1. Forse è
opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla
diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed
alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di
queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo
scritto che precede.1
Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o
capitalistico, della cui conformità o compatibilita col concetto di
libertà o con l'ideale liberale si discute? A seconda della definizione
data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto
teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la
discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o
motivate diversamente.
2. Il liberismo certo non è un'astrazione, bensì un ordinamento concreto.
Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria
della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la
quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all'uomo
fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s'intende, ammazzare, rubare,
ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato,
magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il
colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo " nel
senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a
rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera
concorrenza ". Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà
tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere
sul punto che la "libera concorrenza ", alla quale in quella
definizione si accenna, appartiene a tutt'altro ordine di concetti da quello
di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un'astrazione. La
configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal
quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto
simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub
specie eeternitatis, finché non mutino le premesse. L'economista dice:
"Supponiamo che... i produttori-venditori della mercé x sieno molti,
che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta
mercé, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla,
non produca efletto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato;
supponiamo che anche i consumatori della mercé :o: siano molti, che ognuno
di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo
che... che... ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera
concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.
". Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un
corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta
con le leggi del prezzo delle merci quali si verifi-cano sul mercato
concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno
più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto
dall'economista come premessa del suo ragionamento.
C'è chi, a leggere tutti quei " supponiamo " si impazientisce.
Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista "
La riforma sociale " buon'anima nel programma prendeva in giro per
l'appunto le teorie che " si vogliono dare anche ora come assolute e
imporre nella pratica della vita quotidiana " e sono esposte " in
libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us
suppose, If it he assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose
an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc. ". In questo
mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col
"supponiamo"; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che
sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che
qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di
abbreviature con lettere dell'alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel
seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e
soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare
se non ce l'ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e
dell'astrarre; che, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe
preoccuparsi - e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati - di
fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà
concreta.
Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i
politici si sono trovati d'accordo su un punto: che lo schema della
concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato
aperto a tutti nell'entrata e nell'uscita, col prezzo il quale in ogni
momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta
è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e
tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema,
ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In
questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti,
limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze ecc. ecc. sicché tra lo schema
astratto e la realtà concreta non c'è alcuna rassomiglianza.
A questo punto l'unanimità si guasta ed i politici si partono in due
schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi
sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti,
con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall'idea che direi
della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa
d'uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché
l'automatismo conduce - si afferma o si osserva o si pretende di osservare -
al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli
uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del
vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli
libertà di iniziativa, limitando l'azione dello stato a qualche campo
considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla
fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di
produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di
apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All'ala estrema
dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più
tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo
alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; che, fissato un
prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo
del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il
forno e dell'uso del capitale-forno e della mano d'opera e poi, via via, dei
servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano
all'origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché
fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione
logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e
della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività
intera, ossia dello stato.
I liberisti sono gente che l'esperienza ha fatto profondamente scettica
intorno alla attuabilità concreta dei " programmi " e nemica
acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte
del Leviathan statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia
davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema
astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po' più complicato di
quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il
mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena
concorrenza, fa d'uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi:
perché è lontano? Alla domanda gli economisti a la page, coloro i quali
hanno una paura verde di apparire " superati ", e che perciò
tentano ad ogni quarto d'ora di superare se stessi, rispondono con un gran
rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo,
alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che
schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande
macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se
non siano analizzate. Chi ha fatto l'analisi? Chi ha distinto caso per caso,
per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo
fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la
proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad
imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali
debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che
sono dovuti a cause " tecniche ", intendendo per tali quelle cause
che possono essere spiegate col tipo dell'industria esercitata, colle sue
dimensioni, colle caratteristiche della mercé prodotta e del mercato?
Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle
parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei
monopolisti - che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli
economisti ansiosi di non apparire superati, confusi con gli imprenditori
semplicemente " grossi " - rimangono parole, che il vento
disperde. Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la
proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i
quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio,
debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali,
contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti,
brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di
fabbricazione, enti semipubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se
l'opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente
in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in
mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione. Quante strida si
levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie,
qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro
superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E
poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; che il mercato
libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte,
capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare la offerta della
propria mano d'opera, ed invece l'operaio od anche l'industriale singolo
spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e
quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie
non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno
strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello
schema. S'intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell'operaio
e dell'industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per
mezzo o all'infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce
dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad
esclusione di certe altre, o addirittura dall'esclusiva attribuita ad una di
esse.
L'intervento " dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che
impediscono il funzionamento della libera concorrenza " non è perciò
tanto " limitato " come pare. Esso si distingue in due grandi
specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato
medesimo e l'altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole
naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l'operare pieno della
libera concorrenza.
