suoi abitanti. I padri del sionismo
sono a conoscenza dell´esistenza di una società e di una cultura
locali in Palestina, ancor prima che i primi coloni vi mettano piede.
Due strumenti sono stati messi in atto per modificare la realtà in
Palestina e imporre la visione sionista della realtà locale: il fatto
di spogliare la popolazione indigena delle terre e quello di ripopolarle con
nuovi venuti, vale a dire: la colonizzazione e l´espulsione. Si tratta
di un movimento che non aveva ancora raggiunto la legittimazione, regionale
o internazionale, a intraprendere l´impegno della colonizzazione. Esso
ha perciò dovuto acquistare le terre e creare delle enclaves in seno
alla popolazione indigena. L´Impero britannico è stato di grande
aiuto nel consentire che il progetto diventasse realtà. Tuttavia, fin
dall´inizio della strategia sionista, i dirigenti del movimento sapevano
che la colonizzazione avrebbe rappresentato un processo molto lungo e molto
cauto, che avrebbe potuto non essere sufficiente a rivoluzionare la realtà
e a imporre la propria visione. Per questo, c´era bisogno di qualcosa
di più forte. David Ben Gurion, dirigente della comunità ebraica
negli anni Trenta, poi Primo ministro di Israele, segnala a più riprese:
[per imporre la visione delle cose nella realtà] occorrono quelle che
egli definisce "condizioni rivoluzionarie".
Intendeva con questo delle condizioni di guerra, una fase di mutamenti di
governo, l´alba tra un´era antica e l´inizio di una nuova.
Non stupisce leggere nella stampa israeliana di oggi che Ariel Sharon pensa
di essere il nuovo Ben Gurion e che sta per condurre il suo popolo verso un
nuovo momento rivoluzionario: la guerra contro l´Iraq. In quel momento,
le espulsioni, e non più un´intesa politica, si potranno di nuovo
praticare per condurre a termine il processo avviato nel 1882, di disarabizzazione
della Palestina e della sua ebraicizzazione.
Verso la fine del Mandato britannico, si era fatta sentire l´esigenza
di tradurre in progetto concreto queste idee ancora teoriche e astratte sull´espulsione
dei palestinesi. Sto scrivendo dal 1980 su quanto è avvenuto nel 1948.
Per la maggior parte di questi anni, mi sono interessato a un problema: esisteva
o no un piano sionista predisposto per espellere i palestinesi nel 1948? Alla
fine mi sono reso conto (in larga parte grazie a ciò che ho imparato
negli ultimi due anni) che la domanda, così posta, non consentiva di
centrare bene la questione: né dal punto di vista della ricerca accademica,
né rispetto al tentativo di capire meglio che cosa sia avvenuto all´epoca.
Ben più importante, per una pulizia etnica, è la creazione di
una comunanza ideologica, per cui ogni membro della comunità, veterano
o nuovo arrivato che sia, sappia fin troppo bene di dovere contribuire a una
soluzione indiscussa: l´unico modo per realizzare il sogno sionista
è svuotare la terra dei suoi abitanti indigeni.
Dietro la nakba del 1948: l´indottrinamento ideologico di massa.
La predisposizione di piani non è l´elemento principale per prepararsi a un periodo contrassegnato da una congiuntura rivoluzionaria o stabilire progetti concreti per mettere effettivamente in atto l´idea di espulsione. C´è bisogno di qualcos´altro, di un clima, di persone indottrinate. C´è bisogno di capi che, a tutti i livelli della catena di comando, sappiano che cosa fare al momento buono, anche senza ricevere ordini espliciti. L´essenziale della preparazione di prima del 1948 non riguardava la messa a punto di un piano (anche se credo esistesse). I comandanti erano impegnati a raccogliere informazioni su ogni villaggio palestinese, per permettere ai capi, a tutti i livelli dei gruppi armati ebraici, di conoscere la ricchezza di ogni villaggio, la sua importanza dal punto di vista militare, ecc. Muniti di tali informazioni, questi capi sapevano anche che cosa si aspettassero da loro gli uo-mini al vertice della piramide ebraica in Palestina: David Ben Gurion e i suoi colleghi. Questi dirigenti volevano solo sapere in che misura ogni operazione potesse contribuire alla ebraicizzazione della Palestina, e hanno fatto capire molto chiaramente che a loro non importava sapere come questo avvenisse. Il piano di espulsione ha funzionato senza scosse proprio perché non c´era bisogno di una sistematica catena di comando che verificasse se si metteva integralmente in atto il piano prestabilito. Chiunque abbia fatto ricerche su operazioni di pulizia etnica nel corso della seconda metà del XX secolo sa che una epurazione etnica si realizza esattamente in questo modo: creando una sorta di sistema pedagogico e di indottrinamento che garantisca che qualsiasi soldato, qualsiasi comandante, chiunque, per propria individuale responsabilità, sappia esattamente che cosa fare quando entra in un villaggio, anche se non ha ricevuto l´ordine specifico di espellerne gli abitanti.
