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RIPENSARE LA SCHIZOFRENIA. 

di Marco Alessandrini

 

 

Recensioni bibliografiche 2003 DALLA PREFAZIONE AL LIBRO DI A. BALLERINI.
   News del 2003               Marco Alessandrini, "Ripensare la schizofrenia.Delirio, sogno, psicosi: ripartire da Philippe Chaslin", 2004, Edizioni Ma.Gi., Roma.
Recensioni dalla stampa 2003   

Foto di un'opera di Pablo Echaurren esposta alla mostra "Flesh for Fantasy" (Prato, dicembre 2003-gennaio 2004)

                 Rivista Frenis Zero
MARCO ALESSANDRINI: psichiatra, psicoanalista, collaboratore della Cattedra di Psichiatria dell'Università di Chieti, presso la cui Scuola di Specializzazione è docente, responsabile dell'attività territoriale del C.S.M. di Chieti. Si dedica da tempo al trattamento psicoterapeutico delle patologie più gravi e ai processi di creatività artistica nei pazienti psichiatrici. Traduttore e curatore di volumi di psichiatria e di psicoanalisi, curatore di una raccolta di scritti del fondatore della Società Psicoanalitica Italiana, direttore della collana «Psicopatologia ieri e oggi», è autore di numerosi testi tra cui i volumi Presente assenza (2000), Tra teatro e follia (2001) e Eco a me stesso (2002).

 

                  Maitres à dispenser << Il ricchissimo testo che Marco Alessandrini propone una miniera di pensieri spunti, riflessioni che coinvolgono l'intero campo della psicopatologia delle psicosi, cosicché il pur affascinante ricorso alla presentazione in italiano di testi di Philippe Chaslin, certo poco diffusi, è come se fosse una trama i cui spazi sono riempiti dal pensiero dell'autore, che premette a ciascuno dei testi di Chaslin una sua riflessione in forma di saggio. Condivido l'idea che la conoscenza di  grandi autori del passato, come appunto Chaslin, sia un modo indispensabile per procedere in avanti nella ricerca psichiatrica. <<Se non sai dove vai, sappi almeno da dove vieni>>, recita un proverbio africano; si scopre assai spesso in testi attuali che solo l'ignoranza o la trascuratezza verso il passato permette loro di presentare come nuove vecchie acquisizioni, talora banalizzandole e sottraendo loro spessore di pensiero dal quale originarono. Ma talora sembra vi sia anche una sorta di pregiudizio epistemico, per il quale conoscere qualcosa circa una tesi o una teoria sulle psicosi ostacola la conoscenza di uno psicotico, come se potesse esistere una ricezione del tutto ateoretica, pura, dei fenomeni, senza un riferimento a griglie di pensiero che ci hanno preceduto, magari contrastandole o, come è dovere di ogni ricercatore, cercando di superarle o sussumendole in un contesto più ampio; si è cioé spesso ignari che i fatti sono sempre gravidi di teorie, e che l'importante è esserne consapevoli. Questo doloroso senso di impoverimento della psichiatria penso sia una delle spinte a ripresentare al pubblico, o a presentare per la prima volta, il pensiero di grandi psichiatri: è un'operazione che conosco per averla tentata (Ballerini, 2002a). Ma io sento, a elogio del libro di Marco Alessandrini, anche una nota di modestia: i suoi originali pensieri e illuminazioni vengono suggeriti nel contesto di commenti a un altro autore.

<<Ripensare la schizofrenia>>: ne abbiamo certo gran bisogno. Ripensare la schizofrenia significa oggi confrontarsi con una serie di dubbi e incertezze, assai lontane dal tempo nel quale la diagnosi di questa psicosi era una sorta di sicuro prét-à-porter, buono per situazioni cliniche in realtà molto diverse, al punto che la diagnosi di schizofrenia diceva forse più della scuola di appartenenza dello psichiatra che non del paziente.

