Viene di
frequente ricordata nelle discussioni politiche ed economiche una mia teoria
enunciata or sono venticinque anni e più volte ribadita: che bene la lingua
italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli
"liberalismo" da "liberismo", perché l'uno non è da
confondere con l'altro, l'uno pertinente alla sfera morale e l'altro a
quella economica.
Poiché questo punto è importante e intorno ad esso volgono contrasti
fattisi acuti e aspri ai nostri tempi, tra regimi liberali e regimi
totalitari, tra economia di mercato ed economia pianificata, tra
individualismo e collettivismo; e poiché credo che la questione, sebbene da
me posta e trattata in termini filosofici, non abbia bisogno di parole
astruse, e possa e debba diventare limpida a ogni persona intelligente e di
buona volontà, voglio provarmi a riesporla in modo bensì esatto, ma in
forma alquanto divulgativa. Spero che non si vorrà per questo considerarmi
ostinato, indiscreto o noioso, perché a chi, come me, ha abito di studioso
e ricercatore, niente è tanto gravoso quanto ripetere se stesso e cucinare
i suoi concetti in varie fogge; ma ciò egli fa e deve fare per zelo verso
il vero e per dovere sociale.
Dunque, è da tenere assiomatico che la vita umana non è soggetta a due
leggi contrastanti o parallele, ma a un'unica suprema, e decisiva in ultima
istanza, e che questa legge si chiama la coscienza morale, la quale è
coscienza ed esercizio di libertà in quanto ubbidisce solo a se stessa,
legge non scritta degli Dei, come l'avrebbe chiamata l'ellenica Antigone. Mi
è stata fatta a questo proposito, testé, un'obiezione, che mi ha alquanto
stupito. Come mai - si è detto - a correggere il fanatismo o l'unilateralismo
della pianificazione s'invoca la regola morale, quando è appunto la regola
morale, professata dal bolscevismo e dal pangermanesimo o da altri regimi
variamente confessionali, quello che forma il sostegno dei totalitarismi e
delle pianificazioni? Ma io (ed è cosa che non avrebbe bisogno di espressa
dichiarazione) non ho parlato di particolari fedi e istituzioni cosiddette
morali, di morali fornite di un particolare aggettivo, le quali sono sempre
dal più al meno utilitarie o fortemente commiste di elementi utili tari ed
economici, sib-bene della eticità o moralità, che non patisce nessun
aggettivo e sola definisce l'umanità dell'umanità. S'intende bene che,
parlando di coscienza morale, non si parla della morale gesuitica che pur fu
una regola e un'istituzione, e anzi non solo fu, ma è ancora ed ha molta
parte nella chiesa cattolica. Innanzi alla voce della coscienza morale ogni
altra voce tace o tenta invano i suoi sofismi, i quali non ingannano neppur
coloro che compiono tutti gli sforzi per alterare o per offuscare in se
stessi il nitido specchio interiore.
Questa voce - la voce dell'umanità - in sublimi momenti affratella gli
uomini, anche divisi d'interessi o d'idee, e li congiunge in un medesimo
sentire e li porta a una medesima azione, quali che siano le condizioni
sociali, la più umile e la più superba, e il popolo e la stirpe a cui
appartengono, quali che siano gli abiti che indossano, borghese, militare o
talare.
E un'altra taccia mi è stata data: che io concepisca la coscienza morale
indifferente alla vita economica, con l'affermare che essa accoglie a volta
a volta provvedimenti di carattere liberistico e provvedimenti di carattere
autoritario. Dove si passa sopra all'inciso determinante di " a volta a
volta ", che vuoi dire che essa, che è insieme saggezza, secondo le
situazioni di fatto o storiche, sanziona moralmente l'uno o l'altro tipo di
provvedimenti, ammettendo l'uno ed escludendo l'altro: e questo è il
contrario dell'indifferenza, e anzi una continua attiva partecipazione. Come
la coscienza morale potrebbe essere a ciò indifferente, ossia tenersi
lontana ed estranea alla materia del suo operare, ai bisogni e alle passioni
degli uomini, che essa è addetta non a negare o ad ignorare ma ad elevare
alla sua sfera, a comporre nella sua armonia?
Ora, passando a considerare questi bisogni e passioni, e le azioni e il
lavoro che richiedono, appare evidente che coloro che soffrono quei bisogni
e passioni e debbono soddisfarli, sono individui, e che senza la potenza
dell'individuo niente accadrebbe e il mondo non sarebbe. Fiaccare
l'individualità è disegno da stolto e nella misura in cui riesce (nella
misura, perché radicalmente non riesce mai), è cosa perniciosa. Individui
e popoli così fiaccati e mortificati, sfiduciati e resi inerti, se
esistessero ridotti a questo estremo, sarebbero, secondo la parola
dell'evangelista, sterpi da gettare nel fuoco; e, quando quel pericolo si
profila come tendenza verso un segno folle e irraggiungibile, si accorre
ansiosamente a impedirlo e a sventarlo, e a ravvivare la pianta
dell'individuo, la pianta dell'uomo, a risanare la parziale e transitoria
infermità.
