Benedetto Croce - Luigi Einaudi

 

Liberismo e liberalismo

 

Introduzione di Giovanni Malagodi

 

Comincio questa introduzione alla seconda edizione (la prima è del 1957) della polemica fra Croce ed Einaudi su liberismo e liberalismo (i più vecchi fra i loro scritti qui raccolti risalgono agli anni attorno al 1925, e i più recenti agli anni attorno al 1948) mettendo in luce in che cosa essi consentano e in che cosa dissentano sull'argomento, per poi indagare l'utilità presente dei loro dissensi. Un'utilità che a me pare certa, anche se si manifesta su piani differenti.
In che consistono le convergenze fra Croce ed Einaudi? Principalmente nel comune amore per la libertà, per quella che Einaudi chiama la " città divina ", che ha per fondatori Socrate e Cristo, e per nume tutelare la Diversità. È questo amore che ha dato ai due uomini la forza per combattere durante tutta la loro vita contro il fascismo, così come contro ogni regime autoritario e dittatoriale e quindi contro il comunismo. E questo nonostante le loro diversità - ma ciò nonostante quante somiglianze: l'amore per i classici e per la buona lingua; l'intelligente erudizione; la pratica dello scrivere pulito e del ragionare chiaro e coraggioso; l'antipatia per tutto quanto sa di retorico e di impreciso.
Quanto alle divergenze - Croce è un filosofo, Einaudi uno studioso di economia e un polemista politico. Per Croce, la libertà è un principio assoluto, religioso, che assorbe in sé tutto il resto della realtà. È il bene contro il male. Esprime i valori spirituali superiori contro la facultas appetitiva inferior, contro il diavolo dell'utile e della politica, che incute ad un tempo ripugnanza e rispetto. Se esso infatti insidia perpetuamente il bene, esso è anche inconsciamente condizione e stimolo di bene. Ad un patto: che assecondi lo svolgimento della vita morale. Se per contro la intralcia, determina la rivolta dell'individuo e dello Stato, che non è che una somma di individui senza particolare dignità propria, contro se stesso. La politica è dunque in Croce il dispiegarsi delle forze vitali e " diabo-liche ", in una perenne dialettica con le forze morali, che riassumono in sé il bello, il vero e il giusto. Come debba operare tale dialettica all'interno dei singoli momenti dello spirito, e soprattutto in quello della vitalità, resta a questo punto oscuro.
Per Einaudi, anche se non esiste una struttura politica la quale possa garantire di per sé la libertà, è certo che la coscienza politica e le strutture che ne dipendono non sono mera vitalità, ma un insieme di vivo sentimento morale; di amore di patria; di fierezza individuale; di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione; di indipendenza economica - tutte forze che il politico esalta e utilizza a fini pubblici.
Torniamo a Croce: come principio assoluto, religioso, della realtà, la libertà, secondo Croce, non può rigettare a priori nessun esperimento di vita economica e sociale. Essa non ha, e non esprime in astratto (si noti: "in astratto"), preferenza alcuna per un regime economico fondato sull'iniziativa privata e sul capitale, piuttosto che per un'economia controllata o un'economia di Stato, per un socialismo temperato o per il comunismo. Donde la negazione pregiudiziale che il liberalismo sia di sua natura conservatore o comunque vincolato a una forma particolare di vita e di struttura economica, come a dire il liberismo o il capitalismo.
In Einaudi, l'indipendenza della libertà da questo o quel regime economico, liberista o socialista, si accompagna invece con la solenne dichiarazione che, se alla radice dell'azione degli uomini vi è la libertà morale, non è possibile che essi creino istituti economici che, come il comunismo, li riducano alle condizioni di servi. Che la libertà, vigorosa o compressa, sia sempre e dappertutto presente, è vero per Einaudi come per Croce. Ma Einaudi distingue fra la libertà del Santo, dell'Eroe, dell'Anacoreta - liberi anche se carcerati, esuli in patria o rifugiati nelle foreste del mondo - e la libertà dell'uomo comune. La prima è possibile anche sotto un tiranno, capitalista o comunista che egli sia. La seconda no. Essa non vive solo nel forointcriore di pochi eletti, ma è reclamata dal cittadino comune, dalla maggior parte degli umani che vogliono godere della libertà pratica: quella di pensare ad alta voce, di scrivere e di pubblicare quel che a ognuno viene in mente senza esser diretto da un'autorità superiore coattiva; di operare e lavorare e muoversi senza obbedire ad altre regole se non a quelle dichiarate in leggi scritte, deliberate da organi legislativi eletti secondo la volontà liberamente e segretamente manifestata da tutti gli uomini. Perciò l'uomo della strada identifica la libertà con uno stato di cose in cui non esiste il tiranno, il miglior argine contro il quale è un numeroso e prospero ceto medio, mentre lo favoriscono i regimi con pochi ricchissimi e una moltitudine di nullatenenti.
La visione di Einaudi è perciò una visione più concreta di quella di Croce. Non ha di quest'ultima la carica suggestiva che le proviene dalla visione filosofioa che trascina con sé la visione politica. Ma non ne ha neppure la estrema conseguenzialità. L'esaltazione crociana dei processi storici di rivolta come dimostrazione della compatibilita fra comunismo e ideale liberale appare ad Einaudi addirittura " una barzelletta ".
Il liberalismo - scrive Croce - è aperto alle più radicali innovazioni e, pur facendosi pensoso (sic) dinnanzi alle asserzioni ideali e politiche del comunismo, procura insieme soddisfazione alle sue richieste pratiche quando gli appaiono fondate e si trovano i mezzi per attuarle. Al che anche Einaudi annuisce, ma con grave preoccupazione dinnanzi a quelle richieste, che sono per lo più, se non sempre, strumenti della pretesa di impadronirsi ed esercitare un potere politico assoluto, di cui il comunista totalitario si serve non per il perfezionamento degli uomini, ma per accrescere il potere proprio. Perché se, oltre al potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per qual mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall'usarne?
Che la realtà in cui siamo immersi non sia né intieramente liberistica né intieramente socialistica, è palese ad entrambi, Croce ed Einaudi. Ma per il primo ciò va da sé e non ha quindi molto rilievo; mentre il secondo si sforza a più riprese di dimostrare la esistenza di un " punto critico " oltre il quale il liberalismo cade nel socialismo. E a quel " punto critico "se ne aggiunge un altro, oltre il quale il liberalismo cade nel conservatorismo.
Fissati così gli steccati della polemica, conviene esaminare più da vicino il pensiero di ciascuno dei due contendenti.
