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REVERENDISSIMO PADRE.... SIGNOR PIETRO.

Lettere da un manicomio.

Raccolte da Beppe Giannoni.

 

 

Reverendissimo Padre... Caro Pietro: sono i due personaggi prestigiosi a cui scrive Tonino dal Manicomio di San Salvi (Firenze). Sono i due rappresentanti in Terra, rispettivamente, dell'Altare e del Trono, del Potere Religioso e di quello Laico: il Papa e Pietro Nenni (siamo nei primi anni '70). Tonino scrive... per ottenere udienza.

Beppe Giannoni, psichiatra di Greve in Chianti, ci offre, attraverso le lettere dal manicomio di tre pazienti appartenenti a differenti generazioni, uno spaccato della loro condizione esistenziale.

 

TONINO

 

Un impareggiabile eroe di imprese da nulla, da burla, paradossali ed amene ad un tempo, ma anche fantasioso, troppo fantasioso, poeta e scrittore  baroccheggiante e dallo stile turgido che spesso ci parla per iperboli fra richiami e citazioni di poeti classici della letteratura italiana, soprattutto del gran padre Dante che ammira e predilige, con improvvisi colpi d’ala, una parola che gliene richiami un’altra scatena voli pindarici magari incomprensibili che lasciano stupiti e che sono tanto inattesi da muovere in chi legge il buonumore se non la risata franca e schietta.

          A prima vista le sue parole, le sue idee, il suo modo di esprimersi sono completamente senza senso; ma a guardare più in fondo, fra le righe, si ritrovano i perché, si ritrovano gli aneliti, i desideri, si ritrovano le speranze e le delusioni. Si ritrova l’uomo, insomma.

          Perché è un uomo: un uomo buono, un santo laico, un martire ingenuo, (non ostenta la palma del martirio ma sempre martire è) di una società che lui vorrebbe migliore; anche le lettere che scrive sono deputate talvolta a questo scopo: parlare a grandi ed a piccini per far capire l’importanza della giustizia.

          E’ il nostro Brogiotti Tonino.

          Lo chiameremo così ché il nome gli si addice ed un po’ somiglia al suo.

          Egli firma le sue lettere semlicemente,  solo col suo nome di battesimo sia che scriva al Papa o al Presidente degli Stati Uniti sia che scriva ad un parente. Il nome ed il cognome lo scrive sul retro della busta, a belle lettere, con l’indirizzo preciso (Ospedale Psichiatrico, via di San Salvi 12, Firenze e preceduto immancabilmente dall’appellativo per lui importante di “marinaio”.

          Perché marinaio è stato per davvero nell’ultima guerra.

          La sua vita è stata avventurosa sia da giovane sia ora da uomo che va verso la settantina, una vita triste, tristissima ma anche movimentata e varia che l’ha portato a navigare per il Mediterraneo ed a viaggiare oer mezza Europa; ha conosciuto gente di disparati costumi e tradizioni, di tanti paesi, ha sofferto e sognato e gli è rimasta l’ingenuita e la freschezza di quando era bambino, dono questo dato a pochi.

          Il Brogiotti  scrive lettere da circa sette anni. Cominciò con una lettera, “semplice” dice lui, ad un suo amico  e sembra che gli abbia dato soddisfazione se ha continuato a scrivere. La cerchia dei destinatari si è allargata nel tempo, ha sritto al Papa ed a Cardinali, a re ed a presidenti della repubblica, a principesse ed a semplici amiche, ad ex regine ed a ex prime donne, a parenti ed amici, a comandanti di navi, a personalità politiche nazionali ed internazionali; addirittura una l’ha scritta anche a San Pietro. E’ mancato poco che ne abbia scritta una anche a Dio.

          Le più vive sono quelle scritte ai parenti ed agli amici. In esse, anche se spesso nascoste nelle pieghe del suo esprimersi mascherato, sono più evidenti le manifestazioni del suo stato d’animo, le preoccupazioni, gli affanni, i dolori, le pene, anche d’amore. Quelle scritte a persone altolocate, a grosse personalità politiche o religiose, più contorte, più roboanti, più artificiose sono anc’esse una scusa per parlare di sé stesso, per cercare apprezzamenti e valorizzazioni che mai ha avuto, per farsi grande fra i grandi, insomma, sotto questa angolatura sono da leggere i consigli, gli avverimanti che talvolta dispensa loro; ma altresì sono un modo per comunicarci i suoi bisogni, le sue aspettative, le sue necessità.

          Ne è un esempio questa breve lettera a Nenni nella quale professa la sua antica fede di socialista rivoluzionario dichiarandosi tale per amore dell’umanità. A Nenni chiede che si interssi di lui, negletto in manicomio da un immenso numero di anni ma gli espone anche il suo sogno d’amore, quello di sposare la Franca, compagna di sventura in manicomio.

 

          “Siete assolutamente in errore. Io non ho trascurato nessuno. La notte che io rappresento è il simbolo della mia delinquenza, Il mio delinquere puole sembrare impossibile, ma non è che amore per l’Umanità.

          Dite piuttosto Voi Sig. Pietro come è che fate del bene a chiccessia e non a me. Io sono 76 anni che vivo quì e si sperde così il mio simbolo nella notte dei tempi. Fate Sig. Pietro che riusciate a compiere questo miracolo per me. La Umanità sarà salva solo quando sposerò in seconde nozze la Franca.

          Operate ed io vi aprirò il mio cuore.                             

                                                            Tonino”

 

          Splendido a mio parere il periodo La notte che io rappresento è il simbolo della mia delinquenza”, C’è il suo non essere capito ed il suo non sapere farsi intendere,i suoi aneliti che sembrano folli sono stati presi per delinquenza compreso la sua inclinazione rivoluzionaria. La Franca, la ritroveremo più in seguito, è una povera giovane donna schizofrenica con alle spalle un matrimonio fallito che Tonino vorrebbe redimere e salvare sposandola perché la Franca è il simbolo dell’Umanità. Ed il cerchio così si chiude.

          “La mia vita”  mi ha confidato, “è cominciata dall’ingenuità e lentamente mi sono emancipato, piano piano, e mi sono sentito grande a quarantotto anni; allora mi venne l’idea di essere un dio con la “di” minuscola e gli dei, anche quelli con la “di” minuscola, hanno il dovere di consigliare i loro figli”.

          Il suo peregrinare, portandolo a contatto con popoli di lingua diversa, l’ha spinto a studiare le lingue straniere: il francese (“cominciai a studiare il francese in Albania”), cercò di imparare il tedesco mentre era in un campo di concentramento in Germania, L’inglese a Vienna e si rammarica di aver studiato poco il russo; sa anche qualche parola di polacco che usa per scrivere a personalità polacche, nel suo incomprensibile tedesco scrive alla ex regina Maria José ed al Cancelliere Schmidt; al sindaco Gabbuggiani ne manda tre insieme, una in tedesco, una in francese, una in italiano; al Papa in una lettera tenta di esprimersi con il latino in empito di commossa esaltazione, lingua che desidererebbe tanto conoscere ma che non conosce,purtroppo. Ed a Leone mentre era Presidente della Repubblica? solo il Brogiotti poteva riuscire a pensare di scrivergli in napoletano!

          Nato a Firenze, in via de’ Neri, nel cuore di Firenze, una Firenze dalle strade strette ed ombrose, le case che reggono da secoli le loro pietre, la Firenze minore ma che fino ad oggi, forse malauguratamente per poco ancora, è a vera Firenze, spontanea ed ironica, pronta alla battuta scherzosa, al frizzo, al lazzo ma non becero, popolare ma culturalmente ricca. La cultura che viene da secoli di miseria e di lotta alla miseria.

          Nasce in una casa proprio di fronte alle “Folies Bergieres”, un teatro il cui nome è un programma, il nostro amico non poteva nascere che lì.

          Era giovane la sua mamma, una ragazzina quasi, quando Tonino nacque, un tempo a vent’anni le ragazze erano già sposate, e quando era per finire di allattare il figlioletto, ché allora le mamme davano la poppa anche per due anni, quando Tonino aveva undici mesi, mrì di “spagnola”. Meno male che c’era la nonna che lo tirò su.

          Suo padre, infermiere in un ospedale cittadino, aveva allora ventisette anni, aspettò dieci anni e poi si risposò. Prima delle nozze chiamò Tonino, lo prese da parte nel giardino della casa, se lo mise sulle ginocchia e gli disse che si sarebbe risposato; Tonino da parte sua non ricordava di aver avuto una mamma.

          La matrigna, vedova con tre figli avuti nel precedente matrimonio, era una donna austera, di garnde moralittà, una donna “di ferro” come la ricorda il nostro Brogiotti. Morì che aveva quasi cinquan’anni ed era nata pressappoco nell’anno di nascita della mamma di Tonino. Oltre a questo di lei nonnsappiamo altro.

          I rapporti in casa , specie con Adriano, figlio della matrigna, non devono essere stati tranquilli, almeno per Tonino, ne fa fede una lettera affettuosa ad Adriano come risposta all’invito di essere ospite per Pasqua dalla quale traspare il fondale della loro relazione. Tonino gioca con le parole, maschera ma non troppo con frasi altisonanti il tipo di rapporto fra loro, dice facendo finta di non dire, dice che anche lui è al mondo, che ha anche lui diritto di vivere come lo stesso diritto lo riconosce ad Adriano e s pare proprio che rimandi al passato,e ad Adriano chiede che quando anrà a trovarlo non gli faccia pesre la grande differenza delle reciproche condizioni, potrebbero bene “regnare insieme”; pure si rammarica che neanche in politica siano stati d’accordo, hanno cambiato idea politica prendendo  quella dell’altro nello stesso momento trovandosi allo stesso punto di partenza;  “tutto cambia ma resta la medesima cosa”.

         

                    “Caro Adriano.

          Non è giusto che io debba essere il solo padrone sulla terra. In verità ti dico che ci sei pure tu al mondo.

          Come pure non è giusto che quando vengo a farvi visita, voi tutti vi diate da fare, un grande da fare, per buttarmi a terra. No! Adriano no! Noi due dobbiamo regnaare assieme. Appunto per la semplice ragione che Dio, il nostro Signore, non a caso ci ha creato simili. Ma io, Adriano, non ti voglio impaurire: Direi che se proprio mi volete con voi per le feste pasquali, accettatemi il lunrdì di Pasqua. La santa Pasqua la devo passare con la zia a Dicomano.

          Per concludere, aro Adriano, tu eri nato Comunista e ti sei fatto Socialista.

          Io ho fatto all’inverso. Ciao.                              

                                                            Tonino.”

 

          Quell’ “in verità ti dico” di evangelica memoria è una vera perla. Sembra davvero trasparire anche una vecc          hia contesa su chi aveva più diritto a vivere nella casa del babbo di Tonino dopo che si era risposato; Adriano ha vinto, Tonino è finito in manicomio. Non si sente però di esprimere con chiarezza il suo pensiero, gli risponderebbero subito che si sbaglia, che lui dice a quel modo perché è malato ed allora per dire ciò che pensa non ha altro modo che far finta di dirlo, che poi è la prassi del “dire schizofrenico”. 

          Il dire di Tonino che ha cambiato idea politica necessita un approfondimento per capire anche la realtà manicomiale. Se un tempo frati e suore facevano propaganda per la D.C. coartando la fragile coscienza dei ricoverati, cambiato il vento politico, l’assunzione da parte dell’amministrazione comunista nel manicomio sansalvino di personale di provata fede rovesciò la medaglia e così cambiò tutto per non cambiare nulla, cambiati i suonatori rimase la stessa musica, quella di perpetuare la violenza          anche psicologica ; Tonino, ma fu preso in ridere perché matto, lo denunziò in una pubblica assemblea  in cui si discuteva sul manicomio, così si espresse. “Sono venuto in manicomio che ero socialista e nel manicomio mi è stato spiegato che io dovevo diventare comunista; lo sono diventato ma sono restato socialista”.         