In effetti la storia dei tentativi per definire la o le sindromi del <<gruppo>> (scriveva prudentemente Eugen Bleuler) delle schizofrenie, è largamente una storia di fallimenti. La grande sintesi di Emil Kraepelin (1889/1904) riuniva nella malattia dementia praecox quadri psicotici disparati, dalla ebefrenia alla maggior parte dei deliri, sul principio non solo e non tanto della possibile transizione da un gruppo sintomatologico all'altro, quanto degli esiti in comune, assai fatalmente destinati a una condizione cronica di Defekt o di disgregazione simil-demenziale, anche se tutt'altro che uguale alle demenze su base organica. Ma lo stesso Kraepelin a un certo punto del suo pensiero distaccò, come è noto, le sindromi <<parafreniche>>, in quanto trattasi di vistosi deliri cronici che tuttavia non evolvono verso uno stato di decadimento né verso una pervasiva chiusura ermetica nel mondo personale. Il principio ordinatore kraepeliniano era che ad esito uniforme deve corrispondere un uniforme processo di malattia. E' noto anche come l'operazione di Kraepelin fosse stata essenzialmente condotta in ambiente istituzionale, manicomiale, e sappiamo quanto la cosiddetta sindrome da istituzionalizzazione pesi sulla condizione finale dello schizofrenico.

    E. Kraepelin

Nei cento anni seguiti, una lunga serie di studi è stata condotta sugli esiti della malattia di Kraepelin, rifusa da Bleuler nel concetto di <<gruppo delle schizofrenie>>. Anche se Bleuler non era molto più ottimista di Kraepelin circa gli esiti delle schizofrenie, lo spostamento di accento da lui operato sui meccanismi dinamico-psicologici del disturbo e la sua idea che si trattasse comunque di una sorta di <<demenza affettiva>> e non intellettiva, incoraggiava alla verifica di possibilità prognostiche comportanti una reversibilità. Ciò che è evidente è che il concetto di un quasi uniforme decorso verso esiti prevalenti uniformi è ormai smentito e non può essere usato per individuare e riunire un gruppo di psicosi in una entità nosografica unica, chiamata dementia praecox o schizofrenia. 

Anche la tesi bleuleriana del disturbo associativo quale fenomeno primitivo e caratterizzante delle sindromi schizofreniche si è rivelata assai vaga nella sua applicazione clinica, fino a dilatare, come in passato è avvenuto, i limiti della schizofrenia quasi ad libitum, in una sorta di evaporazione del concetto stesso.

"Schizofrenia": inchiostro di china su carta di G. Leo (inizi anni '80)

 

Il successivo tentativo, fortemente coerente nel metodo, è stato quello di Kurt Schneider (1950) e del gruppo di Heidelberg, di asserire che la diagnosi di schizofrenia è una diagnosi di stato e non di decorso, qualsiasi esso sarà, e che si fonda sulla psicopatologia jaspersiana, vale a dire sullo studio delle esperienze interne del paziente. E' questo studio che ha portato ad individuare alcuni modi dell'esperire, alcuni Erlebnisse considerati tipici, e che sono stati tradotti a livello semiologico nei <<sintomi di primo rango>> di Schneider.

    K. Jaspers

L'impatto  che questo modo di pensare ha avuto e ha nella clinica della schizofrenia è enorme, per il rigore epistemico che lo connota, e i <<sintomi di primo rango>> sono entrati in ogni sistema diagnostico della schizofrenia, direttamente o camuffati. Ma, a mio parere, rileggendo Schneider si centra l'attenzione più su un modo, fugace o duraturo, di procedere della mente, più su uno stato dell'esperire chiamato schizofrenico, che sulla malattia schizofrenica in senso clinico. Con questo sfondo conoscitivo era forse inevitabile che venisse poi mostrata la non-specificità assoluta dei fenomeni di primo rango, e in particolare come essi possano accadere in condizioni appartenenti al circolo della psicosi maniaco-depressiva, specialmente nei cosiddetti stati <<misti>> o rapidamente alternanti tra mania e melanconia.

Lo sforzo di gran parte della psichiatria contemporanea di definire secondo criteri operazionali, che escludano al massimo la soggettività dell'osservatore (e, largamente, del paziente), ha portato a definizioni della schizofrenia quale quella del DSM IV (1994), che nel tentativo programmatico di essere del tutto <<ateoretica>> in realtà mescola relitti di <<teoresi forti>> del passato- da Kraepelin a Bleuler fino a Schneider - attraverso i criteri <<cronologico>>, <<funzionale>> e <<sintomatologico>>. I criteri definitori della schizofrenia del DSM IV sono stati via via messi in dubbio, ed è di questi anni la critica, lucida e spietatamente logica, scritta da Maj (1998).