Somiglianze e contrasti fra Croce ed Einaudi, particolarmente evidenti nel campo che qui trattiamo, non risalgono soltanto alle loro diverse attitudini e attività di filosofo e di economista, ma ad affinità e differenze nella natura stessa del loro pensiero. Perciò appunto il fondo del loro consenso-dissenso non è cambiato sostanzialmente in quei vent'anni della loro polemica.
Maggiore è per altro il cambiamento nella filosofia generale di Croce. Come ho già accennato, da un idealismo storicistico assoluto, che concepiva lo spirito articolato in quattro " momenti " - arte, logica, utilità e morale - collegati fra loro in una perpetua circolarità, e vedeva la filosofia risolta nell'indagine e nel racconto storico, Croce andò evolvendo verso un sistema in cui gli specifici contenuti spirituali dei diversi " momenti " dello spirito non andavano confusi fra loro o perduti, ma dove era assegnato alla morale un posto sempre più importante, tanto da finire col far di essa anche il motore dell'arte e della logica e quindi uno di due " momenti " dello spirito, l'altro essendo il " momento " della pura vitalità, alla cui pressione " diabolica " era affidata la funzione di mettere perpetuamente in moto la dialettica della realtà.
Non è qui il luogo di trattenersi su di ciò e su antiche difficoltà a comprendere, in particolare nella prima forma della filosofia crociana, il rapporto fra i " momenti " dello spirito e quelli da lui definiti " pseudo-concetti " (come, ad esempio, la retorica quale arte del chiaramente e gradevolmente esporre; il diritto, sia pubblico, sia privato; la scienza matematica e fisica, psicologica e biologica, economica e militare e politica; la precettistica morale e i suoi diversi gradi e così via) - tutti da Croce abbassati a semplici strumenti " empirici ", utili solo " pour causer le monde". Ma come si giustifica tale utilità se gli pseudoconcetti sono privi, per Croce, di una luce di verità che li irradii o che da essi si irradii e quindi sono filosofica-mente inesistenti? Mentre a me e ad altri pareva e pare impossibile comprendere senza di essi la realtà presente e la storia, e quindi la filosofia stessa, crocianamente intesa come " metodologia della storia ". E ci si chiedeva quindi quale posizione assegnare ad essi nella logica della filosofia. Non era cioè chiaro, nel pensiero crociano, il nesso, per esempio, fra azione politica e pensiero politico, neppure nella formulazione di " etico-politico " che domina l'ultima parte del suo pensiero - una formulazione ben diversa dalla definizione della politica come mera utilità che ne dominava invece la prima parte.
È vero che c'è anche in questo libro uno scritto di Croce nel quale la libertà è analizzata per gradi. Primo grado: la libertà come principio dell'universo, libertas sive Deus, lo spirito come autore del tutto e di tutto. Secondo grado: la libertà come la concezione di se stessa quale principio della storia, in contrasto con altre concezioni, tutte ad essa inferiori, poiché è tale che non se ne può concepire un'altra. Terzo grado: la libertà come concetto filosofico in una generale concezione della realtà. A ben riflettere, questi non sembrano però essere tre gradi, tre momenti della libertà, attraverso i quali si passi dal principio motore dell'universo al fatto singolo. Sono tre aspetti di un principio assoluto, e quindi non aiutano nella ricerca filosofica di una via di passaggio da esso al fatto singolo.
Non ci rimane dunque, in tale quadro, che riprendere, sotto la guida di Croce filosofo storicista, l'esposizione dello sviluppo della nostra civiltà. Questa muove dagli albori di una concezione liberale nella Grecia di Pericle e di Socrate e nella Roma degli Scipioni e dell'Impero sino a Marco Aurelio. Cresce, tale concezione, attraverso il cristianesimo, che fa di ogni uomo e di ogni donna un fratello e una sorella in Dio, senza distinzioni di sesso, di nazionalità o di classe. Cresce attraverso l'insegnamento morale dei grandi ordini monastici e la vitalità disordinata dei regni romano-germanici in cui si mescolano, nel crogiuolo del cristianesimo, i ricordi vivi della civiltà antica con i fermenti vitali di una barbarie libera dal peso di troppi secoli di oppressione burocratico-militare. Giunge, quello sviluppo, alla lotta fra la Chiesa e l'Impero e alla cavalleria - e poi di mano in mano, attraverso le Monarohie feudali e i Comuni italiani e del Nord-Europa; attraverso il Protestantesimo, le Monarchie assolute e la rivolta contro di esse che scoppia in Inghilterra nella prima metà del Seicento, sialimenta della filosofia da Locke a Hume e a Kant, prorompe nel puritanesimo politico e nell'illuminismo, nella rivoluzione americana e in quella francese; è represso e al tempo stesso diffuso dal " geniale despota ", Napoleone: sbocca infine nella vittoria delle libere nazioni e delle libere classi nel secolo XIX.
A questo punto, e in particolare a partire dalla fondazione del rinnovato e moderno Impero germanico e per l'intreccio dello spirito e dell'opera di Bismarck con il comunismo marxista, si entra - nella narrazione crociana - in un periodo ove la libertà si affievolisce, sia per aver essa troppo trascurato il momento della forza che predominava in Bismarck (mentre in Cavour l'ispirazione morale, l'abilità politica e l'impiego della forza si tenevano in mirabile equilibrio), sia, e soprattutto, per l'aftievolimento dell'ispirazione morale che l'aveva sorretta nei suoi trionfi. E si giunge così al moderno conflitto di ideali religiosi, che vede da un lato la concezione liberale e dall'altro l'autoritaria, sia essa comunista o fascista. Un conflitto - nota Croce - che rende di nuovo attuale l'esigenza della libertà e
necessari i partiti liberali che la sostengono.
