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pal2.gif (918 byte) Iniziative Culturali del 1998/1999


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Gigi Dessì: Un poeta con la fronte segnata da un ‘tau’.

"Il disegno", di Gigi Dessì: titolo metafisico di un libro di versi che, spandendo fremiti di certo profondo penare sublimato dalle inimitabili Scritture Sacre, riesce a profondere, anche, non meglio identificabili umori di laica invettiva.Il poemetto, è appena edito da "Il Maestrale", di Nuoro, che offre opere passate al vaglio di quell’elegante "amateur d’art" di Leandro Muoni; il quale ne sa garantire primizie poetiche per la gioia dei prelibati palati d’ansiosi iniziati.Libro sapienzale di doglianza e di fede. Breviario di sacrale rivolta, anche.


A scrutare con ponderatezza d’ingegno, ma appassionato, cultore di cose letterarie il panorama della poesia religiosa isolana ( dalla Grazia Dore ad Angelo Mundula ), credo che nessun altro poeta sardo sappia invogliare il lettore ai più arditi raffronti con l’eterno soffrire, come , appunto, sa testimoniare il pensoso Dessì. Il metafisico Gigi Dessì. Neria De Giovanni, nella nota che chiude il libro, riconosce, acutamente, "disegno un titolo poeticamente ambiguo, polisegnico; certo, come opera d’arte (...) ma anche come il piano, il progetto di qualche opera misteriosa".

  
   Era il 19 dicembre 1994
   quando iniziasti il disegno che poi mi regalasti.
   Lapide incisa sul marmo del cuore.

Nei "Proverbi", Amòn è l’Architetto- l’Alta Sapienza- intento a tracciare "un cerchio sull’abisso", sull’abisso anche del poeta perché meglio si riconosca granello di senape.Tre versi lapidari, questi, scolpiti nel transito religioso sotto lo scalpiccio umbratile dello zodiaco esistenziale? Si, ma anche testimonianza laica capace di fare risaltare, quasi con eco di suono d’antica maschera d’oro percossa da nocche di destino, la più alta e dolorante rassegnazione dell’uomo Dessì, ovvero: di questa eretta falce di credente, esaltato nel giro ellittico della sofferenza accolta sotto l’oscuro segno delle più misteriose e imperscrutabili effemeridi stampate dal primo Gutenberg che è quel Sovrano Sapere di Dio:

 
  Ti ringrazio per il prezioso
  regalo.

Non sai se sia qui, in questo disarmante, commovente attimo di ringraziamento, il miracolo che insempra la dolorante strenna, riscattandola, in buona parte del libro, dalla tentazione di un supplicante, blasfemo Giobbe: e bene ha inteso l’occulto estensore delle "elette" ( le quali non riescono, però, a celare la mano d’arpista di Leandro Muoni che, con meritata stima, il poeta riconosce capace di "scandire / nuovi suoni e dare / un ‘espit de Finesse’") il quale ritiene che" tale condizione sentimentale implorativa ( sebbene a tratti anche dissacratoria e al limite ‘blasfema’) altro non è se non amore sconfinato per la vita".

Un salmista mediterraneo fra Giuseppe Ungaretti, David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini."Forse i poeti , Signore / saranno crocifissi. / E così non può dirsi blasfemo / questo mio cantare: / da sé la carne cerca / il suo verbo"./
Un sanguinante "fil rouge", segreto come vena dell’aorta, lega questo lamento cristiano del frate dei servi di Maria, Turoldo, al cantare dell’umile ‘rivera’ sarda adagiata presso quel francescano fiume di mitezza, orlata d’estraniante solitudine, che é la placata Babilonia di Monserrato, dove Dessì, anche se per natura e per cultura é estraneo alle giogaie di rancorosa invettiva, tuttavia non può non denunciare la dantesca Waste Land di questa nostra "aivola che ci fa tanto feroci", additando quella Chiesa "là dove Cristo tutto dì si merca":

Queste cose le devi dire alla
gente. I tuoi critici blasonati
spesso fanno bla bla e non sanno
che per passare alla storia non basta una croce d’oro sul petto
o un anello all’anulare né basta
una zucchetta rossa o bianca sul capo. Occorre dar prova
di sapienza e grandezza di bontà.

