Benedetto Croce - Luigi Einaudi

 

Liberismo e liberalismo

 

L. Einaudi - Due diversi significati del concetto di liberismo economico  e dei suoi rapporti con quello di liberalismo

 

Il saggio fu pubblicato nel 1931, nelle "Cronache e rassegne" de " La Riforma sociale " (a. xxxviii vol. XLII, fasc. 3-4, marzo-aprile 1931, pp. 186-94), da cui si riproduce. Secondo le consuetudini della rubrica, a inizio del saggio erano riportati i dati bibliografici dell'opera esaminata: Benedetto Croce: Capitoli introduttivi di una storia dell'Europa nel secolo decimonono. Memoria letta all'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli (Napoli, 1931. Un vol. di pp. 51, estratto dal vol. LVI, parte prima, degli Atti della Accademia sopradetta) ".
I primi due capitoli della memoria di Croce sono in questo volume.

 

 

1. Nei tre capitoli della memoria il Croce delinea il sorgere della religione della libertà in quel grande periodo tra il 1815 ed il 1848 che fu la matrice vera dell'Europa contemporanea; spiega come a quella si contrapponessero altre fedi, la cattolica romana, l'assolutismo monarchico, il democratismo e il comunismo, e chiarisce la distinzione tra il romanticismo teoretico e speculativo e quello pratico, sentimentale e morale. Nuocerebbe, dopo avere indicato il tema della memoria, sunteggiarla; essendo impossibile dare, col sunto, l'impressione di quanta gioia dello spirito e di quanto stimolo a meditare dia questa, come ogni altra scrittura del Croce. Basta la notizia bibliografica per incitare a leggerla negli atti dell'Accademia napoletana e per far desiderare, a chi l'abbia letta ed agli altri che non abbiano a ciò agevolezza, che presto si compia la promessa, contenuta nel titolo, della nuova storia del secolo decimonono. Sarà narrazione la quale, muovendo di Francia, dirà quanta parte, a fare quella storia, abbiano avuto anche le altre nazioni europee e, chissà!, pur quelle fuor di Europa se, a formar l'Europa d'oggi, il Croce ritenga abbiano contribuito correnti spirituali sorte o ringagliardite o mutate fuor della breve cerchia europea.
2. Altra volta, (in Dei concetti di liberalismo economico e di borghesia e sulle origini materialisticbe della guerra, in " La Riforma sociale" del settembre-ottobre 1928)  ho preso occasione da scritture crociane per discorrere intorno a taluni concetti che mi parvero degni di approfondimento. Ritornerò stavolta su un punto già allora studiato, quello del rapporto fra i concetti di liberalismo in generale e di liberismo economico. Allora avevo negato che gli economisti dessero, come il Croce pareva intendere, valore di principio economico al " liberismo "; osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fine non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico, morale, religioso; ma la soluzione più conveniente non sempre è quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale od altro ancora. Soggiungevo solo che, di fatto ed in via tutt'affatto empirica, per lo più accade siano sbagliati o pretestuosi i motivi dell'intervento, sicché il liberismo economico spesso si raccomanda come ottima regola "pratica".
Nella nuova memoria il Croce abbassa ancor più il valore astratto del concetto di liberismo economico. Non solo esso è concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo; ma non pare neppure conservi l'antica posizione di " legittimo principio economico". Leggesi invero nel saggio odierno:

"Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide col cosidetto liberismo economico, col quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione di questi o quelli mezzi di produzione, né l'ha poi sempre rifiutata nel fatto, che anzi ha attuato non poche socializzazioni; e solamente esso le critica e le contrasta in casi dati e particolari, quando cioè è da ritenere che la socializzazione arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento complessivo, che spesso non è neppure eguale (p. 33)."

