Home Cycle.rebel  World Cycling  Forumn Cycle.art  Links  Ciclo.scritture 

In viaggio  newsletter   Archivio articoli  Il libro Urban Surviving Bikids

 

Newsletter 

Eh sì. Una bici è poca cosa, cari fratelli silenziosi ed eterei, come lucciole di periferia. E' poca cosa, soprattutto di questi tempi balordi di giustizie infinite e di rigurgiti di medioevo; ma forse un briciolo aiuta a non perdere del tutto il contatto con la Terra e con le sue creature.

 

Luigi Bairo, 6 dicembre 2001

 

 

Partire. Andare lontano. Ma lontano da dove?, chiedeva mio padre, sedentario autentico, che citava, senza conoscerlo, Malamud. Secondo Bruce Chatwin, viaggiatore non solo per vocazione, ma per necessità esistenziale, l'origine della nostra irrequietezza sta proprio nell'aver rinunciato ad assecondare la nostra natura nomade. 

La bicicletta fu per me il primo strumento di viaggio: la vecchia bici nera del nonno, d’una grandezza smisurata, che guidavo seduto sul tubo, perché non arrivavo fino al sellino. Ricordo il professore di Lettere delle Medie, un tipo di quasi due metri, vestito con anacronistico stile inglese; sembrava uscito da un libro di Jerome. In primavera dava appuntamento ai suoi allievi davanti alla scuola, per pedalare lungo le valli che circondano la città. Fu allora che affrontai le prime salite; fu allora che imparai i primi trucchi, come l'uso del foglio di giornale per proteggersi dall'aria fredda prima delle discese.

Scrive ancora Chatwin: "I bambini hanno bisogno di sentieri da esplorare, di orientarsi sulla terra in cui vivono, come un navigatore si orienta in base a noti punti di riferimento. Se scaviamo nelle memorie dell'infanzia, ricordiamo dapprima i sentieri, poi cose e persone - sentieri nel giardino, la strada per la scuola, la strada intorno a casa, corridoi attraverso le felci o l'erba alta." 

Penso a Gianni Milano, maestro elementare della cintura torinese fra gli anni settanta e ottanta. I suoi bambini avevano le biciclette pronte nel cortile della scuola, e quando non c’era un motivo abbastanza valido per restare in classe, montavano in sella e partivano - tribù allegra e scampanellante - per andare ad esplorare le giungle che costeggiano il fiume Stura; a cercare gnomi ed elfi; a piantare alberi e ad erigere totem.

Una cosa è certa: oggi nessuno fa più queste cose, ed è quanto mai legittimo chiedersi il perchè. Aumento del pericolo oggettivo? Crescita progressiva della paranoia collettiva? Tutte e due le cose, probabilmente. Vero è che  le strade di oggi non sono più quelle di vent'anni fa, ma è pur vero che l'apprensione con la quale gli adulti avvolgono la vita dei ragazzi è sempre più pressante. 

E così la scuola ha definitivamente estromesso la bicicletta dal suo mondo.  La scuola di oggi, anche quella primaria, è concentrata sull'informatica, e soltanto in questa direzione vengono elargiti fondi; come se davvero fosse fondamentale che un bambino di sei anni sia già in grado di manovrare un mouse. E' malata di un presunto efficientismo americanizzante,  ossessionata dal voler essere un'azienda. 

La scuola del nuovo millennio ha perduto la bicicletta e, cosa ben più grave, il gusto della scoperta, dell'esplorazione, del viaggio.   

 

Luigi Bairo, 15 gennaio 2001

 


LETTERA RICEVUTA IL 25 GENNAIO  

 

Ho letto con interesse la tua newsletter di Gennaio, una piccola finestra attraverso la quale un raggio di luce mattutina invoglia a guardare fuori e invita ad uscire dalla propria, troppo spesso angusta stanzetta del pensiero, per respirare un’aria nuova.

