Non mi
piace - dico non mi piace nella sua formulazione logica e non già nel
nobile sentimento morale e politico che la riempie di sé, per esempio, nei
versi del nostro Carducci, la diade, che ora ha molto corso, di "
Libertà e Giustizia ", o, peggiorata per inversione dei termini, di
" Giustizia e Libertà ". Non posso accettare quei due concetti
così come si suoi presentarli e raccomandarli uniti, quasi si pongano sulla
tavola e si offrano, l'una accanto all'altra, due noci. I concetti non
stanno tra loro come noci, numerabili in due, tre, quattro o in altro
numero, ma in viva relazione di pensiero, che dissolve quelli di essi che
sono fantastici, mette fuori della sua cerchia gli altri di carattere e
intenzione empirica, e a ciascuno dei concetti genuini assegna il suo posto
come momento necessario dell'unità che essi tutti compongono, col
precedente e il conseguente proprio di ciascuno, cosicché, ove si traggano
fuori di questi loro posti, diventano tra loro disparati e smarriscono
significato e vigore. Quale è, dunque, il vero contenuto mentale della
parola " libertà " e della parola " giustizia ", e
quale il rapporto dei due termini? Può l'uno sussistere insieme con l'altro
o, per contrario, l'uno viene confutato ed escluso dall'altro? Può l'uno
stare alla pari con l'altro o dev'essere risoluto dall'altro e nell'altro?
Il contenuto mentale della parola " libertà " è la spiritualità
stessa dell'uomo, la sua attività che è la sua realtà; onde chi nega che
l'uomo sia libertà e si fa a concepirlo come una cosa che un'altra
cosa urti e smuova e muova e determini nel suo fare (supposto che simili
impossibili operazioni, postulate dal metafisico naturalismo, abbiano luogo
in qualche parte dell'universo), non sa quel che si dica, o non dice quel
che dovrebbe dire, perché, se si ripiegasse su se stesso, si avvedrebbe
che, in quel dire, non pensa e non ragiona ma si lascia andare a momentanei
sentimenti di sconforto e di avvilimento, o che ad esso ricorre per
legittimare verso gli altri e verso sé medesimo l'alquanto basso tenore del
viver suo. E poiché la libertà è l'essenza dell'uomo, e l'uomo la
possiede nella sua qualità di uomo, non è da prendere letteralmente e
materialmente l'espressione che bisogni all'uomo " dare la libertà
", che è ciò che non gli si può dare perché già l'ha in sé. Tanto
poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli
oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini,
impedire più o meno certi modi di azione, costringere a non dire certe
verità e a recitare certe menzogne, ma non togliere all'umanità la
libertà cioè il tessuto della sua vita, che anzi, com'è risaputo, gli
sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era
indebolita, la restaurano. Quella espressione, intesa rettamente, vuoi dire
soltanto che si ha il dovere morale di sempre favorire e promuovere la
libertà, cioè la vita dell'umanità, e, ponendo nell'aspetto negativo
della formula il divieto a ogni azione che la sminuisca, in quello positivo
pone il comandamento di aumentarla e accrescerla di continuo. E poiché la
libertà, come si è detto, è l'attività stessa dell'uomo, per quale via
si può mai accrescerla se non accrescendo in ogni campo la produttività
umana, con nuovi concetti di verità, nuovi ritrovati di scienza e di
tecnica, nuove creazioni di bellezza, nuove opere di elevazione spirituale?
Si suole storditamente domandare che cosa si debba fare della libertà che
si possiede o che si è riacquistata o piuttosto ravvivata; come se essa
fosse una forza oziante che aspetti qualcuno che l'adoperi e le consigli e
le imponga il da fare. Ma forze ozianti non esistono nella realtà e hanno
luogo solo nell'astrazione, perché una forza è tale solo quando lavora,
cioè produce; e la libertà non va in cerca né chiede ad altri un
contenuto che le manchi, perché essa stessa è questo contenuto, e non
sarebbe forma se non fosse riempita, cioè concreta. E il suo contenuto e il
suo produrre ha sempre a fine l'elevazione morale mercé delle creazioni
estetiche e filosofiche e scientifiche ed economi-che, perché la morale non
se ne sta di là da questi vari ordini di creazioni, come qualcosa che vi si
aggiunga dal di fuori, ma è appunto in tal vario creare che essa stimola e
regge e col quale attua il suo fine che è di accrescere e innalzare la
vita.