Partiti liberali - scrive Croce - che sono in sostanza dèi " pre-partiti ", in cui domina la concezione morale che si ritrova di necessità, ma in misura minore e in forme diverse, in tutti gli altri partiti. Partiti liberali che non possono articolarsi in una destra e una sinistra (che sarebbero già partiti ; diversi, " quasi liberali "); che neppure possono avere programmi se non contingenti, dovendo esaminare i problemi man mano che nascono e man mano proporne le soluzioni e battersi per esse. Concezione, questa, analoga al rifiuto crociano di considerale l'individuo, e in generale le istituzioni (l'individuo è, in Croce, una istituzione) come realtà aventi valore filosofia). Rifiuto e visione dei partiti che ci riporta, in Croce, dalla storia ispirata in lui ad un profondo sentimento della concretezza, ad una visione in cui ritroviamo uno jato non superato fra un principio assoluto e i fatti della realtà. Perché se è vero che un liberale ritrova segni del suo pensiero in ogni altro partito e non cerca di scrivere un programma buono per tutti i luoghi e tutti i tempi - è non meno vero che la realtà si articola in istituzioni, compreso l'individuo-uomo. Il quale individuo-uomo è ricettacolo - come le altre istituzioni - di certe capacità e dicerte esigenze e si trova in certe situazioni che ne agevolano l'opera ed in altre che la contrastano. Mentre le sue capacità e le sue esigenze, figlie di una lunghissima storia, sono anch'esse in piccola parte effimere o di breve durata e in parte durano invece per decenni o per secoli, evolvendosi più o meno lentamente e lasciando o no intravedere quali ne potranno essere in futuro i lineamenti. E perciò il liberale, se non immagina né l'individuo, a cominciare da se stesso, né lo Stato, né le istituzioni sociali ed economiche, come " nòccioli duri " della realtà, li conosce però come articolazioni, effettive della realtà stessa, su cui deve costantemente riflettere per bene conoscerle, e con cui deve costantemente fare i conti.
Tutto ciò appare evidente a chi, pur critico di alcuni aspetti del pensiero crociano nei termini che ho esposto, si immedesimi con la storia crociana della libertà e non trascuri certe sue giuste osservazioni sulla necessità della forza e di alleanze sociali perché la libertà possa affermarsi e resistere. Osservazioni che rendono anch'esse difficile comprendere perché Croce torni e ritorni con tanta insistenza sul diniego filosofica-mente assoluto di un rapporto fra il liberalismo e il liberismo, e attribuisca al primo la capacità di realizzarsi in qualsiasi regime economico, ivi compresi i regimi autoritari come il comunista e il fascista. Quando un regime liberale approva dei provvedimenti liberisti - scrive Croce - lo fa soltanto perché li trova confacenti alla libertà (ma - notiamo - non costitutivi di essa), sicché la loro validità non sta in loro stessi, ma nella funzione che la libertà attribuisce loro. Può darsi, " anzi così è " - aggiunge Croce - che il liberalismo approvi molte o la maggior parte delle richieste e dei provvedimenti del liberismo, ma esso li approva non per ragioni economiche o politiche, sibbene per ragioni etiche, cosicché la realtà ultima e vera rimane quella che ho più sopra ricordata.  Non credo di sbagliarmi se vedo quella insistenza - che sembra prescindere, in omaggio ad un valore tanto assoluto che non riusciamo a riscontrarne il nesso logico con la vita che ci circonda, la quale è contingente ma non perciò irreale - se vedo quella insistenza, dicevo, collegata con la situazione storica in cui fu pensata e argomentata e ribadita. Siamo allora negli anni seguiti immediatamente alla prima guerra mondiale.
La Santa Russia si è scrollata di dosso l'oppressione, la scarsa efficienza, la diffusa corruzione dello zarismo, ma lo ha fatto in virtù di un marxismo-leninismo che - pur asserendo o più veramente sognando un futuro inafferrabile di libertà assoluta ed anarchica - coniuga intanto in sé l'oppressione politica e spirituale dello zarismo con un regime economico e sociale marxista non meno autoritario e corrotto ed oppressivo. Sono gli anni in cui il fascismo ha abbattuto in Italia la democrazia liberale, sfruttando disillusioni e rancori ed abitudini di violenza maturate nella guerra, e valendosi del timore suscitato in larga parte delle classi dirigenti, e in particolare in quelle eco-nomiche, dalla presa del potere da parte del comunismo nella Russia sovietica e da alcune sue disordinate manifestazioni anche in Italia, a cui la menzionata democrazia liberale non si è opposta contrapponendo violenza a violenza. E il fascismo -che sotto forma di irrazionalismo nazionalìstico e sociale fermentava già nella cultura e nella vita italiana - ha sostituito la democrazia liberale con l'oppressione politica e spirituale, unita con un regime di crescente, duro privilegio a favore dei possidenti o degli amici del regime. Un regime in cui il rivestimento pseudoscientifico del cosiddetto " corporativismo " non attenuava i mali dell'oppressione, anzi vi aggiungeva una frantumazione artificiale della società, ostile alla naturale varietà di un ordine economico libero e fonte di una incapacità a competere sui mercati mondiali, a cui dava il nome di autarchia, e che accentuava all'interno del nostro paese il carattere monopolistico e in misura crescente statalistico dell'economia. Anni in cui fu coniata una parola nuova e non ambigua, quella di " totalitarismo ", per qualificare un regime in cui lo Stato aveva sulla società una presa " totale ", nulla o quasi nulla lasciando alla inventiva e responsabilità dell'individuo e dei suoi liberi raggruppamenti.
Si comprende, perciò, perché un uomo come Croce, a cui stava soprattutto a cuore l'affermazione della essenza spirituale della libertà, si preoccupasse di evitare che il comunismo fosse condannato non come " irreligione ", ma solo perché aveva abolito la libera iniziativa e la proprietà privata dei mezzi di produzione, e che il fascismo fosse accettato perché, mentre sopprimeva la libertà nei suoi aspetti etici e politici, ed in sostanza anche economici, accentuava nell'economia e nella società i privilegi dei capitalisti, dei proprietari di terre e dei dirigenti di azienda.
La insistenza di Croce, di cui sfugge la giustificazione sul piano della dottrina filosofico-politica, si rivela invece, in questa luce, ricca di insegnamenti e di suggestioni, per oggi e per il futuro. Il mondo è profondamente mutato fra gli anni Trenta e Quaranta ed i presenti anni Ottanta. Da un lato, il totalitarismo, integrale o annacquato, si è diffuso nel mondo in misura non prevedibile. C'è stato un momento, a cavallo della seconda guerra mondiale, in cui accanto alla Russia sovietica e all'Italia fascista si videro in Europa la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Francia di Pétain e di Lavai, il Belgio di Degrelle, la Norvegia di Quisling e, alla testa di questa sfilata di mostri, la Germania di Hitler. Nella Germania preda del nazismo - e cioè della forma più estrema di totalitarismo sperimentata dall'uomo - alla implacabile oppressione spirituale e politica si univa la folle esaltazione di una razza ariano-germanica fantasticamente pura, superiore ad ogni altra, e una folle e crudelissima oppressione omicida delle " ra2ze inferiori ", dagli ebrei ai polacchi ed agli zingari. E man mano che fra il '41 e il '45 la forsennata forza militare della Germania hitleriana perdeva terreno nelle armi, sia di fronte alle forze americane ed inglesi, sia di fronte all'esercito dei Soviet in cui non si era spento l'amore per la " Madre Russia ", il totalitarismo nella sua forma comunistica cambiava sì in parte le sue motivazioni verbali e il suo aspetto esterno, ma in sostanza univa gli orrori tedeschi a quelli russi e si imponeva come dominatore dietro la futura " cortina di ferro ", dalla Germania orientale alla Polonia; dalla Cecoslovacchia alla Romania e all'Ungheria; dalla Jugoslavia all'Albania; e minacciava la Grecia, preparando in essa la futura dittatura fascista dei colonnelli.