Ho ricordato, in un mio contributo, come per secoli sia circolato un documento, che gli storici chiamano <<Donazione costantiniana>>, nel quale l'imperatore Costantino I stabiliva, tra l'altro, il potere temporale del vescovo di Roma. Dall'umanista Lorenzo Valla e poi dagli studiosi contemporanei ne è stata riconosciuta l'inautenticità, benché il documento abbia svolto in più occasioni il ruolo di un testo storico. Sembra che anche noi psichiatri si sia ereditato un falso storico: il concetto di un malattia unitaria chiamata dementia praecox o schizofrenia e che su questa presunta unitarietà si siano edificate teorie e impiantate ricerche.

Certo era diversa la <<prudenza nosografica>> di Chaslin sottolineata da Alessandrini, prudenza nel ritenere che lo stesso tratto comune della <<discordanza>> potesse definitivamente unificare in un unico assieme, in un'unica <<malattia>> le sindromi nelle quali essa compare. E', questa consapevolezza del carattere diverso degli individuali percorsi definiti come schizofrenici, un tratto anticipatorio del pensiero di Chaslin: Binswanger (1960) scriverà che poiché la schizofrenia si fonda nell'ambito dell'interruzione della continuità dell'esperienza, e con ciò della storicità, a differenza della psicosi maniaco-depressiva che afferisce a una forma <<generale>> di minaccia del Dasein, ogni schizofrenico ha <<la sua propria schizofrenia>>.

Non è possibile, e avrebbe anche poco senso, annotare tutti i punti stimolanti e notevoli dei commenti di Alessandrini al pensiero di Chaslin, mi limiterò quindi ad alcuni. Inevitabilmente, egli scrive, interrogarsi su quel  <<qualcosa>> che sembra mancare nel modo di essere schizofrenico, porta a ricercarne la presenza <<normale>> dentro di noi, significa ripensare <<emozioni profonde>> che fondano il nostro esistere. Viene in mente l'asserzione di Racamier (1980) che parla della schizofrenia come dell'arte di <<esistere non esistendo>>. Ma viene anche alla mente il valore propriamente antropologico di una siffatta ricerca psicopatologica, in quanto i fondamenti taciti, pre-verbali e pre-cognitivi dell'umana presenza appartengono al non-detto dell'ovvietà e si rivelano in tutta la loro forza costituente proprio quando vengono a mancare, in modo simile alla forza di gravità nella quale tutti viviamo, ma il cui valore fondamentale, osserva Blankenburg (1971), è evidente quando manca, come per gli astronauti.

Chaslin, nota Marco Alessandrini, è un rappresentante di quella grande psicopatologia francese che mantiene il bisogno di bilanciare nel rapporto con i pazienti <<riflessione ed emozione (...) riferimento ai concetti e attenzione, invece, alla singola persona>>. Questa mi sembra essere una lezione metodologica fondamentale nel fare psichiatria, e alla quale Karl Jaspers si riferisce con parole vibranti nelle prime pagine della Psicopatologia generale, e che ha a che fare con il problema della distanza intersoggettiva, con la capacità di continuamente variare la distanza fra osservatore e osservato: una distanza <<fusionale>>(fra l'altro, una completa immedesimazione è un mito fenomenologico) impedendo la riflessione sui vissuti dell'altro, e una distanza <<stellare>> rendendoli tutti incomprensibilmente alieni.

Marco Alessandrini ripercorre, anche lungo l'ispirazione del metodo dodecafonico di Arnold Schonberg, l'idea di <<discordanza>> proposta da Chaslin (folie discordante) per connotare il modo d'essere dei malati che Eugen Bleuler chiamava schizofrenici. Discordanza quindi come <<dissonanza>>, come <<tensione costante e irrisolta>>, come un non arrivare mai alla consonanza con un <<suono fondamentale>>, e tuttavia proprio per questo gravida di un suo valore comunicativo.

