Da questo pulpito mediatico si è più volte “tuonato” contro la situazione revivalistica della danza tradizionale in Italia. Poco interesse ad approfondimenti da parte degli amanti del ballo, poca professionalità da parte degli insegnanti, spesso più impegnati in attività d’animazione che di trasmissione culturale. Certo, con molte eccezioni. Ma non sufficienti per evitarci di scuotere colpevolmente la testa di fronte alle accuse velate di ricercatori che si rendono conto di non riuscire a incidere, se non con il proprio insegnamento, sulle superficiali nozioni comuni della danza e della cultura tradizionale.
Sia chiaro che non stiamo invitando ogni insegnante ad investire il neofita curioso, al suo primo corso di base, con preliminari conferenze su singoli aspetti di singoli repertori.
Né vogliamo confondere revivalismo e pratica della danza, le esigenze di un ballerino delle valli occitane impegnato in una curento e quelle di un milanese gettato nella mischia di una tarantella di Montemarano. Non vogliamo, né potremmo, criticare il revivalismo come fenomeno di massa (Quali masse? Dove le avete messe?).
Solo cerchiamo, di fronte ad una forbice, le cui gambe vanno dall’animazione alla cultura, di avvicinare gli estremi, di renderli funzionali l’uno all’altro, di interrogarci sugli obiettivi, di aumentare la comunicazione e l’interesse verso una tradizione che ha una storia e una funzionalità da conoscere.

Con queste intenzioni ci impegniamo a portare in questo giornale la voce di alcuni ricercatori italiani e stranieri, come in parte già fatto con Yvon Guilcher, i Brayauds,...

Iniziamo oggi con un intervista a Pino Gala, incontrato qualche mese fa a Torre Pellice, continueremo, speriamo già nel prossimo numero, con il resoconto di una interessante chiacchierata con Dina Staro.

D. La ricerca etnocoreutica, cioè relativa alla danza tradizionale, è per gli appassionati di danza qualcosa di assai poco conosciuto.

R. Per i più la ricerca non esiste proprio, non ne sono assolutamente condizionati.
Molti in Italia ti conoscono. Molto probabilmente più per i tuoi corsi ad Estadanza che non per le tue ricerche o per i tuoi articoli su Choreola.

D. Qual è il problema, secondo te ? Il mondo del revival è troppo superficiale per porsi domande e per avvertire esigenze ? O la ricerca non ha avuto voce sufficiente forza, capacità per arrivare alle orecchie e alle menti dei danzatori?

R. E’ un problema complesso.
In altre discipline la ricerca spesso è una cosa a se stante rispetto alla fruizione, alla divulgazione: il ricercatore fa il suo lavoro, analizza, studia, cataloga, fa tutta una serie di operazioni che sono il suo mestiere.
In Italia, nel campo delle danze etniche, è successo un fenomeno abbastanza particolare, anche se non del tutto originale.
Intanto, per inciso, la paura dei ritardi è un problema che ci accomuna a molti altri stati...

D. Paura dei ritardi, in che senso?

R. Paura di essere in ritardo con la documentazione. Ci sono anche stati molto più avanti di noi, con archivi ben forniti, materiali catalogati e, spesso, pronti per esser consultati.
In Italia la ricerca è partita in modo più volontaristico.
Proprio qui, probabilmente, è il tallone d’Achille della questione: l’operazione ricerca si è basata spesso sull’entusiasmo, sulla dedizione di pochissimi ricercatori. Ricercatori con una preparazione autodidatta, basata su errori, su un empirismo che cresceva giorno per giorno. Con risultati spesso non definitivi, lenti, insufficienti.
Il disinteresse delle istituzioni, sia amministrative che accademiche, ha fatto il resto obbligando, comunque, il ricercatore a lavorare costantemente in sordina.
Un altro limite della ricerca è stato quello di voler legare subito i frutti della ricerca all’utilizzazione pratica, revivalistica, socializzante. Questo è stato condizionante: si trovavano dei materiali nuovi e, prima di analizzarli compiutamente, si riproponevano. E’ mancato da subito uno studio profondo e concentrato sul repertorio.
La visibilità di fatto non c’è stata e continua a non esserci, semplicemente, come già detto, perché la ricerca non è istituzionalizzata. Chiunque può partire, prendere una telecamera, andare in una festa in cui vedere danze, recuperarle, documentarle. Questo non vuol dire fare ricerca. Questo vuol dire solo esplorare, fare dei sopralluoghi. Si può parlare di ricerca solo quando una persona entra nell’ottica di dedicare parte del suo tempo, spesso gran parte, a questa operazione.
Purtroppo non è stato benefica una certa mania esterofila : la gente viene proiettata verso balli stranieri, di moda, e non si interessa al patrimonio etnocoreutico delle proprie zone di provenienza o di vita.

