1. Nei tre
capitoli della memoria il Croce delinea il sorgere della religione della
libertà in quel grande periodo tra il 1815 ed il 1848 che fu la matrice
vera dell'Europa contemporanea; spiega come a quella si contrapponessero
altre fedi, la cattolica romana, l'assolutismo monarchico, il democratismo e
il comunismo, e chiarisce la distinzione tra il romanticismo teoretico e
speculativo e quello pratico, sentimentale e morale. Nuocerebbe, dopo avere
indicato il tema della memoria, sunteggiarla; essendo impossibile dare, col
sunto, l'impressione di quanta gioia dello spirito e di quanto stimolo a
meditare dia questa, come ogni altra scrittura del Croce. Basta la notizia
bibliografica per incitare a leggerla negli atti dell'Accademia napoletana e
per far desiderare, a chi l'abbia letta ed agli altri che non abbiano a ciò
agevolezza, che presto si compia la promessa, contenuta nel titolo, della
nuova storia del secolo decimonono. Sarà narrazione la quale, muovendo di
Francia, dirà quanta parte, a fare quella storia, abbiano avuto anche le
altre nazioni europee e, chissà!, pur quelle fuor di Europa se, a formar
l'Europa d'oggi, il Croce ritenga abbiano contribuito correnti spirituali
sorte o ringagliardite o mutate fuor della breve cerchia europea.
2. Altra volta, (in Dei concetti di liberalismo economico e di borghesia
e sulle origini materialisticbe della guerra, in " La Riforma
sociale" del settembre-ottobre 1928) ho preso occasione da
scritture crociane per discorrere intorno a taluni concetti che mi parvero
degni di approfondimento. Ritornerò stavolta su un punto già allora
studiato, quello del rapporto fra i concetti di liberalismo in generale e di
liberismo economico. Allora avevo negato che gli economisti dessero, come il
Croce pareva intendere, valore di principio economico al " liberismo
"; osservando essere compito della scienza economica unicamente la
ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un
dato fine. Ma il fine non è posto dagli economisti e spesso non è un fine
economico, ma politico, morale, religioso; ma la soluzione più conveniente
non sempre è quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare,
potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio
statale o comunale od altro ancora. Soggiungevo solo che, di fatto ed in via
tutt'affatto empirica, per lo più accade siano sbagliati o pretestuosi i
motivi dell'intervento, sicché il liberismo economico spesso si raccomanda
come ottima regola "pratica".
Nella nuova memoria il Croce abbassa ancor più il valore astratto del
concetto di liberismo economico. Non solo esso è concetto inferiore e
subordinato a quello più ampio di liberalismo; ma non pare neppure conservi
l'antica posizione di " legittimo principio economico". Leggesi
invero nel saggio odierno:
"Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide col
cosidetto liberismo economico, col quale ha avuto bensì concomitanze, e
forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza
attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che
empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze
diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione di
questi o quelli mezzi di produzione, né l'ha poi sempre rifiutata nel
fatto, che anzi ha attuato non poche socializzazioni; e solamente esso le
critica e le contrasta in casi dati e particolari, quando cioè è da
ritenere che la socializzazione arresti o deprima la produzione della
ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento
economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento
complessivo, che spesso non è neppure eguale (p. 33)."
Dove l'A.
sembra identificare l'operare economico del " liberalismo " con
quello che a me nella recensione citata, pareva essere il contenuto del
" principio economico, il quale non è né libcristico né
interventistico " né comunistico, e non afferma doversi seguire sempre
la massima del lasciar fare e lasciar passare, ma l'altra della soluzione
volta per volta più conveniente. Sebbene si sia così bene incamminati
sulla via della chiarificazione dei concetti, non parmi si sia peranco
giunti alla mèta; cosicché non è forse inutile elencare i diversi
significati che la parola " liberismo " può avere in economia,
con alcuna chiosa sui rapporti di esso col " liberalismo ".