Dove l'A. sembra identificare l'operare economico del " liberalismo " con quello che a me nella recensione citata, pareva essere il contenuto del " principio economico, il quale non è né libcristico né interventistico " né comunistico, e non afferma doversi seguire sempre la massima del lasciar fare e lasciar passare, ma l'altra della soluzione volta per volta più conveniente. Sebbene si sia così bene incamminati sulla via della chiarificazione dei concetti, non parmi si sia peranco giunti alla mèta; cosicché non è forse inutile elencare i diversi significati che la parola " liberismo " può avere in economia, con alcuna chiosa sui rapporti di esso col " liberalismo ".
3. Nel linguaggio corrente, adoperato soprattutto nelle scritture dei laici, si ritiene " liberistica " una maniera di ragionare che è invece puramente astratta ed è propria della scienza economica, perché scienza e perciò astrazione. Se l'economista scrive: " supponiamo che i permutanti agiscano in un mercato libero e che vi sia in esso concorrenza fra molti venditori e fra molti compratori ", i laici ritengono che per aver posto siffatta premessa, l'economista sia " anche " un liberista pratico. Ma egli pone anche premesse diverse, come quando scrive: " supponiamo che sul mercato libero intervengano un solo venditore e molti compratori "; o come quando avverte: " supponiamo che, intervenendo sul mercato un solo venditore e molti compratori, il mercato non sia libero, ma regolato dallo stato secondo il criterio, ad esempio, del massimo utile collettivo ". Nel primo caso, il ragionatore parte dalla " premessa " della libera concorrenza; nel secondo, da quella del monopolio privato puro; nel terzo, da quella del monopolio pubblico. Il ragionatore può nutrire fede liberistica o comunistica od altra ancora. Noi di ciò nulla sappiamo in sede di ragionamento scientifico, dove interessa soltanto porre adeguate premesse al rigoroso ragionare astratto e dedurre tutte le illazioni contenute nelle premesse. La premessa di mercato libero o di individui agenti per motivi egoistici non è un "principio" economico; è un puro strumento di ragionamento ed ha valore esclusivamente astratto. Tutta la scienza economica è un'astrazione pura; e non può non essere tale. Nessuno è in grado di dominare tutti i fattori della realtà, nella loro molteplicità e continua variabilità, ed è gioco forza costruire schemi astratti, manovrando un piccolissimo numero di fattori. Le generazioni successive di economisti si lusingano di potere via via crescere il numero dei fattori manovrati e di poterli manovrare con ragionamenti via via più delicati. Guai se non avessero questa lusinga! Guai se, trascinati dall'entusiasmo, non si illudessero talvolta di avere rasentato, mercé la scelta dei fattori ai loro occhi più rilevanti, la realtà! Lo scoraggiamento troncherebbe, durante la fatica, le ali alla fantasia divinatrice. L'hiatus tra lo schema astratto e la realtà rimane pur sempre incolmabile alla scienza; e solo il fiuto del politico, e la potenza visiva dello storico possono gettare un ponte fra di essi.
4. La ipotesi astratta liberistica dalla forma: " supponiamo che..." può passare alla formulazione precettistica, quando all'economista si chieda di risolvere un problema concreto sulla base di puri ragionamenti economici. Terribile pretesa, alla quale l'economista avrebbe ragione di sottrarsi, ben sapendo che il puro ragionamento economico non può risolvere il problema concreto. Tuttavia, il sentimento del dovere verso la cosa pubblica è spesso più forte, e moralmente dovrebbe essere sempre più forte, dei suoi scrupoli scientifici; ed egli si induce ad apportare il suo contributo, accanto e contemporaneamente al fisico, al chimico, al giurista, allo storico, al filosofo ed al politico, che nei problemi concreti tutti gli altri riassume, o dovrebbe riassumere, alla soluzione desiderata.
Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo; ma a volta a volta osteggia i dazi doganali protettivi, perché reputa che l'attività economica sia massima quando sia aperta senza limiti la via alla concorrenza della mercé estera; è favorevole alle leggi limitatrici del lavoro delle donne e dei fanciulli, alla proibizione del lavoro notturno, al risarcimento degli infortuni sul lavoro, alle pensioni di vecchiaia, perché considera colali freni e presidi legislativi mezzi efficaci a crescere la produttività operaia; è contrario alla socializzazione universale perché prevede che essa attenuerebbe l'interesse a produrre; ma vuole che lo stato consideri le ferrovie come industria pubblica, reputando dannoso alla collettività il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E così via, ogni problema darà luogo ad una soluzione sua propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza. Se la soluzione è liberistica essa si impone non perché liberistica, ma perché più conveniente delle altre. La convenienza di una soluzione, evidente sulla base di date premesse, viene meno quando la premessa muti. È noto che, per ragionamento puro economico, il protezionismo è preferibile al libero scambio, in determinate ipotesi di industrie nuove (Hamilton, Stuart Mill) o di svendita temporanea dovuta a sfruttamento di nuovi tenitori o di nuove invenzioni. Teoricamente, la questione è giudicata a favore delia protezione temporanea; ma rarissimi sono gli economisti, i quali, dopo avere esposto il teorema, non soggiungano subito che la prudenza pratica consiglia di non applicare la conclusione astratta, essendo difficilissimo, per non dire impossibile, scoprire, fra le tante postulanti, l'industria giovane la qua/le, sostenuta nei primi anni dai dazi contro la concorrenza estera, giungerà a vivere di vita propria; ancor più difficile scoprire quella che giova proteggere temporaneamente perché la concorrenza straniera che oggi la ucciderebbe, è destinata presto a svanire e conviene risparmiare al paese la perdita del capitale oggi impiegato nella industria nazionale, e poi, il costo della sua ricostruzione a pericolo passato; e quasi assurdo, finalmente, a tacer d'altro, che un'industria provvisoriamente per questi motivi protetta riconosca essere giunto per essa il momento della virilità od essere trascorso il nembo che la minacciava. Siamo sempre nel caso del liberismo per calcolo di convenienza; ma il calcolo è più complesso, ed è condotto sulla base di un più gran numero di fattori.
5. Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. " Liberisti " sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciare passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro l'azione libera dell'individuo, a lui ispirata dall'interesse individuale, coinciderebbe sempre coll'interesse collettivo. Alcune frasi di Adamo Smith: - "L'individuo fa senza tregua ogni sforzo per impiegare il proprio capitale nel modo più vantaggioso. Ben vero egli cerca il suo proprio beneficio e non quello della società; ma le cure che egli pone nel cercare il proprio personale vantaggio lo conducono naturalmente o, meglio, necessariamente, a preferire per l'appunto quella particolare specie di impiego che è più vantaggioso alla società... Pur perseguendo il proprio interesse personale, egli lavora spesso a vantaggio della società in modo più efficace che se egli vi intendesse per espresso proposito... Ognuno pensa solo al proprio guadagno; ma nel far ciò l'individuo è condotto, come in molti altri casi, da una mano invisibile a raggiungere un fine a cui egli non aveva affatto inteso (Weallh of Nations, ed. Cannan, vol. I, pp. 419 e 421) " - hanno potuto far credere che la identificazione dell'interesse individuale e dell'interesse collettivo fosse un " principio " connaturato alla scienza economica. Troppi sono tuttavia i luoghi in cui lo stesso Adamo Smith ha insistito sulla opposizione di interessi fra classe e classe, fra i singoli e la collettività; troppi quelli in cui egli elenca le ragioni d'intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all'azione individuale od a questo contrastanti, perché sia lecito dare alle frasi di Adamo Smith nulla più che un valore storico - la " mano invisibile " ricorda la " divina provvidenza" o la "natura", delle terminologie varie usate al tempo suo - o contingente a problemi particolari del tempo da lui in quel momento discussi. Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo.
Non direi tuttavia che la concezione religiosa del liberismo sia priva di valore pratico. Ne può anzi avere uno grandissimo. Giova moltissimo che, di fronte all'andazzo di tutto chiedere allo stato, di tutto sperare dall'azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di poltronaggine l'interventista e di avidità il protezionista. Messa fuori causa la scienza, la figura morale del primo si erge nella vita pratica e politica di mille cubiti al disopra dei suoi oppositori. Senza di lui, lo stato non solo adempirebbe ai compiti che gli son propri ed integrerebbe l'azione individuale laddove l'integrazione è conveniente, ma, intervenendo nelle cose economiche ad istigazione dei furbi e degli sciocchi, farebbe il danno della collettività.