 

          Desidera di andare d’accordo con Adriano superando inutili contrasti e pertano chiede all’altro fratello di Adriano, Adolfo , al quale si sente più legato, di mettere i suoio buoni uffici .

 

                    “Caro Adolfo.

          Avrei potuto scrivere:caro fratello. ma io non oserò mai trattarti diversamente da come tratto Adriano. Ti ricordi quando tu miscrivevi lettere dalla Sicilia, la lucente trimacria. Chi sa mai perché noi tre non siamo siculi. Adriano è nato comunista e si è iscritto al P.S.I. io che reo nato socialista mi sono iscritto al P.C.I.

          Solo tu Adolfo potresti metterci tutti e due sul chi vive, dimmi cosa ne pensi di questo mondo arrembato, come appunto diceva la mamma Zita.

          Lunedì di Pasqua sarò a pranzo da Adriano, spero di incontrarti.

                                                  Tonino.”

 

          Potevano essere gli angoli di un triangolo, distinti ma uniti, tre anime in un nocciolo, ma così non è. Adolfo può far capire lo sbaglio a lui ed a Adriano. E nella breve ma commovente lettera affiora il rispetto ed il rimpianto per “mamma Zita”.

 

          A Tonino è rimasta una vecchia zia, sorella del babbo, e talvolta la va a trovare, è la zia citata nella lettera ad Adriano; é una vecchietta che sembra stia morendo da un momento all’altro, dice lui, ma che invece fa ancora i tortellini da sé, è contraddittoria, fonte di turbamento per Tonino e di perplessità anche per il modo di manifestargli l’affetto, in maniera troppo patetica quasi da sembrare falsa, quasi da sembrare una presa in giro.

          La perplessità nei confronti della sincerità della zia è tanto grande da pensare di chiedere consiglio e lumi addirittura a Papa Montini, solo il Papa può dirimare i suoi dubbi. Mescola il cavolo con le Quarantore, è vero, ma così facendo mostra anche l’essere intrappolato in un “doppio legame”. La lettera anche se buffa è umana e sofferta, parla delle sue perplessità, parla della difficoltà di comprendere certe comunicazioni poco limpide, eccessive rispetto alla necessità che la situazione richiede specie se rapportate ad altre comunicazioni di tono e di stile  opposti, in particolare se recepite tramite il “non verbale”, realtà che traspaiono dalla lettura della missiva.

 

                              Reverendissimo Padre.

          Sì, sono sempre io. Né i tempi, né le arie riescono a mutare quello che, con il di Ella consenso, oso chiamare il mio Spirito.Dodici anni, ben dodici feste dellAssunzione, senza che io rivedessi il caro volto della zia Assunta.

          Io non posso, no. Io non posso abbracciare tutta la Umanità. Et dans en friçon d’espoir, domandare a tutti il Perché; solo 3 o 4 volte in vita mia io ho udito e soilo casualmente, pronunciare la parola “Madornale” o “Madornalesimo”. Io ho soltanto un poco di Spirito e quasi nessuna cultura. Io voglio bene a mia zia; ma lei tutte le volte che mi vedeva mi abbracciava e stringendomi forte, esclamava”eccolo quì il mio nacchero, eccolo quì; è bellino lui!!!” Io ascoltavo in estasi e quasi mai reagii a tanto affetto né a tanto entusiasmo.

          Questa sera, caro Monsignore, non resisto più. Grido forte!?! Ci occorrono 500.000.000.000 di Montini per costruire un’asse, da potersi chiamare Roma-Berlino. Vorrei, in poche parole, che Vostra Santità fosse sincero e tanto sincero da confidarmi il Segreto: è mia zia che vuole vedere me morto, oppure sono io che vorrei vederemorta lei. Che Vostra Santità rompa il ghiaccio. Oramai la Bibbia non è più muta; parla e dice:da Montini siamo nati e in Montini torneremo.

                                                  Tonino.

 

                                                                                                                                  Riannodare rapporti corretti tra lui ed i parenti,  “costruire un asse, da potersi chiamare Roma-Berlino” è così  difficile che non basterebbero cinquecento miliardi di Montini, però solo nella sapienza del Papa confida  al quale invia l’attestato  conclusivo, Papa Montini per Tonino è la Fede, è la Speranza, è la Sabbezza, è l’alfa e l’omega. Comunque continua ad andare a trovare la zia ed a passare la Pasqua con lei.

 

          Mantiene buoni rapporti anche col cugino, figlio della veccia zia. Ecco la lettera al cuginocon quel bollettino della vittoria rifatto a suo uso e comsumo, commovente nel finale, si autoinvita a desinare perché l’appetito gli è ritornato

 

                    “Caro Franco.          

          Non ti dimenticare di porgeredue bacioni alla Carla ed uno per uno alla Govanna ed alla Vittoria. Ormai tu hai visto come ho saputo vincere la mia battaglia. I resti di quello che fu al mondo dei miei avversari il gruppo più potente, risalgono in silenzio i fiumi che avevano navigato con orgogliosa tracotanza. La Vittoria è tua, Franco. Io per te ho pugnato e vinto. Ti prego di mandarmi l’indirizzo esatto della zia Assunta. E, se vuoi, puoi dirmi quando potrò venire a pranzo da te. Il mio appetito è tonato quasi per miracolo: Credevo proprio che fosse giunta la fine,

                                                                      tuo Tonino.”

 

          E’ originale l’inizio per i baci mandati in prima battuta; ed il nome di una delle tre donne, la Vittoria gli da lo spunto per parlare di una sua vittoria non meglio precisata. Tonino nel suo scrivere è lapidario, le sue lettere pur nella sfrenata fantasia con la quale associa parole ed idee non sono mai lunghe e ripetitive; quel “La Vittoria è tua, Franco. Per te ho pugnato e vinto”  sembra tratta dall’Aida di Verdi.

 

          Scrive anche ai figli di un un altro figlio della mamma Zita. Vengono presentate due lettere, una a Giovanni per invitarlo ad essere un bravo ragazzo prendendo esempio da lui, perché si avvicina la fine del mondo, Tonino lo sa bene in quanto è bene infomato dai suoi collaboratori sparsi per ogni dove; l’altra è per Paolo e Giovanni, è una lettera di uno zio affettuoso e premuroso, desideroso di esser invitato a pranzo.

 

                    “Caro Giovanni,

          ti prego, come ho fatto e facevo sempre, di essere ubbidiente ed ossequioso nei confronti dei tuoi genitori.

          Te lo dico adesso, ciò che devi fare, è in base al fatto che l’ora in cui i buoni saranno Eleti è giunta, è vicina, wibila jest, così usano dire i cittadini polacchi, fra i quali ho tanti amici e collaboratori.

          Srivo poco, sono stanco; ho tanto lavoro ed ho tanto da fare,

                                                  tuo zio Tonino.”

 

                    “Cari Paolo e Giovanni,

          Ho gijutato di non abbandonarvi r manterrò il mio giuramento.

          Sono molto occupato. ma un poco di tempo ve lo voglio dedicare. Devo dirvi che la salute è buona  ma non vorreio essere io sano a fare il guappo di fronte a due nipoti sofferenti. Quindi mi auguro che anche voi stiate bene.

          Dite a Franco vostro padre che ho incontrato il signor  Cappelli che stava passeggiando nelle vicinanze del Ponte Vecchio; gode buona salute ed invia i suoi migliori auguri.

          Ragazzi!! Se mi volete bene ditemi voi quando devo capitare lassù per un buon pranzetto. Scriverò più a lungo in seguito,

                                                  Tonino

 

          Srive una lettera matta ad un vecchio zio in cui parla del re Costantino di Grecia.

 

                    “Caro zio Ugo.

          Non so, non capisco bene. Io ti voglio bene e questo è un fatto. Ma che fatto sarebbe se come fatto si intendesse essermi io lasciato abbindolare da Sua Altezza il Re Costantino di Grecia, il quale, stanco, chi sa mai il perché, di regnare, profittò che ti volevo bene, per trovare stoffa bastante a far saltare il trono.

          Zio ugo, io ti voglio bene. Ma tu non devi dimenticare che io sono figlio della strada. Quella strada sulla quale fu abbandonata la famiglia tutta.

                                                            Tonino

          P.S. Ti prometto che sarò saggio”.

 

          E’ una lettera, si badi bene, piena di sentimento e commovente nel poscritto come un bambino sa coomuovere; però in quel “sarò saggio”  fa intravedere malefatte bizzarre se non pazzesche nei confronti dello zio Ugo a cui vuole bene, se gli ha dato dispiaceri è stato per strane ragioni che non sa spiegarsi, forse c’entra re Costanino di Grecia o qualcuno che gli ha rassomigliato  che profittando della bontà di Tonino, fece in modo che lo zio perdesse il suo ascendente su di lui, chissà, ma lo zio lo deve perdonare perché è senza colpa, il destino lo gettò “sulla strada” e con lui tutta la famiglia.

          Da ragazzino, dopo la quinta elementare, andò ad imparare il mestiere di falegname ma guadagnava poco (dalle venti alle venticinque lire al mese) e per questo ma certamente non solo per questo appena giunta l’età giusta fece domanda di arruolamento in Marina; fu arruolato nel ‘40, a venti anni e per tre anni prestò servizio militare come effettivo adibito dapprima a servizi vari e poi come infermiere e come radiotelegrafista, si mise a studiare da sé, diventò marinaio scelto, al tempo dell’armistizio  stava per prendere il grado di sotto-capo.

          Del servizio militare in Marina gli è rimasto un ricordo indelebile, fino al ‘76 circa  andava in giro con un cappello con la tesa, turchino, con un’ancora dorata sul davanti; è rimasto fedele al giuramento al Re fatto a suo tempo, è socialista ma sempre monarchico.  Tale ricordo lo palesa in tante lettere; in una particolarmente scritta per i compagni, gli amici, i fratelli imbarcati con lui su una unità da guerra ai quali parla del comandante morto, nella lettera per sentirsi importante accenna anche ai suoi rapporti col Papa ed invita i destinatari a leggere la Divina Commedia come fa lui  affinché non restino barbari e reazionari.

 

                    “Compagni, amici, fratelli.

          L’ultima parola che io ho scritto è fratellki. fra fratelli si usa consolarci. Io, dopo la immatura fine di S.E. l’Ammiraglio Fabri ho operato. La bella immagine della nostra cara nave l’ho donata a S.Santità Padre Papa Paolo Sesto. Non vi domando di dirmi se io abbia fatto bene o male; sono certo di non avere sbagliato.

          Vi comunico che ho ripreso a leggere la Divina Commedia di Dante Alighieri, mi fa bene e vi consiglio di fare altrttanto. Altrimenti dovrei dire che la barbarie della controoffensiva redatta contro la mia battaglia democratica e comunista sia dalla vostra parte.

          Scrivete e perdonate.

                                                  Marinaio Brogiotti Tonino.

 

          Venne a casa con l’8 settembre  ma non aveva nulla da fare né dove andare, cercava un lavoro che non trovava. Si recò allora al comando tedesco in piazza San Marco a Firenze a chiedere il “permesso” di recarsi in Germania a lavorare e partì.

