Benedetto Croce - Luigi Einaudi

 

Liberismo e liberalismo

 

B. Croce - Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo

 

Il saggio fu pubblicato in Due anni di vita politica italiana (1946-1947) (Bari, Laterza, 1948, pp. 170-8), dove è datato "Settembre, 1947".
L'autore vi premise la seguente nota: "Scritta per un opuscolo di divulgazione, questa breve dilucidazione fu poi da me lasciata inedita; ma la raccolgo ora qui, perché può avere qualche utilità".

 

 

Viene di frequente ricordata nelle discussioni politiche ed economiche una mia teoria enunciata or sono venticinque anni e più volte ribadita: che bene la lingua italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli "liberalismo" da "liberismo", perché l'uno non è da confondere con l'altro, l'uno pertinente alla sfera morale e l'altro a quella economica.
Poiché questo punto è importante e intorno ad esso volgono contrasti fattisi acuti e aspri ai nostri tempi, tra regimi liberali e regimi totalitari, tra economia di mercato ed economia pianificata, tra individualismo e collettivismo; e poiché credo che la questione, sebbene da me posta e trattata in termini filosofici, non abbia bisogno di parole astruse, e possa e debba diventare limpida a ogni persona intelligente e di buona volontà, voglio provarmi a riesporla in modo bensì esatto, ma in forma alquanto divulgativa. Spero che non si vorrà per questo considerarmi ostinato, indiscreto o noioso, perché a chi, come me, ha abito di studioso e ricercatore, niente è tanto gravoso quanto ripetere se stesso e cucinare i suoi concetti in varie fogge; ma ciò egli fa e deve fare per zelo verso il vero e per dovere sociale.
Dunque, è da tenere assiomatico che la vita umana non è soggetta a due leggi contrastanti o parallele, ma a un'unica suprema, e decisiva in ultima istanza, e che questa legge si chiama la coscienza morale, la quale è coscienza ed esercizio di libertà in quanto ubbidisce solo a se stessa, legge non scritta degli Dei, come l'avrebbe chiamata l'ellenica Antigone. Mi è stata fatta a questo proposito, testé, un'obiezione, che mi ha alquanto stupito. Come mai - si è detto - a correggere il fanatismo o l'unilateralismo della pianificazione s'invoca la regola morale, quando è appunto la regola morale, professata dal bolscevismo e dal pangermanesimo o da altri regimi variamente confessionali, quello che forma il sostegno dei totalitarismi e delle pianificazioni? Ma io (ed è cosa che non avrebbe bisogno di espressa dichiarazione) non ho parlato di particolari fedi e istituzioni cosiddette morali, di morali fornite di un particolare aggettivo, le quali sono sempre dal più al meno utilitarie o fortemente commiste di elementi utili tari ed economici, sib-bene della eticità o moralità, che non patisce nessun aggettivo e sola definisce l'umanità dell'umanità. S'intende bene che, parlando di coscienza morale, non si parla della morale gesuitica che pur fu una regola e un'istituzione, e anzi non solo fu, ma è ancora ed ha molta parte nella chiesa cattolica. Innanzi alla voce della coscienza morale ogni altra voce tace o tenta invano i suoi sofismi, i quali non ingannano neppur coloro che compiono tutti gli sforzi per alterare o per offuscare in se stessi il nitido specchio interiore.
Questa voce - la voce dell'umanità - in sublimi momenti affratella gli uomini, anche divisi d'interessi o d'idee, e li congiunge in un medesimo sentire e li porta a una medesima azione, quali che siano le condizioni sociali, la più umile e la più superba, e il popolo e la stirpe a cui appartengono, quali che siano gli abiti che indossano, borghese, militare o talare.
E un'altra taccia mi è stata data: che io concepisca la coscienza morale indifferente alla vita economica, con l'affermare che essa accoglie a volta a volta provvedimenti di carattere liberistico e provvedimenti di carattere autoritario. Dove si passa sopra all'inciso determinante di " a volta a volta ", che vuoi dire che essa, che è insieme saggezza, secondo le situazioni di fatto o storiche, sanziona moralmente l'uno o l'altro tipo di provvedimenti, ammettendo l'uno ed escludendo l'altro: e questo è il contrario dell'indifferenza, e anzi una continua attiva partecipazione. Come la coscienza morale potrebbe essere a ciò indifferente, ossia tenersi lontana ed estranea alla materia del suo operare, ai bisogni e alle passioni degli uomini, che essa è addetta non a negare o ad ignorare ma ad elevare alla sua sfera, a comporre nella sua armonia?
Ora, passando a considerare questi bisogni e passioni, e le azioni e il lavoro che richiedono, appare evidente che coloro che soffrono quei bisogni e passioni e debbono soddisfarli, sono individui, e che senza la potenza dell'individuo niente accadrebbe e il mondo non sarebbe. Fiaccare l'individualità è disegno da stolto e nella misura in cui riesce (nella misura, perché radicalmente non riesce mai), è cosa perniciosa. Individui e popoli così fiaccati e mortificati, sfiduciati e resi inerti, se esistessero ridotti a questo estremo, sarebbero, secondo la parola dell'evangelista, sterpi da gettare nel fuoco; e, quando quel pericolo si profila come tendenza verso un segno folle e irraggiungibile, si accorre ansiosamente a impedirlo e a sventarlo, e a ravvivare la pianta dell'individuo, la pianta dell'uomo, a risanare la parziale e transitoria infermità.