3. Nel linguaggio corrente, adoperato soprattutto nelle scritture dei laici,
si ritiene " liberistica " una maniera di ragionare che è invece
puramente astratta ed è propria della scienza economica, perché scienza e
perciò astrazione. Se l'economista scrive: " supponiamo che i
permutanti agiscano in un mercato libero e che vi sia in esso concorrenza
fra molti venditori e fra molti compratori ", i laici ritengono che per
aver posto siffatta premessa, l'economista sia " anche " un
liberista pratico. Ma egli pone anche premesse diverse, come quando scrive:
" supponiamo che sul mercato libero intervengano un solo venditore e
molti compratori "; o come quando avverte: " supponiamo che,
intervenendo sul mercato un solo venditore e molti compratori, il mercato
non sia libero, ma regolato dallo stato secondo il criterio, ad esempio, del
massimo utile collettivo ". Nel primo caso, il ragionatore parte dalla
" premessa " della libera concorrenza; nel secondo, da quella del
monopolio privato puro; nel terzo, da quella del monopolio pubblico. Il
ragionatore può nutrire fede liberistica o comunistica od altra ancora. Noi
di ciò nulla sappiamo in sede di ragionamento scientifico, dove interessa
soltanto porre adeguate premesse al rigoroso ragionare astratto e dedurre
tutte le illazioni contenute nelle premesse. La premessa di mercato libero o
di individui agenti per motivi egoistici non è un "principio"
economico; è un puro strumento di ragionamento ed ha valore esclusivamente
astratto. Tutta la scienza economica è un'astrazione pura; e non può non
essere tale. Nessuno è in grado di dominare tutti i fattori della realtà,
nella loro molteplicità e continua variabilità, ed è gioco forza
costruire schemi astratti, manovrando un piccolissimo numero di fattori. Le
generazioni successive di economisti si lusingano di potere via via crescere
il numero dei fattori manovrati e di poterli manovrare con ragionamenti via
via più delicati. Guai se non avessero questa lusinga! Guai se, trascinati
dall'entusiasmo, non si illudessero talvolta di avere rasentato, mercé la
scelta dei fattori ai loro occhi più rilevanti, la realtà! Lo
scoraggiamento troncherebbe, durante la fatica, le ali alla fantasia
divinatrice. L'hiatus tra lo schema astratto e la realtà rimane pur sempre
incolmabile alla scienza; e solo il fiuto del politico, e la potenza visiva
dello storico possono gettare un ponte fra di essi.
4. La ipotesi astratta liberistica dalla forma: " supponiamo
che..." può passare alla formulazione precettistica, quando
all'economista si chieda di risolvere un problema concreto sulla base di
puri ragionamenti economici. Terribile pretesa, alla quale l'economista
avrebbe ragione di sottrarsi, ben sapendo che il puro ragionamento economico
non può risolvere il problema concreto. Tuttavia, il sentimento del dovere
verso la cosa pubblica è spesso più forte, e moralmente dovrebbe essere
sempre più forte, dei suoi scrupoli scientifici; ed egli si induce ad
apportare il suo contributo, accanto e contemporaneamente al fisico, al
chimico, al giurista, allo storico, al filosofo ed al politico, che nei
problemi concreti tutti gli altri riassume, o dovrebbe riassumere, alla
soluzione desiderata.
Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né
liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo; ma a volta a
volta osteggia i dazi doganali protettivi, perché reputa che l'attività
economica sia massima quando sia aperta senza limiti la via alla concorrenza
della mercé estera; è favorevole alle leggi limitatrici del lavoro delle
donne e dei fanciulli, alla proibizione del lavoro notturno, al risarcimento
degli infortuni sul lavoro, alle pensioni di vecchiaia, perché considera
colali freni e presidi legislativi mezzi efficaci a crescere la
produttività operaia; è contrario alla socializzazione universale perché
prevede che essa attenuerebbe l'interesse a produrre; ma vuole che lo stato
consideri le ferrovie come industria pubblica, reputando dannoso alla
collettività il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E così via, ogni
problema darà luogo ad una soluzione sua propria, dettata da un appropriato
calcolo di convenienza. Se la soluzione è liberistica essa si impone non
perché liberistica, ma perché più conveniente delle altre. La convenienza
di una soluzione, evidente sulla base di date premesse, viene meno quando la
premessa muti. È noto che, per ragionamento puro economico, il
protezionismo è preferibile al libero scambio, in determinate ipotesi di
industrie nuove (Hamilton, Stuart Mill) o di svendita temporanea dovuta a
sfruttamento di nuovi tenitori o di nuove invenzioni. Teoricamente, la
questione è giudicata a favore delia protezione temporanea; ma rarissimi
sono gli economisti, i quali, dopo avere esposto il teorema, non soggiungano
subito che la prudenza pratica consiglia di non applicare la conclusione
astratta, essendo difficilissimo, per non dire impossibile, scoprire, fra le
tante postulanti, l'industria giovane la qua/le, sostenuta nei primi anni
dai dazi contro la concorrenza estera, giungerà a vivere di vita propria;
ancor più difficile scoprire quella che giova proteggere temporaneamente
perché la concorrenza straniera che oggi la ucciderebbe, è destinata
presto a svanire e conviene risparmiare al paese la perdita del capitale
oggi impiegato nella industria nazionale, e poi, il costo della sua
ricostruzione a pericolo passato; e quasi assurdo, finalmente, a tacer
d'altro, che un'industria provvisoriamente per questi motivi protetta
riconosca essere giunto per essa il momento della virilità od essere
trascorso il nembo che la minacciava. Siamo sempre nel caso del liberismo
per calcolo di convenienza; ma il calcolo è più complesso, ed è condotto
sulla base di un più gran numero di fattori.
5. Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti,
inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi
concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della
massima liberistica. " Liberisti " sarebbero in questa accezione
coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciare passare
quasi fosse un principio universale. Secondo costoro l'azione libera
dell'individuo, a lui ispirata dall'interesse individuale, coinciderebbe
sempre coll'interesse collettivo. Alcune frasi di Adamo Smith: -
"L'individuo fa senza tregua ogni sforzo per impiegare il proprio
capitale nel modo più vantaggioso. Ben vero egli cerca il suo proprio
beneficio e non quello della società; ma le cure che egli pone nel cercare
il proprio personale vantaggio lo conducono naturalmente o, meglio,
necessariamente, a preferire per l'appunto quella particolare specie di
impiego che è più vantaggioso alla società... Pur perseguendo il proprio
interesse personale, egli lavora spesso a vantaggio della società in modo
più efficace che se egli vi intendesse per espresso proposito... Ognuno
pensa solo al proprio guadagno; ma nel far ciò l'individuo è condotto,
come in molti altri casi, da una mano invisibile a raggiungere un fine a cui
egli non aveva affatto inteso (Weallh of Nations, ed. Cannan, vol. I,
pp. 419 e 421) " - hanno potuto far credere che la identificazione
dell'interesse individuale e dell'interesse collettivo fosse un "
principio " connaturato alla scienza economica. Troppi sono tuttavia i
luoghi in cui lo stesso Adamo Smith ha insistito sulla opposizione di
interessi fra classe e classe, fra i singoli e la collettività; troppi
quelli in cui egli elenca le ragioni d'intervento dello stato per la
consecuzione di fini preclusi all'azione individuale od a questo
contrastanti, perché sia lecito dare alle frasi di Adamo Smith nulla più
che un valore storico - la " mano invisibile " ricorda la "
divina provvidenza" o la "natura", delle terminologie varie
usate al tempo suo - o contingente a problemi particolari del tempo da lui
in quel momento discussi. Tutta la storia posteriore della dottrina sta a
dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a
che fare con la concezione religiosa del liberismo.
Non direi tuttavia che la concezione religiosa del liberismo sia priva di
valore pratico. Ne può anzi avere uno grandissimo. Giova moltissimo che, di
fronte all'andazzo di tutto chiedere allo stato, di tutto sperare
dall'azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di
poltronaggine l'interventista e di avidità il protezionista. Messa fuori
causa la scienza, la figura morale del primo si erge nella vita pratica e
politica di mille cubiti al disopra dei suoi oppositori. Senza di lui, lo
stato non solo adempirebbe ai compiti che gli son propri ed integrerebbe
l'azione individuale laddove l'integrazione è conveniente, ma, intervenendo
nelle cose economiche ad istigazione dei furbi e degli sciocchi, farebbe il
danno della collettività.