D: Mi hai spiegato i problemi della ricerca, ma, continuando sul tasto della provocatoria sensazione d’assenza di queste problematiche nel mondo revivalistico, oggi esiste una ricerca etnocoreutica in Italia? Una ricerca che non sia legata a fenomeni estemporanei?
Ed esistono dei modelli, nel passato, di ricercatori etnocoreutici italiani?

R: Alla prima domanda ti posso rispondere con le notizie che ho.
Ci sono persone che hanno fatto ricerca in passato e poi si sono fermate. Altre che hanno continuato e continuano ancor oggi a occuparsene da un punto di vista culturale e scientifico. Ci sono invece dei nuovi arrivi, pochi purtroppo, di cui ancora non sappiamo bene se si potrà parlare di vere e proprie ricerche.
Ci sono anche persone, ne conosco diverse, che vanno sul luogo di pratica della danza, filmano o registrano e, poi, conservano questo materiale. Alcune finalizzano questa esperienza sul campo soltanto alla riproposizione delle danze filmate. Questo ci priva di figure che possano studiare le danze!
Ti faccio un esempio. Quando io ho bisogno di articoli per la rivista Choreola, articoli relativi a esperienze di ricerca o di analisi, faccio una grande fatica a trovare persone che sanno scrivere o quantomeno finalizzano la loro esperienza ad uno scritto meditato.
Se, invece, voglio trovare persone che hanno visto dei balli, che li hanno filmati e li vogliono insegnare, allora non ho problemi.
Ma un ricercatore non deve solo raccogliere, deve capire il fenomeno che ha davanti, deve poterlo analizzare. Dietro al singolo fenomeno specifico, il singolo ballo o repertorio, c’è tutto un mondo, non solo etnocoreutico ma anche antropologico.
Per quanto riguarda i modelli di riferimento, in Italia non abbiamo esperienze significative di ricerche sulla danza popolare fino agli anni ‘70. Abbiamo filmati sul repertorio delle “quattro province” o sul carnevale di Bagolino, ma questi non possono essere considerati in sé modelli di ricerca specifica, si muovevano anche all’interno di altre ottiche. In Italia mancano modelli di riferimento come, ad esempio, in Francia J.M.Guilcher...

D: Ce ne sono forse più in ambito etno-musicologico....

R: Infatti io mi sento, in questo senso, un po’ figlio di Diego Carpitella, che ha seguito per alcuni anni. Carpitella, che tra le altre cose ha insegnato anche storia della danza, aveva un interesse particolare per il mondo coreutico, era prodigo di suggerimenti ed aveva partecipato con me a qualche ricerca sul campo. Ho cercato di cogliere da lui quanto ho potuto.

D: Al di là dei modelli, ho l’impressione che le persone che hanno fatto ricerca in modo più continuativo in Italia siate tu e Dina Staro...

R: Sì, forse oggi le persone che possono fare da punto di riferimento per altri ricercatori in erba, sia da un punto di vista di studi, sia per capacità di analisi e di teorizzazione, siamo noi. Siamo gli unici che abbiamo continuato ad occuparci di queste cose in modo scientifico. E’ palese il desiderio di fare entrare l’etnocoreologia in una vera forma di disciplina scientifica.

D: Molti lettori credo che non abbiano alcuna idea di cosa sia la ricerca effettiva. Hai già dato alcune indicazioni, hai parlato di analisi, di scienza, ma il vero compito di un ricercatore qual é?

R: Credo che stiamo uscendo, almeno io e la Dina, sperando di poter interpretare correttamente il suo pensiero, da una corrente che in passato ha preso un po’ tutti: il formalismo. Ci preoccupavamo di documentare la forma della danza, quindi le strutture, i passi, i moduli, i movimenti, insomma gli elementi formali. C’era, probabilmente, l’esigenza di fissare visivamente la forma più che la sostanza della danza.
Generalmente una ricerca inizia con la scelta di un luogo ben preciso, l’esplorazione del territorio, la conoscenza del repertorio di danze vivo o in memoria, il recupero di questa memoria. Queste sono le prime due fasi, la ricerca di informazioni e la documentazione del repertorio. Quello che dovrebbe avvenire in seguito è l’approfondimento del contesto e del mondo della tradizione popolare locale, della cultura che ha partorito negli ultimi secoli quel dato repertorio documentato. Questo è una aspetto della ricerca difficile ma intellettualmente gratificante.
E’ importante sottolineare che la danza etnica si differenzia dalle altre forme di danza perché rimane ancorata a due colonne fondamentali: quella del movimento della danza, dell’ arte coreutica in sé e quella relativa alle conoscenze di tipo antropologico, etno-antropologico necessarie ad un buon etnocoreologo per la propria formazione...
Bisogna tendere ad una antropologia della danza: la danza è frutto di una cultura, non nasce da sé. Ciò che si sta diffondendo in Italia, invece, è una concezione pedestre della danza: ci si interessa di come muovere i piedi, dei passi... Ma questo è l’ultimo elemento da considerare. Anche qui siamo in pieno consumismo.

