Benedetto Croce - Luigi Einaudi

 

Liberismo e liberalismo

 

B. Croce - Revisione filosofica dei concetti di libertà e giustizia

 

Il saggio fu pubblicato (nella rubrica Varietà) in " La Critica " del 20 settembre 1943 (anno XLI, fasc. v, pp. 276-84), da cui si riproduce.

 

Non mi piace - dico non mi piace nella sua formulazione logica e non già nel nobile sentimento morale e politico che la riempie di sé, per esempio, nei versi del nostro Carducci, la diade, che ora ha molto corso, di " Libertà e Giustizia ", o, peggiorata per inversione dei termini, di " Giustizia e Libertà ". Non posso accettare quei due concetti così come si suoi presentarli e raccomandarli uniti, quasi si pongano sulla tavola e si offrano, l'una accanto all'altra, due noci. I concetti non stanno tra loro come noci, numerabili in due, tre, quattro o in altro numero, ma in viva relazione di pensiero, che dissolve quelli di essi che sono fantastici, mette fuori della sua cerchia gli altri di carattere e intenzione empirica, e a ciascuno dei concetti genuini assegna il suo posto come momento necessario dell'unità che essi tutti compongono, col precedente e il conseguente proprio di ciascuno, cosicché, ove si traggano fuori di questi loro posti, diventano tra loro disparati e smarriscono significato e vigore. Quale è, dunque, il vero contenuto mentale della parola " libertà " e della parola " giustizia ", e quale il rapporto dei due termini? Può l'uno sussistere insieme con l'altro o, per contrario, l'uno viene confutato ed escluso dall'altro? Può l'uno stare alla pari con l'altro o dev'essere risoluto dall'altro e nell'altro?
Il contenuto mentale della parola " libertà " è la spiritualità stessa dell'uomo, la sua attività che è la sua realtà; onde chi nega che l'uomo sia libertà e si fa a concepirlo come una cosa che un'altra cosa urti e smuova e muova e determini nel suo fare (supposto che simili impossibili operazioni, postulate dal metafisico naturalismo, abbiano luogo in qualche parte dell'universo), non sa quel che si dica, o non dice quel che dovrebbe dire, perché, se si ripiegasse su se stesso, si avvedrebbe che, in quel dire, non pensa e non ragiona ma si lascia andare a momentanei sentimenti di sconforto e di avvilimento, o che ad esso ricorre per legittimare verso gli altri e verso sé medesimo l'alquanto basso tenore del viver suo. E poiché la libertà è l'essenza dell'uomo, e l'uomo la possiede nella sua qualità di uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l'espressione che bisogni all'uomo " dare la libertà ", che è ciò che non gli si può dare perché già l'ha in sé. Tanto poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno certi modi di azione, costringere a non dire certe verità e a recitare certe menzogne, ma non togliere all'umanità la libertà cioè il tessuto della sua vita, che anzi, com'è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano. Quella espressione, intesa rettamente, vuoi dire soltanto che si ha il dovere morale di sempre favorire e promuovere la libertà, cioè la vita dell'umanità, e, ponendo nell'aspetto negativo della formula il divieto a ogni azione che la sminuisca, in quello positivo pone il comandamento di aumentarla e accrescerla di continuo. E poiché la libertà, come si è detto, è l'attività stessa dell'uomo, per quale via si può mai accrescerla se non accrescendo in ogni campo la produttività umana, con nuovi concetti di verità, nuovi ritrovati di scienza e di tecnica, nuove creazioni di bellezza, nuove opere di elevazione spirituale? Si suole storditamente domandare che cosa si debba fare della libertà che si possiede o che si è riacquistata o piuttosto ravvivata; come se essa fosse una forza oziante che aspetti qualcuno che l'adoperi e le consigli e le imponga il da fare. Ma forze ozianti non esistono nella realtà e hanno luogo solo nell'astrazione, perché una forza è tale solo quando lavora, cioè produce; e la libertà non va in cerca né chiede ad altri un contenuto che le manchi, perché essa stessa è questo contenuto, e non sarebbe forma se non fosse riempita, cioè concreta. E il suo contenuto e il suo produrre ha sempre a fine l'elevazione morale mercé delle creazioni estetiche e filosofiche e scientifiche ed economi-che, perché la morale non se ne sta di là da questi vari ordini di creazioni, come qualcosa che vi si aggiunga dal di fuori, ma è appunto in tal vario creare che essa stimola e regge e col quale attua il suo fine che è di accrescere e innalzare la vita.