6. Esiste un nesso tra la concezione astratta, quella precettistica e quella
religiosa del liberismo economico. Si giunge di solito al precetto
liberistico per mezzo di un ragionamento astratto. Il credente nel liberismo
arrivò alla fede dopo essersi persuaso, con molti o pochi ragionamenti
astratti, che le soluzioni diverse da quelle liberistiche erano per tutti i
problemi concreti a lui noti (qualche eccezione c'è anche per il credente,
ma, per la sua minima importanza, presto egli la dimentica) dannose alla
collettività. Tutte tre le concezioni, inoltre, hanno questo di comune fra
di loro: che esse si muovono nell'ambito dell'economia e non hanno un legame
necessario con la visione liberale del mondo.
Il liberista può essere fautore di un sistema di governo assoluto; del che
l'esempio più famoso resta il liberismo doganale inaugurato in Francia da
Napoleone III, col consiglio dello Chevalier, e contro le critiche del
Thiers e di altri liberali, che poi lo disfecero al tempo della terza
repubblica. E può accadere l'inverso: che il liberale sia anche liberista,
come fu nel decennio tra il 1850 e il 1860 il conte di Cavour in Piemonte,
contro l'opposizione dei reazionari, che erano anche protezionisti.
7. Ma v'ha un'ultima concezione del liberismo economico che direi storica e
che mi pare affratellata e quasi immedesimata col liberalismo, sì da
riuscire quasi impossibile scindere l'uno dall'altro. Il Croce quasi lascia
supporre che se fosse vero " che il corso storico delle cose portasse
al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza,
conservando l'ordinamento capitalistico cioè della proprietà privata, o di
garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata... il
liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella
abolizione (p. 33) ".! Ammissione che l'A. subito distrugge in una
delle sue più belle pagine, avvertendo che, quando così fosse veramente ed
il comunismo arricchisse materialmente gli uomini, li impoverirebbe
spiritualmente, riducendoli pari a quelli che Leonardo definiva "
transiti di cibi". L'ammissione, anche subito negata, è tuttavia
spaventevole troppo per non eccitare qualche dubbio. Che io porrei così: un
liberalismo il quale accettasse l'abolizione della proprietà privata e
l'instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore
produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo? Può cioè
esistere l'essenza del liberalismo, che è libertà spirituale, laddove non
esista proprietà privata e tutto appartenga allo stato? So bene essere
difficilissimo definire dove finisca la proprietà privata e dove cominci
quella dello stato. Può invero concepirsi un comunismo in cui lo stato non
possegga e non gestisca direttamente alcuna proprietà; l'attuale assetto
economico russo essendo lontanissimo, ad esempio, dall'assorbimento
giuridico di ogni proprietà nello stato. E, al contrario, può darsi un
regime giuridico di proprietà privata, nel quale lo stato sia onnipotente
ed i proprietari privati siano di fatto funzionari dello stato. Qui non si
vuoi discutere di parole, ma di sostanza. Della quale il succo è che, se
comunismo esiste davvero, non possono esistere forze indipendenti da quella
dello stato. Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la
produzione e la distribuzione dei beni economici. La volontà unica potrà a
volta a volta avere come strumento di azione organi burocratici di
un'amministrazione unica accentrata o corpi autonomi o cooperative o persino
società anonime concessionarie. Il mezzo scelto come strumento d'azione non
monta. Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d'azione non
abbiano una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato
e del gruppo politico in cui lo stato si impersona. Se la volontà è unica,
è possibile raggiungere gli ideali che lo stato comunistico si propone:
massimizzazione della ricchezza materiale ovvero del benessere sociale
definito nella maniera voluta dalla dottrina dominante, distribuzione a
seconda del bisogno o del merito o di una data combinazione del criterio del
bisogno e di quello del merito e di altri criteri ancora. Se le volontà
sono invece parecchie ed indipendenti le une dalle altre; se, pur abolita
formalmente la proprietà privata, la " cooperativa " o l'"
ente autonomo " (il trust pubblico come lo chiamano in Russia) o la
" società concessionaria " hanno un potere proprio, derivante
dalla volontà dei soci o dei partecipanti al lavoro, la organizzazione
collettivistica è morta. Esistono, al luogo suo, organismi vivi che
intendono raggiungere fini pro-pri, vantaggiosi alla collettività
particolare, e non coincidenti necessariamente coi fini ritenuti utili dallo
stato per la collettività generale.
Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può
non esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono
tollerabili ideologie concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze
indipendenti, le quali intendono necessariamente a distruggere ed a
sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di quelle
materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non
può dunque tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e
minerebbe a breve andare. Il comunismo può ammettere la critica tecnica; e,
da quel che si legge negli scritti di osservatori avveduti, la critica
tecnica è largamente ammessa ed anzi vivamente incoraggiata nella Russia
bolscevica. La critica tecnica è invero inoffensiva; perché parte dalla
premessa propria della ideologia attuale russa che scopo della vita sia la
consecuzione della massima quantità totale di prodotto in una data unità
di tempo. Non è ammessa e non è ammissibile la critica di principio, la
quale sostenga che lo scopo della vita non sia quello suddetto; ma vi
possano essere tanti scopi della vita quanti sono i corpi, i gruppi e le
unità sociali. Questa è eresia; e ben lo avverte il gruppo dirigente, il
quale sa che, ammessa la libertà per i gruppi legalmente riconosciuti,
" enti autonomi", "cooperative", "repubbliche
autonome" della U.R.S.S., di determinare da sé il proprio scopo della
vita, inevitabilmente gli scopi si moltiplicheranno; i gruppi si scinderanno
e la moltiplicazione degli scopi e dei gruppi giungerà sino alla famiglia
ed all'individuo. Risorgerà la volontà dell'uno contro la volontà del
tatto; l'uno ritornerà a concepire la vita ed i suoi scopi diversamente
dagli altri uno e dal tutto. Finirà la cattolicità comunista e rifiorirà
la libertà.
Perciò il liberalismo non può, nemmeno per figura rettorica, assistere
concettualmente all'avvento di un assetto economico comunistico, come pare
ammetta il Croce. Esso vi ripugna per incompatibilità assoluta. Non può
esistere libertà dello spirito libertà del pensiero, dove esiste e deve
esistere una sola volontà, un solo credo, una sola ideologia. Se per
libertà del pensiero non si intende solo quella di poter pensare e meditare
dentro a se stesso; - ed anche la libertà di pensare con se stesso è
mortificata in quelle condizioni - se essa implica la libertà di comunicare
ad altri il proprio pensiero, quella libertà non può esistere nel
comunismo. La libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con
una certa dose di liberismo economico, con che non si intende, avvertasi
bene, collegare il liberalismo con uno qualunque dei tre significati tecnici
dapprima elencati del liberismo economico. La concezione storica del
liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una
società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di
vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non
serve di un'unica volontà. In altri termini e per non lasciare aperta
alcuna via al rimprovero di far dipendere la vita dello spirito
dall'economia, lo spirito libero crea un'economia a sé medesimo consona e
non può creare perciò un'economia comunistica che è economia asservita ad
un'idea, qualunque sia, imposta da una volontà, per definizione e per
ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se
è libero, crea un'economia varia, in cui coesistono proprietà privata e
proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono
classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti,
di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i
mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza
dover chiedere l'elemosina del vivere ad un'unica forza, si chiami questa
stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse
da quella ortodossa. Devono, nella società libera o liberale, l'individuo,
la famiglia, la classe, il raggruppamento, la società commerciale, la
fondazione pia, la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la
consacrazione della propria vita legale da un organo supremo, detto stato;
ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere di vita
propria, coordinata alla vita degli altri ma non immersa nella vita del
tutto e derivante dalla tolleranza dell'organo del tutto. Come le tante
forze vive ed autonome debbano essere fatte coesistere; come esse debbano
contribuire alla vita del tutto ed alla creazione dell'organo che impersona
l'universale è altro discorso che ci condurrebbe lungi. Basti avere posto
per fermo ca-posaldo che senza la coesistenza di molte forze vive di linfa
originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo. Può esistere
una società comunistica, al tempo stesso nemica irreducibile del liberismo
economico e del liberalismo.