6. Esiste un nesso tra la concezione astratta, quella precettistica e quella religiosa del liberismo economico. Si giunge di solito al precetto liberistico per mezzo di un ragionamento astratto. Il credente nel liberismo arrivò alla fede dopo essersi persuaso, con molti o pochi ragionamenti astratti, che le soluzioni diverse da quelle liberistiche erano per tutti i problemi concreti a lui noti (qualche eccezione c'è anche per il credente, ma, per la sua minima importanza, presto egli la dimentica) dannose alla collettività. Tutte tre le concezioni, inoltre, hanno questo di comune fra di loro: che esse si muovono nell'ambito dell'economia e non hanno un legame necessario con la visione liberale del mondo.
Il liberista può essere fautore di un sistema di governo assoluto; del che l'esempio più famoso resta il liberismo doganale inaugurato in Francia da Napoleone III, col consiglio dello Chevalier, e contro le critiche del Thiers e di altri liberali, che poi lo disfecero al tempo della terza repubblica. E può accadere l'inverso: che il liberale sia anche liberista, come fu nel decennio tra il 1850 e il 1860 il conte di Cavour in Piemonte, contro l'opposizione dei reazionari, che erano anche protezionisti.
7. Ma v'ha un'ultima concezione del liberismo economico che direi storica e che mi pare affratellata e quasi immedesimata col liberalismo, sì da riuscire quasi impossibile scindere l'uno dall'altro. Il Croce quasi lascia supporre che se fosse vero " che il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l'ordinamento capitalistico cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata... il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella abolizione (p. 33) ".! Ammissione che l'A. subito distrugge in una delle sue più belle pagine, avvertendo che, quando così fosse veramente ed il comunismo arricchisse materialmente gli uomini, li impoverirebbe spiritualmente, riducendoli pari a quelli che Leonardo definiva " transiti di cibi". L'ammissione, anche subito negata, è tuttavia spaventevole troppo per non eccitare qualche dubbio. Che io porrei così: un liberalismo il quale accettasse l'abolizione della proprietà privata e l'instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo? Può cioè esistere l'essenza del liberalismo, che è libertà spirituale, laddove non esista proprietà privata e tutto appartenga allo stato? So bene essere difficilissimo definire dove finisca la proprietà privata e dove cominci quella dello stato. Può invero concepirsi un comunismo in cui lo stato non possegga e non gestisca direttamente alcuna proprietà; l'attuale assetto economico russo essendo lontanissimo, ad esempio, dall'assorbimento giuridico di ogni proprietà nello stato. E, al contrario, può darsi un regime giuridico di proprietà privata, nel quale lo stato sia onnipotente ed i proprietari privati siano di fatto funzionari dello stato. Qui non si vuoi discutere di parole, ma di sostanza. Della quale il succo è che, se comunismo esiste davvero, non possono esistere forze indipendenti da quella dello stato. Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei beni economici. La volontà unica potrà a volta a volta avere come strumento di azione organi burocratici di un'amministrazione unica accentrata o corpi autonomi o cooperative o persino società anonime concessionarie. Il mezzo scelto come strumento d'azione non monta. Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d'azione non abbiano una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato e del gruppo politico in cui lo stato si impersona. Se la volontà è unica, è possibile raggiungere gli ideali che lo stato comunistico si propone: massimizzazione della ricchezza materiale ovvero del benessere sociale definito nella maniera voluta dalla dottrina dominante, distribuzione a seconda del bisogno o del merito o di una data combinazione del criterio del bisogno e di quello del merito e di altri criteri ancora. Se le volontà sono invece parecchie ed indipendenti le une dalle altre; se, pur abolita formalmente la proprietà privata, la " cooperativa " o l'" ente autonomo " (il trust pubblico come lo chiamano in Russia) o la " società concessionaria " hanno un potere proprio, derivante dalla volontà dei soci o dei partecipanti al lavoro, la organizzazione collettivistica è morta. Esistono, al luogo suo, organismi vivi che intendono raggiungere fini pro-pri, vantaggiosi alla collettività particolare, e non coincidenti necessariamente coi fini ritenuti utili dallo stato per la collettività generale.
Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può non esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono tollerabili ideologie concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze indipendenti, le quali intendono necessariamente a distruggere ed a sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di quelle materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non può dunque tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e minerebbe a breve andare. Il comunismo può ammettere la critica tecnica; e, da quel che si legge negli scritti di osservatori avveduti, la critica tecnica è largamente ammessa ed anzi vivamente incoraggiata nella Russia bolscevica. La critica tecnica è invero inoffensiva; perché parte dalla premessa propria della ideologia attuale russa che scopo della vita sia la consecuzione della massima quantità totale di prodotto in una data unità di tempo. Non è ammessa e non è ammissibile la critica di principio, la quale sostenga che lo scopo della vita non sia quello suddetto; ma vi possano essere tanti scopi della vita quanti sono i corpi, i gruppi e le unità sociali. Questa è eresia; e ben lo avverte il gruppo dirigente, il quale sa che, ammessa la libertà per i gruppi legalmente riconosciuti, " enti autonomi", "cooperative", "repubbliche autonome" della U.R.S.S., di determinare da sé il proprio scopo della vita, inevitabilmente gli scopi si moltiplicheranno; i gruppi si scinderanno e la moltiplicazione degli scopi e dei gruppi giungerà sino alla famiglia ed all'individuo. Risorgerà la volontà dell'uno contro la volontà del tatto; l'uno ritornerà a concepire la vita ed i suoi scopi diversamente dagli altri uno e dal tutto. Finirà la cattolicità comunista e rifiorirà la libertà.
Perciò il liberalismo non può, nemmeno per figura rettorica, assistere concettualmente all'avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta il Croce. Esso vi ripugna per incompatibilità assoluta. Non può esistere libertà dello spirito libertà del pensiero, dove esiste e deve esistere una sola volontà, un solo credo, una sola ideologia. Se per libertà del pensiero non si intende solo quella di poter pensare e meditare dentro a se stesso; - ed anche la libertà di pensare con se stesso è mortificata in quelle condizioni - se essa implica la libertà di comunicare ad altri il proprio pensiero, quella libertà non può esistere nel comunismo. La libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico, con che non si intende, avvertasi bene, collegare il liberalismo con uno qualunque dei tre significati tecnici dapprima elencati del liberismo economico. La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un'unica volontà. In altri termini e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di far dipendere la vita dello spirito dall'economia, lo spirito libero crea un'economia a sé medesimo consona e non può creare perciò un'economia comunistica che è economia asservita ad un'idea, qualunque sia, imposta da una volontà, per definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se è libero, crea un'economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l'elemosina del vivere ad un'unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa. Devono, nella società libera o liberale, l'individuo, la famiglia, la classe, il raggruppamento, la società commerciale, la fondazione pia, la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la consacrazione della propria vita legale da un organo supremo, detto stato; ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere di vita propria, coordinata alla vita degli altri ma non immersa nella vita del tutto e derivante dalla tolleranza dell'organo del tutto. Come le tante forze vive ed autonome debbano essere fatte coesistere; come esse debbano contribuire alla vita del tutto ed alla creazione dell'organo che impersona l'universale è altro discorso che ci condurrebbe lungi. Basti avere posto per fermo ca-posaldo che senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo. Può esistere una società comunistica, al tempo stesso nemica irreducibile del liberismo economico e del liberalismo.

