Benedetto Croce - Luigi Einaudi

 

Liberismo e liberalismo

 

B. Croce - Il presupposto filosofico della concezione liberale

 

Apparso nel 1927 negli Atti della Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, l'anno seguente il saggio fu ristampato come capitolo introduttivo in Aspetti morali della vita politica. Appendice agli Elementi di politica (Bari, Laterza, 1928, pp. 7-19), da cui si riproduce.
Le riserve e il dissenso di Luigi Einaudi recensore del volumetto di Croce sono nell'articolo Dei concetti di liberismo economico e di boghesia e sulle origini materialìstiche della guerra (in " La Riforma sociale", settembre-ottobre 1928), parzialmente ripreso in questo volume.

 

È probabile che qualche lettore dei miei Elementi di politica abbia provato come un senso di disorientamento, o almeno di meraviglia, nel percorrere il giro che vi è delineato della filosofia della politica, senza vedervi trattata, e nemmeno toccata, una dottrina così cospicua, che ha avuto tanta parte negli ultimi secoli della storia europea, e l'ha ancora, qual'è la concezione liberale. È stato bensì, in quella trattazione, definito il momento della libertà come necessario in ogni forma di vita e inscindibile da quello stesso di autorità, che non sarebbe senz'esse, non potendosi dare autorità se non verso ciò che è vivo, e vivo è soltanto ciò che è libero. Vi è fatto accenno al partito liberale, ma come a semplice partito tra i partiti, senz'alcuna prerogativa rispetto agli altri negli intrecci della lotta politica, e soggetto alle leggi stesse degli altri tutti. Vi è messa in un fascio, con le altre astrazioni giusnaturalistiche, la ricerca dello " stato ottimo ", e perciò anche la determinazione di quello liberale come stato ottimo, perché ogni forma particolare e storica di stato è degna di nascere e degna di morire, si attua tra contrasti e lotte, e cede a nuove attuazioni e a nuovi correlativi contrasti e lotte. Ma la concezione liberale, propriamente detta, è rimasta fuori del quadro di sopra tracciato. Perché?
Perché, in verità, questa concezione è metapolitica, supera la teoria formale della politica e, in certo senso, anche quella formale dell'etica, e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà. L'omissione, dunque, che se n'è fatta innanzi, non è disconoscimento della sua importanza, ma, per contrario, un modo implicito di riconoscerla pertinente a una sfera diversa e superiore.
In effetto, in essa si rispecchia tutta la filosofia e la religione dell'età moderna, incentrata nell'idea della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità e l'opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato. Su questo fondamento teoretico nasce la disposizione pratica liberale di fiducia e favore verso la varietà delle tendenze, alle quali si vuole piuttosto offrire un campo aperto perché gareggino e si provino tra loro e cooperino in concorde discordia, che non porre limiti e freni, e sottoporle a restringimenti e compressioni. Concezione immanentistica, che scaturisce dalla critica della concezione opposta, la quale, dividendo Dio e mondo, ciclo e terra, spirito e materia, idea e fatto, giudica che la vita umana debba essere plasmata e regolata da una sapienza che la trascende e per fini che la trascendono, e, in primo luogo, dalla sapienza divina e dagli interpreti e sacerdoti di essa, e per fini oltramondani. Donde anche l'opposta disposizione pratica, che si chiama autoritaria, e che diffida delle forze spontanee e tra loro contrastanti, cerca di prevenire o troncare i contrasti, prescrive le vie da seguire e i modi da tenere, e prestabilisce gli ordinamenti ai quali conformarsi. Non è già, la concezione autoritaria, una concezione, sic et simpliciter, immorale, ma di altra e inferiore morale, sorgente sopra altri e inferiori presupposti teoretici, e, come tale, vede la sua diretta nemica nella concezione liberale, contro cui (senza parlare degli espressi e solenni cartelli di guerra o " sillabi ") è sempre convulsa di odio e di paura, e procura sempre d'infliggerle tutto il danno che può, non cessando di avventarle strali avvelenati e di chiamare a raccolta in sua offesa i malcontenti della più diversa sorta, profittando di ogni difficoltà nella quale la scorga impigliata. A ragione, perché l'opposizione tra le due è irremissibile, in quanto non volge sopra cose particolari, che ammettono pratici compromessi, ma sulle cose ultime, che non ammettono compromessi, come contrasto che è di religioni, nel quale quella