Conseguenza del principio così stabilito è che, coincidendo la libertà di tutto punto con la moralità e compendiando in sé ogni dovere morale, non c'è nessun compito di tal qualità a cui essa non arrivi e che resti fuori della sua cerchia, quasi invito ad altra potenza spirituale di assumerlo ed eseguirlo; perché, quale sarebbe mai quest'altra potenza, se essa abbraccia il tutto ed è il tutto? Ed ecco per qual ragione io non riesco a tollerare - ripeto, logicamente, e non già nei suoi motivi sentimentali - quella compagnia che le si vuoi dare, di un'altra idea, designata col nome di Giustizia, sua correggitrice o integratrice, sua amica o sua superiore, o sua emula e rivale, con la quale a volte litighi e, alla meglio o alla peggio, transiga e si accomodi. No: la libertà non ha uopo di ciò, perché tutto quanto è da fare moralmente, fa e deve fare da sé, traen-dolo da se stessa e non trovando mai fuor di sé altra forza.
Sarà il caso, dunque, di scrutare un po' più attentamente che non si soglia cotesta deità, la Giustizia, il cui sembiante maestoso raccoglie troppi lineamenti di maestà da non dare sospetto alla critica e indurla a cautela, ma che pure in questa molteplicità di tratti o di aspetti ebbe forse le ragioni della sua fortuna nell'antica filosofia ellenica, quando perfino strappò dal petto del prosatore Aristotele un'immagine poetica ad esprimere il suo rapimento ("più bella di Espero!"): fortuna che si continuò nelle scuole e ancor oggi si ritrova nei gareggianti programmi dei partiti politici. Scrutare quel sembiante vuoi dire semplicemente per noi ricercare e distinguere i vari significati che ha ricevuti e riceve quella parola, e, per tornare alla metafora, scomporre e risolvere quel sembiante in un balenio di diversi sembianti, malamente unificati o tra loro confusi.
Il primo di questi significati è appena da notare e si può senz'altro metterlo da parte, perché si riduce al vago uso della parola " Giustizia " come coestensiva col concetto di bene morale, al modo in cui l'uomo morale, resistente alle passioni, libero dalla loro servitù, è chiamato " il giusto " e la giustizia, in questo senso eminente, è stata definita virtù perfetta o perfezione della virtù. Ma, teoricamente, cotesta è la forma povera, perché priva di processo critico, di ciò che, nella sua profondità e pienezza, si dispiega e si afferma come la libertà, sicché aggiungere l'un termine all'altro vale unire un concetto preciso con uno, identico nel fondo ma impreciso, che confonde e fa vedere doppio.
Ben altra consistenza ha un secondo significato della parola "Giustizia", cioè quando viene intesa come diritto e legalità, e a ragione celebrata fondamento di ogni società umana e di ogni stato; nel qual significato risponde bensì a un concetto preciso, ma per ciò stesso non può entrare a comporre la diade che è oggetto di questa disamina. Ordine, legalità, stato, diritto, giustizia è il primo grado della vita pratica, condizione della vita morale e della libertà, e, se è condizione, se logicamente la precede, se la vita morale o la libertà la presuppone e contiene in sé, non può essere logicamente a lei aggiunta, sua compagna e sua correggitrice. Nei pensatori greci la giustizia come obbe-dienza alla legge primeggiava e pareva rappresentare il tutto, appunto perché essi guardavano alla polis come al tutto, senza dare alla coscienza morale quel risalto e quel primato che ottenne col cristianesimo, e per il quale la libertà-moralità - in virtù della circolarità spirituale - riopera, di volta in volta, sulla condizione da cui è sorta, la critica, la censura, la modifica, la sovverte e converte in altra della medesima natura bensì ma meglio rispondente ai suoi fini, in altre istituzioni: il che si vede negli svolgimenti che la storia ci narra.