Fuori d'Europa, intanto, si verificava un'immensa rivoluzione, della cui portata presente, dei cui possibili sviluppi futuri e degli obblighi etici e politici ed economici che intanto ci impone, troppo poco forse ci rendiamo conto. Ad un mondo che all'inizio degli anni Quaranta era ancora quasi intieramente posseduto e governato o almeno controllato dalle nazioni dell'Europa occidentale e del Nord-America prevalentemente liberali e democratiche, si è andato sostituendo un Terzo Mondo indipendente (" Terzo " di fronte al " Primo " europeo e nord-americano e al " Secondo " dominato dall'Unione Sovietica) - e meglio si direbbe "Terzi Mondi", tante sono, pur nelle somiglianze, le differenze fra l'America Latina ed il Medio Oriente, fra l'Asia e l'Africa araba e nera. Non è soltanto per un capriccio nazionalistico che molti paesi del Terzo Mondo hanno cambiato nome e che diversi si sono scelti o hanno costruito ex novo una nuova capitale con un nuovo nome. Essi hanno cercato di dare, in tal modo, un carattere originale, più nazionale, a Stati le cui frontiere, ereditate dai passati dominatori colonialisti, sovente tagliano in modo arbitrario e brutale le vecchie frontiere naturali fra etnìe e tribù diverse per cultura e per religione.
Questo rapidissimo sguardo geografico-politico è lontano dall'esaurire l'immenso contenuto delle rivoluzioni del Terzo Mondo. I concetti liberali-democratici di individuo e di Stato, spesso ignoti in quelle terre fino a pochi anni fa e oggi ancora mal compresi, sono dappertutto rimessi in discussione. Si rifiuta l'oppressione coloniale e al tempo stesso si rifiutano i vecchi regimi tribali e i moderni regimi liberali. Si presta fiducia ai regimi cosiddetti socialisti, di cui non si vede o non si vuoi ammettere la realtà, creando intanto regimi " terzomondisti " che troppo sovente non hanno di " socialista " se non una confusa e corrotta oppressione ed inefficienza, fra burocratica e militare.
Nel profondo, agisce nel Terzo Mondo una rinascita sempre più accentuata, non di rado " fondamentalista " e fanatica, dei valori tradizionali di razza e di cultura, di religione e di nazionalità. Qualcuno, come il Giappone, riesce a conservarsi nel suo carattere proprio e ad essere al tempo stesso in testa nel progresso tecnologico e nella competizione commerciale e finanziaria. Altri, come ad esempio la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, il Brasile e l'Argentina, confondono in sé dittature interne mal dissimulate, civili o militari, sforzi di liberalizzazione e impegni di progresso tecnico. Altri ancora sono francamente in decadenza spirituale, politica ed economica.
In tutto ciò non cessa quella che Croce definiva " guerra di religione " fra il liberalismo e le formazioni politiche più o meno ad esso vicine, e dall'altro lato il comunismo sovietico e le molteplici dittature civili o militari, sostanzialmente fasciste. È vero che parte dell'America Latina o le Filippine si sono mosse, negli ultimi tempi, verso regimi di maggiore libertà; che a Pechino come a Mosca e in diverse capitali " satelliti " sembra diffondersi la persuasione che per poter progredire umanamente, o almeno economicamente e nello sfondo militarmente, occorre adottare certi strumenti del " liberismo " occidentale. Ma se questo sia possibile in paesi totalitari od autoritari e quali ne siano i limiti, non è finora chiaro. Mentre è visibile che i partiti comunisti dell'Occidente, dall'Italia alla Francia ed alla Spagna, sono travagliati dall'alternativa fra una crisi di trasformazione in senso socialista-democratico e una perdita di consensi che li indebolisce e li minaccia di estinzione. Mentre in non pochi grandi e piccoli paesi dell'Occidente la reazione contro gli eccessi dello statalismo assistenziale, dello " Stato sociale ", testimonia di una rinascita di spiriti liberali, anche se non di rado questi si mescolano con pulsioni conservatrici o reazionarie.
Quale deve essere di fronte a tutto ciò l'atteggiamento di chi ha fede nei valori liberali e democratici? Conviene innanzitutto tener presente il nòcciolo dell'insegnamento crociano: la libertà è il valore essenziale, tutto il resto nasce da essa, direttamente o per contrasto. Uomini e istituzioni contano come personaggi nella storia quando questa è vista nel suo passato, ma nella realtà della lotta presente e futura essi contano soprattutto per la volontà morale che li ispira. Fra liberismo e socialismo è certamente meglio il liberismo, ma possiamo accettare perfino alcune esigenze del socialismo nei casi e nella misura in cui ciò è possibile senza ledere la libertà. Il problema non è di intendere il già fatto (problema storico), ma l'altro, diverso dal primo, di cambiarlo, ossia di creare nuovi fatti nel segno della libertà (problema etico).
Anche fra i partiti, il problema non è di consentire che il carattere flessibile e non dogmatico che è particolarmente evidente nel " pre-partito " liberale ci trattenga dall'azione, ma al contrario di pensare ed agire con libertà per sciogliere i nodi del reale. A tale riguardo, Croce scrive più volte che un partito liberale, mentre non può sussistere in età di rispettata ed assodata libertà, deve raccogliere le forze ed operare nei tempi di libertà oppressa o insidiata o pericolante, e sia pure con la speranza che essa sopravviva ed il partito divenga o ridivenga presto superfluo.
Ci si domanda tuttavia, a questo punto, se la rivoluzione mondiale sia tale da consentire una definizione della pur amata concezione liberale, così ampia ed onnicomprensiva come la crociana, tale che rischia, come è stato detto di Spinoza, di diventare " a-cosmica ", distaccata dalla realtà e quindi logicamente e psicologicamente incapace di incidere in questa. Ciò che occorre è un'azione connessa con il pensiero e in sostanza dipendente da esso, e quindi un pensiero che venga alle prese con i singoli aspetti della realtà medesima. E ci si domanda se di fronte a tale rivoluzione si possa dare del compito liberale una definizione sostanzialmente " difensiva ", di restaurazione, e sia pure in forme nuove, di libertà perdute o in pericolo di perdersi.