Recentissimamente, in seguito alla lettura di testimonianze di palestinesi,
ma anche di soldati israe-liani, mi è diventato chiaro che l´esistenza
di un piano predisposto - benché significativo come tale - perdeva
di importanza rispetto a tutta l´apparecchiatura di indottrinamento
della comunità. Nel 1948, la popolazione dell´ Yishuv era di
poco più di mezzo milione di abitanti: prima del 1948 era ancora meno
consistente. Quelli/e che avevano allora un ruolo attivo nelle attività
militari della loro comunità sapevano perfettamente che cosa avrebbero
dovuto fare al momento buono, e non prima.
Va tuttavia ricordato che il progetto di espulsione non ha ottenuto successo
solo in ragione ell´indottrinamento ideologico. È stato attuato
sotto gli occhi Onu, che si era impegnato, con la ri-soluzione n. 181 adottata
dall´Assemblea generale, a garantire la sicurezza e il benessere degli
"epurati". L´Onu avrebbe protetto l´esistenza dei palestinesi
che avrebbero dovuto vivere nelle zone attribuite allo Stato ebraico: essi
avrebbero costituito circa la metà della popolazione del futuro Stato.
Dei 900.000 palestinesi che vivevano in quelle zone, nonché in altri
territori assegnati ai paesi arabi limitrofi e occupati da Israele, ne sono
rimasti solo 100.000. Proprio mentre l´Onu era ormai responsabile della
Palestina, in brevissimo lasso di tempo si è realizzata l´operazione
di espulsione.
Malgrado siamo in parecchi a come storici di professione sull´argomento,
dobbiamo ancora farci narrare i racconti più terrificanti sul 1948.
Non abbiamo parlato degli stupri. Non abbiamo parlato dei 30-40 massacri che
la storiografia popolare menziona. Non abbiamo ancora deciso come definire
l´assassinio sistematico di molte persone in ogni villaggio, per creare
il panico destinato a provocare l´esodo. Si tratta di massacro quando
questo si ripete sistematicamente in ogni villaggio? Può assolutamente
darsi che taluni episodi non verranno mai rivelati; per molti di questi non
dipende dagli archivi, ma dalla memoria di persone che andiamo perdendo un
po´ ogni giorno come testimoni fondamentali. Non vi erano precisi ordini
scritti, ma solo un clima che va ricostruito. Si può ritrovare l´idea
di questo clima nella biblioteca di quasi ogni casa in Israele, nei libri
ufficiali che glorificano l´esercito israeliano e le sue attività
nel 1948. Se sapete leggerli, potete vedere come si disumanizzassero i palestinesi,
a tal punto da poter contare sulle truppe, che avrebbero saputo che cosa fare.
I dirigenti israeliani e palestinesi accettano il gioco americano: ridimensionare
fisicamente e moralmente la Palestina
Aveva ragione Noam Chomsky a osservare nbella sua analisi che in Palestina/Israele
e in Medio Oriente nel complesso noi facciamo accuratamente il gioco americano,
da quando gli Stati Uniti hanno deciso di assumere un ruolo attivo nel processo
di pace, prima con il piano Rogers, nel 1969, poi con le iniziative di Kissinger.
Da allora, l´agenda di pace si è ridotta a un gioco americano.
Gli americani hanno inventato il concetto di "processo di pace",
in cui il processo è molto più importante della pace. Gli Usa
hanno interessi contraddittori in Medio Oriente: proteggono nella zona determinati
regimi, che preservano gli interessi americani (donde, occasionalmente, qualche
dichiarazione relativa alla causa palestinese), impegnandosi nel contempo
nei confronti di Israele: Per non doversi trovare di fronte a due agende contrastanti,
è preferibile avere in atto un processo, che non è né
la pace né la guerra, ma qualcosa che potreste definire un autentico
sforzo americano di riconciliazione tra le due parti (e Dio scampi che tale
riconciliazione fallisca!). Noi abbiamo preso parte al gioco non solo perché
lo hanno inventato gli americani, ma anche perché il campo israeliano
della pace ha adottato come principale strategia la sostituzione della pace
con il "processo di pace". Quando il campo della pace della parte
più forte, nel rapporto di forza in loco, accetta questa interpretazione,
allora tutto il mondo si adegua.