|
[...] gli
Aspetti morali della vita politica sono il complemento necessario di quegli
Elementi di politica in cui il Croce aveva riassunto la sua concezione della
politica, necessario per rimediare e correggere il " senso di
disorientamento, o almeno di meraviglia " provato forse, dice,
l'autore, da qualche lettore dei suoi Elementi di politica " nel
percorrere il giro die vi è delineato della filosofia della politica, senza
vedervi trattata, e nemmeno toccata, una dottrina così cospicua, che ha
avuto tanta parte negli ultimi secoli della storia europea, e l'ha ancora,
qual'è la concezione liberale ". L'" appendice "
odierna ha per iscopo, in succo, di dimostrare che quella omissione non era
disconoscimento dell'importanza della concezione liberale, ma, per converso,
" un modo implicito di riconoscerla pertinente a una sfera diversa e
superiore ". Come il Croce dimostri la sua tesi non voglio qui
malamente ridire, quando il succoso volumetto è tale che ogni lettore
curioso di chiarire dinnanzi agli occhi della sua mente parole
quotidianamente ripetute ha il dovere di meditarlo e quando il Croce, come
è suo costume, ha ristretto il suo ragionamento al numero minimo di parole,
al disotto delle quali sembra impossibile scendere. [...] La meditazione
filosofica italiana dell'ultimo quarto di secolo deriva quasi tutta, per
consenso o per dissenso, dal Croce. Non altrettanto direi della meditazione
economica [...]. Gli economisti italiani del primo quarto del secolo
presente o non filosofarono pubblicamente per iscritto; o se pretesero
esporre una loro filosofia, mossero, come il Pareto, da premesse e si
avanzarono per vie che al Croce dispiacquero per fermo assai. In verità, il
solo punto di contatto di cui si abbia pubblica notizia tra l'economia e la
filosofia è l'atteggiamento " liberistico " di taluni economisti;
perché è il solo punto in cui agli economisti accada di manifestare, in un
senso o nell'altro, certe loro idee sul mondo, sulla vita, sullo stato e
somiglianti concetti generali e volentieri indugino in scorribande sui
terreni di confino tra la scienza loro, che è tecnica, le scienze vicine
della politica o della morale e la filosofia in generale. Anche il problema
del valore, il quale un tempo teneva così gran parte nei trattati economici
e chiamava a raccolta premesse attinte alla filosofia utilitaria, si è
andato via via trasformando in un problema di prezzi, dove se hanno
importanza fattori di utilità e di costi, questi sono considerati sempre
meglio come fattori di un sistema di equilibrio, come dati primi, che
all'economista non interessa investigare nella loro ragion d'essere o
causalità, ma esclusivamente nel loro operare al fine di condurre ad un
sistema di prezzi, di salali, di profitti, di imposte, di quantità
prodotte, consumate, risparmiate. Perciò è probabile che al filosofo sia
talvolta cagione di stupore l'indifferenza con cui l'economista guarda,
quando vuoi risolvere questioni sue economiche, a discussioni od a concetti
che al filosofo paiono importanti e tali sono di fatto; ma non per risolvere
problemi di economia. Perciò gli economisti sono passati accanto, tra il
1890 e il 1900, ai problemi marxistici del valore e del sopra-lavoro, al cui
studio il Croce die tanto contributo di pensiero, senza mostrar quasi di
avvedersene. [...]