          “In tre mesi” mi raccontò il Brogiotti, “fecero di me un deportato, per la mia ingenuità”; l’ingenuità fu quella di non tenere in tasca il documento comprovante la sua posizione regolare di cittadino italiano che lavorava nell’industria tedesca (era occupato in una fabbrica di accessori per automobili a Dussardolf) ed una sera, uscito per recarsi al cinema, fu fermato da una pattuglia di poliziotti; non aveva in tasca il documento richiesto e fu quindi assegnato ad un vero campo di concentramento. Di quel periodo mi ha narrato di un episodio commovente: assistette alla morte per fame di un prigioniero che si era rifiutato il cibio dato dai tedeschi. Quando si accorse che era proprio in fin di vita mise tre o quattro candele intorno allla branda dove si stava spegnendo l’amico ed attese lì davanti, in piedi ed in silenzio, pazientemente, la fine dello sventurato.

          Tornò in Italia dopo la prigionia, che aveva 26 anni e nel turbinio politico di quel tempo, come pioniere dell’intrnazionale voleva portare in tutto il mondo le speranze del Socialismo. Non avrebbe voluto più lavorare  ma dedicarsi tutto alla Causa senza esigere niente per sé.

          La sua inquietudine lo portò ad emigrare in Svizzera da dove però volle essere espulso:aveva trovato lavoroin una mensa aziendale (“in un ristorante grandioso” dice lui) dove serviva a tavola, spazzava e rigovernava. Dormiva in una stanza dentro il piccolo teatro che l’azienda aveva costruito per i dipendenti, cominciò a sentire voci che lo irritavano ed una notte prese della benzina, la versò sulle assi del palcoscenicoe dette fuoco. All’istante si pentì di ciò che aveva fatto, prese un estintore e spense l’incendio. Nessuno si era accorto di nulla ma Tonino provò un terribile rimorso per ciò che aveva fatto, andò dal direttore della fabbrica e gli chiese di chiamare un poliziotto per farlo accompagnare alla frontira e d espellerlo. Il direttore gli rispose. “Contento te....!” e lo esaudì. Il poliziotto che l’accompagnava tentò di dissuaderlo ma invano, Tonino non si sentiva degno di restare in Svizzera a causa del gesto compiuto; prima del confine gli consgnò, su incarico dell’azienda, la paga corrispondente a due mesi di lavoro e con quei soldi il Brogiotti si mise a viaggiare per tutta l’Italia a parlare di Libertà, di Giustizia, di Socialismo, di Rivoluzione.

          Quando finì il denaro gli si aprirono le porte del manicomio da dove non è più uscito.

          Nel manicomio continua ancora il suo sogno giovanile  e scrive a Craxi, a Berlinguer, a Nenni. Lui che si è iscritto al P.C.I. ma che nell’anima è sempre socialista dimostra questo suo attaccamento ai suoi ideali nella lettera indirizzata a Craxi come segretario del P.S.I. nella quale lo invita ad andare avanti non curandosi dei Leoni  (del presidente dell Repubblica Leone e di quelli intorno a lui) garanti di un ordine di un tempo ormai sorpassato (“ditro ognuno di essi vegliano le Guardie Regie”) ; con la lettera invia a Craxi, quale omaggio e tesimonianza di fede, quasi tutta la sua produzione poetica.

         

          “Io marinaio Brogiotti Tonino ho soppesato per trenta anni di gravi pene il materiale che quì vi espongo e che ho accumulato trentacinque anni fa durante il servizio nella R. Marina ; dopo aver soppesato per trenta anni e vagliato pro e contro fra le due dottrine filosofiche. Una il P.C.I. et D.C. e l’altra P.S.I. e fascismo.. Soppesando ho costatato che è il P.S.I. che uccide il fascismo e libera il paese dall’odiato straniero.

          Queso materiale lo ritengo bastante a creare una maggioranza perlamentare del P.S.I. et portare il P.S.I.al vertice governativo (i Leoni fanno è vero paura, ma dietro ognuno di essi vegliano le Guardie Regie).

 

          Usa gli “et”  telegrafici, (era stato marconista), a sottolineare l’importanza della comunicazione, da uomo importante ad uomo importante.Ed ecco le poesie:

 

          “In memoria di un compagno marinaio perito per infarto cardiaco (1942-43)

 

          Se un dì l’umano essere in un Dio

Più creder non volesse

In cerca andrebbe, ho pensato io

Di un tal che pace desse

Ai suoi spiriti bollenti

Sempre proclivi ad eccedere

In fanatiche passioni incoerenti

Ma ai suoi detti finirebbe poi col credere.

Quì il dubbio mio è grande in quanto che

In me si affaccia con logica chiarezza

Avendo già provato su di me

Qual da serenità finii nell’incertezza.

Parlo del dì che trovato in un amico

Dei miei pensier amministrator fedele e saggio,

La mia mente per lui era aperto plico,

Il suo elevato spirito fu per me miraggio,

D’orgoglio unvago senso

Mi prese in un momento.

L’ffrontai e dissi: penso

Che nel tuo dir non v’è discernimento.

Sorrise e se ne sndò; mi parve strano

Che offesa non vedesse nel mio dire

Ma in me più nulla era di umano

Così credetti ch’ei volesse assentire.

Ma presa che ebbi la via da me segnata

Mi accorsi, o Cviel che duro era il cammino,

Non avevo più pace e come anima dannata

Per sfogarmi maledivo il destino.

Tornai sovra i miei passi e fui accolto

Come prodigo figlio e con ugual sorriso

A me si dedicò per farmi colto

Di Divina Materia con dir conciso.

O esseri che in Dio più non volete

Finisco col dire ciò che ormai sapete,

 Avendo quì con versi alquanto spiegato

Che Dio deve esistere

Che Egli va amato”.

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          “Nel rosso cuor che quì nel petto porto

Una falce ed un martello è scolpita

Ma se della ragione con trasporto

Non faccio uso, compagni è finita”.

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          “Sembrami o parmi, io non so preciso,

Ma a lungo andare darmi

Dovete partita vinta: è deciso”.

                    <<<>>>

          “Sì come bimbi sull’umana sabbia

Regi ed Imperatori in tutti i tempi

Fecero a gara a chi più ne abbia

Talento a dar di fantasia esempi.

Scavaron fosse, costruiron torri,

Solchi e muraglie fecero quei pazzi

E grida e salta e schiamazza e corri

A costruire ancora dei palazzi.

Ma ora su quella sabbia finalmente,

Dopo un’oscura notte preceduta

Da un tramontotriste e sanguinante,

Una rossa aurora è succeduta.

E dilà dall’oriente allor si parte

L’onda che ancor l’umana sabbia attende:

Non è figlia di Nettuno né di Marte,

Ma è madre della sabbia e la distende”.

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          “Marsiglia per te adesso penso e scrivo,

perché mi piaci, perché bella sei,

anche perché di ogni artificio privo

il leggiadro aspetto tuo io crederei.

          Par che natura abbandonar non voglia

tu che nel pien del suo cuor sei nata,

quindi ti cinge, ti penetra, ti taglia,

di monti,boschi e rivi la sua amata.

          I tetti, i balconi, le terrazze

tinge il sole al tramontar, del più bel rosso,

t’amo Marsiglia e di te vo pazzo

pur se chi vive in te amar non posso”.

                    <<<>>>

          “O pesciolin che salti fuor dell’onda

e attento sguardo lanci tutt’intorno,

dimmi se nel vedermi sulla sponda,

mi invidi o mi compiangi in questo giorno.

Ma son felice sai, nonn tanto quanto

forse tu sei nel liquido elemento,

quando nell’ombra del tuo mondo il canto

delle correnti ascolti e sei contento.

Di pace il mondo tuo lo credo pieno,

di gioia il cuore tuo vibrar lo sento,

quando guizzante passi come il vento.

Tu sei felice sì, dimmi qualcosa almeno,

del pari tuo son credimi amico

io pure soffro e spesso mi tormento,

è pien la vita mia e non ti dico

quel che sia l’insidia e il tradimento

che ascosi son quì per ogni dove.

tanto che v’è chi mangia i figli suoi,

e rapido ti affrra quando muori.

Ignote vie percorrere tu vuoi;

dai suoi simili pur non sono amato

che mille e mille mezzi usano quando

braman vedermi imprigionato;

credimi amico, nel destino vo fidando”.

                    <<<>>>

          “Si parla e si riparla ancora

Ma una ricostruzion  per farla

Non basta solo un’ora.

Vi è poi chi dice pure

Che per il popolo italiano

Ci voglion leggi dure

Tipo mussoliniano.

Chi vuole l’assoluta monarchia,

Chi la dittatura di stato;

Dittatura ebbene sia

Ma del Proletariato”.

 

          Poesie di poco valore letterario, ingenue, sorpassate e sbiadite, la metrica lascia a desiderare, il ritmo sovente zoppica, la rima talvolta è difettosa; sono i difetti che portano a credere che le poesie siano scritte da Tonino e non copiate. Sono ricordi di vita vissuta, intima, aver trovato un amico in cui confidarsi e l’averlo disprezzato e l’esser ritornato dall’amico dopo essersi trovato disperato e l’essere di nuovo accolto a braccia aperte; sono immagini e ricordi di luoghi conosciuti , Marsiglia con i suoi tramonti , il suo paesaggio e la donna che non può amare; o confidenze ad un pesciolino; oppure dichiarazioni della sua fede politica, spendido a mio parere l’immaginifico paragone tra gli umani e la sabbia sopra la quale i potenti costruiscono il loro fasullo potere perché basato sulla sabbia (e la sabbia ad un tratto ritorna ad essere la sabbia vera) e la rossa aurora che diventa un’onda, un’onda che è madre affettuosa dell’umana sabbia. O sfoghi,E se dittatura ha da essere perché da noi ci voglion leggi dure “dittatura, ebbene sia,/ ma del Proletariato”. Ma non basta aver fede, ci vuole anche un po’ di gnegnero se no è finita lo dice ai compagni ma nche per sé, purtroppo.

          Tramezzo alle poesie ci mette un pensierino su due versi, profondo e vero:

 

          “Si è lieti quando siamo veramente felici

          ma non siamo felici quando si vuole essere lieti”.

 

          L’essere lieti e felici sono uno stato d’animo spontaneo, non si può essere lieti a comando, non ci si può imporre di essere lieti.

 

 

A Craxi rimprovera in un’altra lettera, siamo nella crisi politica  del ‘78, di non essere abbastanza ardito nel prendere le redini del governo e lo punisce: voleva mandargli una serie di cartoline di Fgirenze e le invia invece a Nenni, il vecchio leader a lui caro. La lettera ha un tono distaccato, parla a Craxi che è il destinatario facendo finta di parlare con un altro:

          “Mi sento tutto confuso. Ho dovuto punire, per così dire, S.E. l’Onorevole Bettino Craxi. Quale è la punizione?La punizione: io avevo ricevuto in dono due o tre serie di cartoline con magnifiche vedute della città di Firenze. Mia opinione era quella di regalare le tre serie, una a S.E. l’On.le Enrico Berlinguer, una a S:E. l’On.le Bettino Craxi e l’altra, la terza, a S.E. Indira Gandi alla quale persona io sono molto,affezionato.

          Mentre io speravo, mi sono accorto che S.E. l’On.le Bettino Craxi ha evitato di premere per andare occupando la carica di S.E. l’On.le Andreotti il quale pure un bimbo affermerebbe che quell’uomo è oramai più stanco.

          Alla fine ho dovuto sostituire Craxi con l’On.le Pietro Nenni.

                    Non me ne vorrete.

                                                  Tonino”

 

          La lettera a Nenni che segue parla di sé, è amara, commovente perché pregna di delusione,impotente di fronte a quelli che senza far nulla parlano e mormorano e basta, però lui ancora crede e spera, lo fa da 77anni, ancora prima di nascere:

 

          “Essere così grande, trovarsi di fronte a un mando così piccolo e dover ascoltare le persone che mormorano senza poter far niente.

