Nel
dibattito iniziato nel quaderno di settembre 1940 di questa rivista
interviene Benedetto Croce con la seguente nota:
"Un dubbio e una riserva che sono nel libro testé pubblicato dal
sempre da tutti rimpianto Aldo Mautino (La formazione della filosofia
politica di B. C., Torino, 1941, p. 129) e l'importante discussione
sulle premesse del ragionamento economico e la realtà storica, che leggo
nell'ultimo fascicolo della " Rivista di storia economica ", v,
179-99, mi muovono a riesporre alcuni punti della mia teoria etica e
politica per metterli sotto gli occhi degli amici specialisti di economia.
Non entrerò in lunghi sviluppi, che ho dati altrove, ma enuncierò le mie
tesi in modo schematico, quasi sommario, che mi sembra in questo caso debba
tornare più efficace.
1) Liberismo e comunismo sono due ordinamenti irrealizzabili e irrealizzati
nella loro assolutezza. Ciò (dopo che furono abbandonati gli entusiasmi
alla Bastiat circa il primo, e quando si sia usciti dal fanatismo
irriflessivo assai frequente circa il secondo, che ricorda certi folli
propositi di asceti) è, credo, pacifico tra gli economisti.
2) L'uno e l'altro ordinamento non sono per sé concetti di economia né
propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. La scienza economica
sta senz'essi; cioè prescindendo da essi. La ragione di questi è che l'uno
e l'altro sono tendenze o tentativi di ordinamento totale della vita e
società umana, e pertanto di ordinamento etico.
3) Sotto questo aspetto, non solo sono incapaci, come si è detto, di
attuarsi in pieno, ma l'uno e l'altro, come principi, sono illegittimi. Se
ben si meditino, si riducono l'uno alla proposizione che " tutto è
lecito " e l'altro all'altra che " niente è lecito ". A quel
dilemma aveva già risposto, or son diciannove secoli, san Paolo,
pronunziando che " tutto è lecito all'uomo ma non tutto è proficuo
".
4) Ben diverso è il principio del liberalismo, che è etico ed assoluto,
perché coincide col principio stesso morale, la cui formula più adeguata
è quella della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della
libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività. Al liberismo
come al comunismo il liberalismo dice: Accetterò o respingerò le vostre
singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di
tempo e di luogo, promuovano o deprimano l'umana creatività, la libertà.
Con ciò quelle proposte stesse, ragionate diversamente, vengono redente e
convenite in provvedimenti liberali.
biato nello schema produttivo collettivistico in confronto allo schema di
concorrenza. Ma, se lo schema della concorrenza suppone, per definizione, la
libertà "legale" dei consumatori di acquistare o non acquistare,
di acquistare un tanto o meno o più, lo schema collettivistico parte
"necessariamente" dalla medesima ipotesi? " (p. 186). Dopo
aver configurato (corrispondentemente al diverso grado di libertà concesso
a lavoratori e consumatori) i possibili modi di funzionamento di un'economia
socialista, l'autore concludeva: "Credo - sebbene [...] riconosca
trattarsi di "opinione" non dimostrabile in modo "logico e
non facile a dimostrare sulla base dell'esperienza storica - che il regime
collettivistico (o socialistico o comunistico, che sono varianti verbali del
medesimo concetto) tenda, per ragioni connaturate al suo funzionamento,
[...] verso la negazione di ogni libertà legale di scelta del lavoro per i
lavoratori e dei consumi per i consumatori: lavori forzati cioè e
distribuzione coattiva dei beni e dei servigi prodotti a mezzo
dell'imposta" (p. 199)].
5) Quel che si celebra e loda come opera e gloria del liberismo, se ben si
ricerca a fondo, si riconduce all'opera della coscienza etica, della
volontà del bene, e per essa al liberalismo; e, viceversa, quel che si
lamenta di certi effetti del liberismo nasce da una superficiale o corrotta
interpretazione del liberalismo. La legislazione operaia e altrettali
provvedimenti poterono essere considerati antiliberistici, ma non solo non
erano antiliberali, sì invece sanamente liberali, in quanto concorrevano
all'elevazione dell'uomo.