D. L’indagine in un territorio cosa presuppone? Chiedere agli anziani, farsi raccontare il loro vissuto?

R. Un metodo d’indagine deve rapportarsi al territorio scelto per la ricerca.
Io ho avuto fortuna. Nel ‘79 ho iniziato con le feste al Sud, con le tarantate, allargandomi nell’analisi dei repertori coreutici, ma sempre all’interno delle feste. Erano repertori in vita, che risentivano positivamente di una linfa costituita da feste comunitarie, religiosità e fenomeni cerimoniali...
In questo caso la metodologia presuppone una rielaborazione, una analisi molto complessa che prevede una preparazione culturale ed intellettuale consistente.
In altre zone, in Italia centrale, ad esempio in Umbria o nella Toscana stessa, sapevo in partenza che il territorio era coreuticamente povero. L’obiettivo diventava il recupero della memoria più che della pratica ed esigeva tecniche diverse: dare importanza all’anziano, alla testimonianza dei musicisti più che dei ballerini e, in certi casi, cercare la responsabilizzazione, nella ricerca, degli enti pubblici, dell’amministrazione, della Pro loco.

D: Dunque è importante, prima di gettarsi nel “campo”, avere elementi di conoscenza del mondo culturale e sociale di cui si vuole studiare il repertorio coreutico...

R: Sì, ci deve essere un sopralluogo iniziale. E’ importante crearsi una bibliografia di ricerche etnomusicologiche fatte in precedenza o, comunque, di riferimenti a tradizioni presenti.
Ma, in alcuni casi, in posti di cui non si conosce molto, è possibile iniziare una esplorazione pionieristica, battere tutti i paesi con interviste, fare indagini che si sviluppino a catena: un musicista ti manda da un altro musicista, un ballerino da un altro ballerino, fino a far riemergere la memoria della danza.

D: Chi volesse avvicinarsi al mondo della ricerca, ad una ricerca non spontaneistica ma preparata, seria, cosa può fare?

R: Io ti potrei rispondere con un desiderio che potrebbe anche essere un sogno irrealizzabile.
Mi sono accorto che, attualmente, non possiamo aspettarci nulla dall’università : i docenti vicini all’etnocoreologia non se la sentono, secondo me giustamente, di considerarsi dei formatori della ricerca. Sanno di essere stati sorpassati dall’esperienza di alcuni.
Il mio desiderio è quello di formare con la Dina una vera scuola di ricerca. Non so sotto quale egida, ma saremmo le persone più indicate per trasferire la nostra esperienza meditata ad altri. Il ricercatore deve venire prima o poi formato. Si può anche formare da sé, come abbiamo fatto in parte anche noialtri, ma non è semplice.
Anzi, vorrei dire un’altra cosa: non tutti possono diventare ricercatori.
Non perché ci voglia una particolare grazia divina, ma un ricercatore, per arrivare a certi livelli, deve avere due caratteristiche: una buona formazione culturale e grande disponibilità di tempo.
Una persona che non ha la preparazione, il tempo o, anche, i soldi da dedicare alla ricerca, incontrerà degli ostacoli insormontabili. Ricordiamoci che oggi la ricerca non è finanziata o lo è in modo molto sporadico....

D: Il problema del rapporto con gli enti pubblici può essere interessante... Perché sono così sordi alle necessità della ricerca In Italia?

