mento della divulgazione. La ricerca è lasciata alla
libera iniziativa della persona e così anche la diffusione
pubblica dei risultati.
Cosa vuol
dire questo? Se la ricerca avviene in un ambito in cui si
ha un ritorno economico immediato, allora è possibile
trovare la maniera di rendere pubblico e diffondere il proprio
lavoro. Se invece ciò non avviene, hai “voglia
di sperare”!!
Per esempio,
per quanto riguarda la ricerca sulla danza in Italia, non
c’è stato un motore sociale che abbia spinto
qualcuno verso queste ricerche: è stata un’esigenza
partita dalle singole persone. Questo per lo meno riferendomi
alla mia esperienza.
Io all’inizio
suonavo musiche da ballo e studiavo etnomusicologia e antropologia.
Mi trovavo a suonare in gruppi che facevano del revival
che aveva solo un significato politico. Ma era un modo inconcepibile
di fare musica: benché non fossi una gran ballerina
e non conoscessi benissimo il repertorio di danze, in qualità
di nipote di un vecchio suonatore mi rendevo conto che quelle
musiche non erano neanche ballabili... Eravamo molto giovani
e ci mancavano gli strumenti per capire in cosa sbagliavamo.
Non c’era
neppure il problema di chi ballasse, perché in Italia
non era ancora arrivato il revival della danza. C’erano
le comunità ecclesiali di base che facevano danze
d’animazione inventate da coreografi o prendevano
ispirazione dalle danze israeliane che non hanno nulla di
tradizionale. E in contemporanea a tutto questo, come dicevo
prima, il revival politico s’interessava alla canzone
politica arrivando a trattare anche brani strumentali tratti
dal repertorio da ballo.
Ad un certo
punto, dopo l’incontro con il carnevale di Bagolino,
che ha al centro la danza, mi resi conto che mi mancavano
gli studi sulla danza, non solo sulla danza popolare, ma
su tutta la danza. Ma per occuparmi di questo dovevo darmi
degli strumenti ed è nata l’esigenza di capire,
di studiare antropologia gestuale e comportamentale, piuttosto
che quella simbolica. Poi l’analisi del movimento,
i suoi sistemi di notazione.
Ma tutto
questo, purtroppo, in Italia non si trovava. Cominciavo
anche a chiedermi perché facevo tutti questi studi,
a che potessero essere utili.
In quegli
anni negli ambienti teatrali collegati all’università
(almeno a Roma e Bologna) cominciava a nascere l’interesse
per lo studio di alcuni repertori di danza, per esempio
quella indiana. Ma perché andare così lontano?
Io, che all’epoca studiavo al DAMS, feci presente
che anche qui vicino esistevano repertori di musiche da
ballo che nessuno ballava più. Da tutto ciò
iniziò la ricerca sulle danze dell’Appennino
Emiliano compiute negli anni ‘77-’78.
A dire la
verità io tentai inizialmente di intraprendere questo
lavoro di ricerca nella zona di Brescia. Ma fu impossibile:
ero una donna e mi era impossibile entrare nella compagnia
dei ballerini. Avrei potuto suonare, perché c’era
più elasticità nell’accettare donne
suonatrici, ma non ballare.
Così
la ricerca fu fatta a Bologna. Ne era stata già fatta
una precedentemente da Cammelli che aveva evidenziato svariati
aspetti di questo repertorio, mettendo particolarmente in
luce la figura di Melchiade Benni di Monghidoro.
Iniziai la
mia ricerca dalle valli del modenese fino ad arrivare in
Romagna. Mi trovai di fronte ad una situazione molto disgregata
perché mancavano i suonatori: la gente ricordava
i balli ma non venivano più suonati. Erano rimasti
alcuni balli rituali, come quelli collegati al carnevale
di Bendello. Nelle valli bolognesi, nella valle del Reno
non c’erano più suonatori; però c’erano
delle registrazioni e alcune persone su questa musica registrata
riuscivano ancora a ballare.
Avevo 18
anni e con sei di questi ballerini, impegnando una sala,
perchè per questi balli occorre spazio, imparai tutto
quanto potevo del repertorio. E capii anche che loro non
erano solo in grado di mostrarti dei passi, ma anche di
trasmetterti gli strumenti per analizzare e capire. Era
presunzione credere di poter capire il loro patrimonio a
priori, bisognava ascoltarli per acquistare anche gli strumenti
di autoanalisi, per spiegare, per capire, dall’interno,
tutti gli elementi della danza. Dall’esterno si sarebbe
potuto capire molto poco.
Venne fatto
a Bologna un primo stage sulla Cultura in valle, organizzata
dall’università e da quelli della valle del
Reno, per ragazzi dell’università e per altri
che dovevano allestire uno spettacolo teatrale. Nessuno
pensava che questa esperienza potesse essere esportata.
