Singapore. Giugno 2000
Vecchie biciclette coi freni a bacchetta, torturate
dalla ruggine, incatenate a un palo e dimenticate dai
loro padroni, magari defunti all’improvviso.
Qualche nonno di Chinatown, relitto vivente delle
antiche cartoline in bianco e nero, che sosta
all’ombra in un giardinetto, con la bici scalcagnata
al fianco.
Un vecchio cinese che pedala lungo Orchard Road, con
una lentezza tale da sfidare ogni legge di gravità.
Quasi un equilibrista da circo. Il grosso autobus alle
sue spalle non riesce a superarlo e in pochi minuti
nella via già intasata di pedoni a caccia di saldi
s’è formata una coda silenziosa e rassegnata di
veicoli, che pare un funerale.
E poi, naturalmente, i portatori di riksciò,
monumento mobile della città, né più né meno dei
gondolieri di Venezia. Un tempo assidui fumatori
d’oppio, pedalavano e pedalavano come meccanismi a
molla, senza stancarsi mai, ma scoppiavano consumati e
rinsecchiti prima dei quaranta. Erano gli anni in cui
Singapore era crocevia di commerci fra Oriente e
Occidente e l’oppio era importante materia di
scambio. E le fumerie abbondavano nei recessi. I
guidatori di riksciò mollavano volentieri i
passeggeri per andarsi a fare una fumatina.
Oggi una cosa è certa: i portatori di riksciò hanno
abbandonato l’oppio, altrimenti sarebbero già stati
fustigati (non solo metaforicamente) dal governo
ipermoralista voluto sin dagli anni cinquanta da Lee
Kwan Yew. E poi sarebbero finiti in qualche centro di
cura tipi il Sana, Singapore Anti-Narchotic
Association, luogo suppongo non dei più ameni.
Insomma, ben poche biciclette sopravvivono nella
metropoli del Leone Rampante.
Lo stereotipo della città del sud est asiatico
brulicante di pedalatori con gli occhi a mandorla è
ormai lontano da Singapore. Se le biciclette ancora
dominano certe strade della Cina, del Vietnam, della
Malesia del Nord è per poco ancora. Questi paesi
hanno già varato provvedimenti volti a mandare in
pensione la bici.
Una metropoli moderna non può che soggiacere alla
barbarie motorizzata.
Kuala Lumpur. Luglio 2000
Le strade di Kuala Lumpur sono torturate a ogni ora da
un traffico impietoso. Un fiume di automobili Proton,
vanto dell’industria nazionale, che fendono l’aria
torrida ostentando il sole e la mezzaluna islamica. E
uno sciame di motorini, quelle carrette puzzolenti che
Yamaha Honda Suzuki costruiscono per il Terzo Mondo,
che sfrecciano da tutte le parti, marciapiedi
compresi. Com’è diverso l’andazzo rispetto a
Singapore.
L’aria è irrespirabile. E’ paradossale trovarsi
nel cuore di uno dei grandi polmoni verdi del pianeta
e asfissiare in mezzo agli ossidi e ai biossidi. Ma è
così: Kuala Lumpur soffoca nei fumi del petrolio
estratto dal Terengganu, regione ormai ricca al nord
del paese. Se tendi l’orecchio ti pare di sentire il
cancro che cresce nei polmoni della gente.
Incontro soltanto un ciclista che sfida il traffico
insensato della capitale: un bianco d’una trentina
d’anni, con bici da corsa, canotta da fitness e
un’ingombrante mascherina antismog. Lo seguo
perplesso con lo sguardo, mentre svanisce
all’orizzonte di Jalan Ampang, avvolto dalla nube
grigiastra d’un camioncino scarburato.
Lo incontro più tardi. E’ seduto in un bar del
centro, davanti a un colorato beverone, un integratore
salino, suppongo. Non resisto alla tentazione di
andarlo a conoscere. E’ americano e la cosa non mi
stupisce. Soltanto gli americani sono capaci di certi
radicalismi che sembrano rasentare l’idiozia.
“Sei il primo che vedo pedalare per Kuala Lumpur”,
gli dico.
“Qualcuno deve pur dare l’esempio”, mi fa lui.