Un terzo senso, che s'incontra così nel quotidiano discorrere come nei libri dei filosofi, della parola " Giustizia ", ne fa una virtù, una classe tra le altre classi della virtù, nella serie di giustizia, equità, benevolenza, amicizia, liberalità, fortezza, prudenza, temperanza, e via: nel qual senso essa non può pretendere alla dignità di principio filosofico, perché designa, evidentemente, un concetto empirico. Per questo valore meramente empirico del concetto delle " virtù " accade che si sia portati non solo a moltiplicarle all'infinito, col distinguerle in sempre nuove determinazioni e gradazioni, vanamente sforzandosi di adeguare l'inadeguabile ricchezza delle forme della vita morale, ma a temperare l'una virtù con l'altra (e, nel caso della giustizia, con l'equità); e, infine, a sentenziare che " nessuna virtù sta solitaria ", ossia che ciascuna è legata alle altre tutte, classificate o non classificate che siano: la qual sentenza contiene in sé un'inconsapevole critica, e come un'ironia, della empirica dottrina delle virtù.
Ma il quarto e ultimo significato della parola " Giustizia ", che rimane come residuo dell'analisi fin qui condotta, è certamente, per le conseguenze che tira con sé, il più rilevante; quantunque sia il meno vero di tutti, privo di quei motivi di verità che pur si notano negli altri. Per esso la giustizia viene intesa come esigenza di eguaglianza tra gli uomini; ma non già di quella eguaglianza che è il riconoscimento della dignità spirituale di ogni essere umano, coincidente con la sua intangibile libertà, sì invece di una stravagante eguaglianza utilitaria e materiale. Contraddittoria come questa è con la realtà e con la vita, non potrebbe considerarsi morale, ma, tutt'al più, super-morale, nell'ironico senso onde, collocandola sopra la morale e fuori della realtà e della vita, le si assegna la dimora nel vuoto. In effetto, quell'esigenza si specifica in due più particolari, che sono: i. d'istituire condizioni di vita economica eguali per tutti i componenti di una società e che diano a tutti eguale benessere; 2. di abolire le gerarchie sociali, trattando gli uomini come in tutto e per tutto eguali nelle capacità e nell'opera sociale. Ora, circa la prima, benché le parole siano docili, non è dato concepire che cosa siano " condizioni eguali ", e meno ancora che cosa sia l'eguale benessere, perché, se si deve ragionevolmente rifiutare, considerando che ogni parte della società è necessaria alle altre, la divisione degli uomini in superiori e inferiori o in buoni e cattivi, altrettanto indubitabile è che essi si trovano individualmente in condizioni varie e sono tra loro vari nei loro sentimenti e nei loro bisogni, onde non si può conferir loro, con eguali mezzi di soddisfazioni, un eguale benessere. E quanto all'abolizione delle gerarchie sociali, la diversità, oltre che dei sentimenti e dei bisogni, delle attitudini o capacità vuole di necessità la gerarchia sociale, che, ben inteso, non è quella di singoli individui fisicamente distinti, ma opera attraverso dì questi, per modo che colui che è sopraordinato in una parte della vita sociale, è subordinato in altre, chi è gerarca in una è dipendente in altre, e il più dominatore uomo 'di stato cederà, per non dire altro, la gerarchia alla fedel consorte tra le pareti domestiche o almeno tra quelle della cucina e della lavanderia. Questa critica della giustizia come eguale benessere di tutti ed eguale capacità di tutti a tutto, prende andamento assai facile, non per altro che perché la giustizia, come esigenza di eguaglianza, è l'assurdo trasferimento di una finzione matematica alla realtà che non consente finzioni, alla vita che è antimatematica. E nondimeno essa provoca e nutre, coi fantasmi che forma, i brutti sentimenti dell'invidia verso ogni sorta di superiorità, né già solo della fortuna, ma finanche dell'ingegno, del genio o della incorruttibile virtù, laddove l'uomo buono, trovando sempre nel suo proprio ufficio la propria superiorità e nella modestia la superbia, non invidia nessuno. E ai vili rodimenti dell'invidia si avvicendano, in chi s'intriga in questo errore, le delusioni che immancabili lo attendono quando si argomenta di tradurre in atto la male immaginata eguaglianza dell'ineguagliabile, e vede, invece, con sbigottimento, presentarsi agli occhi suoi non più le legittime varietà del sentire e del saper fare, ma quelle illegittime delle prepotenze e delle violenze che si sopraffanno le une con le -altre in triste ed arida lotta.