Invece venne rifatta a Roma.
Intanto però,
anche sulla scia dell’interesse che gli ambienti ecclesiali
manifestavano verso le danze d’animazione e le danze
in cerchio, alcuni insegnanti di queste comunità
pensarono che si potesse inventare qualcosa partendo anche
da questo repertorio. Un repertorio che era stato appena
analizzato e, limitatamente, presentato in pubblico.
Qui mi arrabbiai,
perché questo lavoro di ricerca aveva ben altre finalità
che quella di diventare stimolo di svariate trasformazioni
coreografiche. Noi pensavamo di far conoscere la ricchezza
di questo repertorio, la complessità di questo linguaggio
e non altro.
Decidemmo,
allora, che non avremmo più tenuto stage di danza.
Ci fu un
unico caso a Milano, nell‘81, una dimostrazione in
un pomeriggio. Bene, due mesi dopo tornammo e, con Melchiade
Benni, suonammo in Piazzale Cuoco (Milano, N.d.R.): c’erano
centinaia di persone che ballavano qualcosa con la convinzione
di ballare i balli emiliani. Ci rimanemmo molto male, ma
ormai il meccanismo era stato innescato.
Contemporaneamente,
prima di poter riuscire a dire effettivamente qualcosa sulla
danza, io feci il mio percorso personale di studi in campo
antropologico e metodologico.
All’epoca
pensavo che questo interesse relativo alla danza si sarebbe
velocemente espanso. La danza tradizionale aveva così
tanti e diversi livelli di accesso che ognuno poteva trovare
al suo interno la propria modalità espressiva.
Cercai, in
diverse occasioni, di invitare le persone ad occuparsi di
ricerca in altri repertori italiani. A Roma ci fu anche
un convegno, organizzato dal Comune e dall’Università,
per promuovere questi studi. Ad esempio ci fu Donata Carbone
che, dedicandosi allo studio del repertorio di Amatrice,
si occupò dell’analisi e trascrizione del movimento.
Ma quanto
succedeva dipendeva ancora dall’interessamento di
singole persone, non certo degli enti pubblici.
Io, in questa
fase, feci fatica, essendo tra le prime persone ad interessarmi
a queste cose, ad avere credito. Ma fortunatamente non fu
così sempre.
Poi ci fu
l’esperienza della Scuola di Arte Drammatica di Milano
dove fu istituito un corso di formazione per qualificare
chi avesse insegnato o fatto ricerca. Ma ci furono pochi
iscritti e più volte si rischiò di chiudere.
Nello stesso
periodo iniziavano altre ricerche, in Piemonte, Lombardia,
Trentino e Friuli. Ricerche che, in qualche modo, erano
sostenute da enti pubblici. Ma dopo questi casi, purtroppo,
non ne seguirono altri e gli enti non diedero più
alcun segnale di vita.
Adesso che
comincia a diffondersi una certa sensibilità verso
queste tematiche, cosa succede? Succede che si utilizzano
le persone, magari interne all’università,
ma senza alcun tipo di formazione specifica e adatta. Inoltre
le ricerche fatte in ambito universitario difficilmente
arrivano alla diretta utilizzazione della gente, dei danzatori.
Sono ricerche che non sono finalizzate all’aggregazione,
alla danza; sono solo studi individuali dei singoli ricercatori.
Cos’è
cambiato in questi anni nell’utilizzo dei risultati
delle ricerche fatte?
E’
cambiato parecchio. Intanto è cambiata la situazione.
All’inizio
alla gente non interessavano i balli montanari e neppure
la cultura montanara.
All’epoca
il coro di Monghidoro aveva fatto un’opera meritoria
registrando e salvando i canti della zona. La gente, in
genere, non amava guardare a queste cose perché rappresentavano
la povertà, la miseria, i tempi difficili,... Ballavano,
sì, ma il ballo liscio, perché era cittadino,
nobile... Tutti conoscevano i balli montanari, ma guai a
farcelo sapere. Era come ammettere di appartenere alla categoria
dei disgraziati. Nel frattempo però stavano tornando
tutte le persone emigrate a Bologna, con la convinzione
di poter stare bene anche al proprio paese d’origine.
Oggi le cose
sono cambiate. Ci sono quelli che vanno in discoteca ma
hanno , nello stesso tempo, la consapevolezza dei loro balli,
ne vanno fieri ed orgogliosi e ci trovano gusto a ballarli.
Ci sono i vecchi che ballano secondo uno stile diverso da
borgo a borgo e quelli della nuova generazione che hanno
imparato. Ballano anche i ragazzini.