Ma il suo viso pallido, malinconico, sotto quei
capelli radi e infelici, contrasta con il fisico
palestrato. Mi pare di cogliere un certo
autolesionismo, quasi volesse caricare su sé stesso i
mali e le sofferenze del pianeta.
Dopo qualche ora che cammino per la capitale, non ne
posso più. I miei polmoni invocano pietà. Cercando
scampo ho raggiunto le Petronas Twin Towers , le due
torri gemelle che l’omonima, strapotente compagnia
petrolifera nazionale ha inaugurato lo scorso anno,
come espressione tangibile della rampante economia
malese. Entro al primo piano, che ospita un elegante
centro commerciale. Dico, è ridicolo: per riuscire a
respirare devo rifugiarmi nel monumento eretto dai
responsabili di questa camera a gas!
Kota Bharu, Malesia del nord, regione del Kelantan.
Luglio 2000
Seduto nell’esagerata frescura di un fast food (roba
da rischiare una congestione), sto assaggiando un
Maharani Burger, il sandwich che quel gran marpione di
McDonald ha inventato per venire incontro ai gusti e
alle prescrizioni religiose del sudest asiatico. Al
posto della solita carne bovina, bestemmia per gli
induisti, c’è una strana polpetta a base di riso e
vegetali, impastata in un mare di curry.
Fuori ho lasciato, senza timore di furti, la mountain
bike che ho affittato per scendere lungo la costa
orientale della Malesia.
E’ il crepuscolo. Dagli altoparlanti situati a ogni
angolo della piazza risuona melodiosa e un po’
malinconica la preghiera serale. Dalle vetrate osservo
il continuo andirivieni della folla. Le sagome
castigate eppure accattivanti delle ragazze malesi.
Queste graziose madonnine tutte un po’ troppo
somiglianti tra loro perché io riesca a riconoscere
quale delle sei m’aveva sorriso poco prima.
Il mercato diurno è appena smontato, che già
arrivano i venditori ambulanti serali di cibo. Fra
poco l’aria si impregnerà del suo odore
caratteristico: un misto di frutta tropicale (durian
soprattutto), immondizia, fritto, curry…
Qui , nelle regioni settentrionali del Kelantan e del
Terengganu, ancora dilagano i riksciò. Non come
amenità turistica, ma come mezzo di trasporto
effettivamente utilizzato dalla gente del posto.
I riksciò malesi non sono scarni e anonimi come
quelli di Singapore, ma vengono addobbati con ogni
genere di cianfrusaglia: ciondoli, corone di fiori
finti, fotografie, decine di fanalini da far invidia
persino alle Vespe dei Mods.
La gente li usa con frequenza. Signori con giornale e
ciabattino infradito, che non hanno voglia di farsi a
piedi i due isolati fino a casa. Donnone svolazzanti
nei loro veli, in arrivo dal mercato, con prole e
innumerevoli sacchetti della spesa: il riksciò viene
caricato all’inverosimile: donnona e marmocchi sul
sedile, i sacchetti su una pedana posteriore. Ma
diavolo, non l’avete visto il vecchino? Volete
dargli il colpo di grazia? Quasi non ce la fa a
trascinare se stesso!
Invece sbalordisco: il nonno s’impenna sui pedali,
pigia con i suoi pochi chili d’ossa. Suda, smorfia e
incredibilmente il riksciò si muove. E più lento dei
pedoni a passeggio nella piazza, s’allontana
beccheggiando. Anacronistico, certo, eppure
insostituibile: quale altro mezzo di trasporto
consentirebbe di sgusciare così discretamente tra la
folla?
Hanno un fascino indiscutibile questi riksciò malesi,
che viaggiano seguendo una propria clessidra, del
tutto indifferente ai motori Proton e Yamaha, ai pozzi
di petrolio che a pochi chilometri da qui trivellano
la regione. Totalmente indifferenti alla Malesia
rampante.
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(s.m.) Luigi Bairo
è autore di “Bella Bici”, segnalato nella nostra
pagina Bici
Libri , e cura in Internet anche un sito dallo
stesso nome: BellaBici.net
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