Naturalmente, nelle azioni storiche che si mossero sotto il segno dell'eguaglianza, come nella Rivoluzione francese, la quale pose fra le tre stelle che dovevano essere di guida alla rinnovata umanità, l'égalité, non c'era semplicemente questo assurdo di falsa matematicità, e perciò non è dato cancellarle dalla storia con la semplicistica confutazione logica dell'errore dottrinale della parola scritta sulle loro bandiere. C'era ben altro nella Rivoluzione francese, come è noto, che fu di somma importanza nella storia della civiltà, l'abolizione di vecchie condizioni sociali ed economiche e di vecchie e artificiali gerarchie, che avevano avuto la loro ragione e avevano reso servigi nei secoli precedenti, ma che, col mutar delle condizioni storiche, erano diventate pesi, impacci, parassitismi, iniquità, - privilegi della nobiltà, del clero, delle corporazioni di arti e mestieri, servitù della gleba, prestazioni feudali, e simili, - tutte cose concrete e particolari che beneficamente furono abolite, laddove non si abolirono, perché non si poteva, le naturali differenze economiche e il sistema gerarchico in sé e per sé, che anzi si rinnovarono e si configurarono in modi più adatti e fecondi. L'utopica radicale abolizione delle diversità economiche e della gerarchia politica, che era il sogno sorto su quell'errore logico, e al quale in pratica non poteva corrispondere, come si è detto, se non un fallimento o un evento contrario all'aspettazione, fu tentata dal giacobinismo e, più direttamente, dalla giacobina " Cospirazione degli Eguali " del Babeuf, a cui risale altresì la formula, di larga risonanza quanto di pensiero inafferrabile, della " libertà di fatto ", da attuare dopo l'ottenuta " libertà formale ", dell'" eguaglianza sociale " da sostituire all'"eguaglianza dinanzi alla legge".
Contro l'egalitarismo giacobino, estrema conseguenza dell'astratto e matematizzante razionalismo settecentesco, si affermò e crebbe, nutrendosi dell'esperienza e del fallimento di quello, il pensiero dell'ottocento, mercé l'acquistata coscienza della relatività degli istituti alle situazioni e ai gradi dello svolgimento spirituale, e l'intelligente accettazione storica di tutto il passato, anche di quello che per le recenti lotte era più aborrito, come il feudalismo e il monarcato assoluto, e, risalendo in su, del medioevo e poi anche delle età primitive con la loro feroce religiosità, che non fu più considerata come per l'innanzi inganno congegnato dai sacerdoti; col qual nuovo pensiero si formò l'ideale e la pratica del liberalismo. Questo aveva avuto bensì inizio nel seicento, in Inghilterra, al declino delle guerre di religione, mediatore il concetto della libertà delle chiese non conformiste, ma trovò i suoi presupposti sociali e la sua giustificazione dottrinale e la disposizione volitiva e il fervore e l'entusiasmo nella prima metà dell'ottocento, quando in tutta Europa riempì di sé la filosofia, la storiografia e la letteratura, e raccolse e diresse gli sforzi dei popoli contro i regimi assoluti e autocratici e ottenne il trionfo: trionfo che fu accompagnato (ma si possono, forse, sempre evitare le illusioni della gioia e delle speranze?) da un empito di trasmodante fiducia, dalla sicurezza di essere entrati ormai in un'età di continuo e pacifico progresso, come a dire in uno storico "regno di Dio". Di ciò la meditazione filosofica e storica avrebbe dovuto rendere guardinghi gli uomini, a loro dimostrando o rammentando che Satana .e. il male e l'illibertà covano sempre nel petto dell'uomo e si celano sotto ogni forma di vita sociale e storica, e che l'idea del progresso non può discacciare ma deve accogliere in sé e subordinare e farne suo strumento quella dei circoli o dei corsi e ricorsi, dell'avvicendarsi di civiltà e di decadenze e imbarbarimenti, dalle quali si esce col salire sempre più in