A proposito dell’argomento della newsletter vorrei parzialmente smentire Chatwin in quanto , nel mio caso, non sono sentieri nei boschi o tracce tra le felci ad affiorare nei miei ricordi del tempo delle merendine ma quello che all’epoca dei miei sei-sette anni era un macigno di granito rosa, una sorta di parete Nord dell’Eiger che oggi ,all’epoca dei miei quasi quaranta si è ridotto ad essere un grosso sasso.

Dalla sua vetta, io e mio padre, tra le volute di fumo di una delle sue “nazionali esportazione lunga” guardavamo una fetta di mondo, oltretutto una delle più belle, uno di quei posti dove vorresti vivere sempre e morire mai.

Tale postazione di vedetta era, ed è, in fronte al Lago Maggiore sulle pendici del Mottarone, e dalla sommità del macigno era possibile vedere come in un plastico o in un diorama, il brulichio della vita con tutte le sue sfaccettature : treni, battelli, automobili, con i rumori che salivano dal fondovalle ovattati dalle fronde dei castagni e delle betulle del bosco sottostante, misti ad echi lontane di uomini, animali e cose, affaccendati intorno a chissà quali artifici e mestieri.

Un commovente racconto di Piero Chiara descrive l’ozioso trascorrere delle ore del mattino di un personaggio lacustre che quotidianamente si recava sulla sponda del lago, nei pressi del riparato piccolo imbarcadero e assaporava gli odori provenienti dalla riva opposta, portati dalle brezze mattutine, identificandone con precisione l’origine: il tiepido aroma del pane appena sfornato, l’esotico e intenso sentore di tabacco della fabbrica di sigari, e così via.

Ecco, io credo che la mia passione per gli spostamenti, la mia irrequietezza, sia nata dunque da questa postazione fissa : il voler vedere come sono quei posti laggiù in fondo,- la vedi quella strada sul fianco di quella montagna ? -, il voler vedere che faccia ha il panettiere dell’altra sponda.

Oggi vedo in mio figlio Gregorio la stessa passione, non per il viaggio in sé, non ancora, ma per quel masso di granito.

Sarà perché per “scalarlo” a sette anni ci vuole comunque impegno e raggiungere la vetta da soli è di per sé un “viaggio”, o forse perché guardare davanti a sé il dispiegarsi di questa cartina geografica in scala reale di una porzione di mondo, rimane affascinante anche perché le non lontane Alpi elvetiche escludono la vista di tanta parte dell’ultimo orizzonte.

Forse un giorno quelle lontane cime vedranno un ciclista spingere rapporti improbabili lungo i propri impervi tornanti, su di una vecchia “dieci velocità” che fu di suo padre, sulla rotta di quegli interminati spazi e sovrumani silenzi, celati al suo sguardo bambino.

Non è necessario che a scuola si insegni a “viaggiare” in bici, anche se sarebbe bellissimo e forse viene ancora fatto là dove esistono maestri brillanti e luoghi che lo consentono, credo basti instillare il dubbio che quanto esiste di diverso o di lontano dalle cose e dalla parte di mondo che conosciamo possa avere lati interessanti e valga la pena di essere indagato e compreso.

Indagine da compiere con la necessaria lentezza, quella propria di uno studio approfondito e pertanto effettuabile con ogni mezzo, inclusa, anzi da preferirsi, la nostra amica a dueruote.

Non me la sento invece di criticare a priori l’insegnamento dell’uso di un computer, anche perché può essere un formidabile macigno di granito sul quale arrampicarsi e guardare infinite porzioni di infiniti mondi tra i quali scegliere le proprie future mete.

Non è un caso credo, che ­anche tu ­, in uno di questi mondi, vi abbia fondato il paese di “Bella bici”.

 

Gianni Abbruzzese

 

 

back

Home Cycle.rebel  World Cycling  Forumn Cycle.art  Links  Ciclo.scritture 

In viaggio  newsletter   Archivio articoli  Il libro Urban Surviving Bikids