          Essere così piccolo ,trovare tanto spazio e non poter far nientealtro che lasciarsi gonfiare dal Mormorio sino a divenire tali e quali nella testata del foglio.

          Avere vissuto tante esperienze le quali si sono liquefatte come neve al sole lasciandomi solo con una gran testa vuota.

          Ma ciò che terrorizza è il fatto di sentire la pienezza del Mormorioa niente utile, se non a lanciare nello spazio il Socialista ed esserlo da anni 77.

                                                                      Tonino”.

 

          La lettera a Berlinguer (“Vostra Onorevole Eccellenza” così comincia e non si capisce se è un atto di doveroso ossequio od una presa in giro) è una lettera di rimprovero per come è stata portata avanti la crisi di governo del ‘78: l’assersi messo d’accordo con la D.C. invece di puntare ad un governo della sinistra ( fu più coerente nella sua azione Mussolini, ed è tutto dire). Anche Tonino però si sente in colpa ché in una precedente lettera , per eccessiva speranza, aveva parlato di sicura vittoria; purtuttavia non si doveva arrivare a quel cedimento e per questo si sente confuso ed avvilito:

 

          “A Vostra Onorevole Ecc../nza.

          Perché, perché, io mi domando, come è stato possibile errare?La colpa mia è di avervi, in una mia, parlato di una certa Sicura Vittoria. Io l’ho fatto in un momento di eccessiva fede.

          Ma ella, On,le come ha potuto obliare ciò che fu e non fu che solo bestiale incoerenza. Sua Ecc.nza il Duce restò fedele all’Avanti in quanto ne fu capo redattore. Ciò che avvenne dopo dipoi non ha importanza, era che i socialisti, pugnal fra i denti, corressero alla avanzata protetti alle spalle dal caro e generoso P.C.I.

          Abbiamo fallito il colpo; ma io non mi tolgo la giacca per stenderla sul fuoco sacro.

          Vi scriverò ancora quando sarò più lucido.

                                                                      Tonino”.

 

          Nel pomeriggio dello stesso giorno in cui scrive a Berlinguer scrive ad un certo signor Nino Valentino, addetto alla stampa e propaganda della Presidenza della Repubblica e  sfoga con lui il suo rammarico e la sua delusione:

 

                    “Gent.mo Signor Nino.

          Sono sempre quì. tale e quelo lo mi avete incontrato. Eh! Sì, non si puole.Oppure quanto a me, o per quel tanto che mi riguarda, mi sento incapace di immaginare, di non dover essere  più quì in questo Maschio.Quì mi ci sento come uno di quei tanti, aimè pochi: Martiri dello Italico Risorgimento. Ma quei pochi, aimè troppi Martri dello Italico Risorgimento non tendono a me la mano a mo’ di soccorso, né infine a somigliarmi.

          La buona anima di S.Ecc.nza. l’Onorevole Palmiro Togliatti usva dire in vita:se mi somigli! Io è da tempo che amo tutti i comunisti, ma non, aimè, tutti quei capi che li guidano.

                                                                      Tonino”.

 

          Lo stile è solenne per dire che per quanto lo riguarda personalmente ormai non può pensare di vivere fuori dal manicomio anche se lì è in prigione ed a seguito di traversie causate da ideali politici, si rassomiglia infatti ai Martiri del Risorgimento; e quando parla di quei Martiri tanti aimè pochi, pochi aimè troppi sembra  riecheggiare il Brecht del “beati i popoli che non hanno bisogno di martiri. In quel finale poi anticipa di decenni i tempi che corrono.

 

Del manicomio conosce bene tutti i reparti, ha vissuto un po’ in tutti, subendo anche le violenze fisiche che in manicomio sono di ordinaria amministrazione; mi diceva: “Quando arrivai in manicomio ero distratto, ero poeta ma non avevo la cultura per fare il poeta e allora mi facevano la strozzina perché mi vedevano distratto, trovavano il verso di farmi perdere la pazienza e allora ricevevo le busse che si danno a tutti quelli che perdono la pazienza”. Quanta umanità!  Quanta verità in quel “trovavano il verso di farmi perdere la pazienza”! quel dirsi poeta poi è per dire che era un sognatore idealista che voleva fare il politico senza avere “la cultura”,  il non saper far uso della ragione di cui parla in una sua poesia.

          Dopo tanti anni il nostro Brogiotti è calmo, quieto e rassegnato, gira con una cartella di peelle che sembra più grande di lui, come un ragazzino che va a scuola, e nella borsa tiene tutti  i suoi beni, il fazzoletto, il pettine, le sigarette, la radiolina la carta da lettere con le buste, la penna. Esce dall’ospedale e va a cercar fortuna, qualche pezzo da cento lire che riesce a raccapezzare quà e là per arrotondare la pensione. Sembra smorto ma dentro gli batte un cuore di innamorato perché lui innamorato lo è sempre. L’ultimo suo grande amore è la Franca, la si è già incontrata, una compagna di manicomioche gli sperpera tutto il suo poco denaro; ma si sa , l’amore è cieco.

          Scrive, partecipa a chiunque il proprio tormento e l’ansia di convolare a giuste nozze con la Franca. A Nenni, al Papa; al direttore dell’ospedale,consigliato dalla Franca, chiede di essere                    aiutato:

 

                    “Signor direttore.

          Vorrei che ella sentisse questo grido che dal profondo dell’anima mi si diparte: pronto ad esultarle le partole della Franca. Ieri mi ha parlato ed infine mi ha consigliatodi chiedere al signor Direttore una casetta di tre stanze per noi due.

          Signor Direttore!!!! non lasci che il grido finisca nei miei colossali piedi di argilla. Sia duro. Reagisca.

                                                  Brogiotti Tonino.

 

          Le donne: tormento ed estasi per il nostro Tonino; non si è mai sentito amato veramente da alcuna e di loro ha un grande timore e purtuttavia ama, riamma e riama ancora. E’ stato a letto con le donne solo a pagamento (“da giovane, in via de’ Federighi, uno scudo d’argento”)ed ora la Franca gli pela quei pochi soldi che ha e non gli concede alcunché; né egli peraltro le chioede qualcosa. Vorrebbe solo salvarla, vorrebbe donarle pace e gioia ma non ci riesce; e non può riuscirvi,lo possiamo ben dire conoscendo la Franca che dopo un lungo periodo fra alti e bassi, di fughe maniacali e di gravi disordini interiori che la facevano bolla re per “caratteropatica” (e giù elettroshock) è ntrata in una dimensione esistenziale schizofrenica, ultimo suo ripiego e difesa (il manicomio è una fabbrica di pazzi), ultimo suo modo di comunicare e di capire il perché delle sue angosce, delle sue perplessità, delle sue delusioni, del suo patire. A suo tempo la fecero sposare con un biscugino del Brogiotti, anche lui ricoverato a San Salvi, dal quale ebbe anche un figlio; poi si separarono. Ed il nostro Tonino è l’unico che abbia amato ed ami la Franca.

 

          La Franca è “la prima” , quella a lui più cara, il Brogiotti lo dice al suo ,amico Serse Agnato, per lei ha speso in poco tempo settecentomila lire. E’ la prima di chi sa quante migliaia di donne che vorrebbe prendere in sposa. Nella lettera, accanto al confessare all’amico i suoi sentimenti riguardo alla Franca, c’è la richiesta di amicizia con le espressioni di affettuoso attaccamento all’amico dette con parole fantasiose, con quel “logorio” che ricorda il pubblicitario ”logorio della vita moderna”; c’è il confidargli di star bene economicamente ( gli devono essere arrivati gli arretrati della pensione e per questo può soddisfare con liberalità le voglie della Franca; oltre a ciò fa trasparire come la madre di Serse vorrebbe allontanare il figlio da lui e come lui, Tonino, si sia accorto che non li abbia messi in contatto telefonico quando gli ha  telefonato, lo dice parlando di un suo incontro con un’amica comune. E nella lettera affiora uno sprazzo di vita manicomiale,quei poveri amori, quelle larve di amori, che mirabilmente spuntavano in quella landa sconsolata di sassi e di sterpaglie.

 

                    “Mio caro Serse.

          Mi è sembrato che, aspetta aspetta, quella virtù che sta nell’amicizia si logora nel tempo e non da luogo a riparazioni; questo, questo voglio dire. Vogliamo noi che il logorio abbia ragione di noi tutti ed aspettando questo nefasto evento ci vogliamo mettere a guardarci in cagnesco? Bene! Noi non lo vogliamo, no!

          Questa sera ho incontrato la Cleofe. Si è fermata e mi ha, come al solito, domandato di te. Io ho fatto da nesci e dopo averla informata , sì e no per l’ennesima volta, che quella sera avevo sì telefonato al tuo numero, ma senza poter impedire a tua madre di assicurarmi che tu eri in casa e che stavi benone. In quel momento qualcosa è apparso negli occhi della ragazza. Quegli occhi volevano dire: Matu Briogiotti chi sei? Non ti ho sempre voluto bene, e allora perché non mi chiedi in Sposa? Quel lampo mi ha colpito e mi ha fatto pensare a quante Migliaia di donne io vorrei togliere in sposa. Mi sono vergognato e così via.

          Caro Serse, ti informo che da tre giorni sono milionario. Sì, proprio sì. Ma non sposerò la Cleofe perché non è la prima; la prima è la Franca: io per lei ho speso 700.000 lire nello spazio di pochi mesi. Io ho, in tal modo, avuto la fortuna di conoscerla, cosa che ancora non sono stato capace di fare con la Cleofe.

          Ti saluto, sono stanco, buona notte.

                                                            Brogiotti Tonino.

 

          Nella lettera balena pure uno sprazzo di vita manicomiale, quei poveri amori, quelle larve di amori che talora spuntavano fra i sassi e la sterpaglia di quel luogo sconsolato

 

          E’ pronto anche a mettersi da parte essendo la Franca felice senza di lui; ne fa fede un bigliettino che le scrive, delicato e riguardoso, le da del lei:

 

          “Lei è felice. Sì Lei è felice perché si sente unita al suo sposo che è in cielo.Ecco perché non le farò visita per le Sante Feste.

                                                  Tonino Brogiotti.

 

          Un amore impossibile visto lo sfascio ideativo della donna amata, fonte di dolorosi turbamenti che però in breve tempo si dissolvono, un amore che lo incalza furiosamente, un’ossessione il cui nome, chissà perché, gli ricorda quello della Petacci. Di tutto ciò ne parla con Mafalda, altro suo grande amore chiedendole aiuto.

          Ecco la lettera:

 

          “Qualche cosa che in breve si potrebbe          attribuirle è il nome “Diavolo alle calcagna” Un momento di timore, uno di terrore, poi ancora uno di spavento e tutto passa e si scioglie come neve al sole. Chi non si scoglie come neve al sole è lei, la donna.

          Come tu, sai ne ho una, la Franca, un nome splendido, un nome che è splendido: mi ricorda quello della grande Petacci. Io non so cosa fare. E se tu mi salvassi?!? Se tu venissi a me e quegli spaventi e quei terrori divenissero onore e gloria a questa nostra povera Italia. Es get alles varuber.

                                                            Tonino”.

 

          L’andare a lui di Mafalda scatenerebbe un atto così eroico che la povera Italia ne avrebbe onore e gloria,  l’Italia, la Patria che sta al disopra di tutto, lo dice sfoggiando davanti a Mafalda il suo tedesco scrivendolo però come lo parla, storpiandolo anche, quel “varuber” sta certamente per “vor  uber”, “questo, (la Patria), sta al disopra di  tutto .