R: L’istituzione avrebbe dovuto avere un ruolo molto importante, ma lo ha impedito il generale disinteresse. A livello istituzionale alto, parlamentare, governativo, non c’è ancora attenzione al recupero della nostra memoria, della cultura che sta alle nostre radici.
Ma c’è un problema di fondo: la memoria vera non è vendibile e non porta al fenomeno del consumismo. Vengono finanziate, spesso, operazioni che hanno una ricaduta solo in ambito turistico o promozionale. Un altro problema è che le istituzioni sono interessate solo al prodotto finale della ricerca, alla pubblicazione o alla produzione sonora.
Molti giovani interessati alla ricerca e con una formazione solida, ad esempio in Sardegna, si illudono di trovare finanziamenti senza difficoltà. Ma pensare, oggi, ad una istituzione interessata a finanziare all’origine una ricerca, è illusorio.
Devo ricevere un milione per una ricerca svolta in Toscana: è la prima volta in vent’anni di esperienza. Certo, molto dipende dalle persone che sono addette alla cultura nei vari ambiti amministrativi.
Credo che, finché non si avrà in Italia una cattedra di Etnocoreologia, la danza rimarrà sempre peregrina, figlia di nessuno.

D: Non esiste un problema di comunicazione anche all’interno del ristretto mondo dei ricercatori?

R: Il carattere, il gene del ricercatore è quello di lupo solitario... Quindi tende, di fatto, a lavorare nel suo campo, con il suo metodo, con i suoi informatori ed esecutori tradizionali. Difficilmente è ben visto lo scambio, il confronto. Questo è un difetto diffuso non solamente in Italia. Non so quanto possa consolare, ma è così.
Conosco un po’ la situazione in Grecia, Argentina, Spagna e Francia. In alcuni paesi sono state create delle istituzioni complementari a quelle accademiche, ad esempio alcuni Conservatori dediti allo studio delle tradizioni popolari in Francia o alcuni centri di studio in Catalonia o Grecia. Sono centri paralleli che partono già istituzionalizzati o che lo diventano in seguito. Questa è stata la strada più praticata.

D: Ho assistito a discussioni sulla politicizzazione del fenomeno della ricerca italiana nel recente passato. Che giudizio ne dai a posteriori? Un bene o un male per gli obiettivi di oggi?

R: Ma io complessivamente lo giudico un bene. In mancanza di una istituzione che si occupasse della tradizione, ci doveva essere una spinta che nascesse da altre parti. In Italia, ma non solo in Italia, questa spinta è arrivata da una ideologia.
C’è stato, sicuramente, un errore di ottica. L’estrema ideologizzazione della ricerca, o comunque dell’approccio alla ricerca, in Italia negli anni ‘60 e ‘70 ha portato a selezionare a priori ed in maniera errata il materiale che si andava a ricercare, scartando cose che poi sarebbero potute servire.
Questa cosa, oggi, è superata. Si è capito che uno può tenersi le proprie idee politiche senza viziare il lavoro con punti di vista preconcetti.
Oggi, ad esempio, c’è un grande interesse dell’etnomusicologia per tutto quanto riguarda la musica sacra di tradizione orale.
Io stesso mi sono reso conto che se facevo ricerca in contesti festivi religiosi, non potevo privare la danza del suo aspetto religioso senza depauperarla e privarla di un sostegno fortissimo. E questa religiosità non ha un colore specifico, è un bisogno umano, cui ci si può avvicinare anche da laici.

D: C’è tra alcuni ricercatori, specialmente d’oltralpe, l’opinione che non sia corretto parlare di continuità della tradizione nelle nostre società moderne, postindustriali ....

R: Considero questa tesi, per certe aree, certi ambiti, fortemente sbagliata.
Abbiamo delle zone in Italia dove la danza non è stata mai smessa. Basta pensare al Nuorese, a Montemarano, alle tarantelle dell’ Aspromonte...qui la tradizione non è stata mai interrotta, almeno per quanto ne sappiamo.