Al profetismo turoldiano - che alla poverella anima sua svela che "tuo destino / è stare alla porta dell’incantato giardino / nuovo Lazzaro dell’Amore"- Dessì azzarda affiancare, obliquamente in sottinteso’pendant’, anche il religioso anatema pasoliniano contro "questi turpi alunni di un Gesù corrotto / nei salotti vaticani, negli oratori, / nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti: / forti di un popolo di servitori": ed é questa pasoliniana (anche dessiana, credo) "religione del mio tempo", titolo che stride, ahinoi!, come monito di irreligioso nostro quotidiano.

In Dessì, la lacerazione dell’improvviso vulnus ha fatto sanguinare un protestantesimo intersecato, magari inconsciamente, da umori propri di un certo gesuita "proibito" identificabile nell’ardito e raffinato Teilhard de Chardin (rivisitato da Giancarlo Vigorelli); protestantesimo sodale di un intollerante illuminismo cristiano, che, ospitando, a tratti, la lamentazione giobbica, si propone anche con scatti di frammentismo epigrammatico che, per sua ribelle natura, ha vocazione di febbrile colloquiare morale (in Dessì, mai moraleggiante), grazie ad un periodare sciolto, leggero, quasi scaturito da occasionale vena versificatoria che scorre in fuggevoli rivoli di parole fluide, scarnificate, senza la tesa ragnatela di qull’impalpabile nervatura implicita in certo irrigidito ermetismo ormai plastificato in modulo manieristico; parole ancora sue, dessiane, ridotte all’osso molle, sanguinante dell’angoscia.

E non parole scarne. Non parole solenni: ma l’umile salmodiare lontano dalle suggestioni di certa ieraticità liturgica, e al riparo del pulpito accademico. Poesia ‘monogrammatica’, perciò, agile nello svicolare sulla pagina con giunture esplicative pronte ad affrontare l’agone con la scrittura affondando il vomere del verso, sciolto da obblighi di metrica canonica, sulle pietrose pratitudini di una sofferenza che spande incandescenti brividi di rassegnazione, unica luce, questa, residua, ma capace di scalare le più abissali cielitudini:

arrotolando salmi
che invocano speranze.

Ahi! ecco due eleganti settenari che richiamano, al tocco di chiari fonemi, l’ora del raccolto breviario nella penombra del crepuscolo, in questo dolce libro nato per celebrare i fasti del dolore... Credo che sia impossibile non incidere con l’unghia del razionale pathos, o della provvidenziale vampata di noesi, questi ispirati versi:

quando il soffrire allunga
la fede e il sole scalda
corpi riflessi o amanti
com’é Dio?
com’é Dio?

Epifania di sacro stupore che provoca contorsioni di viscere!
Domanda che cala il suo (riverso!) uncino interrogativo con l’intento d’arpionare risposta impossibile da darsi: e piomba il silenzio come ascia di folgore sopra gli sparsi pianti del nostro quotidiano diluvio esistenziale in cui solo l’arca del ferito uomo Dessì riesce a valeggiare, contro l’infido vento dell’incombente abiura, verso la lucente "riversa...intra due rive / dipinte di mirabili primavera".
Quale e quando e come - ripetiamo tutti con angoscia - la sempre invocata risposta? E’ il silenzio di Dio la più terribile risposta? O forse, la risposta di Dio é nell’aver, Egli, dipinto un così inimitabile "tableau de maitre"? S’incarnisce sulla pagina del cuore l’unghia dell’angoscia. E così anche il silenzio è risposta che puç sottintendere altra più incalzante domanda, senza parole. Silenzio di silenzio: e soltanto a lume di lucerna, allora, con la sola nostra ombra alla parete, anche noi ci sorprendiamo a biasciare monologhi di silenzio.Ma dall’assillo del dubbio, ancora appare Amon che disegna il misterioso "cerchio sull’abisso", e l’ansia allora assume forma d’ibisco, fiore che spunta, reciso, a scongiurare, forse, Thanatos, delirante metafora che vorrebbe assumere aspetto di maschera apotropaica, ma invano: perché si é spento l’ibisco , e così

Nasce la solitudine.
Per te il problema
non esiste, vero?

Per chi crede nel sacro miraggio del roveto ardente dell’ascesi, il vulnus, il Male di tutti i possibili

Job è quel perfetto
quadro che respira profondo
il profumo della sofferenza.

