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  IL MANIFESTO

21.01.2004

L MARCHIO A STELLA
La terra della colpa
L'accusa di antisemitismo rivolta dal governo israeliano di Ariel Sharon all'Unione europea e alla sinistra italiana punta a legittimare la costruzione del Muro in Cisgiordania e il rifiuto di un piano di pace che accolga le aspirazioni nazionali dei palestinesi
STEFANO CHIARINI
MAURIZIO MATTEUZZI

Con una ossessiva cadenza più o meno mensile, mentre nei territori occupati Sharon ruba impunemente ai palestinesi - nel silenzio pressoché generale dei media - vite, case, terreni, acque, alberi, colture, in breve il loro futuro e ogni speranza, ecco invece moltiplicarsi le accuse di antisemitismo nei confronti dell'Europa ed in particolare delle sinistre che chiedono una soluzione negoziata e minimamente giusta della questione palestinese. Le prime bordate di questo continuo tentativo di far passare in secondo piano la pulizia etnica in corso in Palestina e il fatto che antisemitismo e razzismo hanno oggi come vittime primarie le comunità arabo-musulmane, a cominciare da quelle immigrate nei nostri paesi, risalgono alla pubblicazione, nell'ottobre 2003, dei risultati dell'ormai famosissimo sondaggio dell'Eurobarometro della Ue. Da allora i cittadini europei sono stati fatti oggetto di una campagna sistematica che li accusava di nutrire sentimenti antisemiti per aver risposto in modo «sbagliato» alla domanda del sondaggio - definito addirittura «ignobile» - relativa al paese che rappresenta la maggiore minaccia mondiale alla pace. Il 59% degli interpellati ha osato pronunciare la parola proibita: Israele. Apriti cielo.

Come avrebbero dovuto rispondere i cittadini europei visto che Israele è l'unico paese della regione ad avere armi di distruzione di massa: nucleari, chimiche, biologiche? Un paese - il solo - a cui è consentuito di non sottoscrivere il «Trattato di non proliferazione nucleare», che si rifiuta di aprire agli ispettori internazionali della Aiea i propri laboratori atomici (Dimona), biologici e chimici (Nes Ziona), che non ha firmato il trattato sulle armi biologiche e non ha ratificato la convenzione sulle armi chimiche e che silura sistematicamente il processo di pace sulla base del principio, più volte ribadito dal suo premier, Ariel Sharon, che la West Bank è parte integrante di «Eretz Israel», appartiene esclusivamente al popolo ebraico e quindi non potrà mai esistere uno stato sovrano palestinese, che non sia un qualche bantustan tipo Sudafrica dell'apartheid, tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.

Gli echi delle accuse di antisemitismo rivolte ai cittadini europei colpevoli di aver criticato la politica del governo israeliano si andavano facendo più flebili (nel frattempo erano stati uccisi altre decine e decine di palestinesi, nel silenzio generale, e il Muro era avanzato di altre decine di chilometri) quando, alcune settimane dopo, ecco un nuovo attacco. Se possibile ancor più strumentale del precedente.

L'occasione è stata fornita dalla decisione dell'Osservatorio europeo di monitoraggio del razzismo e della xenofobia, con sede a Vienna, di non pubblicare, in quanto in tutta evidenza privo di basi scientifiche, uno studio sull'antisemitismo in Europa commissionato al «Centro di ricerche sull'antisemitismo di Berlino». La Commissione europea fu quindi accusata di aver tenuto nel cassetto il rapporto (pronto dal febbraio 2003) non per la sua inconsistenza, superficialità e strumentalità ma perché la ricerca aveva messo sul banco degli imputati, in quanto antisemite, le comunità di immigranti musulmani e/o arabi e buona parte della sinistra europea. In realtà la ricerca, riprendendo uno dei temi più cari al governo Sharon e ai suoi amici, si basava sull'idea che le critiche al movimento sionista e allo stato di Israele equivalgono all'antisemitismo («una nuova forma di antisemitismo», Cnn, 13 novembre 2003). Accusa grave e irresponsabile soprattutto per tutti coloro che, come noi, credono, al contrario di quanto detto dallo storico revisionista Ernst Nolte in occasione di una sua recente conferenza a Milano, che la parola «antisemitismo» e la sua pratica non solo «non vadano dimenticati» ma debbano mantenere intera e permanente la loro vigenza e il loro carattere infamante, senza essere per così dire svendute a fini strumentalmente politici e/o identitari. Ciò che rischia invece di accadere se la si lancia più o meno a vanvera per giustificare la politica - a nostro avviso ingiustificabile - dello stato di Israele.