Questo processo, che può e deve protrarsi in eterno, inquadrato dall´unica
superpotenza e sorretto dal campo della pace della parte più forte
nel conflitto, viene presentato come se fosse la pace. Uno dei modi migliori
per impedire che il processo si concluda è eludere le questioni in
sospeso e che costituiscono il cuore del problema. Così, si è
riusciti a cancellare gli avvenimenti del 1948 dall´agenda di pace,
focalizzandosi su quanto è accaduto nel 1967. Il problema in sospeso
è allora diventato quello dei territori occupati da Israele durante
la guerra del 1967. La formula "territori in cambio di pace" è
stata inventata simultaneamente a Tel-Aviv, Londra, Parigi, New York, con
la risoluzione dell´Onu n. 242. Tale risoluzione è composta da
una variabile molto concreta (il 20% della Palestina, dimenticando nella formulazione
il restante 80%) sovrapposta alla "pace", che di fatto è
un processo di pace infinito. Un processo che non è stato concepito
per portare a una soluzione, per non parlare della riconciliazione. In cambio
di un processo di pace del genere, i palestinesi sarebbero autorizzati a parlare
di un´entità politica sul 20% della Palestina e magari anche
a costruire progressivamente tale entità.
Nel 1988 [dopo l´accettazione da parte del Consiglio nazionale palestinese,
ad Algeri, della risoluzione dell´Onu n. 242] e nel 1993 [con gli accordi
di Oslo], anche la direzione palestinese si inserita in questo gioco. Non
sorprende perciò che dopo Oslo i responsabili della politica americana
abbiano pensato di riuscire a concludere tutta la faccenda. I dirigenti palestinesi
e israeliani che accettavano le regole del gioco americano. Era l´avvio
di un processo culminato con "la più generosa delle offerte di
pace mai fatte da Israele", al momento del vertice di Camp David, nell´estate
del 2000. Se il processo si fosse concluso con successo, allora non solo la
storia non sarebbe stata testimone dell´espulsione dei palestinesi dalla
propria patria nel 1948, ma anche dello sradicamento dalla nostra memoria
collettiva dei profughi, nonché della minoranza palestinese in Israele,
e forse anche della Palestina in quanto tale.
Si tratta di un processo di eliminazione che ha funzionato in certa misura
fino alla seconda rivolta. Mi domando che cosa sarebbe accaduto se non fosse
esplosa la Seconda Intifada. Se la direzione palestinese avesse continuato
a partecipare a questo stratagemma tendente a ridimensionare fisicamente e
moralmente la Palestina, esso avrebbe funzionato. La Seconda Intifada ha cercato
di bloccare tutto questo. Non sappiamo se ci riuscirà.
Agenda di pace, mentre incombe la minaccia di transferts
Per noi militanti in favore della pace, il problema è che qualsiasi
pressione coordinata su Israele per bloccarne i piani può, in modo
insensato, indurre gli israeliani ad accelerare i loro piani per cancellare
la Palestina, a ritenere cioè che le circostanze rivoluzionarie siano
arrivate. È il mio maggior timore per la Seconda Intifada. Io l´appoggio
incondizionatamente e la considero un movimento politico deciso a bloccare
un processo di pace che avrebbe come conseguenza la distruzione definitiva
della Palestina. La rivolta palestinese, con l´aggiunta certa della
futura guerra all´Iraq, hanno suscitato negli animi degli israeliani
(tutti, non solo i circoli del campo della pace) l´idea che "abbiano
raggiunto un altro momento imprevisto della storia, in cui sono intervenute
condizioni rivoluzionarie per risolvere definitivamente la questione della
Palestina". Se ne discute in Israele. Il discorso sul transfert ("trasferimento")
e le espulsioni, che veniva utilizzato dall´estrema destra, è
ormai di "bon ton" anche al centro. Noti docenti universitari ne
parlano e ne scrivono. Politici di centro si pronunciano in tal senso. Ufficiali
dell´esercito sono fin troppo lieti di insinuare in loro interviste
che, davvero, se dovesse cominciare la guerra all´Iraq, andrebbe messo
all´ordine del giorno il discorso del transfert.
Questo mi porta a tre questioni, secondo me essenziali per chiunque sia impegnato
a sostenere la pace in Israele e in Palestina; tre questioni che esigono risposte,
senza le quali rischiamo di "perdere il treno".
La prima questione è la più urgente: dobbiamo tutti prendere
molto sul serio il rischio che si ripeta la pulizia etnica del 1948. Non vuol
dire cedere alla paranoia di stabilire (e io lo faccio) un nesso diretto (e
non indiretto) tra la guerra all´Iraq e la possibilità di una
seconda nakba. Prendete sul serio la cosa, credetemi. I dirigenti israeliani
hanno della situazione attuale una interpretazione che li porta a dirsi: "Abbiamo
carta bianca dagli americani. Non solo gli americani ci consentiranno di ripulire
la Palestina una volta per tutte, ma ci aiuteranno anche a creare l´occasione
per attuare il nostro progetto. Il mondo ci condannerà; ma non durerà
e alla fine si dimenticherà. Si tratta di un´occasione rara,
che va colta per `risolvere´ il problema".