6) All'obiezione che mi è stata fatta, e che ritrovo nel volume del Mautino,
che la mia distinzione tra liberalismo e liberismo è bensì giusta, ma che
bisogna guardarsi dal farne una " contrapposizione ", come avrei
fatto io, perché " il liberalismo ha come sua base il liberismo inteso
come iniziativa individuale, operosità e libera concorrenza, come selezione
di capacità e via dicendo ", è da rispondere, in primo luogo (oh, mi
fosse dato di rivolgere questa risposta al caro giovane che abbiamo perduto
e farne materia di conversazione con lui!), che io non " contrappongo
" i due concetti, ma, per le ragioni dette di sopra, li considero
" disparati ", l'uno un principio assoluto, l'altro la tendenza a
un particolare ordinamento empirico. E, quanto alla base di cui il
liberalismo avrebbe bisogno nel liberismo, la risposta è che la libertà
come moralità non può avere altra base che se stessa, e morale non sarebbe
se fosse legata a un dato economico, che in questo caso sarebbe materiale, e
per questa via si tornerebbe al deplorato materialismo storico. (" La
libertà è un concetto borghese ", ecc. ecc.).
7) Ma l'obiezione, se nella sua formulazione non è valida, contiene un
motivo vero, che è di affermare che la libertà o l'attività morale non
può concretarsi se non in azioni che sono insieme utili ed eco-nomiche, e
deve servirsi delle forze che le è possibile di volta in volta raccogliere
intorno a sé e piegare ai propri fini. Di ciò ho discorso altrove, e anche
di recente vi sono tornato sopra con maggiore partico-larità nei
Paralipomeni al libro sulla Storia (inclusi nel recente volume: II carattere
della filosofia moderna, §§ 24-25).' La conclusione è che il liberalismo
ha bisogno non di " basi " ma di " mezzi " economici e
politici, e che questi non possono mai essere fissati in certi mezzi ad
esclusione di certi altri: per esempio, in certe classi sociali, in certi
ordinamenti della proprietà terriera, delle industrie, delle banche, ecc.,
cose tutte mutevoli e transeunti, laddove il principio della libertà è
costante; ma devono essere ritrovati e adoperati caso per caso, conforme
alle situazioni storiche, e saranno più o meno duraturi secondo la maggiore
o minore durevolezza di queste; e che il ritrovarli non è opera del teorico
né dell'economia né dell'etica, ma dell'ingegno o genialità politica.
A questo punto mi fermo perché, come diceva Goethe, l'appello al genio, e
in questo caso al genio politico, è già espresso nel magnifico inno della
Chiesa: " Veni, Creator Spiritus... ": inno che noi,
filosofi e scienziati, non possiamo se non ricantare ad una voce con l'umile
plebe. BENEDETTO CROCE"
Mentre
ringrazio il maestro ed amico per la luce che egli ha voluto recare nella
discussione del problema, non so resistere alla tentazione di ripensare le
cose dette dal Croce nella maniera che suppongo - dico " suppongo
" che, in quanti mai diversi linguaggi discorre oggi la nostra
confraternita! - propria degli economisti.
Croce va al fondo del problema quando osserva che " liberismo " e
" comunismo " non sono per sé concetti di economia, né
propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. Questa prescinde da
essi; e pone ipotesi astratte. Le quali notoriamente sono quelle estreme di
concorrenza e di mono-polio e le intermedie, variabilissime, di concorrenza
imperfetta, di monopolio limitato, ecc. ecc.
Poste quelle ed altre premesse, la scienza economica vi ragiona sopra, senza
preoccuparsi se esse siano o non conformi alla realtà; e le illazioni alle
quali arriva sono valide entro i limiti delle fatte premesse. Talvolta pare
che essa usi altro procedimento, come negli studi bellissimi e fecondi, oggi
divulgati, i quali partono, ad esempio, dalla considerazione di dati
concreti su quantità prodotte e consumate, importate ed esportate,
rimanenze a principio od a fine d'anno o di mese e prezzi relativi. Ma, se
ben si guarda, quei dati sono semplicemente il materiale di cui la mente si
serve per scomporre, combinare, astrarre " durante " il
ragionamento, invece che " a riprova " del ragionamento compiuto.