Il solo punto visibile di contatto è, ripeto, quello che il Croce discute
in due saggi letti all'Accademia napoletana, parlando dei rapporti tra
liberismo e liberalismo e dei presupposti filosofici della concezione
liberale. Della sua tesi fondamentale, che il " liberismo " sia un
concetto inferiore e subordinato a quello più ampio del " liberalismo
" non è chi non veda la giustezza. Il " liberismo " fu la
traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una
concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo; e va da sé
che i traduttori, non sempre consapevoli dell'esistenza di altri mondi
all'infuori di quello in cui essi, per nobilissimi fini e con risultati non
spregevoli, si arrabattavano e combattevano, dessero valore di norma o legge
superiore a quella regola empirica, del lasciar fare e del lasciar passare,
la quale effettivamente aveva giovato in tanti casi a crescere la ricchezza
e la prosperità delle nazioni moderne. Oggi, però, non solo non v'è più
nessuno il quale dia alla regola empirica del lasciar fare e del lasciar
passare (cosidetto liberismo economico) valore di legge razionale o morale;
ma non oserei neppure affermare che vi sia tra gli economisti chi dia al
" liberismo " quel valore di " legittimo principio economico
" che il Croce (p. 40 di Aspetti morali)* sembra riconoscergli
indiscutibilmente. Di un "principio" economico detto del liberismo
non v'è traccia, suppongo, nella moderna letteratura economica. Se v'è, è
solo per chiarire che quella è una posizione anti-economica del problema;
come ve ne sono tante, che si trascinano per abitudine nelle pagine dei
laici. Come oggi non v'è, tra gli economisti, nessuno il quale prenda
partito prò o contro la grande o la piccola proprietà, la grande o la
piccola industria, la mezzadria o l'affittanza o la conduzione diretta; e il
semplice porre il problema in quel modo basta a togliere al proponente
titolo di economista, perché il vero problema è invece di sapere quale
delle soluzioni sopra indicate sia, in date condizioni di clima, di
giacitura dei terreni, di popolazione, di mercati, ecc., ecc., la più
adatta a raggiungere certi fini che possono essere economici, morali,
demografici, politici, fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla
base di una data concezione generale della vita (Croce direbbe sulla base di
una legge morale da attuare); così nessun economista risolve un qualsiasi
problema di condotta economica facendo appello ad un preteso principio
economico-liberistico e saggiando la bontà della condotta scelta alla còte
del detto principio. Questa è una posizione logica inaccettabile; poiché
l'essere una certa soluzione liberistica invece che autoritaria non vuoi
dire affatto che quella sia la soluzione economica. La premessa è un fine
da raggiungere; e poiché i fini sono molti, anche qui lo stabilire la
graduatoria dei fini non è compito dell'economista, ma di chi sta più in
alto di lui. Croce ha su questo punto parole scultorie: chi deve decidere
" non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il
libito individuale, e ricchezza solo l'accumulamento dei mezzi a tal fine;
e, più esattamente, non può accettare addirittura che questi sieno beni e
ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana ".2
L'economista cerca di risolvere i problemi suoi partendo appunto da siffatta
premessa. Da Adamo Smith a Marshall - e si potrebbe risalire più in su e
venire sino ai viventi - questa è sempre stata la premessa e il fine delle
fatiche degli economisti; non mai il procacciamento dei beni materiali.
Naturalmente " è sempre stata ", quando si faccia astrazione
dagli epigoni, dagli abbreviatori, dai popolarizzatori e, nei grandi, dalle
maniere abbreviate e stenografiche di esprimersi e dal fastidio di ripetere
cose notissime. Ma, anche negli epigoni e nei popolarizzatori, tipo Bastiat,
come si spiegherebbe quel loro entusiasmo, quel loro calore, quella fiamma
che li accendeva e li faceva talora martiri dell'idea, se essi avessero
avuto di mira meri beni materiali e non invece più alti beni morali ideali?