 

          Mafalda, il suo amore impossibile. La Franca è separata legalmente e può sperare di sposarla; purtroppo Mafalda è sposata e Tonino ce l’ha a morte con Remo, il marito, che gliela soffiò, gliela portò via a suo tempo. A Mafalda Tonino scrive lettere d’amore, a lei apre il suo animo, la fa partecipe dei suoi sentimenti più intimi e nascosti, addirittura inconfessabili. In una lettera su carta rosa, contornata da variopinti fiorellini, le comunica le sue paure, le sue ansie, il suo stato presente e quello futuro lontano ed oscuro, trema al pensiero di ciò che il rifiorire della primavera gli può scatenare dentro, la vendetta certamente solo a parole contro i vivi e contro i morti, contro anche suo padre reo forse di essersi risposato:

 

                    “Cara la mia Mafalda.

          Non ti parlo della mia salute: non me ne intendo. Tutto ciò che ti dirò riguarda questa febbre, questa smania di grandezza che mi divora. Tremo al pensiero che fra breve fiorirà la primavera e questi miei nervi, ora intirizziti dal gelo, potranno alfine distendersi verso lontani e più oscuri orizzonti.

          Questa mia smania tramanda i miei più felici pensierini ad una voglia matta di fare da me solo e per me solo, una unica vendetta.

          Io sogno di vendicarmi, sì. E sogno di farlo, e sui vivi, come ad esempio su Remo, e sui morti, come ad esempio su  mio padre.

          Io soffro tanto Mafalda e solo tu mi sai e mi puoi consolare. Sii felice.

                    Il tuo Brogiotti Tonino, marinaio, ecc.ecc.”

 

          Lettera dolce ed umana, appassionata e triste, Fa anche sorridere, Tonino non si smentisce mai, è anche ironico nei suoi “più felici pensierini” ma immalinconito in quel “marinaio ecc.ecc.” in cui è sintetizzato il suo destino crudele e tormentoso, e suggellata la sua tristezza.

 

          In un’altra lettera a Mafalda si scusa con lei per l’andare troppo spesso a trovarla, si scusa dell’amare un’altra donna, forse  la vuol fare ingelosire pur dichiarandosi sempre innamoratissimo di Mafalda, le spiega perché spende i soldi per la rivale, ma non li sperpera come male linguei nsinuano , é a causa  dell’amore che soccorre  ai suoi capricci:

 

                    Cara Mafalda.

          Io sto bene. Ti chiedo scusa per le soventi visite che mi trovano un poco troppo spesso sulla soglia della tua abitazione. Credimi, vi sono molte persone le quali mi accusano di sperperare il mio denaro. Ma ti giuro che non è vero. La verità è questa. Io, benché solitario, non potevo vivere in solitudine. Una mia biscugina mi è venuta incontro come una ventata di primavera. Naturalmente, come la primavera, anche lei è la fiamma, cioè è come te. Ha ella i suoi capricci, ed io eccomi pronto a soccorrere. E’ tutto un correre.

                                                                      Tonino”

 

          In verità la Franca non è sua biscugina, ha sposato un suo biscugino.

           Tonino offre immagini poetiche parlando del nuovo amore “mi è venuta incontro come una ventata di primavera”, fantasiosamente una parola gliene suggerisce un’altra, il “soccorrere” porta pindaricamente al “è tutto un correre”.

 

 

 GIACOMO

 

 

  

                                                                                              “libertà va cercando, ch’è sì cara”

               

Del Destino gli antichi greci ne avevano fatto un dio, un dio crudele o generoso, a seconda dei casi, che se crudele travolge buoni e malvagi, ciecamente, un dio superiore a tutti gli altri dei, una divinità implacabile che nessuna preghiera avrebbe potuto far desistere dalle sue decisioni, dalle sue sentenze senza appello; ne avevano fatto un dio, il più misterioso ed imperscrutabile degli dei forse per tentare di raddensare in una divinità il mistero antropologico del venire al mondo ed il misterioso concatenamento degli eventi. Ci sarebbe da dare loro ragione pensando al nostro Tarantini Giacomo.

Nasce per parto cesareo, nel 1931, primo ed ultimogenito di una donna che dopo quattordici giorni dal parto muore ( la madre aveva più di quarant’anni, si era sposata a trentanove.) La famiglia del padre e della madre sono intrise da turbe psichiche, un ambiente davvero poco augurabile a capitarci dentro ma non per eventuali tare biologiche bensì per l’inevitabile, l’ineluttabile difficoltà a vivere in quelle situazioni. Il padre si risposa subito, mette al mondo una figlia. Giacomo comincia ben presto a non trovarsi a suo agio e lo manifesta attraverso comportamenti che restano incomprensibili al padre ed alla matrigna, interpretati come picche bizzarre, che di fatto rappresentavano il bisogno costante di essere rassicurato: il farsi portare tutte le sere prima di andare a letto a fare il giro intorno ad un determinato lampione, il voler passare sempre per la stessa strada per non essere preso da terrore e da pianto convulso, il farsi leggere per mesi le stesse pagine di un libro. A dodici anni i sintomi del disagio si fanno più inquietanti, si nasconde dietro le porte e quando mangia si para gli occhi, quasi a mangiare di nascosto. Tolto dalla scuola pubblica (i professori così consigliano la famiglia) viene mandato a studiare in una scuola privata dove arriva a prendere faticosamente la licenza liceale. Il suo destino di emarginato è già segnato.

Il primo ricovero in una clinica psichiatrica avviene a diciott’anni, a diciotto anni subisce il primo elettroshock che però non risolve anzi aggrava ed ingigantisce la sua paura di morire, di essere ucciso, e non dissolve i suoi tormenti ed i suoi dubbi.

Dopo questo ricovero comincia a raccattare tutto ciò che trova per strada, oggetti rotti ed immondizie, tutte questi rifiuti li porta in casa, nella sua cameretta, li conserva gelosamente, ha paura che gliele rubino queste sue ricchezze, le sole cose di sua proprietà in quella casa, nessuno le deve toccare: un veritiero specchio di come si sente al mondo, in quella famiglia.

Viene ricoverato di nuovo in una casa di cura dove tentano di levargli dal cervello quelle idee col provocargli artificialmente febbri elevatissime con iniezioni endovenose di sostanze piretogene.

A vent’anni, a seguito di un nuovo ricovero nella stessa casa di cura  viene sottoposto ad una serie di comi insulinici.

A ventidue anni varca per la prima volta la soglia del manicomio; dimesso, dopo breve tempo viene nuovamente ricoverato in una casa di cura privata per la cosiddetta cura del sonno.

Va e viene dal manicomio e fra un ricovero e l’altro studia faticosamente, si iscrive all’Università, prima a chimica e poi a scienze politiche, ma anche scrive lettere piene di accuse e di recriminazioni ai medici curanti ( peccato non averle) incolpa i familiari del suo stato; è sempre più inquieto ed agitato finché a venticinque anni entra definitivamente in manicomio, “associato”, per non uscirne più.

Ora che scrive ne ha quarantotto, di anni. Il destino!

 

In un ingranaggio che lo stritola, che lo emargina, che lo esclude, guardato a vista come se fosse un delinquente, come se avesse commesso chissà quali reati man mano che procede il suo annientamento, per reazione si sviluppa, cresce, si gonfia, straripa il sognare di essere stato, un tempo lontanissimo, un grande uomo, l’uomo più potente, più ricco, più nobile, più feroce che mai sia esistito sulla faccia della terra, già vissuto in epoche remote, ora ridotto in rovina da spietati e crudeli nemici ma sempre potente, ricco, nobile nei secoli. Il suo sogno che vive ad occhi aperti è la continua metafora della sua esistenza e seppur ingigantita all’inverosimile ben rappresenta le sue esperienze. Ultimo romantico, sogna vendette inimmaginabili, con armi di sterminio totale.

E scrive lettere; come questa del 1970:

 

A sua Eccellenza il Ministro delle Finanze attualmente in carica in tale dicastero. (questa lettera è diretta a S.E. il Ministro di qualsiasi ideale politico esso sia, ma non della Democrazia Cristiana, partito nettamente avverso.) Chiedo che questa lettera non venga respinta per nessun motivo al mittente né nella direzione dl luogo in cui io sono chiuso, ma conservata nel Ministero; e non vada in mano né a medici né a donne.

Rivolgo all’Eccellenza vostra questa lettera per spiegare la difficilissima situazione nella quale io sono chiuso da circa diciotto anni di tempo, situazione davvero terribile di reclusione, di mancanza di denaro, di impossibilità di combattere perché privo di armi e di denaro per comprarle. Tale situazione si verifica pur essendo io un nobile, pur non appartenendo a razze inferiori, pur non facendo parte né del clero, né della chiesa, né della razza ebraica, né di correnti sovversive, né di altre situazioni che possono portare in questo luogo, dove mi trovo chiuso contro mia volontà, anzi internato ininterrottamente, da undici anni di tempo.

Descriverò nelle righe seguenti la mia situazione. Io che scrivo questa lettera sono il recluso stesso, ossia il Sig., (anzi Eccellenza io stesso nei secoli precedenti) Giachomho Taranthini, nel luogo dove sono chiuso fui internato col nome semplificato senza le h intermedie, ossia come se fossi il Sig. (anzi l’eccellenza, ma qui è ignorato) Giacomo Tarantini; mi rinchiusero senza tener presente né la razza, né la nobiltà, né gli ideali politici, né le cariche che io occupai nella storia dello Stato. Se io chiedo di essere messo in libertà la libertà mi viene negata assolutamente; dai regolamenti politici, Voi Eccellenza, sapete che per passare attraverso la porta di questi luoghi è necessario pagare una certa somma, io vengo tenuto senza denaro dagli agenti che sono vestiti in abiti civili (detti psichiatri) che impediscono, o quasi, che mi venga dato; e vengo tenuto con cifre esigue che vanno dalle 10.000 alle 20.000 mila lire al mese, cosicché io da undici anni consecutivi sono chiuso in un luogo che non è precisamente un carcere, né un campo di concentramento, ma è assai peggio tale luogo di reclusione assoluta è detto dal pubblico: Manicomio Provinciale di San Salvi è situato all’estrema periferia di Firenze; luogo che all’interno ipocritamente è chiamato o detto: Ospedale Psichiatrico “Vincienzio Chiarugi”, il cui canciello principale è situato in via San Salvi N. 12 che è di estensione grandissima (vari chilometri quadrati) composto tra reparti e servizi di oltre venti edifici, in questo luogo io mi trovo chiuso nel sesto reparto uomini, e, complessivamente, da undici anni di tempo in tutti i reparti come ricoverato, come recluso, come prigioniero. Non chiedo di venire trasferito in altri reparti di questo stesso Manicomio; ma di venire liberato. Posso aggiungere affinché Voi lo comunichiate al Tribunale supremo come pervenni in questi luoghi. Fui portato  “in clinica chiusa” nell’anno 1951 e nel 1952 in Roma, luoghi terribili nei quali le “terapie” erano torture in forma di terapie, come il veleno “insulino”. trattamento atroce e le torture elettriche alla testa. Abitai in Roma da quando fui generato (nei pressi di Montefiascone) il 14 novembre 1931, fimo all’anno 1968, poi fui condotto nel Manicomio di Firenze dove sono chiuso tuttora da circa dodici anni di tempo, attualmente ho circa trentotto anni di età, sono celibe e quindi al sicuro di congiure familiari. Nel periodo precedente alla mia reclusione in Manicomio, ossia ventidue anni prima di ora, frequentai il liceo classico parificato “G. Carducci” situato in Via del Corso Trieste N. 99 Roma, allora (ora mi pare che tale istituto sia altrove); circa venti anni fa tentai in Roma studi di Fisica, Chimica, Mineralogia, poi, molto tempo dopo, mi iscrissi alla Facoltà di Scienze Politiche “C. Alfieri” di Firenze (N. 2128 di scheda), non frequentai mai tale facoltà perché fui portato a forza in manicomio dai nemici che mi trovarono privo di armi. Sono in questo manicomio, nei vari reparti come recluso ininterrottamente da anni undici di tempo, sono assolutamente senza denaro, senza abiti civili né divisa militare, ma vestito con i soliti vestiti tipo Manicomio; poiché temo di morire nella congiura interna (cosiddetta della “medicina a tortura”) ossia sotto iniezioni, pasticche, gocce, e “rimedi” vari (elettrici), (mortali), uno più nocivo dell’altro, e poiché l’uscire da questo luogo è cosa ultra-ultra-ultra difficile perché la porta a mia richiesta non viene aperta (negazione dell’apertura della porta), per uscire io chiedo all’Eccellenza Vostra di farmi estrarre dal luogo dove io sono chiuso dai Vostri Ufficiali e dai Vostri soldati ai quali Voi, Eccellenza, dovete ordinare di invadere il Manicomio dove sono chiuso e di portarmi almeno parte del denaro che lo Stato mi deve e una rivoltella “composta”, una divisa, incaricandoli di accompagniarmi in una abitazione che Voi mi farete assegnare affinché io ci possa abitare da solo o in compagnia di guardie del corpo per non essere più prelevato e portato in questi luoghi.