Mossi dal desiderio di non ragionare a vuoto, gli economisti mentre
ragionano o dopo aver ragionato ambiscono naturalmente appurare se le fatte
premesse ed i conseguenti ragionamenti abbiano qualche parentela con la
realtà concreta che lor si svolge attorno. Così, dopo aver posto la
premessa astratta della piena concorrenza ed averne determinato le
condizioni - molti imprenditori produttori e molti consumatori, inettitudine
dell'entrata o del ritiro di ognuno degli imprenditori o dei consumatori nel
o dal mercato ad influire sul mercato medesimo, mancanza di attriti, in
quest'entrare od uscire, riproducibilità dei fattori produttivi a costi
costanti, ecc. ecc. - gli economisti sono immediatamente forzati ad
aggiungere che la premessa da essi posta è un mero strumento di studio e
non ha immediato preciso riscontro con la realtà. La premessa ed i
conseguenti ragionamenti debbono perciò essere reputati mero vaniloquio? Il
politico non ne trae alcun vantaggio? Lo scetticismo sarebbe grandemente
esagerato. Quelle premesse giovano, fra l'altro, a dimostrare che "
liberismo " e " comunismo " che, se sono qualcosa, sono due
" ordinamenti " e non due concetti scientifici, non sono mezzo
adatto ad attuare in concreto la premessa della " piena
concorrenza".
Si ammetta infatti che questa, condizionata come sopra si disse, conduca a
quel tipo di prezzo dei beni e dei servigi che dicesi uguale al costo di
produzione; e che la premessa opposta del monopolio pieno conduca invece a
quell'altro tipo di prezzo che garantisca all'imprenditore il massimo di
profitto. Si ammetta ancora - sebbene taluno possa tenere diverso avviso -
che l'opinione comune degli uomini preferisca quell'ordinamento economico
concreto il quale sia atto a far tendere i prezzi od i più dei prezzi verso
il limite del costo di produzione ad un diverso ordinamento il quale
garantisca agli imprenditori monopolisti un massimo di profitto. Dovremo
considerare il liberismo od il comunismo strumenti adatti per attuare, entro
i limiti del possibile, l'ordinamento preferito? Che sarebbe poi quello in
virtù del quale, in una società nella quale i punti di partenza siano, per
quant'è storicamente possibile, non troppo disformi, agli imprenditori
spetti un compenso non superiore al valore del loro apporto di lavoro di
dirigenza e di intrapresa al prodotto comune, ai capitalisti non più del
valore del loro apporto di risparmio, ai lavoratori non più del valore del
loro apporto di opera manuale od intellettuale e questi compensi
esauriscano, senza residuo, il valore del prodotto totale. Certo, il
liberismo, ordinamento concreto, non sarebbe lo strumento adatto che noi
cerchiamo. Se infatti esso si riduce, come il Croce rigorosamente dichiara,
alla proposizione che " tutto è lecito ", il liberismo non è
strumento adatto ad impedire il crearsi di guadagni di monopolio. Se tutto
è lecito, è lecito anche, come accadde tra il 1870 ed il 1900 negli Stati
Uniti, a talun astuto produttore di petrolio accordarsi con talun magnate di
ferrovie per stabilire tariffe di favore per il suo petrolio e così battere
i concorrenti e sfruttare il monopolio proprio; è lecito assoldare ivi
bande armate private per costringere operai a recarsi al lavoro alle
condizioni volute da industriali negrieri; è lecito corrompere od influire
sui legislatori per ottenere dazi protettivi, privilegi, premi e divieti di