alto. Come potrebbe la libertà disconoscere questa legge, se nel suo principio stesso si contiene che la vita è lotta e che la lotta è perpetua e che la stasi del bene è altrettanto assurda quanto la stasi del male? L'etica della libertà, severa nel suo intrinseco per questo suo carattere di perpetua combattente, trova sempre a fronte e contro di sé gli altri ideali dal più al meno eudemonistici, che pongono il fine della vita nel piacere, nel riposo, nella felicità, nella beatitudine, ora mondana e ora oltremondana, da possedere o conseguire sulla terra, sia col ridurre la società umana a un ovile guidato da un unico pastore (teocrazie e regimi assoluti), sia col dare forma a una convivenza di soddisfatti bisogni e di pace per virtù della concorrente volontà di tutti gli individui parimente disposti (democrazie assolute, socialismi e comunismi). Ed eudemonistiche altresì sono, nell'estremo opposto, le etiche pessimistiche, schernitrici degli inani sforzi della libertà, le quali, disperando della felicità, tuttavia la felicità, o, che torna al medesimo, la cessazione dell'infelicità procurano di attingere mercé l'ascetismo, la rinun-zia, la negazione dell'azione, della volontà e del desiderio, l'idoleggiato ottundimento e istupidimento e, magari, col deliberato suicidio universale del genere umano (ideato quest'ultimo da un filosofo che ebbe molta nomea, ma che è da dire un'idea poco pratica perché quel suicidio non estinguerebbe di certo la vita dell'universo, il quale provvederebbe a generare nuovi esseri umani meno poveri di cervello e angusti di petto di quelli educati dall'Egesia germanico dell'Incosciente!). Contro tutte coleste inferiori, l'etica della libertà si pone di là dall'eudemonismo, di là dall'ottimismo e pessimismo di esso, collocando il fine non nell'incoerente concetto del riposo, della cessazione del dolore, della felicità e della beatitudine, ma in quello coerente e chiaro e univoco dell'opera da creare e della cui vita veramente si vive, e assomigliando l'uomo, per il sentimento che porta nel suo fare, al poeta che crea sempre nuove e più complesse forme di bellezza, e nel suo creare, attuando se stesso, si soddisfa e vince la morte.
Ora gli ideali eudemonistici, che abbiamo qualificato inferiori, non lasciano di appigliarsi, come a loro mezzo, all'idea dell'eguaglianza,1 che porrebbe termine alle lotte e permetterebbe di stabilire il riposo e la dolce vita e tutti i beni che vi si congiungono e che tutti si compendiano nell'uomo alfine redento dalla servitù della storia e a questo modo abbassato (come Leonardo avrebbe detto) a mero transito di cibo. E perciò non è maraviglia che all'idea della libertà sia stata contrapposta o sovrapposta quella di Giustizia, come sinonimo, in quest'uso, dell'eguaglianza sospirata o dell'immobilità da raggiungere. Tale idea di eguaglianza, che era già, oltreché nella democrazia, nel più vecchio socialismo derivato dal Babeuf, penetrò anche nel Marx, nonostante che egli si avvedesse e dicesse che bisognava storicizzarla, e con questo intento scrivesse il Manifesto dei comunisti e il Capitale. Senonché il Marx, nella filosofia dialettica e storica, non fu mai altro che un ricalcatore dello Hegel deteriore; e come lo Hegel aveva pervertito la dialettica storica della libertà in una concezione teologico-metafisica che metteva capo a un ottimo stato, e disconosciuto la libertà sempre vivente e lottante, e avversato e spregiato i moti di libertà che si delineavano ai suoi giorni in Europa, così esso costruì una mitologia dello svolgimento storico come sostanzialmente economico, che metteva capo a un regno dell'eguaglianza, che egli, non si sa perché (se non forse per adulazione allo spirito del tempo), battezzava della libertà, la quale non poteva avervi luogo come, a suo detto, non vi avrebbero avuto luogo lo stato, la politica e la storia.