Conseguenza del principio così stabilito è che, coincidendo la libertà di
tutto punto con la moralità e compendiando in sé ogni dovere morale, non
c'è nessun compito di tal qualità a cui essa non arrivi e che resti fuori
della sua cerchia, quasi invito ad altra potenza spirituale di assumerlo ed
eseguirlo; perché, quale sarebbe mai quest'altra potenza, se essa abbraccia
il tutto ed è il tutto? Ed ecco per qual ragione io non riesco a tollerare
- ripeto, logicamente, e non già nei suoi motivi sentimentali - quella
compagnia che le si vuoi dare, di un'altra idea, designata col nome di
Giustizia, sua correggitrice o integratrice, sua amica o sua superiore, o
sua emula e rivale, con la quale a volte litighi e, alla meglio o alla
peggio, transiga e si accomodi. No: la libertà non ha uopo di ciò, perché
tutto quanto è da fare moralmente, fa e deve fare da sé, traen-dolo da se
stessa e non trovando mai fuor di sé altra forza.
Sarà il caso, dunque, di scrutare un po' più attentamente che non si
soglia cotesta deità, la Giustizia, il cui sembiante maestoso raccoglie
troppi lineamenti di maestà da non dare sospetto alla critica e indurla a
cautela, ma che pure in questa molteplicità di tratti o di aspetti ebbe
forse le ragioni della sua fortuna nell'antica filosofia ellenica, quando
perfino strappò dal petto del prosatore Aristotele un'immagine poetica ad
esprimere il suo rapimento ("più bella di Espero!"): fortuna che
si continuò nelle scuole e ancor oggi si ritrova nei gareggianti programmi
dei partiti politici. Scrutare quel sembiante vuoi dire semplicemente per
noi ricercare e distinguere i vari significati che ha ricevuti e riceve
quella parola, e, per tornare alla metafora, scomporre e risolvere quel
sembiante in un balenio di diversi sembianti, malamente unificati o tra loro
confusi.
Il primo di questi significati è appena da notare e si può senz'altro
metterlo da parte, perché si riduce al vago uso della parola "
Giustizia " come coestensiva col concetto di bene morale, al modo in
cui l'uomo morale, resistente alle passioni, libero dalla loro servitù, è
chiamato " il giusto " e la giustizia, in questo senso eminente,
è stata definita virtù perfetta o perfezione della virtù. Ma,
teoricamente, cotesta è la forma povera, perché priva di processo critico,
di ciò che, nella sua profondità e pienezza, si dispiega e si afferma come
la libertà, sicché aggiungere l'un termine all'altro vale unire un
concetto preciso con uno, identico nel fondo ma impreciso, che confonde e fa
vedere doppio.
Ben altra consistenza ha un secondo significato della parola
"Giustizia", cioè quando viene intesa come diritto e legalità, e
a ragione celebrata fondamento di ogni società umana e di ogni stato; nel
qual significato risponde bensì a un concetto preciso, ma per ciò stesso
non può entrare a comporre la diade che è oggetto di questa disamina.
Ordine, legalità, stato, diritto, giustizia è il primo grado della vita
pratica, condizione della vita morale e della libertà, e, se è condizione,
se logicamente la precede, se la vita morale o la libertà la presuppone e
contiene in sé, non può essere logicamente a lei aggiunta, sua compagna e
sua correggitrice. Nei pensatori greci la giustizia come obbe-dienza alla
legge primeggiava e pareva rappresentare il tutto, appunto perché essi
guardavano alla polis come al tutto, senza dare alla coscienza morale quel
risalto e quel primato che ottenne col cristianesimo, e per il quale la
libertà-moralità - in virtù della circolarità spirituale - riopera, di
volta in volta, sulla condizione da cui è sorta, la critica, la censura, la
modifica, la sovverte e converte in altra della medesima natura bensì ma
meglio rispondente ai suoi fini, in altre istituzioni: il che si vede negli
svolgimenti che la storia ci narra.