Dall'altra parte, gli individui sono società, e società importa non già, come si suoi''dire, oppressione e neppure freno e mortificazione imposta all'individualità, ma necessità che questa attui a pieno se stessa col rispettare e promuovere il complesso vitale a cui appartiene, l'interesse comune, come lo si chiama, e che, se è comune, è anche suo, individuale. Donde ciò che si chiama l'autorità, che non è il contrario dell'individualità, ma il suo complemento logico, lo sviluppo e possesso di se stessa, l'individualità non astratta ma vivente.
Come tale, il rapporto dell'individualità con se stessa è conflitto e soluzione del conflitto, conflitto e soluzione sempre rinascente, e perciò processo perpetuo. Ma poiché questo travaglio vitale, questa febbre (come la chiamava Shakespeare) della vita, sembra agli spiriti semplicistici e superficiali intollerabile, e pertanto da eliminare, quelli si accingono senz'altro alla grande impresa. E la prima idea che si presenta alle loro menti è: - Che cosa produce i conflitti? La diversità degli individui tra loro, e perciò la divergenza di fatto da un modello comune che è la vita sociale. Bisogna adunque renderli tutti eguali e conformarli al modello comune. - Senonché la società non è un modello, ma un modo di vita in continua variazione e svolgimento; e l'eguaglianza è un concetto matematico, un'astrazione utile ai fini del calcolare e misurare, e non già un concetto biologico, e lo sforzo che si fa per egualizzare l'individualità o la vita, tende inconsapevolmente a distruggere individualità e vita; e se riuscisse al suo fine, non si otterrebbero individui conformi al modello sociale fissato, ma sparirebbero individui e società. Tanto vero che nelle attuazioni di fatto che se ne sono tentate, il modello sociale non è stato altro che il particolare modo di pensare e di volere di un singolo individuo o di un gruppo d'individui, che, mercé della violenza e dell'inganno o dell'autoillusione e fanatismo, lo impongono agli altri ed esercitano tirannia. Né in questa tirannia è dato conseguire, per cose malvage che si facciano, l'assurdo eguagliamento, perché non solo restano le insopprimibili diversità, e inferiorità e superiorità che si dicono di natura, ma anche quelle delle condizioni sociali ed economiche, che parrebbero più facili a togliere, radicalmente, totalmente e realmente non si sopprimono, come si è veduto in qualche grande rivoluzione che si denomina comunistica e che consente le disparità degli stipendi, e ha potuto distruggere certe classi economiche, ma ne ha create di nuove. Per altro, il sentimento dello sforzato, della mancanza di spontaneità e di consenso che solo assicurava la continuità di quella forza sociale o politica, la minaccia della ribellione che sempre cova negli animi, pronta e impaziente di venir fuori nell'occasione propizia, porta gli oppressori e tiranni a credere, o a cercar di far credere ai popoli, che la violenza sopra essi esercitata, la compressione in cui li si tiene, è un espediente transitorio e sparirà con lo sparire dei biechi nemici e cospiratori contro quella forma di società che solo credono conducente al bene degli uomini e al regno della virtù: argomentazione difensiva o ipocrisia sentimentale, che fu del Terrore come è dei nuovi Terrori dei tempi nostri. Opposta ma analoga idea a quella dell'egualizzazione e della sottomissione integrale all'autorità dello Stato è l'altra che dei due termini del rapporto, individualità e società, elimina non il primo ma il secondo, e vuole libere le individualità nel senso che ciascuna sia una società o uno stato a sé e per una sorta di armonia prestabilita si tenga insieme con le altre. Anche qui la tentata attuazione è contrassegnata dalla violenza, e anche qui questa è dichiarata transitoria, cioè da durare fino all'immancabile trionfo che l'armonia prestabilita otterrà negli animi passando dalla potenza all'atto. L'una e l'altra guisa di concepire la cessazione del conflitto e del travaglio nella vita umana hanno nel loro fondo la fede tradizionale e la mitologia di una vita paradisiaca, ancorché questo paradiso sia da loro collocato non nei cicli ma sulla terra, e si avvalori di materialistica metafisica.