associazioni operaie; è lecito a queste di impedire colla violenza fisica o
morale ad altri operai di recarsi a! lavoro, ecc. ecc. Se il liberismo del
" tutto è lecito " fosse pensabile in concreto, gli economisti
dovrebbero constatare che la loro premessa astratta della piena concorrenza,
pure conservando il proprio valore logico di strumento di ricerca, non
troverebbe alcuna attuazione, anzi l'opposto, in un vivente ordinamento
liberistico. Per rendersi ragione dei fatti esistenti, dei prezzi, dei
salari, dei profìtti correnti dentro l'ordinamento detto liberistico, essi
dovrebbero ricorrere ad altri strumenti astratti di ricerca: l'ipotesi di
monopolio perfetto od imperfetto, di monopoloidi, di monopoli bilaterali e
simiglianti. Suppongasi che ad un politico cada in mente di promuovere un
ordinamento economico concreto siffatto che l'ipotesi della piena
concorrenza - e cioè di prezzi di salari di profitti tendenti al costo di
produzione; ossia scevri, ognuno di essi, da qualunque traccia di guadagno
di monopolio - vi trovi quella migliore attuazione che in questo mondo
imperfetto è immaginabile. Quel politico, penso, dovrebbe far suo il detto
di san Paolo del " tutto è lecito all'uomo ma non tutto è proficuo
" che il Croce ricorda a conclusione della sua terza tesi; dovrebbe
cioè porre gran cura nel definire quel che è lecito, distinguendolo da
quel che è illecito. Le norme seguenti: " non è lecito far lavorare
le donne di notte - non è lecito far lavorare i fanciulli prima che essi
abbiano compiutamente assolti gli obblighi della istruzione elementare - non
è lecito licenziare gli operai capi od addetti a associazioni operaie
estranei alle associazioni operaie - è obbligatoria l'assicurazione degli
operai contro gli infortuni del lavoro, contro l'invalidità e la vecchiaia
- non è lecito il monopolio delle invenzioni industriali a favore
dell'inventore oltre un brevissimo periodo di salvaguardia - è necessaria
la istituzione di imposte o di altre norme giuridiche atte a ridurre le
differenze iniziali di posizione tra uomo e uomo nei limiti consentiti dalla
necessità di promuovere la formazione di tanto risparmio quanto occorra a
ridurre il saggio dell'interesse ad un minimo - non è, per chiudere
l'elenco che sarebbe assai lungo, lecito od è obbligatorio compiere o non
compiere gli atti a, b, c,... n" - contraddicono senza forse
all'ordinamento liberistico, ma sono invece la condizione necessaria per
attuare un ordinamento concreto il quale si avvicini quanto sia possibile
all'ipotesi astratta della libera concorrenza. Si noverano, tra gli
economisti viventi, taluni, sparpagliati nei più diversi paesi del mondo,
ai quali se un'etichetta dovesse apporsi che non fosse ad essi sgradita
converrebbe l'aggettivo di "neo-liberali". Ad essi riuscirebbe
fastidiosa la qualifica di " liberisti " nel senso del "
tutto è lecito "; e preferirebbero l'altra di " neo-liberali
" come più atta a chiarirli uomini desiderosi di vedere, nel campo
economico, attuata la premessa di " piena concorrenza " con tutti
gli innumeri vincoli giuridicil che quella premessa comporta. Essi
vorrebbero vedere attuata quella premessa non per se stessa, né come fine
dell'agire umano, bensì come " mezzo " o " strumento "
per " una sempre maggiore elevazione della vita, dell'umana creatività
e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né
attività ".