Un terzo senso, che s'incontra così nel quotidiano discorrere come nei
libri dei filosofi, della parola " Giustizia ", ne fa una virtù,
una classe tra le altre classi della virtù, nella serie di giustizia,
equità, benevolenza, amicizia, liberalità, fortezza, prudenza, temperanza,
e via: nel qual senso essa non può pretendere alla dignità di principio
filosofico, perché designa, evidentemente, un concetto empirico. Per questo
valore meramente empirico del concetto delle " virtù " accade che
si sia portati non solo a moltiplicarle all'infinito, col distinguerle in
sempre nuove determinazioni e gradazioni, vanamente sforzandosi di adeguare
l'inadeguabile ricchezza delle forme della vita morale, ma a temperare l'una
virtù con l'altra (e, nel caso della giustizia, con l'equità); e, infine,
a sentenziare che " nessuna virtù sta solitaria ", ossia che
ciascuna è legata alle altre tutte, classificate o non classificate che
siano: la qual sentenza contiene in sé un'inconsapevole critica, e come
un'ironia, della empirica dottrina delle virtù.
Ma il quarto e ultimo significato della parola " Giustizia ", che
rimane come residuo dell'analisi fin qui condotta, è certamente, per le
conseguenze che tira con sé, il più rilevante; quantunque sia il meno vero
di tutti, privo di quei motivi di verità che pur si notano negli altri. Per
esso la giustizia viene intesa come esigenza di eguaglianza tra gli uomini;
ma non già di quella eguaglianza che è il riconoscimento della dignità
spirituale di ogni essere umano, coincidente con la sua intangibile
libertà, sì invece di una stravagante eguaglianza utilitaria e materiale.
Contraddittoria come questa è con la realtà e con la vita, non potrebbe
considerarsi morale, ma, tutt'al più, super-morale, nell'ironico senso
onde, collocandola sopra la morale e fuori della realtà e della vita, le si
assegna la dimora nel vuoto. In effetto, quell'esigenza si specifica in due
più particolari, che sono: i. d'istituire condizioni di vita economica
eguali per tutti i componenti di una società e che diano a tutti eguale
benessere; 2. di abolire le gerarchie sociali, trattando gli uomini come in
tutto e per tutto eguali nelle capacità e nell'opera sociale. Ora, circa la
prima, benché le parole siano docili, non è dato concepire che cosa siano
" condizioni eguali ", e meno ancora che cosa sia l'eguale
benessere, perché, se si deve ragionevolmente rifiutare, considerando che
ogni parte della società è necessaria alle altre, la divisione degli
uomini in superiori e inferiori o in buoni e cattivi, altrettanto
indubitabile è che essi si trovano individualmente in condizioni varie e
sono tra loro vari nei loro sentimenti e nei loro bisogni, onde non si può
conferir loro, con eguali mezzi di soddisfazioni, un eguale benessere. E
quanto all'abolizione delle gerarchie sociali, la diversità, oltre che dei
sentimenti e dei bisogni, delle attitudini o capacità vuole di necessità
la gerarchia sociale, che, ben inteso, non è quella di singoli individui fisicamente
distinti, ma opera attraverso dì questi, per modo che colui che è sopraordinato
in una parte della vita sociale, è subordinato in altre, chi è gerarca in
una è dipendente in altre, e il più dominatore uomo 'di stato cederà, per
non dire altro, la gerarchia alla fedel consorte tra le pareti domestiche o
almeno tra quelle della cucina e della lavanderia. Questa critica della
giustizia come eguale benessere di tutti ed eguale capacità di tutti a
tutto, prende andamento assai facile, non per altro che perché la
giustizia, come esigenza di eguaglianza, è l'assurdo trasferimento di una
finzione matematica alla realtà che non consente finzioni, alla vita che è
antimatematica. E nondimeno essa provoca e nutre, coi fantasmi che forma, i
brutti sentimenti dell'invidia verso ogni sorta di superiorità, né già
solo della fortuna, ma finanche dell'ingegno, del genio o della
incorruttibile virtù, laddove l'uomo buono, trovando sempre nel suo proprio
ufficio la propria superiorità e nella modestia la superbia, non invidia
nessuno. E ai vili rodimenti dell'invidia si avvicendano, in chi s'intriga
in questo errore, le delusioni che immancabili lo attendono quando si
argomenta di tradurre in atto la male immaginata eguaglianza
dell'ineguagliabile, e vede, invece, con sbigottimento, presentarsi agli
occhi suoi non più le legittime varietà del sentire e del saper fare, ma
quelle illegittime delle prepotenze e delle violenze che si sopraffanno le
une con le -altre in triste ed arida lotta.