liberale e immanente si annunzia all'autoritaria e trascendente in aspetto di giustizierà e seppellitrice, pietosa in quest'uffizio e disposta a procedere con tutti gli onori verso la veneranda defunta o moritura, ma che, nonostante questo o appunto per questo, non può aspettare di essere accettata da lei con lietezza o con rassegnazione. Vero è che vi sono, o vi sono stati, cattolici-liberali, e segnatamente la storia italiana del secolo passato ne ha offerto nobilissimi esempi; ma né essi ebbero mai l'approvazione degli ortodossi (il liberalismo dei gesuiti fu, com'è noto, un mero espediente politico), né si salvarono dalle interne contraddizioni, come può vedersi nel caso del Manzoni, con la sua leale e tenace adesione all'ideale e all'opera dell'indipendenza e unità d'Italia, e la sua persistente concezione moralistica e pacifistica, e in sostanza oltremondana, della storia. Del resto, qui non s'intende entrare nelle complicazioni delle coscienze individuali, ma soltanto segnare la genesi e le relazioni delle pure idee.
Se la concezione trascendente e autoritaria ha la sua chiara e logica formula nella trascendenza religiosa, non perciò non le appartengono anche di pieno diritto tutte quelle concezioni autoritarie della vita politica e morale, e le congiunte disposizioni, che si presentano alla prima esenti di ogni riferimento oltremondano, e perfino negatrici o schernitrici. Tali sono segnatamente (e senza parlare del " cattolicesimo ateo " dei nazionalisti e autoritari francesi e di altri paesi, e di consimili manifestazioni stravaganti o ciniche) le concezioni variamente " socialistiche ", che pongono come ideale il paradiso sulla terra, un paradiso perduto e da riacquistare (" ritorno al comunismo primitivo") o un paradiso da conquistare (" abolizione delle lotte di classe " e " passaggio dal regno della Necessità nel regno della Libertà", secondo la metafora marxistica del Paradiso), un paradiso sotto nome di ordinamento razionale o di giustizia: ideale che non si può cercar di tradurre in atto se non in quanto si voglia imporlo bello e fatto; che ha a proprio fondamento l'idea di "eguaglianza", cioè non punto l'eguaglianza intesa come coscienza di comune umanità, la quale è nel fondo dello stesso liberalismo e di ogni vera etica, ma l'eguaglianza matematicamente e meccanicamente costruita; e che, tuttavia, sotto queste forme brutali e materialistiche, cela la perdurante efficacia dell'idea di un regno di perfezione senza contrasti, composto di esseri tutti pari innanzi a Dio; e veramente tolto questo sottinteso e inconsapevole riferimento, non avrebbe senso e apparirebbe cosa stupida. Appunto per siffatta sostanziale negazione della lotta e della storia, per l'autoritarismo al quale è costretto ad appigliarsi e che talvolta chiama " dittatura " (volendo farlo sperare provvisorio), per l'inevitabile inclinazione a soffocare la varietà delle tendenze, gli spontanei svolgimenti e la formazione della personalità, il socialismo incontra l'ostilità della concezione liberale, e tra loro vengono a un conflitto, che anch'esso prende il già avvertito carattere religioso. Da altre particolari sue richieste non sorgerebbe conflitto di principi, perché né il liberalismo ha ragione alcuna di avversare il sempre maggiore umanamente e l'ascendente dignità delle classi operaie e dei lavoratori della terra, e anzi a suo modo mira a questo segno, né ha legame di piena solidarietà col capitalismo e col liberismo economico o sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di produzione della ricchezza, col solo limite, col solo patto, inteso ad assicurare l'incessante progresso dello spirito umano, che nessuno dei modi che si prescelgono impedisca la critica dell'esistente, la ricerca e l'invenzione del meglio, l'attuazione di questo meglio; che in nessuno di essi si pensi a fabbricare l'uomo perfetto o l'automa perfetto, e in nessuno si tolga all'uomo l'umana sua facoltà di errare e di peccare, senza la quale non si può neppur fare il bene, il bene come ciascuno lo sente e sa di poter fare. Per le medesime ragioni, il liberalismo sembra talora confluire col democratismo e talora divergerne fortemente e contrastarlo: lo contrasta in quanto quello, idoleggiando l'eguaglianza concepita in modo estrinseco e meccanico, si avvia, voglia o no, all'autoritarismo, alla stasi e alla trascendenza, ossia in quanto è o contiene il socialismo; ma sembra confluire con esso in quanto il democratismo si oppone ad altre forme di autorità e, in siffatto