Dall'altra parte, gli individui sono società, e società importa non già,
come si suoi''dire, oppressione e neppure freno e mortificazione imposta
all'individualità, ma necessità che questa attui a pieno se stessa col
rispettare e promuovere il complesso vitale a cui appartiene, l'interesse
comune, come lo si chiama, e che, se è comune, è anche suo, individuale.
Donde ciò che si chiama l'autorità, che non è il contrario
dell'individualità, ma il suo complemento logico, lo sviluppo e possesso di
se stessa, l'individualità non astratta ma vivente.
Come tale, il rapporto dell'individualità con se stessa è conflitto e
soluzione del conflitto, conflitto e soluzione sempre rinascente, e perciò
processo perpetuo. Ma poiché questo travaglio vitale, questa febbre (come
la chiamava Shakespeare) della vita, sembra agli spiriti semplicistici e
superficiali intollerabile, e pertanto da eliminare, quelli si accingono
senz'altro alla grande impresa. E la prima idea che si presenta alle loro
menti è: - Che cosa produce i conflitti? La diversità degli individui tra
loro, e perciò la divergenza di fatto da un modello comune che è la vita
sociale. Bisogna adunque renderli tutti eguali e conformarli al modello
comune. - Senonché la società non è un modello, ma un modo di vita in
continua variazione e svolgimento; e l'eguaglianza è un concetto
matematico, un'astrazione utile ai fini del calcolare e misurare, e non già
un concetto biologico, e lo sforzo che si fa per egualizzare
l'individualità o la vita, tende inconsapevolmente a distruggere
individualità e vita; e se riuscisse al suo fine, non si otterrebbero
individui conformi al modello sociale fissato, ma sparirebbero individui e
società. Tanto vero che nelle attuazioni di fatto che se ne sono tentate,
il modello sociale non è stato altro che il particolare modo di pensare e
di volere di un singolo individuo o di un gruppo d'individui, che, mercé
della violenza e dell'inganno o dell'autoillusione e fanatismo, lo impongono
agli altri ed esercitano tirannia. Né in questa tirannia è dato
conseguire, per cose malvage che si facciano, l'assurdo eguagliamento,
perché non solo restano le insopprimibili diversità, e inferiorità e
superiorità che si dicono di natura, ma anche quelle delle condizioni
sociali ed economiche, che parrebbero più facili a togliere, radicalmente,
totalmente e realmente non si sopprimono, come si è veduto in qualche
grande rivoluzione che si denomina comunistica e che consente le disparità
degli stipendi, e ha potuto distruggere certe classi economiche, ma ne ha
create di nuove. Per altro, il sentimento dello sforzato, della mancanza di
spontaneità e di consenso che solo assicurava la continuità di quella
forza sociale o politica, la minaccia della ribellione che sempre cova negli
animi, pronta e impaziente di venir fuori nell'occasione propizia, porta gli
oppressori e tiranni a credere, o a cercar di far credere ai popoli, che la
violenza sopra essi esercitata, la compressione in cui li si tiene, è un
espediente transitorio e sparirà con lo sparire dei biechi nemici e
cospiratori contro quella forma di società che solo credono conducente al
bene degli uomini e al regno della virtù: argomentazione difensiva o
ipocrisia sentimentale, che fu del Terrore come è dei nuovi Terrori dei
tempi nostri. Opposta ma analoga idea a quella dell'egualizzazione e della
sottomissione integrale all'autorità dello Stato è l'altra che dei due
termini del rapporto, individualità e società, elimina non il primo ma il
secondo, e vuole libere le individualità nel senso che ciascuna sia una
società o uno stato a sé e per una sorta di armonia prestabilita si tenga
insieme con le altre. Anche qui la tentata attuazione è contrassegnata
dalla violenza, e anche qui questa è dichiarata transitoria, cioè da
durare fino all'immancabile trionfo che l'armonia prestabilita otterrà
negli animi passando dalla potenza all'atto. L'una e l'altra guisa di
concepire la cessazione del conflitto e del travaglio nella vita umana hanno
nel loro fondo la fede tradizionale e la mitologia di una vita paradisiaca,
ancorché questo paradiso sia da loro collocato non nei cicli ma sulla
terra, e si avvalori di materialistica metafisica.
