La
distinzione di forze vitali e forze morali, utilitarie ed etiche, o come
altrimenti sono state definite e metaforizzate (terrestri e celesti,
barbariche e di civiltà, ecc.), ha importanza capitale per l'intelligenza
delle azioni e degli avvenimenti storici,' e non si può raccomandare
abbastanza di mantenerla nella sua nettezza e rigore, perché è categoriale,
cioè formatrice di giudizi. D'altra parte, appunto perché categoriale, non
bisogna intenderla come distinzione empirica o separazione, quasi si possano
sceverare individui e fatti che appartengano esclusivamente all'una o
all'altra sfera, il che sarebbe contro l'unità e concretezza dello spirito.
E la morale resterebbe un'astrattezza se non s'appoggiasse e alleasse a
qualche forza vitale o interesse economico, piegato a suo mezzo. Così
l'alta spiritualità del cristianesimo lottò contro i barbari e a sé li
sottomise, non già disarmata, come si dice con poetica immagine, per la
semplice virtù della bellezza morale onde splendeva la nuova fede, ma anzi
in quanto era armata di armi vitalmente, utilitariamente o barbaricamente
efficaci, pari e superiori alle lance e spade degli avversari, e che non
erano solo né principalmente quelle fornitele dai suoi fautori, armati
anch'essi di lance e di spade, prìncipi e popoli, ma paurose sanzioni che
essa minacciava di castighi divini, e procedimenti come le scomuniche e
gl'interdetti, armi che con ardito eufemismo si chiamavano " spirituali
" ed erano tali allo stesso modo che nelle guerre l'assedio o il "
blocco ", togliendo agli avversari cose necessarie al respiro della
vita come la conversazione e società con gli altri uomini, gli scambi di
lavori e di servigi, gli appoggi nelle giurate fedeltà, i conforti
religiosi e la sepoltura cristiana, e scotendo e turbando i loro animi sì
da avvilirli e prostrarli a invocare pace e misericordia. Senza queste e
consimili armi il cristianesimo, nonostante la sua altezza morale, sarebbe
rimasto praticamente impotente o in perpetua attesa di condizioni
favorevoli, al pari di un'utopia. Correlativamente, i barbari non erano
semplicemente e totalmente forze fisiologiche e vitali, perché erano uomini
e perciò capaci di impeti e di elevamenti intellettuali, morali, poetici, e
possedevano un'idea del divino, una religione ed un'etica, la qual cosa
rendeva possibili le conversioni e gli incivilimenti, impossibili e
inconcepibili se, invece di germi da sviluppare in rispondenza allo sviluppo
superiore già attinto dalla società cristiana, questa avesse trovato
dinanzi a sé l'eterogeneo e l'inassimilabile.
Quando, come accadde col rovinante impero romano e con le invasioni
barbariche, si entra in un'età storica nella quale sembrano soverchiare le
prorompenti e dilaganti forze vitali, che abbattono e asserviscono tutto
quanto si oppone alla soddisfazione della loro brama vorace di espansione,
di alimento, di godimento e di dominazione, non bisogna aspettare la difesa
o la ripresa della civiltà d'altronde che dall'uso di forze della stessa
qualità, cioè dall'azione bensì di principi morali ma che in certo qual
modo abbiano adottato le virtù dei barbari, armando le idee di braccia
robuste, di mani stringenti e di adunchi artigli. Tale è la legge
inesorabile della guerra, di ogni guerra, giusta e pia che si stimi nel suo
motivo iniziale e fondamentale. E poiché perpetua nella vita dell'umanità
è la guerra, perpetuo è anche, in forme e gradazioni più rilevate o più
rimesse, con accesi o con sfumati colori, il processo di reciproca
compenetrazione onde le forze morali si traducono in forze vitali e forze
vitali vengono a loro incontro purificandosi nel nuovo ufficio.
Quotidianamente si pratica come cosa affatto spontanea, e perciò di solito
poco avvertita e quasi sfuggente, una politica e una connessa guerra della
scienza, della cultura, dell'educazione, senza di che scienza, cultura,
educazione non si sosterrebbero e non vedrebbero aperte le vie nel mondo
alla loro propria e originale energia. Chiunque ama seriamente e serve i
propri ideali fa politica e guerra nei modi che, secondo i casi, sono
consigliati e conducenti al fine, e alla candidezza della colomba unisce la
non meno doverosa prudenza del serpente.