Potresti provare a farmi spedire, in una lettera di formato non maggiore di questa che io indirizzo all’Eccellenza Vostra, tre biglietti di 10000 lire (diecimila) detraibili dagli assegni nobiliari ed individuali mensili (perché penso che maggiore somma verrebbe fermata dal nemico, ossia da chi mi tiene prigioniero) e in una busta successiva della stessa dimensione una banconota di lire 1.000.000.000; e una successiva con la stessa cifra col segno di fattoriale vicino (angolo o punto ! esclamativo). Eccellenza poiché questa pagliacciata del nemico deve finire, Vi chiedo, essendo Voi un abile generale, di armare una squadriglia di aeroplani da bombardamento pesante e di lanciare bombe ad altissimo potenziale sul luogo dove io sono chiuso, ossia nel Manicomio di Firenze o di San Salvi o V.Chiarugi dove io mi trovo chiuso così da diatruggerlo completamente e mettendo nella cientrale-ordini degli aerei (a onde elettromagnietiche di guerra) l’ordine di lasciarmi vivo e armato e di distruggere tutti gli edifici del manicomio, anche tutti gli altri reparti diversi da quello dove io sono chiuso che forse è meno peggiore di essi.

Quello che io chiedo che venga fatto è un imponente bombardamento dagli aeroplani che mi liberi dalla prigionia del Manicomio. Questa lettera ha significato letterale, è scritta in fretta e di stile italiano approssimato, ma descrive bene la situazione nella quale io sono chiuso.

Il reparto dove sono internato ha un cortile caratterizzato da panche metalliche verniciate a colori strani, giallo, verde, azzurro, rosso, bleu; dovete domandare, Eccellenza, alle centrali ad onde elettromagnetiche da guerra o d’artiglieria che significato hanno quei colori e quale è il progetto per farmi uscire dal Manicomio e attuarlo,  estrarmi, effettuare l’iscrizione alla scuola di Guerra Aerea per Generali d’Armata e per Comandanti di Squadre di Bombardamento Pesante e Membri del Governo che dovrebbe essere laterale al  Ministero dell’Aereonautica Militare da Guerra, mi pare in Viale dell’ Università  degli Studi N.4 Roma (in Italia).

Seguiterò la presente lettera raccontando, affinché voi lo riferiate al Tribunale Supremo, che negli undici anni di degenza in questo Manicomio Civile sono venute diverse persone a trovarmi, ma tutte hanno rifiutato di farmi uscire; una donna, una certa Maria Rosa Tarantini (nella parentela è detta sorellastra ma è clericale e nemica atroce, sparatele) è venuta dieci o quindici volte deformata in modo caratteristico, tale donna si è rifiutata di farmi uscire ed è certo che ha adoperato armi insidiose invisibili del tipo esploditori per eliminazione ritardata con torture mediche (elettriche o veleno insulino) torture che sono riuscito fino ad ora a evitare (questo dovete raccontarlo al Comandante della Polizia Segreta del Capo dello Stato e di S.M. il Re incaricandoli di fare indagini profonde sul perché io vengo tenuto chiuso, trovare i colpevoli e le colpevoli ed eliminarli con la fucilazione e con l’arsione dei forni per torture; essi ed esse sono colpevoli di associazione a delinquere anti -Stato, di sequestro di persona, ed infine del reato di eliminazione di persona con metodi insidiosi, si pensa che le persone (uomini) chiusi in questi luoghi siano infiniti (ossia topos) e che in questi luoghi ogni giorno vengano uccisi un numero enorme di uomini; potete considerare Eccellenza che ogni “clinica chiusa” sia un luogo di orribili torture non autorizzate dalla giustizia; in questa istanza chiedo all’Eccellenza Vostra che tali centri vengano distrutti con azioni di lancio di bombe ad alto esplosivo dagli aereoplani, e azioni di fanteria e che voi facciate eseguire questo dall’Esercito e dai Servizi Segreti SS; io non posso partecipare perché chiuso in ”Manicomio” perché assolutamente privo di denaro e di armi. Chiedo all’Eccellenza Vostra di venire liberato ed estratto assolutamente dal “Manicomio” dalle Forze armate, riarmato e condotto in una abitazione che voglio Voi mi facciate assegnare, bene inteso, con il denaro che lo Stato mi deve come assegni personali individuali mensili e nobiliari; la mia carica nei secoli precedenti era di Generale di Armata, di Primo Console, di Capo di Stato, ho diritto dunque agli assegni nobiliari (da nobile) e agli assegni personali mensili (come se fossi considerato un uomo non nobile, questi ultimi, perché se mal vestito e se scambiato per persona diversa non possono venire rivolte accuse né a me né agli Uffici Finanziari dello Stato.)

Mi sono rivolto a Voi Signor Ministro delle Finanze analogamente a come feci in situazioni disastrose in epoche molto antiche (secoli prima d’ora).Prima di chiudere questa lettera io Vi consiglio di liberarmi da qui e di far sparare sui colpevoli che a Voi risulteranno dalle indagini che Voi farete con le macchine da guerra a radioonde da indagine e preparazione dei piani di guerra. Questa mia reclusione in diversi luoghi, comunemente detti “Manicomi” che dura quasi da venti anni, chiedo che abbia fine e di venire liberato dall’Esercito e che mi venga assegnato una abitazione.

Salutandovi sommamente Vi ossequio e sono

Giachomho Taranthinhi ossia qui Giacomo Tarantini attualmente recluso nel luogo che è detto nelle righe precedenti, ma nei secoli della Storia Antica Primo Console e Condottiero e Generale Nobile e sommo nella politica e nella guerra e nell’industria pesantissima di guerra.

Data della presente lettera:

La data del timbro postale; data locale interna settembre 1969 (oppure 1970 in città)

Lo stile è ampolloso, curiale.

Parla per iperboli e per metafore il nostro Giacomo, parla per allusioni.

Già nell’indirizzo ci sono le prime allusioni: la specificazione che il ministro non deve essere democristiano rimanda alle idee politiche dei familiari e siccome essi sono tali egli li odia e non può fidarsi di gente che abbiano le loro stesse idee. Chiede anche che la lettera non venga rimandata in manicomio e fatta conoscere a medici, compreso suo padre che è medico, ed a donne, la sorellastra e la matrigna, temendo ritorsioni.

In un mondo di corrotti potrebbe uscire dal manicomio se avesse molto denaro ma non ne ha, in un mondo di violenti, ed a causa di questi lui subisce una insopportabile violenza, potrebbe evadere con le armi ma lui non ne possiede, tuttalpiù riceve da casa fra le diecimila e le ventimila lire al mese, un’inezia rispetto al necessario. E’ inconcepibile per lui , ed ha ragione, l’essere tenuto prigioniero, di fatto lo è, e segregato; non si rende conto del perché, egli è una persona di riguardo e di rango sociale superiore, la sua famiglia si considera tale, (lo enfatizza dicendosi “nobile”),  la sua matrigna e la sua sorellastra  che associa al “clero” ed alla “chiesa” semmai dovrebbero subire quei patimenti, anzi eliminarle perché colpevoli “con la fucilazione e con l’arsione nei forni per torture”. Assolutamente stravagante pare il suo dirsi non ebreo, sembra affiorare una vena razzista nel suo pensare che in fondo anche gli ebrei furono rinchiusi nei lager e forse c’era qualche motivo, chissà, ma lui non è neanche ebreo ed allora? E poi non è neanche un sovversivo che abbia commesso crimini efferati, lui è uomo che chiede giustizia secondo legge.

In verità, e non può essere diversamente, chi, in una situazione di rapporti folli e di continua disconferma viene designato “malato di mente” da chi non è meno “malato di mente” di lui e costretto a subire cure violente  e terrificanti quanto inefficaci da psichiatri presuntuosi ed incapaci, parlo in specie delle “terapie” di shock  sia elettrico che insulinico, e costretto a rimanere carcerato in un manicomio non può comprendere ed accettare  la situazione paradossale cui è stato fatto andare incontro; entra così in un suo mondo mentale surreale nel quale il delirio, che nel dentro contiene sempre una verità anche se difficile ad essere evidenziata, è reazione e sogno per evadere alla terribile realtà che esperimenta. Il delirio di Giacomo è di essere “il Sig. (anzi Eccellenza io stesso nei secoli precedenti) Giachomho Taranthinhi”, di essere stato nei secoli precedenti generale d’armata, primo console e capo di stato e,  Shakespeare dice: “è follia, ma c’è del metodo”, è creditore dello Stato di arretrati della pensione maturata nei secoli, cifre enormi anche per “assegni mensili nobiliari” a lui dovuti ( forse tutto ciò gli viene suggerito dall’importo esorbitante delle liquidazioni e delle pensioni a grandi funzionari statali e parastatali). Lui è nobile e le ”h” che inframmezza alle lettere del suo nome lo testimonierebbero ( le “cure” e le medicine che gli vengono propinate gli fanno così bene che le quattro “h” nella firma di questa lettera diventeranno nel tempo otto, sedici; arriverà a mettere fra il nome ed il cognome un altisonante “vhon”.

C’è, in questa lettera come in altre lettere,  la testimonianza di come si possa  impazzire in una situazione subdola senza potersi rendere conto del come e del perché di ciò che accade, di come il delirio venga fuori da un groviglio di incomprensioni contraddittorie e paradossali (per il suo bene, gli viene detto, è curato, per il suo bene è stato rinchiuso, per il suo bene è stato sottoposto all’elettroshock ed a quello insulinico) un insieme di situazioni paradossali in cui soltanto col delirio si può cercare di rendersi conto del perché, ed ecco la presunzione,  il sogno di grandezza reattivo, le speranze inappagabili ed assurde come del resto è assurdo ciò che gli tocca di subire. Ed è presente la smania insopprimibile di sapere il perché deve subire tutte quelle angherie.

Il suo delirare però se può essere visto come manifestazione della sua sofferenza, del suo star male, è anche modo di comunicarci i sentimenti, le esperienze, i desideri, le speranze, ci comunica il ricordo di un tempo, lontanissimo ormai, quando gli sembrava di essere ( o di dover essere) al centro dell’attenzione in casa,  ci comunica il suo sentirsi diverso dai familiari, ci partecipa la sua lotta impari per venire fuori dal manicomio.