Nella pagina/tavola anatomica di Dessì non c’è spazio per l’analisi della malattia e del lutto: niente cartelle cliniche4 fotocopia di quelle di Stecchetti Gozzano Corazzini Svevo Campana, eccettera magari di altre illustri patologie: solo prognosi di fausta fede. La malattia di ogni autentico - perché prediletto da Dio - Job è l’ulcera del Male o del Maligno.

E’ l’ilcera celeste, diceil Libro sacro:
E Satana uscì dallla faccia del Signore
E piago’ Job con l’ulcera del Male.

Male che lo fa gioire ardendo: è umbratile sottigliezza d’un esteta irredento, questa?
No, assolutamente no!
Dessì, come anche Giobbe, non interpella e non teme la morte perché da dolorante, vero credente sa computare solo quell’eterno infinito Presente di Dio: egli sa di essere fiato del Sempre. E così, Dessì medita:

Soffrire? Perché?
Il lamento non serve
c’è Dio nel dolore.
Ascoltiamolo.

Ascoltiamolo, lo dice anche Ezechiele: è lo scriba vestito di biancoche "passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un ‘tav" sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono".Quello scriba ha segnato anche la fronte d’un poeta con l’ultima dell’alfabeto ebraico del dolore.

Nel giro poetico del parentado cristiano dell’autore sardo sono presenti certamente, il Bettocchi inquieto, il tormentato Testori, ma sicuramente più di tutti, Ungaretti (specie a causa di mediate affinità linguistico-strutturali affioranti nella rielaborata tessitura postermetica e in certe movenze della ‘allure’ metrica presenti nel "disegno"; che Dessì, però, sa convertire in quotidiano canto penitenziale a mezza voce); l’Ungaretti del "dolore", intendo, quello degli "inni" che grida "sono un uomo ferito": ma sopratutto, "l’uomo di pena" al limite della sofferta abiura, come traspare nella poesia "mio fiume anche tu", quando si domanda: "Cristo, pensoso palpito, / perché la tua bontà / s’è tanto allontanata?".Almeno: può essere una risposta chiedersi il perché del perché? "Il disegno"come quadro metafisico.
Questo titolo dato al poemetto credo abbia le carte giustificative che gli consentono di iscriversi negli annali letterari della ‘scuola’ o, se meglio si preferisce, tendenza metafisica della quale, con l’alto avallo di Eliot, può dirsi che faccia propria l’elaborazione complessa di una figura retorica (in questo caso, appunto, il disegno) che si propone non solo come cifra polisegnica, ma anche polivalente e, sopratutto, azzardo dire, monodialogica, là dove con il dolente monologo Dessì imbastisce un quasi orfico dialogo con il grande Presente-Assente che è Dio: e qui il poeta riesce ad elaborare una sorta di "ghiommere", un occulto discorso-invito a dialogare, di taglio metaespressivo in cui il verso-lamento-preghiera del poeta si spinge finoalla soglia di una possibile risposta da ottenere da parte del Divino, dal quale, però, non riesce a districarsi; viene così a prendere forma linguistico-figurale insolita, quasi di taglio scultureo visionario: una sorta di (altro) semantico Laocoonte-aniconico, direi- dove il monologo ansima nell’attesa del dialogo che, tuttavia, avviene nel più misterioso teatro dell’assenza: è un monologo del poeta aggiogato al Silenzio: statura d’un originale Laocoonte aniconico, appunto. Ma metafisico é anche l’impianto della forte tematica di questo poemetto.

E’ stato, ancora, Eliot a riconoscere titolo di "poesia metafisica" nella elaborazione di una figura retorica del "mondo ridotto a scacchiera", nella poesia "To Destiny", di Covley; e in quella, ancora più raffinata immagine - metafora di "due amnti" paragonati a "un compasso", nella poesia "A Valediction", di John Donne.

Metafisico, questo "saccer liber maestitiae", anche perchè, nel tormentato viaggio alla ricerca dell’io c’è ansia d’assoluto: dove l’agonismo di Gigi Dessì arde d’amore nel ringraziare il suo Architetto

persino per
i graffi dei tuoi chiodi...
grazie maestro
grazie la mia vita è ora come
una favola.

                                                                                                              (Franco Cocco)




Testi Dott.ssa Giuseppina Paddeu
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