D. Non è che abbiano perso la loro funzione tradizionale?

R. Per un montemaranese una tarantella, almeno quella processionale, la si fa in occasione del Carnevale, non la balla in altre circostanze. Anzi loro si stupiscono molto che la loro tarantella venga imparata e ballata altrove in situazioni differenti. Il loro stupore è segno di una sorta di verginità. Questo non significa, però, che la danza sia vista in una dimensione statica: l’evoluzione c’è sempre stata e la tradizione, finché è viva, è responsabile del proprio patrimonio. Magari in modo non del tutto cosciente, ma ne è responsabile.
In Italia quindi esistono ancora delle situazioni di questo genere.
La differenza tra un Sud e un Nord, sempre generalizzando, è che nel Sud ancora il revival non è così forte ed è addensato, per fortuna, solo in alcune città. E dico per fortuna perché vedo le devastazioni che ci sono state. Quando un settentrionale va a vedersi la Baio, il carnevale di Bagolino, quello resiano, si fa una concezione particolare del folklore. Crede che il folklore sia rinato grazie ad un interesse, una presa di coscienza di qualcuno interno o esterno alla tradizione, senza pensare che il modello più antico o arcaico è quello dove la tradizione è vissuta in sé, senza una tensione esterna o, peggio, una manipolazione. Queste esperienze si possono trovare anche in Italia. Sono, per me, i laboratori d’osservazione più interessanti, più reali.
Possiamo paragonare, ad esempio, una festa dell’Aspromonte dove la tarantella viene ballata in momenti festivi fortemente ritualizzati, con codici di comportamento a volte anche ferrei, e una festa a Monghidoro, dove la tradizione è stata “ripompata”.
Nell’80 quando grazie a Dina e al Cammelli, andavo lì si ricordavano tre o quattro balli. Ora ne praticano ventiquattro. Non so si può parlare di tradizione. C’è stata una cesura, non una presa di coscienza dall’interno. I portatori o i nuovi portatori della tradizione non hanno rigestito il loro patrimonio ma hanno avuto bisogno di un intervento esterno, di un innesto artificiale.
Bisognerebbe aspettare e, tra duecento anni, vedere se queste forme di innesto saranno passate e tramandate dalla gente del posto.

D. Dunque nel Centro e nel Sud ci sono tradizioni che continuano e che non dipendono da te o da chi come te fa ricerca...

R. Io evito di riproporre alcune feste e alcune danze proprio perché sono patrimonio di piccole comunità: la presenza estranea, anche di poche persone, snaturerebbe la stessa festa o alcuni comportamenti di danza. A tal proposito, ho avuto delle discussioni con altri ricercatori che rivendicavano il diritto alla conoscenza, alla ricerca, ma, in questi casi, secondo me, deve prevalere il diritto delle piccole comunità a preservarsi.
Una volta che questo patrimonio è conosciuto e divulgato, diviene oggetto di attrazione e di curiosità. Si arriva a snaturare i comportamenti rituali e il modo interno alla comunità di vivere la tradizione.
Questo e un problema grosso. Dunque, il ricercatore si deve porre un problema etico riguardo la correttezza della trasmissione.
Spesso mi succede di terminare uno stage e di sentirmi frustrato, amareggiato. In Piemonte, per esempio, ho fatto due stage di balli di regioni lontane, uno durante la Settimana Santa e un altro nel week-end dei Morti: nella tradizione questi sono periodi durante i quali non si balla.
Esiste una concezione rituale della vita per cui ogni cosa ha il suo tempo secondo un preciso ordine temporale e culturale. Il revival ha disfatto questo ordine, inventandone uno suo, inventando ritmi e tempi propri.
Un ricercatore deve, dunque, porsi dei problemi etici.
Ci sono anche situazioni in cui la funzione del ricercatore torna nel suo alveo più nobile e interessante, quello di far rivivere, con l’uso dell’informazione solo filmata, la memoria dei padri, dei nonni, della gente del posto. Il ricercatore quindi come tramite, conduttore, cavo elettrico per far passare l’energia tra i vecchi, che non possono più trasmettere, e i giovani.

D. In chiusura, parlami della rivista “Choreola”

R. Proprio ultimamente siamo venuti a conoscenza del fatto che “Choreola” è l’unica rivista al mondo che si dedica alla danza etnica. Questo ci riempie di gioia e di responsabilità allo stesso tempo.
Le altre due riviste “La ricerca della danza “ in Francia e “Folk Dance” in Inghilterra non pubblicano più. Non so se in America ci sia qualcosa, ma credo di no, a quanto mi hanno detto.
A parte ciò “Choreola” ha due problemi: uno finanziario, comune a tanta riviste, ed uno tecnico, relativo alla penuria di ricercatori.
Eravamo partiti con l’idea della quadrimestralità, ci immaginavamo che Pinna, Scarsellini, Castagna, Boschero avrebbero scritto... Invece questa adesione è mancata e noi ci siamo trovati in difficoltà nel reperimento di materiale da pubblicare.
Un altro problema è, invece, legato alla redazione : la rivista la battiamo a macchina e la impaginiamo noi, nel nostro tempo libero, con dispendio volontario di denaro e fatica.
Pur con queste difficoltà, comunque, continueremo, cercando, magari, di non ripetere più errori quali l’impelagarsi in monografie,come la canzone a ballo, che hanno portano via parecchio spazio e bloccato i numeri antologici.
Io invito tutte le persone che si interessano alla danza tradizionale ad entrare nell’ ottica della diffusione di questo sapere coreutico: ”Choreola” potrebbe avere un ruolo educativo e di formazione nell’ ambito revivalistico.