L’associazione
“E bene venga maggio” promuove soprattutto l’aggregazione,
gli incontri finalizzati alla musica e alla danza. Si è
di nuovo diffuso un linguaggio comune a tutti e tutti riescono
a ballare durante le feste.
Si è
arrivati addirittura a rivendicare le diversità stilistiche
dei propri anziani : “Voi potete dirmi quello che
volete, ma mia nonna ballava così e quindi lo faccio
anch’io!”. E’ importante che ognuno trovi
divertente sviluppare un proprio linguaggio.
Oggi, al
contrario di quello che si potrebbe immaginare, ci sono
molti più ballerini e molti più stili di ballo
rispetto a 15 anni fa.
Durante le
ricerche di Cammelli e fino ai tempi della Scuola d’Arte
Drammatica mi ricordo che il termine utilizzato per definire
questo repertorio era il “ballo saltato”. Ora
invece è più usato il termine “ballo
stacco”....
I termini
per definire questi repertori, nelle zone di origine, sono
vari. Si usa, ad esempio, dire “andare a ballare i
Ruggeri”. Ma “ballo montanaro” è
forse il termine più conosciuto.
In fondo
Bologna non è tanto lontana e questi balli venivano
ballati in pianura e in città, almeno fino agli anni
‘30, con uno stile leggermente diverso. C’erano
quindi i balli di pianura e di montagna.
“Ballo
staccato” è, invece, una definizione che veniva
usata per distinguere questi balli dal liscio. “Staccato”
o “spécc”. “Bàl stàcc”
in montagna e “Bàl spécc” in pianura.
“Spécc” perché era spiccato, saltato,
sollevato, diverso, anche in questo, dal liscio.
Credo che
sia importante che cresca il numero dei ricercatori. Cosa
deve fare, secondo te, una persona che vuole avvicinarsi
al mondo della ricerca?
La prima
cosa da chiarire è che non tutti possono fare i ricercatori.
Per essere un ricercatore è necessario avere un’attenzione
particolare verso gli altri, essere disponibili ad accettare
quello che gli altri ti stanno dicendo. Sapere di dover
tradurre tutto quanto in un linguaggio legato ad una diversa
comprensione delle cose, ma aspettare di conoscere i criteri
di interpretazione della realtà di chi parla, evitare
assolutamente ogni forma di interpretazione a priori. Questo
significa ciò che in altri ambiti è chiamato
“umiltà”.
Inoltre occorre
avere una straordinaria capacità di adattamento.
E’
importante, dopo aver capito i meccanismi di valutazione,
i criteri d’interpretazione del mondo dell’altro,
inserirsi in questo mondo con la giusta chiave. Puoi pensare
di avere a che fare con persone della tua stessa cultura,
ma è probabile che le dinamiche sociali siano differenti
e la conoscenza di queste dinamiche è molto importante.
Superato
lo scoglio della predisposizione individuale, che è
fondamentale, di passa agli strumenti che un ricercatore
deve possedere per poter spiegare ad altri quanto si è
imparato o capito. E’ necessario, ad esempio, avere
degli strumenti analitici relativamente alla musica, studiare,
quindi, il funzionamento dei sistemi musicali, soprattutto
relativamente al movimento. Bisogna possedere, poi, nozioni
tecniche che permettano un’analisi dal punto di vista
motorio e della consequenzialità (quando e perché
i movimenti seguono un certo ordine), nozioni in campo linguistico,
semiotico per poter spiegare un linguaggio. Infine servono
anche degli studi di carattere antropologico, perché
in fondo ci occupiamo di persone, di persone che nella danza
mettono in moto un’organizzazione simbolica del pensiero.
L’importanza
di scuole, corsi come quelli che hai tenuto alla Scuola
di Arte Drammatica....
Se dovessi
giudicare oggi i risultati, direi che queste scuole lasciano
il tempo che trovano.
Su molte
persone che avevano frequentato quella scuola, una sola
ha effettivamente imparato a fare ricerca.
Purtroppo
la cosa più importante è la disposizione mentale
delle persone. Se la possiedi, impari ogni cosa e sei in
grado di trasmettere queste cose ad altri.
Comunque
è sicuramente utile avere delle scuole che diano
strumenti metodologici. Sono scuole che ti evitano di passare
gli anni a girare per l’Europa e l’America,
come ho fatto io, per acquisirli.
E’
evidente che queste scuole ci devono essere, ma chi sia
deputato a crearle e organizzarle è un problema.
Un problema istituzionale. Credo che dovrebbero essere le
università ad occuparsene.
Una
cosa che è parsa molto interessante nei tuoi stage
è l’impostazione didattica, il tuo modo di
avvicinare ciascuno al repertorio ed alla cultura che insegni.