 

ALLEGATO
DEI CONCETTI DI LIBERISMO ECONOMICO E DI BORGHESIA E SULLE ORIGINI MATERIALISTICHE DELLA GUERRA

 

 

Il saggio fu pubblicato nel 1928, nelle " Cronache e rassegne " de " La Riforma sociale " (a. xxxv, vol. xxxix, fase. 9-10, settembre-ottobre 1928, pp. 501-16), da dove (pp. 501-6) si riproducono questi stralci. I dati bibliografici riportati, secondo le consuetudini della rubrica, a inizio del saggio comprendono varie opere di Croce: Contributo alla critica di me stesso (Bari, Laterza, 1926), i saggi Il presupposto filosofico della concezione liberale, Contrasto di ideali politici in Europa dopo il 1870, Liberismo e liberalismo. Di un equivoco concetto storico: la " borghesia " (estratti dagli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, voli. L e LI, 1927) e Aspetti morali della vita politica. Appendice agli "Elementi di politica" (Bari, Laterza, 1928). Gli stralci ripresi qui riguardano soprattutto quest'ultima operetta (i cui capitoli primo e terzo sono in questo volume).

 

 

[...] gli Aspetti morali della vita politica sono il complemento necessario di quegli Elementi di politica in cui il Croce aveva riassunto la sua concezione della politica, necessario per rimediare e correggere il " senso di disorientamento, o almeno di meraviglia " provato forse, dice, l'autore, da qualche lettore dei suoi Elementi di politica " nel percorrere il giro die vi è delineato della filosofia della politica, senza vedervi trattata, e nemmeno toccata, una dottrina così cospicua, che ha avuto tanta parte negli ultimi secoli della storia europea, e l'ha ancora, qual'è la concezione liberale ".  L'" appendice " odierna ha per iscopo, in succo, di dimostrare che quella omissione non era disconoscimento dell'importanza della concezione liberale, ma, per converso, " un modo implicito di riconoscerla pertinente a una sfera diversa e superiore ". Come il Croce dimostri la sua tesi non voglio qui malamente ridire, quando il succoso volumetto è tale che ogni lettore curioso di chiarire dinnanzi agli occhi della sua mente parole quotidianamente ripetute ha il dovere di meditarlo e quando il Croce, come è suo costume, ha ristretto il suo ragionamento al numero minimo di parole, al disotto delle quali sembra impossibile scendere. [...] La meditazione filosofica italiana dell'ultimo quarto di secolo deriva quasi tutta, per consenso o per dissenso, dal Croce. Non altrettanto direi della meditazione economica [...]. Gli economisti italiani del primo quarto del secolo presente o non filosofarono pubblicamente per iscritto; o se pretesero esporre una loro filosofia, mossero, come il Pareto, da premesse e si avanzarono per vie che al Croce dispiacquero per fermo assai. In verità, il solo punto di contatto di cui si abbia pubblica notizia tra l'economia e la filosofia è l'atteggiamento " liberistico " di taluni economisti; perché è il solo punto in cui agli economisti accada di manifestare, in un senso o nell'altro, certe loro idee sul mondo, sulla vita, sullo stato e somiglianti concetti generali e volentieri indugino in scorribande sui terreni di confino tra la scienza loro, che è tecnica, le scienze vicine della politica o della morale e la filosofia in generale. Anche il problema del valore, il quale un tempo teneva così gran parte nei trattati economici e chiamava a raccolta premesse attinte alla filosofia utilitaria, si è andato via via trasformando in un problema di prezzi, dove se hanno importanza fattori di utilità e di costi, questi sono considerati sempre meglio come fattori di un sistema di equilibrio, come dati primi, che all'economista non interessa investigare nella loro ragion d'essere o causalità, ma esclusivamente nel loro operare al fine di condurre ad un sistema di prezzi, di salali, di profitti, di imposte, di quantità prodotte, consumate, risparmiate. Perciò è probabile che al filosofo sia talvolta cagione di stupore l'indifferenza con cui l'economista guarda, quando vuoi risolvere questioni sue economiche, a discussioni od a concetti che al filosofo paiono importanti e tali sono di fatto; ma non per risolvere problemi di economia. Perciò gli economisti sono passati accanto, tra il 1890 e il 1900, ai problemi marxistici del valore e del sopra-lavoro, al cui studio il Croce die tanto contributo di pensiero, senza mostrar quasi di avvedersene. [...]