Da questo punto di vista è ancor più preoccupante che tali accuse siano state fatte proprie - in un'intervista a La Repubblica del 30 novembre scorso - dal presidente delle comunità ebraiche in Italia, Amos Luzzatto, per il quale la crescente ostilità verso gli ebrei andrebbe imputata anche agli esponenti di una «certa sinistra terzomondista», «i cui padri e nonni erano sullo stesso versante degli ebrei che venivano rinchiusi nei campi di sterminio». L'accusa di Luzzatto (formulata proprio al ritorno dal viaggio in Israele per accompagnare lo sdoganamento di Fini con Sharon) non tiene conto del fatto che la sinistra italiana, praticamente nella sua totalità e pur nel momento più drammatico del conflitto israelo-palestinese, ha sempre tenuto ferme la condanna assoluta dell'antisemitismo e, al contrario di molte comunità ebraiche, la differenza tra stato di Israele ed ebrei.

Una fermezza, quella della sinistra italiana, che andrebbe riconosciuta e valorizzata come un bene prezioso per l'intero nostro paese e per la sua vita democratica, e non invece dimenticata o, peggio, negata accusandola, a ogni pie' sospinto e in modo del tutto strumentale, di antisemitismo.

Da questo punto di vista bisogna piuttosto ricordare che se vi sono stati degli atti concreti - preoccupanti, in quanto non solo verbali, anche se limitati -, questi sono stati le intimidazioni attuate non da parte della ma contro la sinistra e quei settori politici e sociali che con più forza difendono il diritto dei palestinesi a vivere in uno stato sovrano a fianco di Israele (nessuno per favore venga più a raccontare la storiella del diritto negato di Israele a esistere). Qualcuno ha dimenticato l'aggressione ai danni di Rossana Rossanda e Vittorio Agnoletto a Roma davanti al Rialto occupato, quella contro l'eurodeputata Luisa Morgantini e il deputato Mauro Bulgarelli al termine di un dibattito televisivo, la gazzarra davanti alla sede di Rifondazione comunista, il danneggiamento della mostra (proveniente da Tel Aviv) di «Medici senza frontiere» nella libreria Mondadori di Roma a Fontana di Trevi, la violenta contestazione contro Alberto Asor Rosa alla presentazione del suo libro La guerra a Milano?

In questa spasmodica e finora - fortunatamente - vana ricerca di un qualche episodio concreto di antisemitismo rientra anche il tentativo di dare una connotazione antisemita, quando tutto portava - come poi fu acclarato - in altra direzione, alla profanazione delle tombe ebraiche al cimitero del Verano di Roma, nel luglio 2002. Per non parlare della più recente, e inedita, iniziativa dell'ambasciatore israeliano a Roma, Ehud Gol, che ha inviato ai deputati e ai senatori della repubblica italiana una cartolina con un foto-montaggio raffigurante un palestinese con le mani sporche di sangue durante il linciaggio di tre soldati israeliani a Ramallah e il presidente palestinese Yasser Arafat, con la scritta «Anche lui sta con Arafat». Quisquilie se paragonate alla «critica militante» praticata dall'ambasciatore di Israele in Svezia che è andato a distruggere di persona, raccogliendo gli elogi di Sharon, l'opera di un artista israeliano fin dentro al museo. Ma pur sempre un'iniziativa diplomatica al limite dell'indecenza, passata sotto silenzio o quasi.

E' significativo che questa campagna mediatica contro la Ue e la sinistra, nella seconda metà del novembre 2003, ancora una volta abbia coinciso con un momento di forte difficoltà e isolamento internazionale del governo Sharon nel corso del dibattito all'Onu sul Muro e in occasione del lancio della iniziativa israelo-palestinese di Ginevra per una soluzione negoziata del conflitto, che ha trovato nella Svizzera e nell'Unione europea i suoi principali sponsor politico-diplomatici. Una volta spenta l'eco di New York e Ginevra, la pretestuosa polemica sull'antisemitismo in Italia e in Europa è calata di intensità dopo la seconda metà di dicembre (al contrario del numero dei palestinesi uccisi nei territori occupati e dei chilometri di Cisgiordania mangiati dal Muro).

Ma, quando sembrava riaprirsi qualche spiraglio al dialogo, ecco di nuovo levarsi, nel gennaio 2004, la cortina fumogena filo-Sharon. Questa volta, partendo sempre dalla presunta censura della ricerca dell'osservatorio di Berlino ma allargando l'orizzonte a tutto campo, l'accusa di antisemitismo ha colpito con parole ancor più dure la stessa commissione europea con l'obiettivo specifico di Romano Prodi. Ad aprire il fuoco, a freddo, con una lettera al Financial Times Edgar M. Bronfman e Cobi Benatoff, rispettivamente presidente del World Jewish Congress e dell'European Jewish Congress. L'offensiva anti-Ue è scattata, anche in questo caso, di fronte all'irrigidimento dell'Unione sul tentativo israeliano di far entrare nella comunità le merci delle colonie ebraiche nei territori occupati - come se fossero «made in Israel» e con tutte le facilitazioni tariffarie del caso - e con l'attesa per il pronunciamento sul Muro dell'apartheid della Corte dell'Aja il prossimo febbraio. Con sullo sfondo il rinnovo del trattato di associazione Israele-Ue a fronte della richiesta dell'euro-parlamento di «congelarlo» sulla base della clausola (articolo 2) che lo condiziona al rispetto dei diritti umani. Un congelamento che sarebbe invece non solo coraggioso ma anche doveroso prima di tutto per fermare l'agonia del popolo palestinese (agonia che si materializza sia attraverso la repressione israeliana sia con la scelta disperata dei kamikaze) ma anche per mandare un segnale forte a Israele e spingere lo stato ebraico e le sue componenti democratiche interne sulla strada di quella pace giusta e minimamente equa (per i palestinesi) che è l'unica vera garanzia per il suo futuro.

