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Giovanni Bertacchi

Giovanni Bertacchi, poeta chiavennasco (Chiavenna 1869 - Milano 1942), compose numerose poesie tra cui alcune in dialetto.
Giovanin o Giovanin de Ciàvèna o ancora Giovàn Bertàc (così gli piaceva farsi chiamare dagli amici) fu docente presso l'università di Padova per molti anni.

Cominciò a scrivere poesie in dialetto piuttosto tardi, all'età di sessant'anni, cioè quarant'anni dopo aver pubblicato la sua prima raccolta di versi in lingua italiana: Canzoniere delle Alpi. La stesura della sua prima poesia in vernacolo coincise, inoltre, con l'uscita della sua ultima raccolta poetica: Il perenne domani.
Ormai stanco della sua travagliata esperienza di poeta, dopo che il fascismo aveva imposto su di lui, simpatizzante socialista, e sulla sua opera il silenzio, andò alla ricerca di una primitiva verginità di vita, alle origini incontaminate dell'uomo.
Bertacchi amò da sempre il dialetto, sia perché era un modo per rimanere fedele alla sua terra, dove tuttavia tornava di frequente e di cui, da lontano, sentì sempre una irresistibile nostalgia, sia perché, approdato al socialismo, ma soprattutto spinto dalla sua indole e dalle sue origini, era molto attento a cogliere le espressioni e la cultura della sua gente, nella quale si riconosceva.

Una delle sue poesie dialettali più importanti è: Un moment de nostalgia, dove il tema dominante è la nostalgia per la sua terra, nella festa più poetica e sentita dell'anno : il Natale. Sotto le feste natalizie, il poeta, lontano dalla casa natale, vicino al fuoco di un camino di trattoria, ritorna nella sua mente alla valle che l'ha visto crescere e i momenti della fanciullezza legati alla festa santa, quando in tempo di novena svolgeva i preparativi per la costruzione del presepe con i suoi compagni di giochi. La poesia è tutta soffusa di una nostalgia lirica che vela i ricordi della sua infanzia e della sua Ciavena, da lui tanto amata.

Eco; pròpi in 'sto momént
sum chi, dent in d' una stanza,
bèl al còlt, coi sentimént
tüt velaa de lontananza
Còsa gh'é 'l che viif o möor
in l' inverno del mè cöor ?

Föra 'l fiòca: in sül velari
che vegn gió sü tec e straat,
se profila i mè valaat.
Forsi a ' st' ora, sü a Ciavena,
sonaràn per la novena.


Nella poesia I mè visit d' inverno c'è tutto il senso nostalgico di, chi affascinato dalla grande bugia della vita cittadina, si è allontanato dalla sua terra, ma ne porta nel cuore un tenero rimpianto e un vivo desiderio di ritornare.

i podesan pensà con che pasión
' sto povar vec bagài,
che 'l s'è perdüu in del mont
andré a una gran busia,
al vegn a salüdài,

E il caro ricordo dei campanili di Chiavenna, quello di S. Bartolomeo e quello di S. Lorenzo, che accompagnano gli emigranti chiavennaschi con la memoria dei loro rintocchi, emerge nella poesia: I duü campanin, di cui esistono due versioni, la prima delle quali scritta su un foglio intestato dell' albergo di Padova, dove soggiornava all' epoca del suo insegnamento in quella città. Qui riportiamo alcuni versi della seconda versione.

quant i fiöo de Ciavena i van lontàn,
ghe se compagna quela voos velada:
e sota un òltar ciel, tra mèz ai pian,
loor ghe paar de vedé la sua valada!...

I en San Lorénz e S. Bartolamé
che i a ciaman tra i mont, al dì che möor...
I en i memòri che ghe vegn adré
a mantegnìch la religión del cöor.

 



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