Naturalmente, nelle azioni storiche che si mossero sotto il segno
dell'eguaglianza, come nella Rivoluzione francese, la quale pose fra le tre
stelle che dovevano essere di guida alla rinnovata umanità, l'égalité,
non c'era semplicemente questo assurdo di falsa matematicità, e perciò non
è dato cancellarle dalla storia con la semplicistica confutazione logica
dell'errore dottrinale della parola scritta sulle loro bandiere. C'era ben
altro nella Rivoluzione francese, come è noto, che fu di somma importanza
nella storia della civiltà, l'abolizione di vecchie condizioni sociali ed
economiche e di vecchie e artificiali gerarchie, che avevano avuto la loro
ragione e avevano reso servigi nei secoli precedenti, ma che, col mutar
delle condizioni storiche, erano diventate pesi, impacci, parassitismi,
iniquità, - privilegi della nobiltà, del clero, delle corporazioni di arti
e mestieri, servitù della gleba, prestazioni feudali, e simili, - tutte
cose concrete e particolari che beneficamente furono abolite, laddove non si
abolirono, perché non si poteva, le naturali differenze economiche e il
sistema gerarchico in sé e per sé, che anzi si rinnovarono e si
configurarono in modi più adatti e fecondi. L'utopica radicale abolizione
delle diversità economiche e della gerarchia politica, che era il sogno
sorto su quell'errore logico, e al quale in pratica non poteva
corrispondere, come si è detto, se non un fallimento o un evento contrario
all'aspettazione, fu tentata dal giacobinismo e, più direttamente, dalla
giacobina " Cospirazione degli Eguali " del Babeuf, a cui risale
altresì la formula, di larga risonanza quanto di pensiero inafferrabile,
della " libertà di fatto ", da attuare dopo l'ottenuta "
libertà formale ", dell'" eguaglianza sociale " da
sostituire all'"eguaglianza dinanzi alla legge".
Contro l'egalitarismo giacobino, estrema conseguenza dell'astratto e
matematizzante razionalismo settecentesco, si affermò e crebbe, nutrendosi
dell'esperienza e del fallimento di quello, il pensiero dell'ottocento,
mercé l'acquistata coscienza della relatività degli istituti alle
situazioni e ai gradi dello svolgimento spirituale, e l'intelligente accettazione
storica di tutto il passato, anche di quello che per le recenti lotte era
più aborrito, come il feudalismo e il monarcato assoluto, e, risalendo in
su, del medioevo e poi anche delle età primitive con la loro feroce
religiosità, che non fu più considerata come per l'innanzi inganno
congegnato dai sacerdoti; col qual nuovo pensiero si formò l'ideale e la
pratica del liberalismo. Questo aveva avuto bensì inizio nel seicento, in
Inghilterra, al declino delle guerre di religione, mediatore il concetto
della libertà delle chiese non conformiste, ma trovò i suoi presupposti
sociali e la sua giustificazione dottrinale e la disposizione volitiva e il
fervore e l'entusiasmo nella prima metà dell'ottocento, quando in tutta
Europa riempì di sé la filosofia, la storiografia e la letteratura, e
raccolse e diresse gli sforzi dei popoli contro i regimi assoluti e
autocratici e ottenne il trionfo: trionfo che fu accompagnato (ma si
possono, forse, sempre evitare le illusioni della gioia e delle speranze?)