Se la politica vaneggia o cagiona disastri quando si prova a eliminare radicalmente l'umano conflitto, e adempie al suo vero ufficio quando a suo modo compone i singoli conflitti, non diversamente l'etica ha vaneggiato con le utopie e ha negato sé medesima quando ha adottato soluzioni arbitrarie, capricciose e irriverenti alla idealità-realtà, e adempie invece al suo dovere quando compone anch'essa i singoli conflitti, politicamente bensì e con la prudenza richiesta, ma insieme con l'ispirazione morale, promovendo e attuando soluzioni che sieno elevazioni dell'umanità, promovendo e attuando con la libertà dello spirito la giustizia, che è tutt'uno con la libertà stessa, e che non è la giustizia astratta e assurda, ma quella concreta e particolare del singolo momento storico, commisurata e confacente al momento storico, da modificare o ampliare in nuovi momenti storici, nel progresso incessante che è il fine della libertà. Perché la riverenza che essa deve osservare è per l'appunto verso il corso della storia o, come dicono le religioni, verso la volontà di Dio, che sola infonde rassegnazione e coraggio del fare. La morale è consapevole di avere di continuo a sé di fronte forze amorali, forze demoniache, terremoti e vulcani in eruzione, non solo fisici ma psichici, selvagge passioni, che sarebbe fatuo e sacrilego insieme pretendere che non dovessero manifestarsi: sacrilego perché contro gli ascosi consigli dello spirito universale, fatuo perché invece di spiegare verso quelle la virtù che a lei è propria, penserebbe di risparmiarsene la fatica, cioè di rinunziare a se stessa per uno di quei paradisi, nei quali la morale non avrebbe più luogo, venendo meno ogni conflitto e perciò ogni sforzo da esercitare, cioè l'ufficio stesso della morale. Essa è vigile e alacre a prevenire tragedie e atrocità, guerre e rivoluzioni, e ad attuare quello che si chiama lo svolgimento e il progresso pacifico, che non vuoi già dire senza affanni e dolori intrinseci al vivere e al fare, ma senza certe prove, particolarmente gravi, di dolori e di affanni; e tuttavia non sempre può evitare che anche queste forme si presentino, e non però si perde di animo, e procura, soffrendole, di trarre da esse un nuovo bene, un maggior bene perché ricco di maggiori esperienze e reso da ciò più fecondo di opere.
Da queste considerazioni, che alla prima sono potute sembrare digressioni, risulta dimostrata la mia affermazione che il liberalismo, in quanto ideale della vita morale dell'umanità, non può fare suo proprio rappresentante o suo strumento nella sfera economica né il liberismo né lo statalismo. Non può perché, superiore a entrambi, ha bisogno di tutti e due questi ordini o classi di metodi e di istituti economici, avvalendosi secondo i casi ora dell'uno ora dell'altro, ma respingendoli tutti e due quando, disconoscendo questa loro relatività, si fanno assoluti e si atteggiano a ideale di vita sociale e morale. Circa la preferenza da dare all'uno o all'altro, quel che solo si può dire è che questa considerazione non è più scientifica ma di politica pratica, e che quando accade che una società o un'età si sia impoverita e minacci gravi rovine per l'eccesso delle statizzazioni e delle " pianificazioni ", - e in tale condizione è la società nostra e l'età presente, - il liberismo sopravviene benefico correttore e risanatore: tanto più efficacemente quando è un liberismo modesto che non solo ha scosso da sé ma ha addirittura dimenticato le poetico-religiose esaltazioni di un tempo, alla Bastiat, o il rapporto in cui più tardi fu posto, pensando di consolidarlo con la scienza naturale, con la lotta zoologica del darvinismo,1 e ha riconosciuto le morbose escrescenze, sorte sopra di sé nel corso dell'ottocento, di cui ora si dovrà sanare. Di questo liberismo, dell'" economia di mercato ", di questa che chiama " la terza via ", il Ropke è il principale autore e l'indefesso apostolo, e la dimostrazione che egli ha data, con argomenti di fatti, del fallimento di un'economia pianificata, è fortemente probante. Ma non bisogna, d'altra parte, mai trascurare che anche le pianificazioni serbano il loro diritto, e anche, in certe condizioni e con certe precauzioni, il diritto all'eventuale esperimento, perché, sebbene la critica dottrinale, con la logica che la regge e con le conseguenze pratiche che ne discendono, abbia grandissimo peso e stia a fondamento di tutto, l'imponderabile che è negli atteggiamenti degli animi e negli spontanei accomodamenti prodotti dalla necessità inevitabile di salvare l'individualità e la socialità, può rendere talvolta concrete e storiche certe formazioni che sembravano alla prima non attuabili o attuabili solo con gravi danni e finale fallimento. E cotesto non è scetticismo né agnosticismo, ma cautela e riconoscimento che il pensiero, che è verità, fa della forza creatrice della volontà umana, più ricca dei nostri schemi e dei nostri calcoli. In parole comuni, la conclusione è che le soluzioni dei problemi della convivenza sociale hanno sempre un residuo d'imprevedibilità, e ciascuno che intenda al bene deve saper deporre l'arroganza dei modi esclusivi delle soluzioni, e osservare l'umiltà dinanzi alle vie che la storia viene, come da sé, aprendo.

 

 

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