contegno, è liberale e può porgere braccio di alleato. Sicché l'oscillante posizione, che si rimprovera al liberalismo verso il democratismo, si svela nient'altro che l'oscillante natura di questo, liberale contro certi vecchi o nuovi regimi autoritari, ma non più o non abbastanza liberale rispetto a certi altri: liberale, per esempio, contro teocrazie e monarchie assolute, non liberale nei suoi amori con le repubbliche sociali (che sono non meno teocratiche, se anche materialistiche), severo verso i governanti e le classi dirigenti, debole (come si dice) verso la "piazza". Pel liberalismo, che è nato e intrinsecamente rimane antiegualitario, la libertà, secondo un motto del Gladstone, è la via per produrre e promuovere, non la democrazia, ma l'aristocrazia, la quale è veramente vigorosa e seria quando non è aristocrazia chiusa ma aperta, ferma bensì a respingere il volgo, ma pronta sempre ad accogliere chi a lei s'innalza.
Il pensiero e l'anima liberale si formano (con le leghe e i miscugli che il caso richiede) i corrispondenti istituti nel costume e nello stato liberale, e nel partito o nei partiti così denominati, che fronteggiano e combattono i partiti che si sforzano di rovesciarli, reazionari e rivoluzionali, retrivi e ultra-progressistici. I quali, tuttavia, benché si sogliano distinguere in coleste duplici classi, sono sostanzialmente, in quanto antiliberali, tutti retrivi e antirivoluzionari; e, allorché ottengono il disopra, effettuano non rivoluzioni ma reazioni, come nei " diciotto brumai " e nei " due decembri ", che nessuno storico considera rivoluzioni. Solo i moti liberali producono vere e proprie rivoluzioni. E laddove un regime autoritario, quando viene ro-vesciato, non può più risorgere quale era innanzi per gli accaduti e incancellabili mutamenti di persone e d'interessi, lo stato liberale sembra che sol esso risorga in perpetuo con rinnovata giovinezza: sembra, ma in effetto non perché risorga, ma perché non muore mai, ed esso solo è veramente capace di " restaurazioni ". Le sue morti sono apparenti, e in quell'apparente esser vinto e soggiacere è vinta, in realtà, una forma di reazione (la cosiddetta "licenza", che non è libertà, ma tirannia di pochi o di molti) da un'altra forma di reazione, " come d'asse si trae chiodo con chiodo " : una reazione, che il metodo liberale, in date contingenze storiche, non era riuscito a dominare e regolare. Ma la reazione vincitrice non ha in sé alcuna garanzia di assodare la sua vittoria, salvoché negando se stessa e risalendo al metodo liberale, cioè rafforzando di se stessa questo metodo, che aveva bisogno di nuove forze, prestandogli appoggio e poi ritirandosi, o, più spesso, stimolandolo con le punture e le battiture e invitandolo, come fa l'aratro con la terra, a nuova prole. Le reazioni sono sempre crisi e malattie, e il regime liberale designa il sano vigore. Epperò il cuore dell'umanità non va mai ai tempi di reazione e agli uomini delle reazioni, per grandi che siano stati; e non pure innanzi ai Mettermeli, ma perfino innanzi ai Napoleoni si domanda inquieto: "Fu vera gloria? "; ma palpita di ammirazione e di amore pei tempi di libertà, per coloro che la fondarono o la restaurarono. Rende poi giustizia anche ai primi, non il cuore dell'umanità, ma la mente liberale, la concezione liberale, non più in quanto fondamento di vita e di lotta pratica, ma in quanto giudizio storico che considera le sospensioni di libertà e i periodi reazionari come malattie e crisi di crescenza, come incidenti e mezzi della stessa eterna vita della libertà, e perciò intende gli uffici che hanno esercitati e l'opera utile che hanno compiuta. E qui si ha la prova palese di quanto e come la concezione liberale sia superiore all'autoritaria; perché questa non è in grado di giustificare teoricamente e storicamente la concezione opposta, ed essa la giustifica e la comprende in sé in quanto la sorpassa. Le storie scritte da reazionari di ogni sorta, clericali, feudali, illuministi, socialisti, nazionalisti, sono sempre sommamente passionali e parziali, acerbe e pessimistiche, si configurano sempre a contrasti di Dio e del diavolo, della ragione e dell'irragioncvolezza, laddove quelle dei liberali, figli come sono dell'intuizione storica dell'età moderna, ingegni a ciò conformati ed educati, osservano l'imparzialità e attingono la serenità, perché nelle storie più diverse, e più divise e agitate, non vedono se non uomini nelle loro varie tendenze e con le loro varie vocazioni e missioni, e ragioni contro ragioni, e il diavolo, se mai, solo al modo che proponeva il Fontenelle, come " l'homme d'affaires da bon Dieu ".