da un empito di trasmodante fiducia, dalla sicurezza di essere entrati ormai
in un'età di continuo e pacifico progresso, come a dire in uno storico
"regno di Dio". Di ciò la meditazione filosofica e storica
avrebbe dovuto rendere guardinghi gli uomini, a loro dimostrando o
rammentando che Satana .e. il male e l'illibertà covano sempre nel petto
dell'uomo e si celano sotto ogni forma di vita sociale e storica, e che
l'idea del progresso non può discacciare ma deve accogliere in sé e
subordinare e farne suo strumento quella dei circoli o dei corsi e ricorsi,
dell'avvicendarsi di civiltà e di decadenze e imbarbarimenti, dalle quali
si esce col salire sempre più in alto. Come potrebbe la libertà
disconoscere questa legge, se nel suo principio stesso si contiene che la
vita è lotta e che la lotta è perpetua e che la stasi del bene è
altrettanto assurda quanto la stasi del male? L'etica della libertà, severa
nel suo intrinseco per questo suo carattere di perpetua combattente, trova
sempre a fronte e contro di sé gli altri ideali dal più al meno
eudemonistici, che pongono il fine della vita nel piacere, nel riposo, nella
felicità, nella beatitudine, ora mondana e ora oltremondana, da possedere o
conseguire sulla terra, sia col ridurre la società umana a un ovile guidato
da un unico pastore (teocrazie e regimi assoluti), sia col dare forma a una
convivenza di soddisfatti bisogni e di pace per virtù della concorrente
volontà di tutti gli individui parimente disposti (democrazie assolute,
socialismi e comunismi). Ed eudemonistiche altresì sono, nell'estremo
opposto, le etiche pessimistiche, schernitrici degli inani sforzi della
libertà, le quali, disperando della felicità, tuttavia la felicità, o,
che torna al medesimo, la cessazione dell'infelicità procurano di attingere
mercé l'ascetismo, la rinun-zia, la negazione dell'azione, della volontà e
del desiderio, l'idoleggiato ottundimento e istupidimento e, magari, col
deliberato suicidio universale del genere umano (ideato quest'ultimo da un
filosofo che ebbe molta nomea, ma che è da dire un'idea poco pratica
perché quel suicidio non estinguerebbe di certo la vita dell'universo, il
quale provvederebbe a generare nuovi esseri umani meno poveri di cervello e
angusti di petto di quelli educati dall'Egesia germanico dell'Incosciente!).
Contro tutte coleste inferiori, l'etica della libertà si pone di là
dall'eudemonismo, di là dall'ottimismo e pessimismo di esso, collocando il
fine non nell'incoerente concetto del riposo, della cessazione del dolore,
della felicità e della beatitudine, ma in quello coerente e chiaro e
univoco dell'opera da creare e della cui vita veramente si vive, e
assomigliando l'uomo, per il sentimento che porta nel suo fare, al poeta che
crea sempre nuove e più complesse forme di bellezza, e nel suo creare,
attuando se stesso, si soddisfa e vince la morte.
Ora gli ideali eudemonistici, che abbiamo qualificato inferiori, non
lasciano di appigliarsi, come a loro mezzo, all'idea dell'eguaglianza,1 che
porrebbe termine alle lotte e permetterebbe di stabilire il riposo e la
dolce vita e tutti i beni che vi si congiungono e che tutti si compendiano
nell'uomo alfine redento dalla servitù della storia e a questo modo
abbassato (come Leonardo avrebbe detto) a mero transito di cibo. E perciò
non è maraviglia che all'idea della libertà sia stata contrapposta o
sovrapposta quella di Giustizia, come sinonimo, in quest'uso,
dell'eguaglianza sospirata o dell'immobilità da raggiungere. Tale idea di
eguaglianza, che era già, oltreché nella democrazia, nel più vecchio
socialismo derivato dal Babeuf, penetrò anche nel Marx, nonostante che egli
si avvedesse e dicesse che bisognava storicizzarla, e con questo intento
scrivesse il Manifesto dei comunisti e il Capitale. Senonché il Marx, nella
filosofia dialettica e storica, non fu mai altro che un ricalcatore dello
Hegel deteriore; e come lo Hegel aveva pervertito la dialettica storica
della libertà in una concezione teologico-metafisica che metteva capo a un
ottimo stato, e disconosciuto la libertà sempre vivente e lottante, e
avversato e spregiato i moti di libertà che si delineavano ai suoi giorni
in Europa, così esso costruì una mitologia dello svolgimento storico come
sostanzialmente economico, che metteva capo a un regno dell'eguaglianza, che
egli, non si sa perché (se non forse per adulazione allo spirito del
tempo), battezzava della libertà, la quale non poteva avervi luogo come, a
suo detto, non vi avrebbero avuto luogo lo stato, la politica e la storia.