Questo in tutta evidenza non è il futuro che l'Israele di Sharon vuole e può dare agli israeliani - a cui, al momento della sua vittoriosa campagna elettorale, febbraio 2001, aveva solennemente promesso «pace e sicurezza» - e tanto meno ai palestinesi - vittime di una pulizia etnica che risale, come ha rivelato uno storico israeliano non sospetto di antisionismo né di antisemitismo quale Benny Morris, ai tempi della fondazione dello stato ebraico e affonda le sue radici nello stesso padre della patria, il socialista sionista David Ben Gurion (altro che la turpe storiella della terra senza popolo per un popolo senza terra...). E' su questo futuro che noi filo-semiti che rifiutiamo ostinatamente l'equazione alla moda antisionismo-uguale-antisemitismo dovremmo inquadrare il problema dell'antisemitismo oggi in Italia e in Europa - dal momento che il pregiudizio anti-ebraico è un cancro nato ed esploso in Europa - se non vogliamo, di nuovo, chiudere gli occhi come accadde 60-70 anni fa ai danni degli ebrei. Un'Europa che al senso di colpa per avere prodotto o consentito lo sterminio del popolo ebraico somma ora un'altra grande colpa - con o senza senso di -: quella di aver cercato di sanare una macchia orrenda della sua storia - l'antisemitismo - con un'altra orribile macchia - la cancellazione dei palestinesi dalla terra di Palestina.

Anche le vittime delle vittime hanno diritto ad una terra, alla libertà e ad una vita normale nel loro paese, senza essere occupati, calpestati, umiliati, cacciati, uccisi, costretti spesso alla scelta secca fra due estremi egualmente suicidi (e in uno dei due estremi suicida-omicida): la resa o il terrorismo. La strada, questa, quasi sempre perdente che si imbocca quando una resistenza, ancorché tenace e sovente eroica, si ritrova nell'isolamento e nella disperazione. Diritto puro e semplice a vivere in libertà e in dignità. Al di là dei dotti discorsi sulla connotazione retrograda che agli albori del XXI secolo, in piena era della globalizzazione, possono avere le lotte tardive per l'indipendenza nazionale. Ovvero sui «mostri» prodotti dai nazionalismi laici e religiosi, arabi ma non solo (e bisognerà pur chiedersi chi ha partorito e allattato i Bokassa e i Papà Doc Duvalier per arrivare ai Saddam Hussein e agli Osama bin Laden).

Il vero obiettivo delle campagne recenti sull'antisemitismo europeo ed italiano, e in particolare sull'antisemitismo di sinistra, secondo noi è costringere l'Unione europea a mantenere il piccolo (e miserabile) cabotaggio fatto di complicità e subordinazione, quando non di totale afasia, con il governo di Israele, qualunque esso sia e qualunque cosa esso faccia. Campagne a nostro avviso in larga misura pretestuose su cui soffiano Sharon e i suoi amici confidando che un eventuale (auspicato?) rigurgito dell'antisemitismo rilanci il (consunto) mito sionista secondo cui gli ebrei non possono vivere in nessuna altra parte del mondo se non nello stato ebraico (l'ha detto chiaro e tondo il premier israeliano alla comunità italiana in occasione della sua visita a Roma in dicembre), riuscendo finalmente a convincere la maggioranza della diaspora europea (come accade con parte di quella francese) al «ritorno» nella Grande Israele e rendendo così impossibile nei fatti ogni ipotesi residua di spartizione della terra.

L'antisemitismo è una forma peculiare del razzismo da cui nessuno di noi si può dire liberato o vaccinato per sempre. Ogni pregiudizio di antisemitismo latente deve essere analizzato, denunciato e combattuto con ferocia giorno dopo giorno. Ma oggi è ancor più necessario e pressante, secondo noi, ragionare e respingere con forza il razzismo dilagante in ogni sua forma. In particolare l'islamofobia e arabofobia esplose dopo l'11 settembre che demonizzano intere comunità e rischiano di fare il gioco di governi di estrema destra nonché di pulsioni colonialiste vecchie e nuove.