Il solo punto visibile di contatto è, ripeto, quello che il Croce discute in due saggi letti all'Accademia napoletana, parlando dei rapporti tra liberismo e liberalismo e dei presupposti filosofici della concezione liberale. Della sua tesi fondamentale, che il " liberismo " sia un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio del " liberalismo " non è chi non veda la giustezza. Il " liberismo " fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo; e va da sé che i traduttori, non sempre consapevoli dell'esistenza di altri mondi all'infuori di quello in cui essi, per nobilissimi fini e con risultati non spregevoli, si arrabattavano e combattevano, dessero valore di norma o legge superiore a quella regola empirica, del lasciar fare e del lasciar passare, la quale effettivamente aveva giovato in tanti casi a crescere la ricchezza e la prosperità delle nazioni moderne. Oggi, però, non solo non v'è più nessuno il quale dia alla regola empirica del lasciar fare e del lasciar passare (cosidetto liberismo economico) valore di legge razionale o morale; ma non oserei neppure affermare che vi sia tra gli economisti chi dia al " liberismo " quel valore di " legittimo principio economico " che il Croce (p. 40 di Aspetti morali)* sembra riconoscergli indiscutibilmente. Di un "principio" economico detto del liberismo non v'è traccia, suppongo, nella moderna letteratura economica. Se v'è, è solo per chiarire che quella è una posizione anti-economica del problema; come ve ne sono tante, che si trascinano per abitudine nelle pagine dei laici. Come oggi non v'è, tra gli economisti, nessuno il quale prenda partito prò o contro la grande o la piccola proprietà, la grande o la piccola industria, la mezzadria o l'affittanza o la conduzione diretta; e il semplice porre il problema in quel modo basta a togliere al proponente titolo di economista, perché il vero problema è invece di sapere quale delle soluzioni sopra indicate sia, in date condizioni di clima, di giacitura dei terreni, di popolazione, di mercati, ecc., ecc., la più adatta a raggiungere certi fini che possono essere economici, morali, demografici, politici, fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla base di una data concezione generale della vita (Croce direbbe sulla base di una legge morale da attuare); così nessun economista risolve un qualsiasi problema di condotta economica facendo appello ad un preteso principio economico-liberistico e saggiando la bontà della condotta scelta alla còte del detto principio. Questa è una posizione logica inaccettabile; poiché l'essere una certa soluzione liberistica invece che autoritaria non vuoi dire affatto che quella sia la soluzione economica. La premessa è un fine da raggiungere; e poiché i fini sono molti, anche qui lo stabilire la graduatoria dei fini non è compito dell'economista, ma di chi sta più in alto di lui. Croce ha su questo punto parole scultorie: chi deve decidere " non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l'accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura che questi sieno beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana ".2 L'economista cerca di risolvere i problemi suoi partendo appunto da siffatta premessa. Da Adamo Smith a Marshall - e si potrebbe risalire più in su e venire sino ai viventi - questa è sempre stata la premessa e il fine delle fatiche degli economisti; non mai il procacciamento dei beni materiali. Naturalmente " è sempre stata ", quando si faccia astrazione dagli epigoni, dagli abbreviatori, dai popolarizzatori e, nei grandi, dalle maniere abbreviate e stenografiche di esprimersi e dal fastidio di ripetere cose notissime. Ma, anche negli epigoni e nei popolarizzatori, tipo Bastiat, come si spiegherebbe quel loro entusiasmo, quel loro calore, quella fiamma che li accendeva e li faceva talora martiri dell'idea, se essi avessero avuto di mira meri beni materiali e non invece più alti beni morali ideali?