Se la politica vaneggia o cagiona disastri quando si prova a eliminare
radicalmente l'umano conflitto, e adempie al suo vero ufficio quando a suo
modo compone i singoli conflitti, non diversamente l'etica ha vaneggiato con
le utopie e ha negato sé medesima quando ha adottato soluzioni arbitrarie,
capricciose e irriverenti alla idealità-realtà, e adempie invece al suo
dovere quando compone anch'essa i singoli conflitti, politicamente bensì e
con la prudenza richiesta, ma insieme con l'ispirazione morale, promovendo e
attuando soluzioni che sieno elevazioni dell'umanità, promovendo e attuando
con la libertà dello spirito la giustizia, che è tutt'uno con la libertà
stessa, e che non è la giustizia astratta e assurda, ma quella concreta e
particolare del singolo momento storico, commisurata e confacente al momento
storico, da modificare o ampliare in nuovi momenti storici, nel progresso
incessante che è il fine della libertà. Perché la riverenza che essa deve
osservare è per l'appunto verso il corso della storia o, come dicono le
religioni, verso la volontà di Dio, che sola infonde rassegnazione e
coraggio del fare. La morale è consapevole di avere di continuo a sé di
fronte forze amorali, forze demoniache, terremoti e vulcani in eruzione, non
solo fisici ma psichici, selvagge passioni, che sarebbe fatuo e sacrilego
insieme pretendere che non dovessero manifestarsi: sacrilego perché contro
gli ascosi consigli dello spirito universale, fatuo perché invece di
spiegare verso quelle la virtù che a lei è propria, penserebbe di
risparmiarsene la fatica, cioè di rinunziare a se stessa per uno di quei
paradisi, nei quali la morale non avrebbe più luogo, venendo meno ogni
conflitto e perciò ogni sforzo da esercitare, cioè l'ufficio stesso della
morale. Essa è vigile e alacre a prevenire tragedie e atrocità, guerre e
rivoluzioni, e ad attuare quello che si chiama lo svolgimento e il progresso
pacifico, che non vuoi già dire senza affanni e dolori intrinseci al vivere
e al fare, ma senza certe prove, particolarmente gravi, di dolori e di
affanni; e tuttavia non sempre può evitare che anche queste forme si
presentino, e non però si perde di animo, e procura, soffrendole, di trarre
da esse un nuovo bene, un maggior bene perché ricco di maggiori esperienze
e reso da ciò più fecondo di opere.
Da queste considerazioni, che alla prima sono potute sembrare digressioni,
risulta dimostrata la mia affermazione che il liberalismo, in quanto ideale
della vita morale dell'umanità, non può fare suo proprio rappresentante o
suo strumento nella sfera economica né il liberismo né lo statalismo. Non
può perché, superiore a entrambi, ha bisogno di tutti e due questi ordini
o classi di metodi e di istituti economici, avvalendosi secondo i casi ora
dell'uno ora dell'altro, ma respingendoli tutti e due quando, disconoscendo
questa loro relatività, si fanno assoluti e si atteggiano a ideale di vita
sociale e morale. Circa la preferenza da dare all'uno o all'altro, quel che
solo si può dire è che questa considerazione non è più scientifica ma di
politica pratica, e che quando accade che una società o un'età si sia
impoverita e minacci gravi rovine per l'eccesso delle statizzazioni e delle
" pianificazioni ", - e in tale condizione è la società nostra e
l'età presente, - il liberismo sopravviene benefico correttore e
risanatore: tanto più efficacemente quando è un liberismo modesto che non
solo ha scosso da sé ma ha addirittura dimenticato le poetico-religiose
esaltazioni di un tempo, alla Bastiat, o il rapporto in cui più tardi fu
posto, pensando di consolidarlo con la scienza naturale, con la lotta
zoologica del darvinismo,1 e ha riconosciuto le morbose escrescenze, sorte
sopra di sé nel corso dell'ottocento, di cui ora si dovrà sanare. Di
questo liberismo, dell'" economia di mercato ", di questa che
chiama " la terza via ", il Ropke è il principale autore e
l'indefesso apostolo, e la dimostrazione che egli ha data, con argomenti di
fatti, del fallimento di un'economia pianificata, è fortemente probante. Ma
non bisogna, d'altra parte, mai trascurare che anche le pianificazioni
serbano il loro diritto, e anche, in certe condizioni e con certe
precauzioni, il diritto all'eventuale esperimento, perché, sebbene la
critica dottrinale, con la logica che la regge e con le conseguenze pratiche
che ne discendono, abbia grandissimo peso e stia a fondamento di tutto,
l'imponderabile che è negli atteggiamenti degli animi e negli spontanei
accomodamenti prodotti dalla necessità inevitabile di salvare
l'individualità e la socialità, può rendere talvolta concrete e storiche
certe formazioni che sembravano alla prima non attuabili o attuabili solo
con gravi danni e finale fallimento. E cotesto non è scetticismo né
agnosticismo, ma cautela e riconoscimento che il pensiero, che è verità,
fa della forza creatrice della volontà umana, più ricca dei nostri schemi
e dei nostri calcoli. In parole comuni, la conclusione è che le soluzioni
dei problemi della convivenza sociale hanno sempre un residuo
d'imprevedibilità, e ciascuno che intenda al bene deve saper deporre
l'arroganza dei modi esclusivi delle soluzioni, e osservare l'umiltà
dinanzi alle vie che la storia viene, come da sé, aprendo.
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