Come che sia, ma più ancora nei contrasti dei partiti nelle loro
controversie dottrinali, l'idea della libertà-moralità è astretta a
sempre fronteggiare e combattere l'altra della giustizia ed eguaglianza; e
questo è nell'ordine delle cose e rientra nella doverosa difesa e
ampliazione della critica, della scienza e della cultura, perché sempre vi
saranno spiriti irriflessivi e semplicistici e intelletti immaturi, che
bisogna correggere e indurre a maturarsi. Ma la diade " Libertà e
Giustizia", dalla quale ho preso le mosse in questa dilucidazione, mi
offende in modo particolare, perché è un tentativo di assopire un aspro e
pungente problema dottrinale e morale, con quel procedimento eclettico che
è altrettanto odioso alle menti filosofiche quanto gradito agli amanti del
quieto vivere e del poco pensare, i quali non vogliono tendere troppo l'arco
dell'intelletto né suscitare troppo dispiacere nell'una e nell'altra parte
contendente. E mi offende anche per un altro verso, nel riguardo politico,
come un poco leale comportamento verso l'una e l'altra parte, quella
liberale e la socialistica o comunistica o altrimenti egualitaria, un
giocare di astuzia verso l'una o verso l'altra perdendo se stessi nel corrumpere
et corrumpi. E, infine, mi offende per l'evidente mancanza di coraggio
che vi si dimostra col rinunziare a sostenere, nell'integrità della sua
logica, il difficile concetto di libertà e piegarsi verso l'altro,
intrinsecamente contra-dittorio ma che è aperto al facile plauso dei molti,
o (come ora si usa dichiarare) dei " giovani ", i quali
converrebbe, a dir vero, ammonire e istruire e disciplinare per il bene loro
e dell'avvenire che a loro appartiene, e non già tradire adulandoli nella
loro inesperienza, ignoranza e naturale baldanza. Certo la concezione
liberale è consapevole che essa non apporta pace ma guerra, non agevolezza
ma travaglio, non ozio ma lavoro, e non intende ingannare e illudere coloro
a cui si rivolge, e preferisce le conquiste faticose e lente, e si appaga
dei pochi e degli eletti, la cui efficacia alla pratica è di gran lunga
maggiore che non quella dei molti che non sanno quel che si vogliano o che
fatuamente vogliono; e allontana da sé il peggiore dei volghi, quello
superficialmente addottrinato e raziocinante, e disdegna di scendere nel
mercato dove questo volgo si fa ressa e concorrenza e dove col gridìo
soffoca i moti del pensiero e delle parole pensate. Il suo campo non è quel
mercato, ma il ben più largo campo della storia, dove sempre ha ottenuto le
sue vittorie, dove le stesse eventuali sconfitte sono prodromo di vittorie
future e di quegli avanzamenti dell'umano pensiero e dell'umana civiltà che
si annodaino misteriosamente l'uno all'altro e si continuano nei secoli dei
secoli.
Tolta di mezzo quella diade di disparati o ripugnanti concetti, rimane,
dunque, unico principio la libertà, che ha in sé la virtù, e con essa il
dovere, di proporsi e risolvere i problemi morali che sorgono sempre nuovi
nel corso della storia, tutti i problemi, quali che essi siano: salvo,
beninteso, quell'unico del rendere gli uomini felici e beati, che non è un
problema ma una fisima, e si può lasciare in pastura dei discettanti sulla
giustizia da introdurre nel mondo e sull'eguaglianza a cui ri-durlo per
farlo star buono.