Posta la premessa, il compito dell'economista è modesto, sebbene, per la
complicazione dei rapporti economici e sociali, grandemente irto di
incertezze e difficoltà: cercare la soluzione economica più adatta per
raggiungere il fine; la quale soluzione può non essere la più economica o
la meno costosa di tutte, se per essa si raggiunga bensì il fine economico
del maggior accumulamento di ricchezza, ma non l'altro fine, quello
veramente cercato e voluto, della massima elevazione umana. Già Adamo Smith
in una celebre frase diceva che la difesa di una nazione è di gran lunga
più importante della sua opulenza (libro IV, cap. II; a p. 429 del vol. I
dell'ed. Cannan); e qual ricerca è più frequente nei libri di Marshall e
di Pigou del danno di certi massimi di redditi individuali e anche
collettivi per il raggiungimento di fini superiori? Quel che assai volte
sommessamente gli economisti, dopo avere osservato e riflettuto, concludono
è che, a raggiungere il fine voluto - che può essere di un massimo di
ricchezza, se il massimo di ricchezza coincide od è compatibile coll'ideale
superiore della vita umana, ma può non essere un massimo, se il fine
superiore da raggiungere non lo consente - giova che lo stato non se ne
impacci. Ma può non giovare e può convenire intervengano lo stato od altri
enti pubblici coattivi od altre forze sociali collettive. Il che non si può
sapere a priori, l'esperienza sola essendo giudice in tale materia
contingente. Quel che da sommo fastidio agli economisti non è l'intervento
dello stato nei casi in cui esso è ottimo strumento per raggiungere il
fine; ma il pretendere, che spesso si fa, di raggiungere con tal mezzo il
fine magnificato superiore o spirituale, mentre in realtà si toccano più
vicini materiali fini concreti ed i furbi lo sanno e vogliono solo, con
quelle chiacchiere, far credere ai gonzi, i quali sono i più, che
l'intervento da essi auspicato ha scopi altissimi, indiscutibili. Il che, a
cagion d'esempio, apertamente si dice oggi negli Stati Uniti, dove i
contrabbandieri introduttori di bevande spiritose, timorosi che il ritorno
alla libertà moderata del bere guasti loro il mestiere, sussidiano le leghe
proibizionistiche e la California è " secca " ossia
proibizionista, perché pare venda, grazie al divieto di bere, più care le
uve delle quali è produttrice. Queste tuttavia sono mere difficoltà
concrete di applicare il principio. La tesi vera parrai dunque essere
questa: che il liberismo non è né punto né poco " un principio
economico ", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico;
è una " soluzione concreta " che talvolta e, diciamo pure,
abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di
cercare con l'osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta,
lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali
o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una
certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza
subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.
Per parlare figuratamente in linguaggio economico, la scienza economica non
è una produttrice di beni diretti, né materiali, né morali, a la scelta
del metodo migliore per ottenere quei beni diretti che agli uomini piace
ottenere. E si comprende perciò come la scienza economica si affini e
progredisca coll'affinarsi dei fini perseguiti dagli uomini. Se in un paese,
come la Russia bolscevica, prevale una concezione della vita materialistica
e comunistica, gli economisti devono risolvere problemi di massimi puramente
materiali, entro i limiti di una concezione la quale deprime i fini
spirituali, facendo gli uomini schiavi dello stato dominatore ed
organizzatore universale; epperciò deprime anche la possibilità di
raggiungere fini subordinati materiali, arrugginendo gli strumenti
produttivi, disanimando il lavoro, scoraggiando il risparmio. Epperciò, a
quel che se ne sa, quei disgraziati studiosi sono ridotti alla pietosa
condizione di contabili di dare e di avere di una grossa impresa statale
male attrezzata; e la scienza economica imbarbarisce. Nei paesi invece, nei
quali ferve la vita morale e spirituale, e gli uomini si propongono sempre
più alti ideali di vita libera, varia e feconda, anche si moltiplicano e si
aggrovigliano i problemi economici; e intelligenze sottilissime sono
invogliate a risolvere problemi ognora più complicati; sicché anche questa
scienza strumentale, che è l'economica, progredisce e si manifesta in una
letteratura meravigliosa, la cui bellezza estetica, sovrattutto in certi
libri monetari, per la apparente astrusità fortunatamente inaccessibili al
volgo, talvolta commuove e rapisce nella stessa maniera che fa un capolavoro
di Michelangelo o di Raffaello. [...]
|