È stato più volte e da varie parti osservato che l'idea disopra delineata della libertà, ossia la concezione liberale, è cosa affatto moderna, estranea al mondo antico e a quello medievale, che conoscevano soltanto la libertà come diritto del cittadino o come privilegio di questa o quella classe, cioè (per parlare più esattamente) solo la libertà correlativa alla legge, garantita dalla legge e dal contratto. Quest'osservazione non solo è vera, ma a noi che abbiamo rammentato il presupposto filosofia) della libertà moderna, deve anche sembrare ovvia, perché si riduce alla più generale affermazione, che la filosofia moderna non è quella antica o medievale; che la concezione storicistica, che ormai i moderni portano nel sangue, non è quella naturalistica o teologica dell'antichità e del medioevo. Si potrebbe certamente mostrare, come si è mostrato per la filosofia in genere, che tra antichità, medioevo ed età moderna non sussistono tagli netti, e che, così per la filosofia moderna e storicistica come per la concezione liberale, si ebbero nell'antichità e nel medioevo presentimenti, precorrimenti e preparazioni, dei quali basta ricordare, rispetto alla seconda delle due, il sublime anelito degli antichi eroi alla libertà, e il cristianesimo col suo nuovo concetto dell'umanità e della storia dell'umanità, e la cavalleria coi sentimenti che coltivò di reciproco rispetto tra guerrieri di diversa fede. Ma tutto questo, d'altro lato, confermerebbe la loro modernità, nel senso del loro fiorire ed espandersi nell'età moderna, dopo il Rinascimento e la Riforma. Assai pregevoli sono le indagini condotte di recente circa la genesi della concezione liberale dal seno del calvinismo, le quali valgono altresì a far intendere il carattere morale-religioso di quella concezione e a differenziare la libertà calvinistica, fondata sull'idea dell'ineguaglianza e della vocazione propria di ciascun individuo, dalle costruzioni del giusnaturalismo, che, con la sua eguaglianza meccanica, rappresenta piuttosto l'origine delle concezioni democratico-socialistiche, contraddittorie e soggette a convertirsi nell'autoritarismo, come accadde fin nella prima epoca, nel giusnaturalismo dell'Hobbes. Ma non bisogna, esagerando le conseguenze di tali indagini, dimenticare che alla concezione e disposizione liberale, di cui si è chiarito il legame con la filosofia moderna, questa concorse tutta, col suo storicismo e dialettismo non meno che con le speculazioni etico-teologiche del calvinismo, e vi concorre ancor oggi coi suoi ulteriori svolgimenti e determinazioni. Quando, ai primi del settecento, lo Shaftesbury diceva, con patriottico compiacimento, che la sua Inghilterra aveva raggiunto ormai il " buon gusto del governo ", non rifaceva certamente la questione de optimo stata, ma attestava l'ideale dei tempi nuovi, che aveva levato colà la sua face splendente.
Cosicché, sempre che si ode (e s'ode di frequente) tacciare la concezione liberale di " formalistica ", " vuota ", " scettica " e " agnostica ", conviene girare quest'accusa alla filosofia moderna, alla quale tocca in modo più diretto e che cura di ri-spondervi con tutta se stessa: la filosofia moderna, che ha rinunziato alla pretesa di esser mai " definitiva ", e perciò a ogni dommatismo, appagandosi di essere, in cambio, perpetuamente viva e valida a porre e risolvere tutti i problemi che all'infinito si generano dalla vita, e a svolgere in perpetuo i dorami senza mai annullarli ma sempre approfondendoli e accrescendoli. La concezione liberale, come concezione storica della vita, è " formalistica ", " vuota ", " scettica " e " agnostica " al pari dell'etica moderna, che rifiuta il primato a leggi e casistiche e tabelle di doveri e di virtù, e pone al suo centro la coscienza morale; al pari dell'estetica moderna, che rifiuta modelli, generi e regole, e pone al suo centro il genio che è gusto, delicato e severissimo insieme. Come questa estetica vuole non già servire a scuole e scolette, ma interpretare le aspirazioni e le opere degli spiriti originali e creatori, così la concezione liberale non è fatta pei timidi e pei pigri e pei quietisti, ma vuole interpretare le aspirazioni e le opere degli spiriti coraggiosi e pazienti, pugnaci e generosi, solleciti dell'avanzamento dell'umanità, consapevoli dei suoi travagli e della sua storia.

 

 

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