Ma l’analisi del manicomio pur nel saltare di palo in frasca è precisa, con precisione denunzia l’inutilità, l’inefficacia e la dannosità delle cure, le astrusaggini, le panche colorate di giallo, di verde, di rosso, di azzurro chissà perché, solo le centrali ad onde elettromagnetiche da guerra o d’artiglieria possono ravvisare il significato di quei colori  in quell’ambiente “detto dal pubblico:  manicomio provinciale di San Salvi “e che “nell’interno ipocritamente è chiamato o detto ospedale psichiatrico”; ci vuole altro, sembra dire, per abbellire quell’ambiente  squallido e moralmente desolante per farne un luogo di cura e di riabilitazione, quel luogo “che non è precisamente un carcere, né un campo di concentramento ma è assai peggio” . La sua angoscia  fa diventare immenso quel luogo che è  “di dimensione grandissima (vari chilometri quadrati) composto tra reparti e servizi di oltre venti edifici”. Anche il numero dei reclusi a quanto dice Giacomo  è infinito; si ricordi a questo proposito che in uno stanzone di circa nove metri per sette ci stavano dalla mattina alla sera ai tempi della lettera, nel reparto in cui viveva Giacomo, cinquanta-sessanta ricoverati, Ed in quell’ambiente ci sono aguzzini vestiti in abiti civili , gli psichiatri ( di solito gli psichiatri, che capitavano in reparto per poco tempo la mattina, non portavano il camice). Ma anche affiora chiaramente il crudele gioco relazionale fra lui ed i parenti, fra lui e l’istituzione.

Se guardato a vista, controllato ogni momento, sottoposto a vere torture, viene da sé il pensare di essere un perseguitato politico, (qualcun altro ci mette dentro di solito la CIA), per darsi una spiegazione all’inspiegabile che subisce. La libertà oltre che morale ha un significato politico ed il problema della chiusura dei manicomi è un problema politico oltre che scientifico e medico. La libertà viene negata a Giacomo e come non pensare, in un paese dove la corruzione regna sovrana a tutti i livelli, che si possa uscire solo corrompendo col denaro, moltissimo, con cifre esponenziali, chi lo tiene prigioniero; è imposto dai “regolamenti politici” come ben sa anche Sua Eccellenza il Ministro cui si rivolge.

La sua richiesta di denaro comincia in sordina per poi espandersi in un crescendo illimitato cosiccome fa nella richiesta degli atti di guerra necessari per la sua liberazione.

Dapprima tre biglietti da diecimila lire per non dare nell’occhio, e poi con la busta uguale alla prima che è passata inosservata una banconota da un miliardo ed in una successiva busta  una banconota da un miliardo elevata a potenza, il tutto ben inteso da detrarre da ciò che lo Stato gli deve per assegni mensili di pensione maturata nei secoli ed assegni nobiliari essendo stato generale d’armata, Primo Console e Capo di Stato.

Un crescendo si ha pure riguardo agli atti di guerra necessari a ristabilire la legge violata. Il Ministro ha certamente ufficiali e soldati ai suoi ordini ed allora dovrebbe comandare loro di invadere il manicomio portandogli i soldi, una rivoltella, una divisa militare, fargli assegnare una casa ed una scorta armata onde impedire un suo nuovo arresto. Ma non basta; che ordini pure che tutti i “luoghi di terribili torture non autorizzate dalla giustizia vengano distrutti con azioni di lancio di bombe ad alto esplosivo dagli aereoplani, e azioni di fanteria”. Ma non basta, ha paura che i nemici lo catturino di nuovo perciò chiede che uscito dal manicomio, una scorta armata lo protegga da nuovi eventuali attacchi.

Talvolta non si può fare a meno di ridere ma è un riso che subito si smorza pensando a ciò che deve subire il povero Giacomo Tarantini, pensando alla sua urlata disperazione che provoca la sua pressante richiesta di aiuto pur se umoristica.

Sempre del 1970 è quest’altra lettera che viene trascritta per intero anche se si leggono cose già lette in quella precedente.

 

 

 

A Sua Eccellenza il Procuratore Generale della Repubblica

A Sua Eccellenza il Procuratore Generale del Regno d’Italia

Lettera: da leggiersi attentamente.

Con questa istanza formato lettera- non avendo a disposizione carta bollata- io chiedo all’Eccellenza Vostra di incaricare i Vostri collaboratori di estrarmi, ossia di farmi uscire, ossia di rendere possibile che io esca, per sempre, dal manicomio di San Salvi, detto Manicomio “V. Chiarugi”, dove da anni io vengo tenuto chiuso come internato, come recluso. Tutte le volte che io chiedo che mi venga fatto il permesso di “libera uscita” questo permesso mi viene rifiutato dal Direttore del Reparto. Vengo tenuto chiuso nel Sesto Reparto Uomini da circa un anno, e rifiutano costantemente di aprirmi la porta, io vengo tenuto internato recluso ricoverato da oltre un decennio, nettamente contro mia volontà, che sarebbe quella di iscrivermi a una Accademia di guerra, ossia di uscire assolutamente  non avendo io commesso alcun omicidio, né alcun furto, né  alcuna   sommossa  non giustificata dalle leggi  politiche,    alcuna  azione  disonorante. Chiedo

all’Eccellenza Vostra  che voi facciate eseguire la mia estrazione, o la mia liberazione, o la mia fuga, voglio assolutamente la libertà. Io vengo tenuto chiuso in un Manicomio di San Salvi “V. Chiarugi” non molto noto, nell’interno di ogni reparto c’è un bar, nell’interno del cortile del Reparto Sesto ci sono delle panche metalliche di vari colori: giallo (una), rosso, verde, azzurro. Le grondaie dei tetti sono tinte in verde, gli stipiti delle porte di pietra sono verniciate in grigio chiaro, le porte del primo piano verniciate di bianco, quella esterna è bianca dalla parte interna e dalla parte esterna è color legno. Dall’osservazione del terreno circostante mi pare che abbia un aspetto alquanto strano. I Reparti Decimo e Quarto paiono a porte aperte e ciò è bene, ma il Sesto Reparto dove sono io è a porte chiuse, ma ciò è male perché io non riesco a uscire assolutamente mai.

Ho voluto darvi questi particolari perché penso che il Manicomio abbia più strati compenetrati elettromagnieticamente e invisibili gli uni agli altri e perciò temo che voi non riusciate a trovarmi, e che i Vostri incaricati, Eccellenza, non riescano a trovarmi e allora la situazione è seria e grave se fallisse ogni tentativo di venirmi a liberare. Talvolta nelle Accademie ci dice che tali Manicomi sono contenuti in “strati” e in “croste”  oscure nel senso che non riusciate a sapere dove sono. Eccellenza, lo scopo di questa istanza e lettera è di chiedere che voi incarichiate assolutamente di liberarmi e che mi facciate trovare assolutamente e condurre via da qui e mettere in libertà.

Eccellenza poiché l’ambiente dove io sono chiuso è alquanto strano e poiché le persone che ci sono dentro sono mattissime e d’aspetto strano, assai strano, paiono poveracci, ebrei, clericali, uomini col camice bianco, eccietera, vorrei che chiedeste alle cientrali  a onde elettromagnetiche da guerra vostre e da indagine giudiziaria e politica, i dati necessari a trovarmi e come fare affinché l’impresa di farmi uscire non fallisca, ossia come disporre affinché avvenga la mia liberazione. Chiedo all’Eccellenza Vostra che mi venga data, da chi mi verrà a liberare una rivoltelle da guerra normale da ufficiale italiano da tenere in tasca. Fui generato nell’anno 1931 il giorno 14 novembre nei pressi di Roma (in una città oscura , dove non sono mai stato, Montefiascone) abitai per ventisei anni in Roma, è un decennio che sono chiuso -contro mia volontà-  nell’0spedale Psichiatrico (di San Salvi) ”V. Chiarugi”, voglio che mi facciate uscire. Nei documenti di internamento e nelle carte del Manicomio il mio nome è scritto: Tarantini Giacomo, ma nella cartella, negli incartamenti, i titoli nobiliari che esistevano nella Storia  Antica vicino al mio nome sono omessi. Il mio nome nelle situazioni militari e di Stato è, e dovrebbe essere: Giachomho Taranthinhi, generale famoso e di primissimo piano nella Storia Antica Comandante e Console. il mio indirizzo politico non conoscie Manicomi e ritiene il Manicomio un insieme di mascalzoni e di canaglie.

Talvolta il nemico vuol far credere a delle situazioni inesistenti per giustificare la mia situazione da reclusione che è assolutamente ingiustificato.

I clericali ed i luridi che reggono questi Manicomi talvolta trovano difronte a Voi, per avere ragione, argomentazioni oscure e fantastiche: dicono che il soggietto è sciemo, dicono che il soggietto ........è una donnetta pur essendo uomo e generale d’armata, dicono che ha rubato pur non essendo vero nulla, dicono che ha ammazzato, pur avendo fatto onoratamente e in guerra, ....ed in fine, quando non sanno più che dire, dicono che,,,,,l’individuo e prelato (e nel mio caso non è vero nulla), io sono nemico tremendo della Chiesa che per mandarmi a morte e in malora tiene aperto il Manicomio di Firenze che è la più infernale congiura contro  il Capo dello Stato che sia mai stata realizzata in tutte le epoche: antiche, medioevali, moderne, e contemporanee (avviene ora). Io non fuggo perché sono disarmato, altrimenti farei scoppiare il cervello di chi guarda la porta con una scarica di proiettili atomici, passerei oltre , mi recherei in città ad iscrivermi alla Accademia di Guerra Aerea da Bombardamento pesante (di molte Accademie di Guerra teoricamente dovrei essere il Comandante.) Di solito i Procuratori Generali della Repubblica qualche aereoplano da guerra lo dovrebbero avere, ebbene, se lo avete, adoperatelo, sorvolate questo luogo e lanciateci sopra delle bombe atomiche (come a Hirochima e Nagasaki, località nipponiche nominate sulla stampa di venticinque anni fa); sorvolate questo luogo e lanciatevi sopra la bomba atomica dando ordine alle cientrali a onde ellettromagnietiche da guerra dell’aereoplano di lasciarmi fuori dall’esplosione, di non comprendermi nell’esplosione, di aggregarmi addosso la divisa di generale d’armata aerea: il mio nome è Giachomho Taranthinhi che nei registri d’internamento, e talvolta anche sui documenti personali, è scritto: Tarantini Giacomo.

Ripeterò per maggior chiarezza gli scopi di questa lettera, io chiedo di venire espulso, lasciato uscire, estratto, condotto via dai Vostri incaricati fuori dal luogo dove io vengo tenuto chiuso, complessivamente, come internato e recluso da circa dieci anni di tempo. Sono chiuso, anzi vengo tenuto chiuso contro la mia volontà nel: Manicomio “Vincienzio Chiarugi” da anni, attualmente vengo tenuto chiuso nel Sesto Reparto Uomini, chiedo di venire da Voi liberato perché non mi lasciano uscire, perché non ho né armi, né chiavi, né denaro, per procurarle e non riesco a uscire da solo e a fuggire come sarebbe bene in queste circostanze.

Chiedo che venga effettuato da Voi, Eccellenza, un sorvolamento del luogo con qualche aereoplano da bombardamento e con il lancio improvviso di alcune bombe atomiche di distruzione totale, questo cientro e colpevole di sequestro di persona, di associazione a delinquere contro me stesso, di torture contro me stesso, e di furto di tutto il denaro che lo  Stato mi dovrebbe sotto forma di assegni nobiliari e di indennità per la situazione nella quale io sono recluso che è di pericolo e di sofferenza. Chiedo che veniate a liberarmi perché da solo non riesco a uscire.