Posta la premessa, il compito dell'economista è modesto, sebbene, per la complicazione dei rapporti economici e sociali, grandemente irto di incertezze e difficoltà: cercare la soluzione economica più adatta per raggiungere il fine; la quale soluzione può non essere la più economica o la meno costosa di tutte, se per essa si raggiunga bensì il fine economico del maggior accumulamento di ricchezza, ma non l'altro fine, quello veramente cercato e voluto, della massima elevazione umana. Già Adamo Smith in una celebre frase diceva che la difesa di una nazione è di gran lunga più importante della sua opulenza (libro IV, cap. II; a p. 429 del vol. I dell'ed. Cannan); e qual ricerca è più frequente nei libri di Marshall e di Pigou del danno di certi massimi di redditi individuali e anche collettivi per il raggiungimento di fini superiori? Quel che assai volte sommessamente gli economisti, dopo avere osservato e riflettuto, concludono è che, a raggiungere il fine voluto - che può essere di un massimo di ricchezza, se il massimo di ricchezza coincide od è compatibile coll'ideale superiore della vita umana, ma può non essere un massimo, se il fine superiore da raggiungere non lo consente - giova che lo stato non se ne impacci. Ma può non giovare e può convenire intervengano lo stato od altri enti pubblici coattivi od altre forze sociali collettive. Il che non si può sapere a priori, l'esperienza sola essendo giudice in tale materia contingente. Quel che da sommo fastidio agli economisti non è l'intervento dello stato nei casi in cui esso è ottimo strumento per raggiungere il fine; ma il pretendere, che spesso si fa, di raggiungere con tal mezzo il fine magnificato superiore o spirituale, mentre in realtà si toccano più vicini materiali fini concreti ed i furbi lo sanno e vogliono solo, con quelle chiacchiere, far credere ai gonzi, i quali sono i più, che l'intervento da essi auspicato ha scopi altissimi, indiscutibili. Il che, a cagion d'esempio, apertamente si dice oggi negli Stati Uniti, dove i contrabbandieri introduttori di bevande spiritose, timorosi che il ritorno alla libertà moderata del bere guasti loro il mestiere, sussidiano le leghe proibizionistiche e la California è " secca " ossia proibizionista, perché pare venda, grazie al divieto di bere, più care le uve delle quali è produttrice. Queste tuttavia sono mere difficoltà concrete di applicare il principio. La tesi vera parrai dunque essere questa: che il liberismo non è né punto né poco " un principio economico ", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una " soluzione concreta " che talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l'osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.
Per parlare figuratamente in linguaggio economico, la scienza economica non è una produttrice di beni diretti, né materiali, né morali, a la scelta del metodo migliore per ottenere quei beni diretti che agli uomini piace ottenere. E si comprende perciò come la scienza economica si affini e progredisca coll'affinarsi dei fini perseguiti dagli uomini. Se in un paese, come la Russia bolscevica, prevale una concezione della vita materialistica e comunistica, gli economisti devono risolvere problemi di massimi puramente materiali, entro i limiti di una concezione la quale deprime i fini spirituali, facendo gli uomini schiavi dello stato dominatore ed organizzatore universale; epperciò deprime anche la possibilità di raggiungere fini subordinati materiali, arrugginendo gli strumenti produttivi, disanimando il lavoro, scoraggiando il risparmio. Epperciò, a quel che se ne sa, quei disgraziati studiosi sono ridotti alla pietosa condizione di contabili di dare e di avere di una grossa impresa statale male attrezzata; e la scienza economica imbarbarisce. Nei paesi invece, nei quali ferve la vita morale e spirituale, e gli uomini si propongono sempre più alti ideali di vita libera, varia e feconda, anche si moltiplicano e si aggrovigliano i problemi economici; e intelligenze sottilissime sono invogliate a risolvere problemi ognora più complicati; sicché anche questa scienza strumentale, che è l'economica, progredisce e si manifesta in una letteratura meravigliosa, la cui bellezza estetica, sovrattutto in certi libri monetari, per la apparente astrusità fortunatamente inaccessibili al volgo, talvolta commuove e rapisce nella stessa maniera che fa un capolavoro di Michelangelo o di Raffaello. [...]

 

 

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