Se da buoni liberali vogliamo imparare qualcosa anche da un Vaticano che non ci ama e meno ancora ci comprende e ci apprezza, possiamo guardare per esempio alla " Teologia della Liberazione " che è nata nei paesi più oppressi e miseri dell'America Latina e che ripone il compito della Chiesa nella liberazione di quei popoli dalla fame e dalla servitù, con la predicazione e anche con la violenza (i "preti-guerriglieri"). Guardiamo ad un papa, duro disciplinario, ma che accetta tale teologia e l'" opzione per i poveri ", purché col pane del corpo si dia loro anche il pane delio spirito - e quale liberale potrebbe dissentire, anche se ritiene di avere, del pane spirituale, una nozione più spirituale che non il papa? .-o Vado più lontano: la realtà che ci circonda in gran parte del mondo, è essa tutta ispirata da una reazione anti-liberale, tale da richiedere che il liberalismo riprenda le armi politiche e forse militari per contrastarla e vincerla? O non vi è in tale realtà - proprio alla luce del rifiuto crociano di legare filosoficamen-te liberalismo e liberismo - un moto di liberazione ancora incipiente, ancora confuso fra socialismo e liberalismo, fra religione della libertà e religioni più o meno di Satana? Il problema morale e politico che si pone a noi, uomini e donne della libertà, non è esso piuttosto un problema di conquista degli animi e di alleanze fra le esigenze della libertà e nuovi interessi vitali, e molto meno un problema di restaurazione di istituti e anche di spiriti di libertà minacciati o addirittura travolti? Era un mondo veramente libero quello del " liberale " secolo XIX, anche al suo apogeo, quando tutto l'Orbe, salvo parte dell'Europa e l'America del Nord, era governato, e spesso duramente governato, da governi autoritari come in Austria od in Germania, o da governi assoluti come lo zarista, o colonialisti come quelli di Londra e di Parigi? E non c'è il rischio - filosofico rischio - che in tale mondo sorpassato solo da pochi anni o decenni, il rifiuto di connettere organicamente liberalismo e liberismo - ciò che non vuoi dire connetterli in ogni caso e per sempre - assieme alla prescrizione di affrontare i problemi economici solo ad uno ad uno, fuori del riferimento ad un programma organico e collegato con i necessari valori spirituali di libertà - non c'è il rischio che tale posizione possa essere utilizzata per difendere atteggiamenti di sfruttamento economico da parte di élites occidentali impegnate a trovare una giustificazione morale nel loro rispetto per un regime di libertà politica ma non necessariamente economica? Una libertà politica, per altro, riservata ai membri delle élites medesime? E perché non sembri che si voglia divagare in semplici ipotesi: è molto diverso da ciò il regime che governa oggi l'Unione sud-africana, privilegiando i " bianchi ", tollerando i " colorati ", ed opprimendo i " neri ", scusandosi col dire che " sono pagati meglio " che non negli Stati africani indipendenti? A me sembra che il compito eli fronte a cui ci troviamo, noi uomini e donne dei paesi " liberi " dell'Occidente, sia grande e duplice. Non solo dobbiamo combattere all'interno dei nostri paesi affinchè le forze anti-liberali, reazionarie o con-servatrici, comuniste o socialiste, non logorino le libertà che esistono ed i popoli siano educati ad esse, e le rafforzino. Ma dobbiamo anche combattere affinchè le immense masse non libere e non democratiche, spesso violentemente anti-liberali (e che ci soverchiano già oggi per numero: fra poco più di un decennio, alla fine del secolo, saranno grosso modo 5 miliardi di esseri umani contro i miliardo) evolvano verso unareale liberazione e non sostituiscano invece l'oppressione antica con una oppressione nuova. Non è un compito né generico, né difensivo, e non si presta ad equivoci. Che cosa dovremmo limitarci oggi a difendere, e in nome di che? Dobbiamo invece, in nome di una libertà in formazione, risolvere in modo positivo, su un'area che abbraccia il globo intiero, problemi di equilibrio del tutto nuovi. Equilibrio fra razze diverse; fra credenti e miscredenti; fra colti e ignoranti; fra privato e pubblico; fra miseri e benestanti; fra benestanti e ricchi. Equilibrio fra cittadini dell'Occidente fino a ieri dominatori e oggi ancora in testa al mondo per volume di ricchezza prodotta e scambiata, e cittadini dei paesi novellamente liberati dal governo dell'Occidente stesso, ma confusi ed ignoranti e incerti circa il regime da darsi. Incerti se questo debba essere ispirato al " liberalismo ", pur se proprio dei passati dominatori " e perciò sospetto al Terzo Mondo, o ad un " socialismo " estraneo e non assimilabile dalla loro realtà umana e sociale, che li impoverisce e li indebolisce, rimettendoli nei lacci di governi tirannici e per di più privati delle loro antiche giustificazioni tradizionali e religiose.
Abbiamo visto che la convergenza di Einaudi con Croce sta in ciò, che per entrambi la libertà è il principio motore dell'Universo. Essa vive nel cuore degli uomini e li unisce in quel Dio " che a tutti è Giove ". Fuori di essa non vi è né vi può essere creazione del nuovo, e quindi progresso. Non dalla società che circonda l'uomo viene la libertà - dice Einaudi -ma dall'uomo stesso. La libertà non ha bisogno di particolari istituzioni giuridiche, di una particolare economia liberistica o di mercato, comunistica o programmata. Ma la convergenza con Croce si incrina quando Einaudi riconosce l'importanza dei vincoli che gli uomini viventi in società debbono porre a se stessi e alle loro collettività, affinchè non si cada nell'anarchia, nel caos, nel regno della giungla. Per Croce le istituzioni non hanno vera realtà, sono " pseudo-concetti ". Per Einaudi, esse sono fondamentali. Certo: l'uomo che ubbidisce alla voce della coscienza è libero. Ma è pur necessario che si sia liberi di agire non soltanto per comando dall'alto, e che gli eretici non siano messi 'al bando dall'acqua e dal fuoco.