Ma che cos'è questo <<suono fondamentale>> cui né la musica dodecafonica né la mente schizofrenica ritornano? Certo il concetto di <<discordanza-dissonanza>> ha più a che fare con quello che si indica con <<sintonizzazione>> (attunement), che con il concetto bleuleriano di Spaltung associativo. La discordanza evoca di più l'immagine di un allontanamento dal mondo comune e in-comune. Naturalmente dal punto di vista fenomenologico la separazione Io-Mondo è un aprés-coup della ragione, e fondazione dell'intersoggettività e dell'egoità sono facce della stessa medaglia, per cui la costituzione dell'Altro, vale a dire del mondo come intersoggettivo, è co-costitutiva della stessa ipseità e dei suoi modi di funzionare. 

Secondo Alessandrini, il <<suono fondamentale>> potrebbe essere <<un insieme di emozioni>>, inesprimibile perché non-pensabile dal paziente, <<soprattutto risalente al difficile rapporto con gli altri>>. E questa ultima notazione mi pare avvicini il <<suono fondamentale>>, carente e/o inesprimibile, all'atteggiamento basico che viene sbrigativamente indicato come common sense, peraltro sulle tracce di una lunga tradizione filosofica che va da Voltaire, con la voce Folie nel Dictionnaire philosophique, a Vico, a Kant. Common sense che sembra essere anche il vincolo della concordanza del normale percepire-pensare, di fronte a un <<orizzonte di significati>> (Husserl) che ci si dispiega come dilatabile con il muoversi della nostra intenzionalità. Ma il common sense non va concepito come un puro assieme di opinioni condivise, bensì come un fenomeno basale della presenza umana, che è tale proprio perché inter-soggettivamente fondata. Espressamente l'autore indica che <<la dissonanza o discordance (...) equivarrebbe a ciò che si usa definire autismo>>.

Foto di S. Malysse

L'immagine del ritiro, del distacco dalla realtà esterna, dell'allontanamento dagli altri, della separazione dal mondo comune e in-comune, è stata fin dall'inizio centrale nel concetto di autismo e ne è rimasto uno degli aspetti descrittivi più evidenti. Ma questa separazione dal mondo comune e in-comune, dall'esperienza naturale nel mondo della vita, di isolamento e solitudine, di crisi della comunicazione, cosa ha a che fare con il concetto di malattia mentale, di psicosi schizofrenica in specie?

Eugène Minkowski notava che in quel rapporto sempre fluido e mutevole fra, da un lato, isolarsi per salvaguardare la nostra originalità e, dall'altro, recettività all'ambiente, non esistono precetti di salute mentale, se non forse proprio nella fluidità senza irrigidimenti di questo rapporto, il cui <<elemento regolatore>> è del tutto non razionalizzabile, e lo stesso Minkowski, in armonia con le sue tesi di fondo, lo indica come <<sentiment d'harmonie avec la vie>>. Se, parafrasando Pascal, <<la vita ha sue ragioni che la ragione non saprebbe formulare>>, è da questa sintonia pre-razionale, pre-verbale con il mondo della vita che deriva il senso dei limiti e della misura: in fondo l'evidenza ovvia dell'intersoggettività del mondo. E ritengo che dal punto di vista della fenomenologia genetica  la difficoltà nel sentire l'Altro, la crisi nella costituzione dell'Altro, e quindi dell'intersoggettività, sia il nucleo dell'autismo (Ballerini, 2002).

A mio avviso, ripensare oggi la schizofrenia significa ripensare all'autismo, anche se siamo consapevoli che un'intuizione fenomenologica quale fu quella del modo di essere autistico sia difficile oggi tradurla (come lo fu per Bleuler) in ciò che la psichiatria chiama <<sintomo>>. Forse dobbiamo avere più coraggio, verso il mondo schizofrenico, nell'uso della metafora, sia pure partendo da complessi tipici dell'esperire patologico, e la metafora dell'autore della musica di Schonberg mi appare assai suggestiva.

