PALESTINA - BALSAM |
|||||||||||
|
|
|
|
IL MANIFESTO
25.01.2004
L MARCHIO A STELLA
L'asimmetria di un paradigma
La connessione fra antisemitismo e antisionismo
alla base dei sentimenti d'insofferenza verso il mondo ebraico che, anche
a sinistra, si diffondono in Europa. Non uno scontro tra due nazionalismi
ma la collaborazione fra Occidente e Israele che intendono «democratizzare»
il Medioriente
DANILO ZOLO
Una discussione minimamente seria sulla possibile rinascita
dell'antisemitismo in Europa deve per lo meno distinguere fra le diverse
forme storiche che l'antisemitismo ha assunto nella cultura europea. L'antigiudaismo
cristiano è cosa ben diversa dall'antisemitismo razziale del nazismo, nonostante
che Réné Girard abbia fornito una suggestiva chiave di lettura che tende
a unificare i due fenomeni all'insegna del paradigma sacrificale e vittimario
del «capro espiatorio». E ulteriormente differenziato è l'antisemitismo
«post-coloniale», strettamente legato alla nascita dello Stato di Israele
e all'affermarsi dei nazionalismi arabo-islamici. Secondo Marco Bascetta
(«Martin Lutero a Norimberga»,
Questo tipo di antisemitismo, sostiene Bascetta, non ha alcuna motivazione
razionale, né alcuna dignità politica, come non la ha, oggi, in tempi di
globalizzazione e di crescente erosione della sovranità degli Stati, qualsiasi
forma di nazionalismo. E questo andrebbe detto chiaramente anche a chi,
in Palestina, intende contrapporre uno Stato palestinese allo Stato israeliano.
Secondo Bascetta è doveroso ricordare a tutti, anche ai palestinesi, la
necessità di «mantenere viva la coscienza dei limiti, delle derive e dell'oppressione
insite in ogni stato nazionale, nelle sue inclinazioni identitarie e nei
suoi dispositivi di esclusione».
Questa diagnosi e questa terapia a mio parere non possono essere condivise,
soprattutto perché tendono a mettere sullo stesso piano e a deprecare in
termini equivalenti - è una tendenza già favorita dai mezzi di comunicazione
di massa italiani - il nazionalismo dello Stato israeliano e il nazionalismo
del popolo palestinese. Diagnosi e terapia non possono essere condivise,
in secondo luogo, perché non colgono la complessità dei sentimenti di insofferenza
verso il mondo ebraico che - è innegabile - oggi rischiano di diffondersi
in Europa, persino nell'ambito delle sinistre europee, tradizionalmente
schierate sul fronte opposto. C'è in questa insofferenza - ecco il punto
che Bascetta trascura - una stretta connessione fra antisemitismo e antisionismo.
E c'è la diffusa percezione che il trionfo del sionismo estremo nella politica
di Israele, dopo l'assassinio di Yitzhak Rabin e l'incondizionato appoggio
statunitense al governo Sharon, è oggi una delle più gravi minacce per la
pace e la sicurezza su scala globale. E' la sensazione - fonte di ansia
e di insicurezza collettiva in Europa - che il sionismo sia uno dei fomiti
più potenti del
Il tema che andrebbe posto al centro della discussione sull'antisemitismo
contemporaneo non è dunque quello dello scontro fra i due opposti nazionalismi.
E' piuttosto il significato che il sionismo assume oggi, nell'era della
globalizzazione, della «guerra preventiva» statunitense e della stretta
collaborazione - politica, militare, spionistica - fra Israele e le armate
occidentali impegnate a «democratizzare» il Medioriente. E', in altre parole,
il tema del rapporto fra l'oppressione del popolo palestinese e la dimensione
globale e imperiale che l'egemonia degli Stati Uniti ha assunto in questi
anni.
Per «decostruire» la questione palestinese, come ci ha insegnato Edward
Said, occorre rintracciare la linea di continuità storica e ideologica che
lega fra loro una lunga serie di eventi: le prime ondate dell'emigrazione
sionista in Palestina, la costituzione dello Stato di Israele, la sua progressiva
espansione territoriale, la dispersione violenta, talora terroristica, del
popolo palestinese, la negazione (non solo israeliana, ma anche araba) della
sua identità collettiva, l'occupazione militare di tutte le sue terre, gli
assassinii mirati, la costruzione del «muro».
C'è un tema cruciale sul quale in particolare Said insiste. Nei decenni
a cavallo fra Ottocento e Novecento, periodo nel quale le potenze europee
incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era
un deserto. Era, al contrario, un paese dove viveva una comunità politica
e civile composta di oltre seicentomila persone, che dava nome al territorio
e che lo occupava legittimamente da secoli. E dove, come documenta con grande
rigore un saggio pubblicato in Israele qualche anno fa da Eli Aminov («Il
sionismo e le città palestinesi»,
Nonostante tutto questo, l'intera vicenda dell'invasione sionista della
Palestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota attorno
ad una operazione ideologica che poi si è incarnata in una sistematica strategia
politica: la negazione dell'esistenza del popolo palestinese. Nelle dichiarazioni
dei maggiori leader sionisti - da Theodor Herzl a Moses Hess, a Menachem
Begin, a Chaim Weizman - la popolazione nativa, quando non è totalmente
ignorata, viene squalificata come barbara, indolente, venale, dissoluta.
A questo diffusissimo
La negazione dell'esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva installare
lo Stato ebraico è lo stigma coloniale e, in definitiva, razzistico che
caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del
resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto
in varie forme. Oggi, nel contesto dell'occupazione dell'Iraq da parte delle
armate statunitensi e del loro controllo imperiale su una vasta area del
Medioriente e dell'Asia centro-meridionale, lo Stato israeliano opera in
stretta coerenza con le sue origini sioniste e la sua vocazione razzista
e coloniale.
La vicenda degli insediamenti di coloni nei territori occupati della striscia
di Gaza e della Cisgiordania fornisce l'illustrazione più persuasiva di
questa coerenza e continuità. Dopo aver conquistato il 78% del territorio
della Palestina, dopo aver annesso Gerusalemme-est ed avervi insediato non
meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in
una progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22% rimasto ai palestinesi
sotto occupazione militare. Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa
dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato oltre il
40% del territorio della Cisgiordania e di Gaza, e vi ha insediato almeno
230 colonie. Complessivamente non meno di 300 mila coloni oggi vivono nei
territori occupati, in residenze militarmente blindate, collegate fra loro
e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade
(le famigerate
A tutto questo si aggiunge oggi la costruzione del «muro» in Cisgiordania,
destinato a concentrare il popolo palestinese in aree territoriali che raggiungono
complessivamente non più del 9% del territorio della Palestina mandataria.
L'obiettivo è quello di concludere l'intera vicenda con una «soluzione finale»:
la negazione nei fatti, non soltanto sul piano ideologico, dell'esistenza
di un popolo intero, il suo etnocidio. Questa negazione si sposa perfettamente
con il progetto imperiale di «democratizzazione» dell'intera area mediorientale
e di estirpazione radicale del terrorismo. Come ha scritto a chiare lettere
Alan M. Dershowitz, nel suo