In una visione così concreta della vita sociale, dei suoi contrasti, delle sue distinzioni e dei suoi motivi, Einaudi è portato ad un'analisi particolareggiata di quello che egli chiama il "punto critico". Comunistico - egli scrive - è quel qualunque provvedimento di apparente od anche reale giustizia sociale o di statizzazione che vada oltre il punto critico. Liberale è il provvedimento che riesca a stare sufficientemente al di qua di esso. Se si stabilisce, ad esempio, che i beni strumentali siano tutti, e non solo in parte, proprietà dello Stato, si è senz'altro in un regime comunistico, ben al di là del punto critico che segna il confine tra l'uomo liberale e l'uomo socialista o comunista che dir si voglia.
C'è anche un altro punto critico, e cioè quello che segna il confine fra l'uomo liberale e l'uomo conservatore o reazionario che dir si voglia. Quest'ultimo non si contenta, come si diceva una volta, di ritenere che bisogna cambiare solo quando ciò è inevitabile. In un mondo dove in questa inevitabilità si incappa un giorno si e l'altro ancora, il conservatore finirebbe col diventare sovente un liberale. Il punto critico è superato invece ogni volta che si rifiuta un provvedimento solo perché cambia lo status qua, o perché giova ai meno abbienti a danno dei più ricchi. Oppure si richiede un provvedimento perché crea o consolida un privilegio per chi già possiede più del giusto, sia esso un capitalista o un burocrate, un ente pubblico o un ente privato. Per essere buona, una misura deve restare fra i due punti critici, non oltrepassare né l'uno né l'altro e neppure, come non di rado accade, l'uno e l'altro insieme. .,
j.,Ed anche qui, l'ultimo mezzo secolo ha cambiato grandemente, per Einaudi come per Croce, la realtà a cui si applicano tali ragionamenti. Non che questi si siano disseccati o siano morti. Ma anche ad un argomento ancora valido può essere necessaria una messa a punto più o meno grande se la materia a cui si applica diventa molto diversa. Anche la matematica, mi dicono, è un'altra da quando hanno scoperto i quanta, e con la matematica tradizionale è cambiata anche la logica a cui già i filosofi, da Vico a Kant e da Hegel a Croce, avevano cambiato, e non poco, i connotati.
Tenersi fra i punti critici è un esercizio di cui i primi esempi si trovano in Adamo Smith. Chi non ricorda come egli anteponga la difesa del Regno alia sua prosperità? Come critichi aspramente l'inclinazione dei produttori a formare cartelli e a godere di monopoli? Caso per caso (Croce ha ragione), ma secondo principi costanti (Einaudi ha ragione), bisogna calcolare con argomenti economici, sociali, politici, militari, morali, religiosi, quale sia l'equilibrio migliore fra l'intervento dello Stato e l'iniziativa dei privati. Quale tipo di intervento? Quale tipo di iniziativa? In generale, è noto, l'iniziativa dei privati è più efficiente e serve meglio la libertà, tenendo l'aria sgombra, o pressappoco, dai miasmi del burocratismo e della corruzione. Ma in certi casi, tale iniziativa non basta, o addirittura non si mette in moto se lo Stato non provvede con leggi e con risorse. E in qualche altro caso, solo lo Stato è sufficientemente indipendente da interessi singoli, ha il prestigio e l'autorità legislativa necessari perché certe cose non restino sulla carta e nel libro dei sogni.
Una volta, in una società più semplice, con una tecnologia più lenta a muoversi e meno sofisticata, il giudizio era più facile. Oggi è diventato a volte terribilmente difficile. Non si tratta solo di vincere pregiudizi statalistici o privatistici. Si tratta di arrischiare giudizi, di prendere decisioni e di investire risorse fondandosi su dati necessariamente incerti.
Facciamo un esempio: l'energia atomica. Ci sono Stati privi o quasi di carbone e di petrolio, che hanno puntato quasi tutto sulle centrali nucleari, per esempio la Francia. Ce ne sono altri, come l'Italia, che non hanno né carbone né petrolio e che in campo atomico hanno fatto pochissimo e pochissimo programmato e inclinano a non fare neppure i modesti passi nuovi previsti. Chi ha ragione? Quali sono i rischi, se dall'Ucraina la nube di Cernobyl è giunta sulla Svezia, e poi sull'Italia? Ci sono alternative all'energia nucleare? Sì, dicono alcuni. Ma sono limitate, dicono altri. Una sola cosa è certa: che non vi è certezza. Anzi, una ce n'è, e cioè che senza energia nucleare i nostri costi di produzione sono destinati a diventare meno competitivi di quelli altrui. Dove è in questo caso il punto critico che divide gli uomini moderati dai conservatori, che darebbero briglia sciolta ai costruttori (che, fra l'altro, sono piuttosto pubblici che non privati)? E quello che divide i moderati dai socialisti che in questo caso non vogliono far nulla, neppure - ripeto - se il costruttore è pubblico? E dove mettiamo i " Verdi " che sognano un idillico mondo di ieri, senza atomo e senza carbone, e magari senza petrolio, " senza bastonati né bastonatori ", come diceva padre Cristoforo al pranzo di don Rodrigo?
Un altro esempio: l'ambiente. Siamo tutti d'accordo che occorre tutelarlo, anche al di fuori dei sogni dei "Verdi". Ma chi decide che cosa occorra fare? Chi prende gli indispensabili accordi internazionali? Chi paga: il produttore che contamina, o l'ente pubblico che deve controllarlo e quindi, in definitiva, fa pagare, attraverso le tasse, il cittadino contaminato? Che magari è anche un contaminatore in un altro settore?
I casi si moltìplicano. Come organizziamo il governo del territorio? O la programmazione di risorse limitate di fronte al moltipllcarsi delle richieste? Quali debbono essere i rapporti fra i cittadini, lo scienziato-ricercatore, l'imprenditore interessato, lo Stato? Che facciamo della bio-tecnica, dei bambini concepiti in provetta o nell'utero di una mamma a prestito? Delle cellule " donate " e trasformate in esseri nuovi dal contegno imprevedibile? O dell'Aids, con la sua orribile minaccia, con i possibili controlli e divieti alle frontiere; con i contraccettivi che il Vaticano non vuole, in questo caso come in altri, anche quando si tratta di contenere, in quattro quinti del mondo, una peste di nuovo genere ed una esplosione demografica disastrosa e che sembra inarrestabile?
La difesa della libertà, dello spazio fra i due punti critici diviene sempre più difficile. E poi: ci sono punti critici generali? o sono per settore? e per che genere di settore: geopolitico? economico? corporativo? e come si intrecciano fra settore e settore?