Dai molta attenzione al linguaggio gestuale, dinamico all’interno
delle danze e, anche in relazione alla complessità
ed importanza di quest’ultimo, tendi chiarire subito
i limiti del tuo insegnamento.
E’
un atteggiamento che dovrebbero avere tutti gli insegnanti,
se insegnano davvero. Quando vuoi fare l’insegnante
ti devi porre obiettivi che non devono essere troppo elevati
rispetto al tuo campo d’intervento e alle possibilità
delle persone che hai davanti.
Nella programmazione
di un intervento relativo alla danza devo chiedermi quali
sono i limiti di quanto sto facendo. Se non lo faccio, non
riuscirò ad approfondire e raggiungere i miei obiettivi.
E’ un problema di impostazione metodologica e di corretta
organizzazione del lavoro. Devo sapere ciò che propongo
e ciò che non sono in grado di fare.
Le persone
che insegnano danza, fatte debite eccezioni, non sanno neppure
cosa stanno insegnando perché, a loro volta, hanno
avuto una conoscenza solo parziale del repertorio.
Chi ha visto
una danza per tre volte, non può pretendere d’insegnare
un linguaggio gestuale. Propone, in realtà, una sua
interpretazione, crea un modello rispetto a ciò che
ha visto.
L’insegnante
non si deve, in realtà, proporre come modello, ma
deve mettere gli altri in grado di creare delle forme, di
esprimersi nella danza. E questo è valido per qualsiasi
repertorio, anche per quelli apparentemente ripetitivi.
In Francia,
rispetto ad alcuni repertori, è stato fatto un lavoro
di questo genere e molti insegnanti sono in grado di insegnarti
ciò che è necessario per poter imparare.
Avendo ascoltato
poco tempo fa Pino Gala e avendo appena spento i microfoni
per Dina Staro, non possiamo che emettere un doppio respiro
di soddisfazione. Di fronte ai due principali costruttori,
per lo meno dal punto di vista della costanza, dell’etnocoreologia
italiana, tanto di cappello. Essere riusciti in un’Italia
sorda ai vertici e sorda alla base a sopravvivere, non è
cosa semplice. Sopravvivere, poi, non solo fermandosi ad
accademismi fini a se stessi, ma cercando, provando a riflettere
su quanto trovato, costruendo metodologie, atteggiamenti
scientifici di fronte a diffusi e più comodi empirismi.
Tutto questo
è lodevole. Tutto questo è ammirabile.
Ma ascoltando
loro due, guardandoci in giro, parlando oltre i microfoni
tra il serio ed il faceto, chiacchierando con annessi e
connessi, leggendo e “vivendo” il revival della
danza da svariati anni, ci siamo resi conto che la situazione
della ricerca in Italia è poco meno che drammatica.
E non solo per gli importanti problemi che ciascuno ha espresso
- tutti validi, sia inteso - e che avete letto anche in
questa intervista.
La ricerca
sulla danza in Italia vive un isolamento provocato dall’esterno
e da questo isolamento non è riesce ad uscire per
mancanza di forze dall’interno. Pochi ricercatori
e ancor minore collaborazione tra questi pochi. La mancanza
di forze interne è proprio questo.
Choreola,
rivista di etnocoreologia, poteva essere un tentativo, non
riuscito fino in fondo, di coagulare forze. Folk Bulletin,
in compenso, non poteva avere sufficiente autorevolezza
per farlo non essendosi occupato che in secondo piano di
danza.
Non importa
assolutamente dove stiano le colpe di questa difficoltà.
Ne soffre l’Italia come anche, in misura diversa e
con altre risorse, altri paesi europei ben più avanti
di noi.
Cosa ci vuole
per cambiare le cose? Buona volontà? Un riconoscimento
delle differenze e dei limiti di ciascuno? Noi non possiamo
saperlo.
Abbiamo fatto
interviste, questa credo sarà l’ultima, per
conoscere. Abbiamo conosciuto e approfondito anche dietro
i riflettori. Non abbiamo fatto domande cattive o provocatorie
per il timore di aprire fratture e di parere parziali.
Ora, che
tiriamo i remi in barca, vorremmo che tutto questo possa
servire a qualcosa.
Ci chiediamo
se sia possibile, e lavoreremo per questo, che tesi e differenze
si possano incontrare dietro un tavolo. Che a questo tavolo
possa essere data sufficiente pubblicità perché
sulle sedie si possano trovare anche rappresentanti di enti
e personalità accademiche. Che, con questo scopo,
riviste, associazioni, gruppi di danza e, speriamo, ricercatori
possano collaborare assieme.
Se non ci
riusciremo, non dipenderà da noi. Avremo dato scintilla
ad un ambiente troppo fradicio per incendiarsi.
|