Come che sia, ma più ancora nei contrasti dei partiti nelle loro controversie dottrinali, l'idea della libertà-moralità è astretta a sempre fronteggiare e combattere l'altra della giustizia ed eguaglianza; e questo è nell'ordine delle cose e rientra nella doverosa difesa e ampliazione della critica, della scienza e della cultura, perché sempre vi saranno spiriti irriflessivi e semplicistici e intelletti immaturi, che bisogna correggere e indurre a maturarsi. Ma la diade " Libertà e Giustizia", dalla quale ho preso le mosse in questa dilucidazione, mi offende in modo particolare, perché è un tentativo di assopire un aspro e pungente problema dottrinale e morale, con quel procedimento eclettico che è altrettanto odioso alle menti filosofiche quanto gradito agli amanti del quieto vivere e del poco pensare, i quali non vogliono tendere troppo l'arco dell'intelletto né suscitare troppo dispiacere nell'una e nell'altra parte contendente. E mi offende anche per un altro verso, nel riguardo politico, come un poco leale comportamento verso l'una e l'altra parte, quella liberale e la socialistica o comunistica o altrimenti egualitaria, un giocare di astuzia verso l'una o verso l'altra perdendo se stessi nel corrumpere et corrumpi. E, infine, mi offende per l'evidente mancanza di coraggio che vi si dimostra col rinunziare a sostenere, nell'integrità della sua logica, il difficile concetto di libertà e piegarsi verso l'altro, intrinsecamente contra-dittorio ma che è aperto al facile plauso dei molti, o (come ora si usa dichiarare) dei " giovani ", i quali converrebbe, a dir vero, ammonire e istruire e disciplinare per il bene loro e dell'avvenire che a loro appartiene, e non già tradire adulandoli nella loro inesperienza, ignoranza e naturale baldanza. Certo la concezione liberale è consapevole che essa non apporta pace ma guerra, non agevolezza ma travaglio, non ozio ma lavoro, e non intende ingannare e illudere coloro a cui si rivolge, e preferisce le conquiste faticose e lente, e si appaga dei pochi e degli eletti, la cui efficacia alla pratica è di gran lunga maggiore che non quella dei molti che non sanno quel che si vogliano o che fatuamente vogliono; e allontana da sé il peggiore dei volghi, quello superficialmente addottrinato e raziocinante, e disdegna di scendere nel mercato dove questo volgo si fa ressa e concorrenza e dove col gridìo soffoca i moti del pensiero e delle parole pensate. Il suo campo non è quel mercato, ma il ben più largo campo della storia, dove sempre ha ottenuto le sue vittorie, dove le stesse eventuali sconfitte sono prodromo di vittorie future e di quegli avanzamenti dell'umano pensiero e dell'umana civiltà che si annodaino misteriosamente l'uno all'altro e si continuano nei secoli dei secoli.
Tolta di mezzo quella diade di disparati o ripugnanti concetti, rimane, dunque, unico principio la libertà, che ha in sé la virtù, e con essa il dovere, di proporsi e risolvere i problemi morali che sorgono sempre nuovi nel corso della storia, tutti i problemi, quali che essi siano: salvo, beninteso, quell'unico del rendere gli uomini felici e beati, che non è un problema ma una fisima, e si può lasciare in pastura dei discettanti sulla giustizia da introdurre nel mondo e sull'eguaglianza a cui ri-durlo per farlo star buono.
