PALESTINA - BALSAM

indice generale

 

 

 

 

Articoli

 

 

Palestina: una discussione reticente

sulla strategia di resistenza nazionale

 

ENNIO POLITO

 

Arafat o Mahmud Abbas? Nelle ultime settimane i due nomi sono apparsi in contrapposizione nelle cronache della Palestina occupata — un protagonista storico contro un amico-nemico fino a ieri ignoto al grande pubblico -senza che il contrasto, se contrasto c’è, venisse sotto la luce dei riflettori. Una serie di documenti non privi di interesse pubblicati dalla stampa palestinese e araba hanno dato agli osservatori esterni la sensazione che il dibattito fosse aperto e le posizioni rispettive definite. Sensazione illusoria. Abbas (alias Abu Mazen) ha evitato una critica esplicita, Arafat ha approfittato della sua condizione di libertà vigilata per tacere.

Eppure, mai il momento era stato così propizio a una franca discussione. Il clamoroso ritiro di Amram Mizna, il personaggio che aveva incarnato la speranza del "nuovo" al vertice del laburismo israeliano e il pesante atto di accusa da lui lanciato contro i suoi compagni doppiogiochisti hanno messo in evidenza un significativo deficit di democrazia, del quale, come sempre, sono i palestinesi a fare le spese. La destra fa muro. Sharon sostiene che la palla è ora nel cortile dei palestinesi e non raccoglie l’osservazione del consigliere di Bush, Condoleezza Rice, secondo cui questi possono difficilmente calciarla se non viene restaurata la loro libertà di movimento.

La falsa franchezza di Abu Mazen e la circospezione di Arafat hanno una spiegazione del tutto ovvia, legata al fatto che i due hanno lavorato in stretto contatto per tutta la durata della trattativa segreta di Oslo e che l’ascesa del primo in seno al gruppo dirigente dell’Olp è avvenuta in funzione di quell’incarico di fiducia. Fino a quel momento, Abu Mazen era stato indicato come uno dei funzionari dell’équipe tunisina coinvolti nella presa di contatto diretta di Arafat con gli israeliani (la prima, quella avvenuta alla metà dei Settanta, avendo come controparte il generale della riserva Matti Peled, l’ex-direttore del Tesoro Yaakov Arnon e il giornalista Uri Avnery; con Arafat erano Said Hammami e Issam Sartawi, successivamente assassinati dai terroristi di Abu Nidal). La prima fotografia ufficiale di Abu Mazen, un ex-insegnante originario di Safad, in Galilea, membro di Al Fatah, è quella che lo ritrae mentre firma la "Dichiarazione di principi" negoziata nel canale segreto norvegese, nel ’93: un uomo tarchiato, con gli occhiali e i capelli brizzolati, di qualche anno più giovane di Arafat.

Di quel testo Abu Mazen parla in un intervento tenuto a metà novembre in una sessione a porte chiuse dei capi dei comitati popolari della striscia di Gaza e pubblicato in larghi estratti dalla stampa araba, nei giorni successivi. Da capo del governo, egli solleva "legittimi interrogativi" sul bilancio dei due anni seguiti all’ingresso nel "portale" di Oslo e constata che il prolungarsi dell’occupazione, il rilancio degli insediamenti, il drastico aggravamento delle condizioni di vita e la risposta popolare alle provocazioni di Sharon hanno privato il popolo degli attesi benefici. E’ vero, dice, che Sharon non è realmente interessato alla pace e non ha neppure sottoscritto Oslo, ma è indubbio che l’intifada ha deviato dal suo naturale cammino: si è, per così dire, "militarizzata", e si è creata una situazione senza via d’uscita, là dove era possibile "stringere il PM israeliano nell’angolo".

Abu Mazen porge, insomma, una versione dei fatti che recupera i suoi propri eccessivi entusiasmi del ’93 e sottolinea, ad ogni buon conto, la ben più ampia portata del coinvolgimento del leader. Nella sua ricostruzione degli eventi nella Palestina occupata, si sofferma poi sulla risposta positiva di Arafat alle proposte del Fronte popolare per un dialogo tra palestinesi che finisse per associare il Fplp e il Fdplp alla trattativa con Israele. Questo allargamento a forze che nel dibattito di Algeri si erano schierate con Hamas e mostravano ora di rivedere il rifiuto non poteva, naturalmente, lasciare indifferente un leader con responsabilità nazionali. Abu Mazen sembra convenirne, ma aggiunge che Arafat avrebbe dovuto in ogni caso vigilare contro la "irresponsabilità"del Fplp e qui, suggerisce, ha mancato.

Tanto nell’intervento a Gaza quanto nel suo discorso da primo ministro, tenuto mentre la diplomazia americana prendeva le distanze dal "processo" di Oslo e riorientava le sue mosse in direzione delle "mappe stradali" concordate nell’ambito del Consiglio di sicurezza dell’Onu per una soluzione della vertenza israelo-palestinese, Abu Mazen fa presenti le esigenze e le occasioni del dopo-Bagdad e la necessità di "imparare le lezioni" di questa fase storica.

Si è già accennato alle reazioni che la riorganizzazione dell’Autorità palestinese secondo le sollecitazioni israelo-americane ha suscitato, in diversi casi anche critiche. Tra gli altri, il Journal of Palestine studies ha ospitato nei suoi ultimi due numeri un’intervista con Haydar Abd al-Shafi, già capo della delegazione palestinese ala conferenza di Madrid, un documentato articolo del giornalista norvegese Peter Lagerquist sull’intreccio tra occupazione, diplomazia e interesse privato israeliano, un intervento dello storico Walid Khalidi sulle nuove implicazioni della formula dei "due Stati". A sua volta, in diretta e critica relazione con gli scritti di Mahmud Abbas citati in questa nota, il professor Azmi Bishara, deputato palestinese al parlamento israeliano per l’Alleanza nazionale democratica israelo-araba, si sofferma sui requisiti di una autentica e comprensiva strategia di resistenza all’oppressione nazionale, che non può ridursi, scrive, a questioni di relativo spessore come gli attentati suicidi, la natura delle operazioni militari e il riformismo politico.