Ma in questa revisione dei due concetti si è voluto dare una critica dei
falsi principi e delle false combinazioni di principi che s'incontrano
solitamente nei trattati dottrinali e nei programmi politici, e che bisogna
rettificare, se fondamento del pratico discutere e del ben fare è la
chiarezza delle idee e il ben ragionare. Senonché confutazione di errori
teorici non vuoi dire (e già abbiamo di sopra fatto quest'avvertenza)
confutazione e negazione dei bisogni effettivi e pratici che con quei
fallaci concetti vengono ragionati o che di essi si valgono come di simboli
e motti per aprirsi una strada, richiamar l'attenzione e far sentire la
propria urgenza. I fatti accaduti, comunque avvolti di teorie ineffettuali,
sono da accettare nella loro realtà di accadimenti storici; e i bisogni
sociali sono da notare e da raccogliere, sciogliendoli da quell'involucro
illogico e fantastico per recarseli dinanzi come materia di risoluzioni
morali, pertinenti al nostro dovere. Dietro le invocazioni passionali od
oratorie della libertà che dovrebbe essere convalidata e ribattezzata dalla
giustizia, e sotto il peso delle costruzioni teoriche che mal si reggono
sulle insicure fondamenta, stanno le difficoltà, le angosce, le
insofferenze, le ribellioni, la spinta a migliori assetti, gli sforzi e le
speranze dei popoli e delle loro varie classi e gruppi, la realtà insomma
delle lotte e dei contrasti che cercano di comporsi in nuovi rapporti e
raggiungere nuove forme di produzione economica e di vita sociale. Ma i
problemi che da ciò nascono non possono essere formulati e risolti se non
sul piano morale della libertà-moralità, e vanamente è stato tentato di
trattarli per mezzo di schemi estrinseci e materiali, con proposte di
ordinamenti sociali come quelli del liberismo e del comunismo, che sono i
due estremi della serie, e con gli altri tra questi intermedi, il difetto
dei quali tutti è di non essere né schiettamente economici né
schiettamente morali, ma generici e astratti, e perciò di necessità
arbitrari. Nel piano morale soltanto quei problemi di ordinamento economico
e sociale si risolvono effettualmente di volta in volta, conforme ai loro
dati particolari e precisi, quelli e non altri, coi quali si presentano, e
col variarne le soluzioni secondo tempi e luoghi, cioè secondo il variare
dei dati, attenendosi all'unico criterio della libertà, che vai quanto dire
prescegliendo sempre, in ciascun caso, quella soluzione che promuove la
libertà stessa, ossia l'elevamento della civiltà.
Per esercitare quest'ufficio e compiere questa scelta la libertà dev'essere
economicamente affatto spregiudicata, e avere il coraggio di adottare, al
fine del civile progresso, anche i provvedimenti che sembrano o sono i più
diversi e opposti, quelli che si chiamano liberistici e quelli che si
chiamano comunistici, che tutti sono buoni in certi casi se rispondono al
fine che si è detto e tutti, in relazione ad esso, perdono la loro
precedente qualificazione e prendono l'altra di provvedimenti moralmente
necessari. Per questa ragione or son già molti anni, io mi adoperai a
slegare il legame indebitamente annodato tra " liberalismo ", che
è vita morale o etico-politica, e " liberismo " che è un tipo
tra gli altri tipi possibili di ordinamento economico; sul qual proposito mi
sono permesso di fare ripetutamente osservare che, se quel legame fosse
reale, si darebbe causa vinta al materialismo storico e, d'accordo con esso,
si verrebbe a negare l'autonomia della morale, diventata maschera di bisogni
e di soddisfacimenti utilitari. Non c'è cautela che la libertà non possa e
non debba, all'occorrenza, usare nel maneggiare le cose dell'economia, che
sono rette dalla propria legge alla quale non si comanda nisi parendo;
ma, del pari, non c'è ardimento che non possa e non debba, in altre decorrenze,
osare. Un ardimento tanto più risoluto e sicuro in quanto ubbidisce non a
singoli interessi economici di una singola classe sociale, ma unicamente
alla voce della coscienza e alla ispirata visione delle vie della storia.
A questo punto l'uomo del pensiero sa che l'opera sua è terminata e che il
campo spetta all'uomo dell'azione, che è veramente tale se è tutt'insieme
cauto ed ardito, conservatore e rivoluzionario.
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