La seconda questione è la più immediata: è quella della
fine dell´occupazione. Dobbiamo stare molto attenti a che cosa significhi
il fatto di adottare il progetto americano per una soluzione con due Stati,
un progetto ripreso dal movimento israeliano "Peace Now", ma anche
- mi dispiace doverlo dire - dall´Autorità palestinese. Oggi,
infatti, la soluzione dei due Stati non significa la fine dell´occupazione,
ma un modo di protrarla in altra forma. Si pensa che potrebbe porre termine
al conflitto, mentre non arreca alcuna soluzione al problema dei profughi
e abbandona completamente la minoranza palestinese all´interno di Israele.
Chi non lo ha imparato dopo gli accordi di Oslo ha un problema di comprensione
e di interpretazione della realtà. Dobbiamo assicurarci che l´idea
di pace non venga presa in ostaggio da chi cerca forme indirette per protrarre
l´attuale situazione in Palestina. Non è facile, perché
i mezzi di comunicazione di massa occidentali hanno assimilato nel loro lessico
dominante l´idea che chiunque intenda presentarsi come attivista in
favore della la pace, o difensore della pace, debba parlare di una soluzione
con due Stati.
Solo una volta finita l´occupazione potremmo parlare delle implicazioni.
Allora potremmo affrontare il discorso della struttura politica più
adeguata a evitare la rioccupazione della Cisgiordania e di Gaza. Deve però
essere chiaro che la struttura politica indispensabile per porre fine al conflitto
sarà diversa. Essa dovrà permetterci di porre fine all´esilio
dei palestinesi, come pure alla politica di apartheid attuata nei confronti
dei palestinesi che vivono all´interno di Israele. Dobbiamo assicurarci
di non finire stretti nella stesso cul-de-sac in cui si è ritrovato
Yasser Arafat a Camp David, quando si è visto di fronte all´esigenza
di porre un segno di uguaglianza tra fine dell´occupazione (che non
era neanche tale) e fine del conflitto.
Infine, ed è la terza questione, dobbiamo riflettere su come concepire
progetti concreti per rendere possibile il diritto al ritorno per i profughi
palestinesi e per porre fine alle discriminazioni nei confronti dei palestinesi
in Israele. Sono i due pilastri di un accordo complessivo e vanno precisati.
Siamo rimasti fermi a slogan degli anni Sessanta in favore di uno Stato democratico
e laico, che vanno adeguati alla realtà del 2002. Quanto intendevamo
allora con lo Stato democratico e laico è una visione possibile per
un futuro remoto. Il fatto di concentrarci sui problemi urgenti e immediati
non deve comunque a distrarci dall´esigenza di riflettere su strategie
a lungo termine. La gente ha bisogno di sentire parlare da parte nostra progetti
concreti, anche se appaiono utopici tenuto conto dell´attuale situazione
sul campo. Si tratta di un´impresa ardua, che comporta il fatto di dare
vita a una cultura e a strutture politiche in grado di correggere i passati
errori e di evitare una nuova catastrofe, ma che non ci infliggano ulteriori
disastri e che non rimpiazzino quelli passati con altri nuovi. Non facciamo
appello all´espulsione degli ebrei. Vogliamo il diritto al ritorno.
Vogliamo pari diritti per i cittadini palestinesi.
Penso che una buona parte di noi che riflettiamo a lunga scadenza ambiremmo
a vedere instaurato un unico Stato, o una struttura politica comprendente
un solo Stato. Non è possibile tuttavia diffondere prospettive del
genere accontentandosi di scorciatoie, di "buone idee" o di slogan.
Ci serve una presentazione molto seria e dettagliata di questa soluzione,
se vogliamo convincere la gente della sua fattibilità.
Vorrei concludere tornando al punto di partenza. Nella memoria collettiva
israeliana esistono due 1948: uno viene cancellato completamente, l´altro
completamente esaltato. C´è però una giovane generazione
in Israele (mi capita spesso di incontrare un pubblico di giovani) che potrebbe
in futuro avere la capacità di guardare in modo diverso la realtà.
Il fatto che esistano generazioni di giovani fondamentalmente disposti a prestare
ascolto a principi universali offre la possibilità di infrangere lo
specchio e di fare vedere loro che cosa sia realmente accaduto nel 1948, e
che cosa stia accadendo nel 2002.
Penso che riusciremo alla fine a trovare interlocutori, anche per i nostri
sogni più folli, per definire a che cosa una soluzione dovrebbe somigliare.
Il problema evidentemente è che, mentre facciamo questo (educare, diffondere
informazioni, ecc.), il governo israeliano sta preparando un´operazione
molto celere e cruenta. Se questa va in porto, andranno persi i nostri sogni
migliori e anche le nostre energie.