Anche qui, il compito degli uomini e delle donne libere è grande e molteplice. Debbono tener fermo il principio dei punti critici. Debbono coltivare un " pregiudizio favorevole " per l'iniziativa privata. Ma debbono evitare il vizio di proclamare che " privato è sempre bello e pubblico è sempre brutto " - anche perché ci sono casi dove il pubblico sembra privato -e ce ne sono altri, aggiungo, dove il privato sembra pubblico.
e ne sfrutta i vantaggi, mentre non lo è. Infine, bisogna battersi senza tregua perché di volta in volta si conosca per deliberare (altro precetto einaudiano). Non è agevole. I pregiudizi; gli interessi singoli ed egoistici; gl'interessi travestiti da pregiudizi; le passioni e i dogmatismi - tutto ci si mette per traviare chi insiste per un giudizio fondato ed equo - sissignori, anche l'equità è di casa, là dove una decisione può far guadagnare a Tizio e perdere a Caio, con ragione o senza.
Si apre qui a chi abbia fede nella libertà e nella democrazia uno spazio più grande che non sembrasse a Croce o ad Eìnaudi. Non si tratta soltanto di difendere o di recuperare aree di libertà. Di rimanere entro i punti critici. Si apre un contenzioso nuovo, in settori nuovi ed imprevisti. Occorre più che mai, nell'interesse generale, avere connaturato il senso del rischio, il senso della complessità, il senso della variabilità dei dati di ogni problema. Occorre che si ami la Libertà, che è creatrice, e non si respinga la Comunità, che è necessaria, e che al di fuori di pregiudizi ha interesse a non caricarsi di compiti e di responsabilità, anche politiche, praeter necessitatevi.
Voglio conchiudere questa introduzione con un esempio dove privato e pubblico; libertà, liberalismo e liberismo si intrecciano in modo tale da sfuggire alla più fitta rete definitoria. Si tratta dei grandi trasferimenti internazionali di risorse. Quelli che fecero crisi nel '30-35. Quelli che presero la forma del Piano Marshall nel '50-55. Quelli che affliggono dal 1975 in poi il Terzo Mondo, i 1200 miliardi di dollari che esso deve alle grandi banche internazionali.
Fra il 1928 e il 1929, dopo un anno di pratica a Venezia, in Calle Larga vicino a San Moisè, ero " allievo funzionario " presso la rappresentanza di Berlino della Banca Commerciale e poi, per suo conto, presso una eccellente banca tedesca d'affari. Un amico di Cracovia, imparentato a Vienna con l'alta banca e l'amministrazione asburgica - un amico destinato ad una bella carriera di consulente finanziario autonomo a Nuova York - era stagiaire anche lui presso una delle grandi banche berlinesi. Ci colpiva entrambi il fatto che un paese malamente battuto pochi anni prima in una guerra che lo aveva dissanguato; passato attraverso una rivoluzione radicale e una inflazione disastrosa - che questo paese fosse così carnalmente lieto e gaudente, intellettualmente così attivo, innovatore e vario. Si mormorava - è vero - di un certo Hitler, a cui si diceva che il console dell'Italia di Mussolini allungasse ogni tanto qualche sussidio. Ma nel frattempo il mio amico polacco si era fatto intimo, nell'istituto dove lavorava, del presidente e di alcuni dirigenti, fra cui il direttore delle valute. Un giorno, in un piccolo ristorante della Behrenstrasse, mi confidò che aveva visto la vera posizione di cambio della " sua " banca, quella che era nota ufficialmente soltanto al presidente e al surricordato direttore delle valute, ma affidata non ufficialmente anche alla memoria di lui, stagiaire. Arrivammo alla conclusione che una situazione che mostrava al passivo debiti immensi a brevissimo termine con banche americane, svizzere, inglesi e persino italiane (poco), e all'attivo prestiti a comuni ed aziende tedesche per investimenti a lungo termine; che una tale situazione era intenibile. Poi tornammo al nostro Sauer-kraut ed alla birra bionda.
Un anno più tardi fui chiamato in segreteria a Milano e lì vidi ed udii arrivare da ogni parte del mondo i segnali d'allarme e i bollettini di sconfitta. Che cosa era avvenuto? La guerra e l'inflazione avevano distrutto in Germania e nei paesi vicini gran parte delle infrastrutture pubbliche e delle risorse industriali. Con uno sforzo immenso, consule Schacht, la Germania aveva ricreato una moneta stabile e un bilancio pubblico più o meno in equilibrio. Ma la voragine nelle risorse reali rimaneva. E ai banchieri dei paesi ricchi, carichi di depositi in dollari, in sterline, in franchi svizzeri - frutto in buona parte degli utili accumulati dalle industrie di guerra - non era parso vero di prestare a breve scadenza (o folle e solo apparente prudenza!) alle banche tedesche, uscite vive dalla crisi, somme enormi, molto superiori alle loro reali capacità di prestare a loro volta le somme ricevute a scadenze effettivamente corrispondenti a quelle dei loro debiti. Tutto - salvo il risanamento della moneta e del bilancio - era stato opera privata, " liberistica ". E finì male, con una crisi bancaria e finanziaria internazionale che durò fino a quasi la seconda guerra mondiale (1939). Ne sappiamo qualcosa noi, in Italia, dove la diversa, ma simile malattia delle grandi banche e dei loro maggiori clienti industriali fu medicata fra il 1931 e il 1933 dall'intervento pubblico, sollecitato dai privati e concesso non troppo volentieri dal regime fascista. Dico: medicata - perché una vera guarigione non si ebbe che assai più tardi, e qualche segno dell'infermità persiste tuttora, soprattutto nell'" eccesso" in Italia (ma non solo in essa) di non necessarie partecipazioni statali e di enti economici pubblici poco efficienti e non di rado in perdita, malgrado il monopolio concesso loro in settori essenziali.
Passarono una decina d'anni - all'incirca dal '37 al '47 - finché una seconda guerra mondiale determinò in tutta Europa una situazione di vuoto di risorse più estesa e più profonda, ma analoga a quella del primo dopoguerra nell'Europa centrale. Questa volta, tuttavia, negli anni Cinquanta, si operò in modo diverso. La memoria del " caso tedesco " degli anni Trenta e delle sue conseguenze; la maggiore rovina e il risentimento politico più acuto; la migliore organizzazione dei sistemi ban-cari e la molto maggiore esperienza e potenza americane -tutto concorse a far comprendere che quel " vuoto di risorse " non aveva carattere bancario e non poteva essere colmato con mezzi privati, ma che occorreva un trasferimento di risorse da Stato a Stati. Nacquero così l'lnterim aid, l'aiuto immediato e provvisorio degli Stati Uniti all'Europa, e poi il Piano Marshall (che parve dover coinvolgere anche alcuni paesi dell'area di Mosca fino a che questa non mise il suo veto) e poi l'OECE, Organizzazione europea di cooperazione economica.