Ma in questa revisione dei due concetti si è voluto dare una critica dei falsi principi e delle false combinazioni di principi che s'incontrano solitamente nei trattati dottrinali e nei programmi politici, e che bisogna rettificare, se fondamento del pratico discutere e del ben fare è la chiarezza delle idee e il ben ragionare. Senonché confutazione di errori teorici non vuoi dire (e già abbiamo di sopra fatto quest'avvertenza) confutazione e negazione dei bisogni effettivi e pratici che con quei fallaci concetti vengono ragionati o che di essi si valgono come di simboli e motti per aprirsi una strada, richiamar l'attenzione e far sentire la propria urgenza. I fatti accaduti, comunque avvolti di teorie ineffettuali, sono da accettare nella loro realtà di accadimenti storici; e i bisogni sociali sono da notare e da raccogliere, sciogliendoli da quell'involucro illogico e fantastico per recarseli dinanzi come materia di risoluzioni morali, pertinenti al nostro dovere. Dietro le invocazioni passionali od oratorie della libertà che dovrebbe essere convalidata e ribattezzata dalla giustizia, e sotto il peso delle costruzioni teoriche che mal si reggono sulle insicure fondamenta, stanno le difficoltà, le angosce, le insofferenze, le ribellioni, la spinta a migliori assetti, gli sforzi e le speranze dei popoli e delle loro varie classi e gruppi, la realtà insomma delle lotte e dei contrasti che cercano di comporsi in nuovi rapporti e raggiungere nuove forme di produzione economica e di vita sociale. Ma i problemi che da ciò nascono non possono essere formulati e risolti se non sul piano morale della libertà-moralità, e vanamente è stato tentato di trattarli per mezzo di schemi estrinseci e materiali, con proposte di ordinamenti sociali come quelli del liberismo e del comunismo, che sono i due estremi della serie, e con gli altri tra questi intermedi, il difetto dei quali tutti è di non essere né schiettamente economici né schiettamente morali, ma generici e astratti, e perciò di necessità arbitrari. Nel piano morale soltanto quei problemi di ordinamento economico e sociale si risolvono effettualmente di volta in volta, conforme ai loro dati particolari e precisi, quelli e non altri, coi quali si presentano, e col variarne le soluzioni secondo tempi e luoghi, cioè secondo il variare dei dati, attenendosi all'unico criterio della libertà, che vai quanto dire prescegliendo sempre, in ciascun caso, quella soluzione che promuove la libertà stessa, ossia l'elevamento della civiltà.
Per esercitare quest'ufficio e compiere questa scelta la libertà dev'essere economicamente affatto spregiudicata, e avere il coraggio di adottare, al fine del civile progresso, anche i provvedimenti che sembrano o sono i più diversi e opposti, quelli che si chiamano liberistici e quelli che si chiamano comunistici, che tutti sono buoni in certi casi se rispondono al fine che si è detto e tutti, in relazione ad esso, perdono la loro precedente qualificazione e prendono l'altra di provvedimenti moralmente necessari. Per questa ragione or son già molti anni, io mi adoperai a slegare il legame indebitamente annodato tra " liberalismo ", che è vita morale o etico-politica, e " liberismo " che è un tipo tra gli altri tipi possibili di ordinamento economico; sul qual proposito mi sono permesso di fare ripetutamente osservare che, se quel legame fosse reale, si darebbe causa vinta al materialismo storico e, d'accordo con esso, si verrebbe a negare l'autonomia della morale, diventata maschera di bisogni e di soddisfacimenti utilitari. Non c'è cautela che la libertà non possa e non debba, all'occorrenza, usare nel maneggiare le cose dell'economia, che sono rette dalla propria legge alla quale non si comanda nisi parendo; ma, del pari, non c'è ardimento che non possa e non debba, in altre decorrenze, osare. Un ardimento tanto più risoluto e sicuro in quanto ubbidisce non a singoli interessi economici di una singola classe sociale, ma unicamente alla voce della coscienza e alla ispirata visione delle vie della storia.
A questo punto l'uomo del pensiero sa che l'opera sua è terminata e che il campo spetta all'uomo dell'azione, che è veramente tale se è tutt'insieme cauto ed ardito, conservatore e rivoluzionario.

 

 

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