In questa che è la vita effettiva e concreta degli ideali morali si trova
la ragione della poca stima e del fastidio e della satira verso i "
moralisti ", ossia verso gli uomini che si danno a credere di poter
cangiare situazioni di fatto, fondate su rigogliose forze vitali, con
l'adoprare dimostrazioni e paradigmi morali, esortazioni, ammonizioni e
rimproveri, e che, non ottenendo giustificazione dell'opera loro dall'opera
stessa vuota di effetti, prendono sembiante di ingenui, se non di fatui e
vanitosi. Perfino l'austero Savonarola, per il mancato congiungimento del
suo ideale con le forze politiche effettive, ricevette dalla critica del
Machiavelli la taccia di "profeta disarmato"; del quale
Machiavelli è altresì la sarcastica e dolorosa rappresentazione dei
prìncipi italiani, che " credevano bastare negli scrittoi pensare
un'acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare nei detti e nelle
parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude e simili, e " non
si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque
gli assaltasse ". Ben diversa dalla parola oratoria del moralista, che
è sostanzialmente azione, mirando a un pratico fine, e che si prova inutile
quando la situazione è tale che niun aiuto può venirne a quel fine, la
parola del poeta, che innalza e ingentilisce gli animi, e quella del
filosofo, che rischiara le menti e le rinvigorisce, si levano, ancorché
rare e in apparenza solitarie, pur nei tempi più avversi, e sono salutari
nel presente per il conforto che a loro è dato di arrecare, e più ancora
nell'avvenire, che esse preparano. Donde il religioso dovere che comanda al
poeta e al filosofo di tener sempre fiso l'occhio all'eterno e al divino, e
non abbassarlo a perseguire contingenti utilità.
Affermare, nel modo che si è fatto, la necessaria lega delle forze morali
con le forze vitali vale affermare, in quella unione, non già la
sottomissione ma l'egemonia delle prime, e con ciò impedire
l'identificazione o la contaminazione dei due ordini diversi, ed escludere
che le seconde possano mai determinare le prime, come accade, per esempio,
quando si pone in rapporto di dipendenza la libertà, che è vita morale,
con certi sistemi economici, il liberalismo col liberismo. L'errore di
siffatte costruzioni teoriche non è già nell'ammettere la necessità che
l'ideale morale della libertà trovi sostegno in condizioni di fatto e in
forze vitali - concetto perfettamente giusto, che è quello di sopra
ragionato, - sì invece nel far consistere quel sostegno in una particolare
qualità e modo di forza vitale, in un particolare stato economico ed
esclusivo di altri, venendo così a porre in relazione la libertà con
qualcosa di contingente e di materialmente determinato, e conciò a
materializzare lei stessa, negando o corrompendo il suo carattere di
idealità e virtù morale. Questo carattere essa serba invece col serbare la
libera scelta delle forze a cui, secondo le varie contingenze del corso
storico, le convenga legarsi o dacui le convenga slegarsi: scelta sol di se
stessa pensosa, guidata dall'unico criterio che quelle alleanze sono buone,
che salvano o accrescono la libertà morale.
Politicamente, a questa confusione o ibridismo di forze morali e forze
vitali corrisponde altresì la posizione, non tanto cauta quanto perplessa e
timida, dei cosiddetti liberali conservatori, non schiettamente e non di
piena consapevolezza liberali perché non puri amatori di libertà, ma
solleciti con essa e per essa di qualcosa di estraneo, e che stanno perciò
sempre a rischio di trapassare in retrivi e reazionari, al modo degli spuri
liberali che si videro nella Germania della prima metà dell'ottocento, i
quali avevano il cuore e la volontà alla conservazione e al ravvivamento
degl'istituti medievali e alle libertà dei ceti e delle corporazioni. Il
vantato storicismo di questi ultimi non era vero storicismo, che è pensiero
e con ciò superamento del passato, ma era sentimento, nostalgia,
attaccamento del proprio essere a un particolare passato, a un particolare
abito e costume.