L'idea di Chaslin della primarietà, nella schizofrenia, dei disturbi del linguaggio è stimolante, e lo è proprio, osserva Alessandrini, in quanto il linguaggio si pone, quasi fosse una superficie del modo di essere autistico, <<al di fuori delle regole umane condivise>>. Osservo che il concetto poi di assenza di <<comunicazione>>, che ricorre tanto spesso nel gergo psichiatrico sull'autismo, non è certo di facile definizione e da un certo punto di vista tutta la fenomenologia della vita di relazione può essere considerata in termini di comunicazione. In <<un senso ontologicamente largo>> la comunicazione, <<nella quale si costituisce l'articolazione dell'essere insieme>>, non è soltanto <<il trasferimento di esperienze vissute dall'intimo di un soggetto all'intimo di un altro>>, annota Heidegger in Sein und Zeit (1927). E tuttavia questo trasferimento di informazioni implica almeno due aspetti fondamentali per la psicopatologia: l'intenzionalità della comunicazione e la competenza linguistica della persona.

E' del resto l'evanescenza del linguaggio, eclissi che coinvolge insieme i due protagonisti della copresenza della comunicazione, che una certa psichiatria corrente ha cercato di obiettivare e di reificare in sintomi del comportamento, propriamente in frammenti comportamentali, facendone al limite la chiave giustificatoria di sindromi psichiatriche diverse, quali la schizofrenia <<positiva>> (ricca di deliri e allucinazioni) versus la schizofrenia <<negativa>>. L'eclissi della comunicazione diviene così un mero organizzatore nosografico.

Ma l'evanescenza della comunicazione nella schizofrenia è ben più che la crisi della trasmissione-ricezione di un messaggio. Questa perdita può segnalare la crisi dell'intersoggettività nel mondo della vita, e le alterazioni dell'incontro interumano non sono riconducibili a una manifestazione secondaria, a un sintomo incidentale e variabile, ma appartengono verosimilmente al nucleo dell'alienazione schizofrenica. 

   H.G. Gadamer

Gadamer (1967) scrive: <<Il linguaggio non è uno strumento, è l'essenza dell'uomo (...). Noi siamo tutt'uno con il linguaggio e perciò non possiamo porci fuori di esso e considerarlo dall'esterno: per compiere un salto "al di fuori" dobbiamo servirci del linguaggio e quindi ricadere in esso. Il primo tratto essenziale del linguaggio è un essenziale oblio di sé nel quale si realizza il rapporto dinamico dell'uomo con il linguaggio(...) Un secondo tratto essenziale dell'essere del linguaggio mi sembra il suo sganciamento dall'Io (Ichlosigkeit). Chi parla una lingua che nessuno comprende, non parla. Parlare significa parlare a qualcuno (...) perciò il parlare non appartiene alla sfera dell'io, bensì alla sfera del noi>>.

E dire della essenzialità della <<sfera del noi>> significa anche dire che <<...il "fondo della vita" è transpersonale>> (Alessandrini), che il <<fra>> le persone, l'<<Entre>> (Kimura, 1988) è costitutivo del nostro modo di funzionare psichicamente, così come della costituzione della nostra identità.

A proposito dello studio di Chaslin sulla confusione mentale, Alessandrini scrive di <<indefinitezza che affonda in se stessa>> e aggiunge: <<di nuovo, è qui in causa un estremo conflitto tra la vita e la morte, tra crollo e saldezza, un conflitto che è alla base di ogni psicosi ma che nella confusione mentale è specificamente evidente nella forma di un magma somato-psichico>>, ed è come se non fosse più possibile, per il confuso, <<generare nuove forme>>. E' questo un crollo che finisce per toccare lo zoccolo del biologico, per compromettere non soltanto l'identità ma la stessa <<coscienza di esistere>> (Jaspers, 1959).

Noi tutti siamo circondati dall'informe, da quella sorta di inconscio fenomenologico che è l'<<immanifesto>> (G. Charbonneau, in <<L'Art du Comprendre>>, n.8, 1999), e dobbiamo continuamente, e non una volta per tutte, trarre forme dall'informe e squarci di manifesto dall'immanifesto, perché la nostra vita mentale abbia un senso, e questo nel sogno come nella veglia, perché, scrive l'Autore, <<essere svegli è sognare>>.

 

 

 

 

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