La natura pubblica degli aiuti americani portava in seno anche un'altra grande novità. Se il donatore era uno, molti erano i beneficiari. Su proposta americana, si convenne che la ripartizione dell'aiuto fra gli Stati europei e l'utilizzo dei fondi in ogni Stato e in ogni settore fossero compito dell'OECE e cioè dei paesi europei che ne facevano parte. Ciò comportò - altra novità importante - che, sviluppando la collaborazione economica fra alleati nata e cresciuta con la guerra, l'OECE e i suoi membri adottassero una tecnica di programmazione flessibile, non coercitiva e non dettagliata, ma di molta influenza sulle decisioni degli operatori economici privati, e un inizio di graduale, rinnovata convertibilità delle monete, precorritrice del futuro SME, Sistema monetario europeo. Tutto ciò, se aveva forma e contenuto economici, era però ispirato dalla volontà di realizzare un'unione anche politica fra gli Stati europei - incoraggiando così, fra l'altro, la nascita e il successo del Piano Monnet di messa in comune del carbone e dell'acciaio tra Francia, Germania, Paesi Bassi e Italia - donde altri sviluppi che ci hanno condotto alla Comunità Europea e alle sue vicissitudini tutto sommato più positive che negative; all'Europa dei Dodici e non più solo dei Sei, e domani, forse, anche più larga; all'Atto Unico di Lussemburgo e all'impegno di formare entro il 1992 un " grande spazio unico " europeo.
L'operazione Marshall, con le sue conseguenze dirette ed indirette, fu decisiva in molte direzioni. Non fu astrattamente "liberistica", ma ancora meno fu "statalistica". Combinò le forze dello Stato e dei privati. Con i mezzi dello Stato americano rimise in moto in pochi anni l'industria, l'agricoltura e i traffici privati europei. Incoraggiò il moto verso l'Unione Europea, anche se non bastò da sola a crearla. Incoraggiò indirettamente la nascita in Europa del " compromesso socialdemocratico " che fu alla base dello Stato assistenziale - il compromesso fra liberismo e statalismo - ma non dei crescenti e pericolosi eccessi di quest'ultimo e della reazione che oggi dappertutto si nota.
Passarono di nuovo parecchi anni - diciamo all'inarca una decina, fra il '60 e il '70 - e il mondo si trovò di nuovo din-nanzi ad una richiesta rapidamente crescente di risorse militari ",r e civili da parte dei paesi del Terzo Mondo, che avevano intanto acceduto all'indipendenza dai loro passati dominatori colonialisti. D'improvviso, i grandi produttori di petrolio, stanchi di vendere a prezzi assurdamente bassi una materia prima divenuta essenziale e di consumo crescente, si unirono in un cartello, l'OPEC, Organizzazione dei paesi produttori di petrolio, e portarono il prezzo, in un primo tempo, nel 1973, da i,80 dollari US al barile a 11,65; in un secondo tempo, nel 1981, lo aumentarono ancora fino a 34-. Seguirono le naturali conseguenze "privatistiche ": lo sviluppo di tecnologie che permisero in Occidente e in Giappone un sensibile minor consumo malgrado l'aumento della produzione industriale e dei trasporti, ed in pari tempo una grande crescita degli impianti di produzione elettrica basati sull'energia nucleare e in qualch emisura sul carbone. Così che oggi (1988) il prezzo del petrolio è sceso e si aggira su dollari US 17- al barile. Ma nel frattempo, e soprattutto nei primi 8-10 anni, i paesi dell'OPEC avevano incassato somme gigantesche in dollari. E non avendo per questi, se non in parte, un uso diretto ed immediato, li depositarono nelle grandi banche internazionali, soprattutto nord-americane. Le quali non ricordarono la lezione negativa degli anni Trenta e quella positiva degli anni Cinquanta. Trovandosi a disporre di immense e impreviste somme liquide, ed
avendo dinnanzi a sé nuovi possibili debitori sempre più insistenti nelle loro richieste, premute dalle immediate considerazioni del conto profitti e perdite - e non senza, temo, qualche pressione politica di una Washington intesa al potere e dimentica delle sue funzioni di controllo del sistema bancario - si imbarcarono di nuovo, come negli anni Trenta, in una politica di finanziamenti a breve termine di operazioni visibilmente a termine lungo e non di rado non self-liquidating, neppure in prospettiva. Un finanziamento smodato, dimentico di una regola elementare e cioè quella di non prestare al di là della verosimile capacità del debitore di pagare gli interessi e di rimborsare entro una scadenza corrispondente a quella dei mezzi a lui prestati. Donde l'attuale mole enorme dei debiti
del Terzo Mondo, circa 1200 miliardi di dollari, con le complicazioni e tensioni che ne derivano, nel politico come nell'economico. In altri termini, le banche si lasciarono governare, in regime reaganiano, da considerazioni in cui confluivano il liberismo economico e l'arroganza del potere e della ricchezza, e faceva invece difetto l'osservanza dovuta alle buone regole del gioco, agl'interessi dei depositanti e dei debitori e alle verosimili ripercussioni negative dell'errore in campo politico e mega-economico.
Quali conclusioni dobbiamo dedurre dalle due rivoluzioni che abbiamo ricordato? L'una, quella del Terzo Mondo, in calce a Croce? L'altra, quella dei "punti critici", in calce ad Einaudi?
Bastano pochi lustri per render necessario un aggiornamento profondo delle nostre dottrine e della nostra azione politica ed economica. Con un po' di attenzione, si scorgono i tratti principali delle novità e la natura intricata dei nostri compiti. Abbiamo cercato di indicarli. E come grandi esempi abbiamo ricordato le tre mega-lezioni sulla inscindibilità di privato e di pubblico a livello della finanza mondiale, che la realtà ci ha dato fra gli anni Trenta ed oggi. Una triplice lezione che sembra influire oggi positivamente, sìa sull'atteggiamento delle banche creditrici e degli Stati debitori, sia su quello del Fondo monetario internazionale che si rende meglio conto delle esigenze psicologiche oltreché tecniche che si impongono a chi sorveglia e se del caso soccorre il 'sistema bancario e monetario globale. Auguriamoci che ciò torni di utilità al mondo intiero.


GIOVANNI MALAGODI

 

 

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