E, per tornare ai liberali liberisti e alle rievocazioni e celebrazioni
storiche della libertà economica come premessa o concomitanza dell'altra e
civile e morale libertà, è forse da consigliare, in questa parte, di
guardar più acutamente nel fondo, perché certamente si troverà che i
benefici effetti, che si sogliono riportare alle istituzioni dell'economia
liberistica, erano in realtà manifestazioni della libertà morale che
investiva quelle istituzioni e se ne giovava, e perciò non tanto condizioni
quanto conseguenze.
Dall'errato modo di congiungere le forze morali con le forze vitali,
dall'aver collocato l'eterno nel transeunte, l'immortale nel mortale, viene
il senso d'impotenza e di disperazione che abbatte gli animi quando le
vicende di transazioni politiche, di guerre, di rivoluzioni di ogni sorta
sconvolgono e distruggono le condizioni di fatto sulle quali riposavano le
istituzioni meglio conformi ai nostri ideali. Ma la colpa delle delusioni e
degli abbattimenti è, in questo caso, nostra per avere mentalmente e
sensibilmente adeguato due cose che andavano insieme ma che avevano diversa
natura e diversa legge, né, per sforzi che si facessero, potevano procedere
indissolubilmente l'una con l'altra e identificarsi. Le nobili idee morali
vogliono il complemento delle forze volitive, politiche o militari che
siano; e quando queste vengono meno o sono insufficienti e svagate,
soccombono nell'urto delle altre meno nobili ma più validamente difese o
anche delle forze meramente vitali: dura correzione che gli eventi
esercitano e sol essi possono esercitare. Quel che vien fuori da ciò è
(come si suoi dire e si dice bene) voluto da Dio per gli ascosi fini della
sua provvidenza, e bisogna accettarlo, non già per comportarsi di fronte ad
esso passivamente, ma come una nuova condizione di cose sulla quale bisogna
fondarsi per la non mai caduta e non mai intermessa e non intermissibile
opera di asserzione e di attuazione dell'ideale morale, il quale non si
commisura alle cose particolari ma solo a se stesso, e però delle cose
particolari si vale e, distrutte alcune di esse, ne ricerca altre e ripiglia
sopra le altre a tessere la propria tela infaticata. " Che cosa
possiamo noi (scriveva, sfiduciato, un umanista italiano, Antonio Galateo,
in mezzo allo sconvolgimento dell'assetto d'Italia, al rovinare della sua
indipendenza e all'assorgere di nuove potenze nei primi del cinquecento):
possiamo forse tenere il corso del ciclo e le vicissitudini del mondo,
quando non possiamo tenere un capello del nostro capo che non caschi? "
Non certamente; ma possiamo e dobbiamo serbare l'ardore dell'anima nel bene,
che è già un'azione non solo in sé e su di sé ma anche sugli altri, come
indicazione e come esempio, e riprendere a lavorare per l'antico ed eterno
nostro fine sopra la nuova materia che il corso storico ci ha offerta. Bruto
(se è veramente suo il detto che gli si attribuisce a conclusione della sua
esperienza) non bene chiamava miserabile la virtù, nuda parola, cosa senza
sostanza e sottostante alla fortuna, perché, in verità, la fortuna, cioè
l'evento favorevole o sfavorevole, non le aggiunge o toglie nulla, né
altrimenti la rende inutile e impotente, ma soltanto modifica i suoi
problemi. E che alla risolutezza dell'animo che non si arrende vada
congiunta una sorta di tacita invocazione a Dio o allo spirito del mondo
affinchè apra innanzi le vie, un atto di preghiera, di aspettazione e di
fiducia, conferma semplicemente quel che si è chiamato ardore nel bene.
Contro l'atteggiamento opposto di scoraggiamento e di rinuncia un classico
epigramma fu coniato dallo Hegel, quando, introducendo una variante nei
tanti altri tradizionali epigrammi encomiastici composti su Catone che
rifiutò la vita per la vittoria di Cesare sulla libera Roma, ardì di dire
che l'animo di Catone era " grande", ma non
"abbastanza", perché non seppe sopravvivere a Roma: ossia a un
valore, grande che fosse, pur sempre contingente e inferiore all'infinito
che è nello spirito dell'uomo.
|