Sono costoro d'accordo coll'insegnamento di Benedetto Croce intorno al
"principio" del liberalismo? Qualche dubbio, debbo confessarlo,
rimane nella mia mente se rifletto all'attitudine di quasi indifferenza - ma
forse si tratta di indifferenza apparente - con cui il Croce guarda ai
mezzi, che egli sopra definisce " mutevoli e transeunti ", da
adoperarsi " caso per caso " in conformità " alle situazioni
storielle " e di ricercare " non dal teorico né dell'economia né
dell'etica, ma dall'ingegno o genialità politica ". Ed altrove
discorrendo dei vari mezzi: liberismo, protezionismo, monopolismo, economia
regolata e razionaliz-zata, autarchia economica, egli insiste nel dire che
nessuno di essi " può vantare verso gli altri carattere morale avendo
tutti carattere economico e non morale, e potendo ciascuno a sua volta,
secondo le varie situazioni storiche, essere adottato o essere rigettato
dalla volontà morale... E si dica lo stesso dell'ordinamento della
proprietà capitalistico o comunistico o altro che sia, anch'esso di
necessità vario e non mai fissabile secondo un disegno di generale e
definitivo comodo e benessere, che non solo è utopistico ma intrinsecamente
non ha che vedere con la morale, la quale non può mirare e non mira
all'impossibile benessere individuale né generale, ma all'excelsius "
(in Il carattere della filosofia moderna, vii, pp. 118-19). Se si è
senz'altro d'accordo col Croce nel respingere le " rievocazioni e
celebrazioni storiche della libertà economica come premessa o concomitanza
dell'altra e civile e morale libertà " e nel ritenere "che i
benefici effetti, che si sogliono riportare alle istituzioni dell'economia
liberistica, erano in realtà manifestazioni della libertà morale che
investiva quelle istituzioni e se ne giovava, e perciò non tanto condizioni
quanto conseguenze " (p. 242) si prova un vero stringimento di
cuore nell'apprendere da un tanto pensatore che protezionismo, comunismo,
regolamentarismo e razionalizzamento economico possono a volta a volta
secondo le contingenze storiche diventare mezzi usati dal politico a scopo
di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana. Forse appunto
questa istintiva incoercibile ripugnanza a concepire quegli specifici "
mezzi " come atti a raggiungere un fine di elevazione umana faceva
scrivere al Mautino che " il liberalismo ha come base il liberismo,
inteso come iniziativa individuale, operosità, libera concorrenza come
selezione di capacità; e via dicendo. Cadendo nel protezionismo, nel
parassitismo di industrie e di lavoratori verso lo stato ecc., ci si avvia a
negare anche il liberalismo nel suo valore più schiettamente politico e
morale " (loc. cit. sopra dal Croce). Quante volte discorsi con lui di
questo tormentoso problema, pur riconoscendo al principio liberale autonomia
primato ed esclusiva dignità etica, sempre ripugnavo a pensare che quel
principio potesse assumere come mezzo per la sua attuazione strumenti come
il protezionismo, il comunismo, il regolamentarismo e simili. Perché
sentivo e sento quella repugnanza? Se interrogo me stesso, panni che in
fondo essa provenga dall'identificazione istintiva che io faccio di quei
mezzi con il male morale, con la frode economica, con la violenza politica,
con l'oppressione del debole da parte del forte, con la sostituzione
dell'intrigo e dell'arrembaggio all'aperta e libera competizione, con la
negazione del diritto dell'uomo a far valere tutto se stesso, senza
nocumento ingiusto altrui e nel tempo stesso senza avvilimento verso i
potenti e gli arrivati. Questione di definizione o di parole, come avrebbe
detto l'amico arguto e meditante Giovanni Vallati? Credo od almeno spero di
no. Spero che quella identificazione dei mezzi a me repugnanti con il male
morale non sia un giochetto di parole, sì invece il frutto di quel poco o
tanto io abbia appreso dalla meditazione degli ac-cadimenti economici del
passato e dalla esperienza della vita presente. Per ristringermi ad un punto
solo, al mezzo cioè del protezionismo doganale, pur tenuissima varietà di
specie ben più vasta e pur tenuissima sciagura morale in confronto al
comunismo, io veggo in astratto i casi esposti non mai dai fautori del
protezionismo concreto ma solo e sempre da studiosi teorici - nei quali è
dimostrabile essere un dazio doganale mezzo adatto al raggiungimento di un
fine, incremento della produzione totale, incremento di salari e di lavoro,
promovimento di industrie destinate a gran rigoglio ecc. ecc., ritenuto
generalmente desiderabile. Ma veggo subito altresì che di quelle posizioni
astratte del problema è praticamente quasi impossibile osservare una
applicazione concreta; vedo quasi sempre di quelle ammissioni teoriche trar
profitto filibustieri e saccheggiatori del pubblico denaro, instauratori di
industrie falsamente giovani e non mai destinate a maturanza,
contrabbandieri di industrie destinate non alla difesa bensì allo sterminio
della patria. E son forzato a concludere: quel mezzo, in concreto, come
azione politica, come fatto storico, non può essere adoperato se non come
strumento, oltreché di danno economico - e sarebbe il danno minore -, di
male morale, di oppressione dei più degni a vantaggio degli indegni
procaccianti; e ad aggiungere: quei pochi, pochissimi casi in che quel
mezzo, astrattamente ben ragionato, è suscettivo di applicazione concreta,
forseché esso non può essere fatto rientrare nella ipotesi di concorrenza,
nel ristabilimento cioè di quelle condizioni di piena libertà di entrare o
di uscire nel o dal mercato, di gran numero di produttori o di consumatori,
ecc. ecc., le quali erano state obliterate da qualche circostanza,
eliminabile dal legislatore, di ignoranza, di attrito momentaneo, di
limitazione parziale, o di monopolio di qualche fattore produttivo?