La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta
solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato
malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare,
senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi
contingentamenti e divieti! In un batter d'occhio lo scopo è conseguito. Si
dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a
forze economiche e politiche, le quali, se sono state tanto potenti da
ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da
impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti
liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma
una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica
sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i
gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa
politica è quella più confacente all'interesse dei più dei viventi e
delle generazioni venture. Altro che " fato " generatore di
monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio,
gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o
indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non
apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e
crea l'ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice.
Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c'è nessun rimedio
fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli
scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto
morale: ricordati di non rubare.
L'altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali,
proprie " eventualmente " del tipo dell'industria o del mercato o
del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l'azione della
libera concorrenza non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata
nella situazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c'è qualcosa
che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza
degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai
comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? 'È la
soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si
affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti -
seguito a chiamarli così per ossequio all'abitudine, ma bisogna davvero
inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal
laissez faire, laissez passer - sanno che coll'incapacità e coll'indolenza
non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e
meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti
governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia
provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di
apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di " fare " il
bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo
da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all'uopo opportuni.
Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico.
Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo
vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale
sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il
figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori
di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c'è
uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il
problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia,
praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di
camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia
un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di
ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che
l'esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere
necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che
operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli
studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello
stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa,
che sta nella casa tipica assegnabile a tutti - suppongasi dieci metri
quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell'Europa
contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per
mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è
l'ostacolo veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti,
onesti, volonterosi ecc. ecc. fatalmente incontrano sulla loro via? Quello
dell'intrigo. Mirabeau padre l'aveva già osservato nel 1760 in un brano da
me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l'imposta,
p. 352,):
"On ne seroit occupé qu'à obtenir des places et des pensions, qu'à
participer aux liberalités du Prince, qu'à éviter le ttavail, qu'à
parvenir a la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité
peut suggérer, qu'à multiplier les abus dans l'ordre de la distribution et
des dépenses. "
Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi
il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado
supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un
formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori,
gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la
necessità di procacciarsi il favore altrui?
Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all'abolizione della eredità
come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo
contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella
esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da
adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare ecc.
ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del
favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di
creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le
sopraffazioni dei potenti - la mia casa è il mio castello -, di
promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l'istituto
della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i
vantaggi si possano ottenere, che l'ostacolo ereditario possa essere
conservato senza un'opera continua di illuminazione, la quale ad ogni
generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con
altri tìpi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali
consigliano la conservazione dell'istituto.
Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo
di legislazione favorevole all'istituto della privativa dell'inventore sulla
sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una
beffa per l'inventore povero e d'ingegno, al quale soltanto il legislatore
in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non
giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di
sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o
gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è
divenuto uno strumento di dominio e di mono-polio delle grandi intraprese,
le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici
matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si
illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria
invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con
mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene
al di là dei 15 o 25 anni di legge. Di fronte a siffatta miseranda fine
delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L'abolizione
pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse
essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma
migliore della privativa legale per dare all'inventore, isolato o
collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all'andazzo
odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa
dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo,
inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire
all'inventore la possibilità di una iniziale applicazione; e diritto per
tutti di usare, senza il consenso dell'inventore, privative e relativi
perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o
dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio
all'inventore.
Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento
"limitato" nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione
fra l'interventista ed il liberista non sta nella " qualità "
dell'intervento, bensì nel " tipo " di esso. Astraendo
dall'interventista-comunista il quale risolve il problema abolendo
l'intervento medesimo - che cosa è invero quello comunista se non uno stato
il quale non " interviene " più, perché ha avocato a sé tutta
la gestione economica? - il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il
legislatore interventista dice all'uomo: tu farai questo o quello; lavorerai
od opererai così e così; questa è l'industria o il commercio o la
piantagione agricola che nell'interesse collettivo devi esercitare e nella
misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano
siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in
parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel
sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali
agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che
essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i
prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli
crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli
uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle
responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini
immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene.
Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel
che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio
liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i
tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno o
di notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare
contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie.
Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali
provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei
locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell'integrità degli
operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se
costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non
potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel
vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti
consenta di vendere la tua mercé a prezzo più alto di un qualunque tuo
concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un
tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non
sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti
consentirebbe di vendere la tua mercé a prezzo superiore a quello che
sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà
fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.
E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli
all'operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono
destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la
struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo,
bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche
inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti
coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge
fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al
di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è,
evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere,
verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad
andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta.
È tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare
sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi
degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica
di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare,
ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere
decisioni sotto la propria responsabilità.
3. Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un
ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all'ordinamento
comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra
ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l'uomo
politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere
l'elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza
verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile
coll'ordinamento comunistico. O che forse c'è una sola definizione del
comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin?