Se il liberismo del " tutto è lecito " non interessa gli
economisti né come ipotesi astratta né come ordinamento concreto, essi si
chiedono: un ordinamento giuridico dell'economia, che sia un'approssimazione
concreta all'ipotesi astratta della libera concorrenza e sia perciò atto a
mettere gli uomini, in conformità alle esigenze di ogni situazione storica
particolare, nelle condizioni migliori per competere, ciascuno secondo le
proprie attitudini, gli uni con gli altri per raggiungere il massimo grado
di elevazione morale, può essere messo alla pari con altri ordinamenti
protezionistici comunistici regolamentaristici che l'esperienza insegna
fecondi di sopraffazione, di monopolio, di abbassamento morale? Forse,
innanzi di discutere, converrebbe definire chiaramente quel che si intende
per protezionismo regolamentarismo comunismo e fino a che punto questi ed
altri simili ordinamenti possano essere considerati atti ad attuare
l'ipotesi astratta della piena concorrenza e se, essendo così atti, possono
essere, senza ingenerare troppo gravi equivoci, indicati con parole
comunemente applicate ad ordinamenti ben più estesi e ben diversi. Se
perciò noi assumiamo le parole " protezionismo " e "
mercantilismo " nel loro tradizionale significato storico, quando Aldo
Mautino (nel quaderno di settembre 1940, p. 149 di questa rivista) scriveva:
lo Smith combatte le leggi mercantili anche ove possano parere
economicamente non svantaggiose, come " impertinenti segni di
schiavitù " e " manifesta violazione dei più sacri diritti degli
uomini"; "dinanzi alla libertà non si fanno calcoli di dare ed
avere e chi cerca nella libertà vantaggi o danni ha animo disposto a
servire ", egli, la cui vita fu tanto ingiustamente breve, non
dimostrava quanto il suo animo fosse aperto all'insegnamento della storia
del passato e di qualche vivente sua esperienza?
Non dunque si può affermare che un qualsiasi ideale di vita esige mezzi di
attuazione a se stesso congrui? Che se talvolta sembra che il mezzo
incongruo sia stato adoperato da politici animati da alti ideali, una
indagine accurata non è probabile dimostri che quel mezzo (ad esempio
protezionismo) non cagionò il danno morale di cui soltanto è capace,
perché il politico seppe nel tempo stesso usare altri mezzi, far muovere
altre forze che vietarono a quel mezzo di condurre ai risultati suoi
necessari? Spunti di quell'indagine si leggono qua e là sparsi nei libri di
teoria e di storia economica; ma sarebbe fuor di luogo pretendere che essi
siano sempre dovuti a studiosi consapevoli dei legami i quali intercedono
fra principi morali, ipotesi astratte ed ordinamenti concreti.
Non voglio offrire una soluzione al problema. Ma il problema esiste. Non
noi, che la sentiamo, sì coloro, che, al par di Benedetto Croce, sanno
guardare al fondo delle cose, possono dirci le ragioni per le quali sentiamo
tanta ripugnanza morale a guardare con indifferenza alla scelta fra i vari
mezzi economici che ai politici si offrono per promuovere l'elevazione
spirituale dei popoli.
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