Quale incompatibilità c'è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale,
fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe
industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento
comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta
delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento
comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta
delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei
monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da
tutti i componenti la collettività?
La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono
sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se
fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per
esprimere concetti lunghi, abolirei l'uso delle parole liberismo e comunismo
(o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento
detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso,
dell'ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola
comunismo e socialismo. Che sugo c'è a classificare sotto la voce "
ordinamento comunistico o socialistico " - la differenza tra le due
parole è impalpabile e indefinibile, e perciò le uso promiscuamente - una
semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una
statizzazione (o municipalizza-zione o pubblicizzazione e mi si perdoni la
parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che
sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di
qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, postoché liberisti
e interventisti fanno amendue pro-pri questi ed altri consimili strumenti
che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si
disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere
quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in
ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna
quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.
A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo
indulgenti verso il " generico ". Parlare " in generico
" equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una
banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca
storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od
essere stato o tornerà ad essere giovevole all'elevamento umano, e
concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà
bene a farlo suo. L'interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in
quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il
quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu
causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti
parziali, o singoli, forse è facile cadere d'accordo. Diremo nocivo ed
illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del
quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di
milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio
soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l'uno scemi ad
85 e l'altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed
illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio
del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con
nocumento alla spinta a produrre ed a consumare. Si potrà discutere invece
sulla misura; ma non sarà detto né nocivo né illiberale e molti
affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale,
annunciata prima e duratura e prevista in virtù della quale ad ognuno che
abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di
bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali,
appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di
50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento
cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è
preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la
solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno
alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di
assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono
tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di
disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l'amico Emanuele Sella
chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a
produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è
sempre; che persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra
assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse
inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso
i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il
loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell'età giovane e matura, e
dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel
momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza
far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi
comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di
statizzazione il quale vada oltre il punto critico e liberale quello il
quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è
manifesto che tutto l'interesse della disputa non sta nel provvedimento ma
nelle modalità le quali lo fanno stare entro i limiti del punto critico o
glie li fanno oltrepassare. In verità, però, quando si parla di
incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a
cedesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad
un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si
identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene
avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un
ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata
di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni " diretti
", ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la
restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità
fisica di cedesti beni diretti - ad esempio, una vettura automobile e non
due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia
e non un castello, un giardino e non un parco e simili - e che i beni
diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro
compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti
chiamano " strumentali " sono nell'ordinamento comunistico
proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di
altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le
modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel
" tutti "; che, se invece di tutti i beni strumentali siano
accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del
punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed
oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.
Anche se sia osservata la regola del " tutti ", non è del resto
necessariamente offeso l'ideale liberale. Se la società comunistica è
composta di monaci, i quali " volontariamente " sacrificano ogni
loro avere a prò della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare
agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e
giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi,
quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche
storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno
ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se
certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e
redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco
promossero l'elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono
l'aspirazione degli uomini verso la libertà.
Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose
aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei
Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società
comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità
della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni
propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare
costume asserire, anti-scientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i
quali hanno accettato la terminologia di " utopisti " usata a
titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori è almeno
altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta,
la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra
i socialisti utopistici ed i Marx ed Engels, i quali da sé si
autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero:
siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme,
in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di
loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali,
così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad
essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di
cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti
scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società "
fatalmente " era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai
grossi a danno dei piccoli, sinché il cannibale più grosso avendo divorato
tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa
e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della
felicità. Siccome l'avvenimento tardava a verificarsi, accadde che nel
paese più lontano dalla sua verificazione per la ignavia e la corruttela
delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa
ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un
regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del
comunismo.
Tra parentesi, chi merita sul serio l'attributo di " utopistico "?
Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint-Simon, e gli altri, irrisi come
utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto
comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso
movimento cooperativo, il quale ha, sì, mutato la faccia di talune società
umane? Chi abbia un'idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti
dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative
locali, e con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita
all'ingrosso d'Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue
flotte; chi sappia di quale trasformazione nell'edilizia popolare sia stata
feconda l'opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi
la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso,
divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella
assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi
utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome
dell'ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo
elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i
socialisti "scientifici"? Non certo il movimento operaio
propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran
Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella
contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; che quel
movimento si svolse del tutto fuori dell'influenza del socialismo
scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima
ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, cosi
come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del
socialismo utopistico.
Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo
apocalittico di Marx e dall'opera dei profittatori odierni di quel gergo; e
immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno
o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l'esercizio di
tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei
marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove furono già esaminate
le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per
non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme
l'una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l'ente o gli
enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia
organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del
risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e
rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia
libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire
il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti
con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni
comunistiche con quelle date della perfetta libera concorrenza. La
verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie
altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che
nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l'emanazione
dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei
cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo
discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri
acceda2 e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le
minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere
le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad
esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in
maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.
Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e
dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico,
fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti
di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide
che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero
anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte
di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall'acqua e dal fuoco, se non
ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque
alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o
giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il
posto ad un Trotzski, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell'ideale
scritto nelle tavole della legge?
La ipotesi corrispondente alla natura umana è l'altra: quella per cui chi
ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli
uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente.
Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente,
oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per
quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall'usarne? Per rendere
ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il
ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui
piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere
scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto,
Barone e Cablati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato,
il quale abbia a sua disposizione l'arma terribile del possesso e
dell'esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas
del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a
siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggano argomento per rivoltarsi e
che così, attraverso i secoli, per tesi ed antitesi, si giunga alla
libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo
storico di rivolta dimostri la compatibilita fra comunismo e ideale
liberale, direi sia una barzelletta.
4. " Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che
può garantire o compromettere la libertà... Né il filosofo né
l'economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la
parola spetta solo al politico".
E lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la
attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli
politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi;
sebbene le tante belle persuasive pagine di Benedetto Croce contro i
filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal
proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e
le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze
ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare
della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità
di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell'amministrar ottimamente,
come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose
pubbliche minori in Napoli.
Parliamo solo degli economisti. D'accordo che essi, in quanto fanno il loro
mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a
quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che
fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via
complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più
vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà,
che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di
approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non
dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e
studiare e risolvere problemi concreti.
Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che
essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era
vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono
ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e
lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò
che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle
leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non
avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono
contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle
conseguenze dei loro spropositi. L'esperienza fatta nell'altra guerra
avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al
politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e
se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in
argomento - il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale,
altra essendo la preparazione dell'economista da quella del politico - giova
però l'attitudine a distinguere tra i suoi consulenti gli improv-visatori
ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel
risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da
quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza
dell'intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.
È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte
Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È
mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del " progettista
". Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica - non di
quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere
espertissimi -appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala
pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria,
per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro
non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la
cabala. È un lavar la testa ai cani. L'intuito economico di Napoleone - e
perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei " progettisti
" - consisteva nel-l'afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien,
nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché
Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione
dell'imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere,
suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma
l'intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell'aver scelto Mollien,
economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente
conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come
tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin,
duca di Gaeta. II conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche,
bisogno di consiglieri; che il grande politico, aveva studiato sul serio la
scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed
agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche
banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di
parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l'intuito fulmineo del
politico, la conoscenza dell'economista teorico, la pratica
dell'imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di
tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che
fu? maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva
rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all'uomo
competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si
fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella
sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l'uomo da
lui interrogato e le soluzioni a lui offerte. Non si può negare che
Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva
nessuna preparazione economica e mancava di qualsiasi attitudine a dare il
proprio giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti
fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa,
onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani
dal 1870 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva
che bastasse la " pratica " a " governar bene " ; e
quella frase del " gòvernè bin " sentii appunto dalla bocca di
Giolitti a riassumere l'essenza dell'arte di governo. Ma non si governa bene
senza un ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come,
discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o
qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per
ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde una
sola volta in vita di giungere con l'intuito alla soluzione buona; e fu
quando propose e tenacemente volle nel 1921 l'abolizione del prezzo politico
del pane, che minacciava di trarre nell'abisso la finanza e la moneta
italiane. Gli giovò, qui, l'incubo, spaventevole per un uomo assestato come
egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano;
e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e
vale a riscattare la colpa delle leggi demagogiche d'imposta da lui fatte
approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati
in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui
l'avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un
dottrinario e non un teorico, difettava dei freni che al teorico impediscono
di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per
definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico,
vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti
lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di
Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di
immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo
politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui
la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la
nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l'esperimento
necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere
capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire
l'accesso al potere.
Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile
ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che
sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande -
della razzamaglia dei politicanti non vai la pena di occuparsi, anche se
temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico - il quale
sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se
non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a
governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere
quell'ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un
mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa
meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del
giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità
necessarie per attuare l'idea dell'elevamento delle masse che era nell'aria
e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato
dalla piccola pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli
italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo
giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il
quale " gli italiani " - diceva - " camminano gobbi" e
gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. " Gli italiani
camminano gobbi ", ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma
egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave
stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito
di Emanuele Filiberto l'aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni
famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per
antonomasia fra gli italiani.
Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed
elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento
morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di
famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico
esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi,
essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda
della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In
sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la
libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di
stampa, di propaganda. Se alla radice dell'azione degli uomini vi è
libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li
leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di
scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare
fuor degli ordini di funzionar! gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe
dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di
delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di
parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un
tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad
ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.
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