Mi firmo e sono come internato

Tarantini Giacomo

e come è l’identità di me stesso

Giachomho Taranthinhi

Firenze: data della lettera, la data del timbro postale

(la data locale è anno 1970 circa)

“L’istanza formato lettera”! e si scusa subito di non usare carta bollata come richiederebbe il rivolgersi alla persona in indirizzo, scrive proprio su carta bollata quando manda le sue lettere ad uffici pubblici ché del resto è obbligo nel burocraticissimo e vessatorio funzionamento del nostro Stato.

La lettera è indirizzata al sempre, all’oggi(la Repubblica) ed all’ieri (il Regno d’Italia), a chi comanda oggi ed a chi comandava ieri, a tutti; la sua disperazione è infinita nella impossibilità di capire il perché del suo dover per forza restare segregato in quell’ambiente inverosimile e senza senso che descrive con acuta precisione, elenca le stranezze del manicomio, il bar in ogni reparto, gli stipiti di pietra verniciati a finta pietra, i colori vivaci della grondaia e delle panchine di ferro, le porte bicolori, strani sono anche le persone che ci vivono dentro, ”persone  mattissime e d’aspetto strano, assai strano, paiono poveracci, ebrei, clericali, uomini col camice bianco, eccietera” (e con ciò non indica i ricoverati  ma gli aguzzini, il camice bianco degli infermieri è l’espressione della loro stramba singolarità, in verità gli infermieri del manicomio, che non brillavano di suo per l’intelligenza, bastava vederli e stare con loro cinque minuti, erano anch’essi funzionali alla sottocultura dell’istituzione manicomiale e perciò mattissimi, strani, “paiono poveracci, ebrei, clericali”; un posto così strano e malvagio da far sorgere il pensiero che chi di dovere, i procuratori generali, che dovrebbero sovrintendere al corretto funzionamento della giustizia ed assicurare ai cittadini il godimento dei loro diritti; non si siano accorti che esista un simile luogo e non possano così prendere i rimedi necessari.

Per questo denunzia loro l’esistenza di quei luoghi pur cercando di spiegare perché sia così difficile scorgerli, “talvolta nelle Accademie si dice che tali Manicomi sono contenuti in “strati” e in “croste” oscure nel senso che non riuscite a sapere dove sono”. Povero Giacomo, la sua fantasia non ha limiti, l’immagine delle “croste” rimanda a malattie della pelle che fanno ribrezzo, a cose rinsecchite e riarse, senza vita cosiccome la loro conformazione a strati può spiegare l’essere indotti in errore vedendo soltanto lo strato superiore ma non vedere ciò che sta sotto l’apparenza superficiale. Soltanto “cientrali a onde elettromagnetiche” possono scoprire la loro vera natura e dove sono poste, confida così che i Procuratori Generali non possano esimersi dall’intervenire dopo essersene accertati.

Questo fa parte del suo delirare, hanno ragione gli psichiatri, solo un folle può pensare che i Procuratori Generali vogliano rendersi conto di come le persone siano maltrattate nei manicomi e prendere i conseguenti provvedimenti.

Strambe sono le accuse che gli vengono mosse a giustificazione del suo ricovero in manicomio, (la forma dello scritto rende il bisbigliare subdolo, le  insinuazioni maligne, le accuse infamanti), riappare così  il tipo di rapporti con la famiglia, il disaccordo, il potere soverchiante dei familiari i quali sono visti come Chiesa che ha il potere di tenere aperti i manicomi per tenerlo chiuso dentro.

Allora Giacomo pensa alla guerra, alla sua guerra, sogna ancora le azioni di guerra le più terribili per distruggere il luogo ( ma con l’ordine sempre di escluderlo dalla catastrofe con mezzi elettromagnetici ) sogna che gli sia materializzato addosso per magia e per mezzo di fantascientifici espedienti, la divisa di generale d’armata aerea perché il suo nome è Giachomho Taranthinhi. Grande è la sua sventura, immenso è il suo abbandono e la sua sofferenza, immensa perciò deve essere la sua vendetta, immenso il suo sogno di grandezza.

Giacomo non sopporta più di stare rinchiuso tra quelle quattro luride mura, vuole uscire fuori, vorrebbe far saltare le cervella con una scarica di proiettili addirittura atomici a chi fa da guardiano alla porta, sogna di iscriversi alla Accademia di Guerra Aerea di Bombardamento pesante. Sogna, sogna.

 

Giacomo ha una sola aspirazione, quella di non restare sempre rinchiuso in quel maledetto reparto, di uscire fuori delle mura del manicomio. E quanto le lettere precedenti sono rimbombanti e fantasiose come altre che saranno presentate in seguito,  tanto semplice, umano, commovente è un biglietto, conservato in cartella ed indirizzato al “Primario del reparto”, firmato senza le “h” nobiliari che recita:

La prego di mandarmi a fare una passeggiata in città fino al centro di Firenze o fino alle cascine

sono

Giacomo Tarantini

Fa tenerezza specie sapendo che fu lettera morta, come fa tenerezza, seppure scritta col solito stile reboante e con il solito sognare che il manicomio venga distrutto con un bombardamento, la lettera

all’ente Comunale di Assistenza di Firenze con la quale Giacomo senza una lira chiede aiuto; e fa anche ridere.  E’ del settembre 1969.

Alla Direzione Generale del Comune di Firenze e del comune di Roma e al Direttore dell’E.C.A. di Firenze

in via Palazzuolo n. 12 Firenze.

(Notare bene: non comunicare il contenuto di questa lettera né alla direzione del luogo dove sono chiuso, né alla direzione di altri luoghi di funzione simile, né a medici, né respingere la lettera alla Direzione di questo luogo.)

Mi rivolgo con questa lettera, che ha il significato di una istanza in carta bollata, al Vostro Spettabile Ente del quale mi sono ricordato le funzioni e l’esistenza per essermi rivolto ad esso in circostanze analoghe in antichissime epoche della storia,

Mi rivolgo con questa lettera, che ha il significato di istanza in carta bollata, al Vostro Spettabile Ente del quale mi sono ricordato le funzioni e l’esistenza per essermi rivolto ad esso in circostanze analoghe in antichissime epoche della Storia.

Io che vi scrivo questa lettera sono il sig. Giacomo Tarantini (ossia nell’italiano completo Giachomho Taranthinhi), disperso per macchinazioni politiche e per persecuzioni da parte della famiglia in un luogo che dirò nelle righe che seguono, e rimasto senza neppure una lira in tasca, e chiedo aiuto finanziario per me stesso al vostro Ente, che tra gli scopi principali deve avere lo scopo di assistere i perseguitati politici, i perseguitati dalle donne (di casa), i perseguitati da infortuni diversi, e i poveri.

Vi scrivo questa lettera da un luogo assai riposto e complicato nell’interno e pericoloso oltremodo e di regolamento complesso difficile, (e sconosciuto anche nello studio delle Scienze Politiche). dove io sono da anni come ricoverato e come recluso, e dal quale non mi riesce assolutamente ad uscire e nel quale sono rimasto assolutamente privo di denaro (e di abito), ignoro anche se la posta spedita da qui giunga a destinazione, del fatto io dubito assolutamente perché nessuna risposta mi giunge. Descriverò brevemente il luogo, il nome del quale è conosciuto in città è: Manicomio Provinciale di San Salvi, in questo luogo è chiamato : Ospedale Psichiatrico Provinciale “Vincenzio Chiarugi” ed è situato in via di San Salvi N. 12 Firenze (numero di codice di avviamento postale 50135), il reparto dove sono chiuso è detto Sesto Reparto Uomini, nel passato sono stato rinchiuso in tutti gli altri reparti uomini, quasi; prima di giungere (il visitatore o chi entra) nel Manicomio osserva lateralmente due edifici detti “cliniche” assolutamente inutili, anzi assai pericolosi, essendo i procedimenti detti “cure” vere torture; chiedo che nel Manicomio sia aumentata la quantità e la qualità del cibo e che vengano eliminate tutte le “cure psichiatriche” che sono autentici “supplizzi” di carattere medico, come le iniezioni neuroplegiche nel culo, e che vengano eliminati i procedimenti elettrici che sono sempre mortali o rimbecillenti.

Se Voi invece di essere un Amministratore di un ente di poveri foste un Generale d’Armata Vi chiederei di  prendere a cannonate il manicomio e di farmi uscire; con questa lettera io Vi chiedo di estrarmi fuori dal manicomio ( o dall’Ospedale Psichiatrico come essi lo chiamano) e di assegnarmi un’abitazione che contenga una quantità di viveri e di farmi avere una rivoltella e qualche fucile per difendermi.

Ho trentotto anni di età, essendo stato generato il 14 novembre dell’anno 1931, ho l’organismo di altezza ridotta, credo di essere di m. 1,65, capelli neri, abito da poverissimo, grigio, i sensi di questo luogo ingannano, Voi lo sapete, i benpensanti e clericali (ossia i cretini) vedono questo luogo bello, gli uomini di posizione politica superiore e di eccelso intelletto, come io stesso, lo vedono bruttissimo tal da parere (ed essere) una associazione di canaglie democristiane di nessuna funzione politica e sociale, anzi  assai pericolosa (ultrapericoloso è il IIIR.) per i procedimenti medici (assolutamente vero). Chiedo all’Eccellenza Vostra di comunicare il contenuto di questa lettera al ministero della Guerra  della Repubblica e del Regno d’Italia e a tutti gli enti dello Stato; questa congregazione è pericolosa, io voglio uscirne (non cambiare reparto) (questo è il migliore forse non so) ma essere estratto condotto in città )in Firenze, Roma) e che mi venga assegnata una abitazione e una quantità di denaro per sopravvivere. E nel luogo, di nascosto, che mi venga assegnata una piccola somma con tutte le precauzioni politiche massime ed estreme per evitare rappresaglie elettriche ed insuliniche che qui vengono dette “cure” e che altrove si direbbero procedimenti....penali, se vogliamo usare macabro umorismo, Venite a trovarmi al Sesto Reparto uomini dove sono chiuso.

Chiudo la lettera salutando l’Eccellenza Vostra.

Sono

Giacomo Tarantini (nell’italiano completo

Giachomho Taranthinhi eccellenza generale

nell’antico passato storico, ora di trentotto

anni di età.)

 

Straripa nella comicità la differenza incolmabile fra la sua condizione al momento di scrivere ed il segno di ciò che fu, l’eccellenza generale  della firma, cosiccome induce al sorriso quel suo pensare che l’E.C.A. fra i suoi doveri istituzionali abbia l’assistenza ai perseguitati politici, ai perseguitati dalle donne (di casa) ed ai perseguitati da infortuni diversi oltre che ai poveri, Giacomo sente di far parte di tutte queste categorie; e fa sorridere il suo rammarico che l’E.C.A. non possa distruggere il manicomio, “se  Voi invece di essere un amministratore di un ente di poveri foste un Generale d’Armata vi chiederei di prendere a cannonate il manicomio”. Come non ridere difronte a questa inaspettata uscita? Ma non glielo chiede, sa bene che la persona cui si rivolge non è un Generale, chiede una abitazione ed un po’ di denaro e viveri in natura per sopravvivere; in più, entrando in una coerente assurdità, la sua paura di essere di nuovo catturato e di nuovo imprigionato gli fa chiedere anche una rivoltella ed un fucile, “per difendermi” come spiega. Chiede che  in qualche modo lo tolgano dal manicomio; nell’impossibilità di ottenere questo scopo che gli venga almeno assegnato un sussidio per campare alla meglio, è in queste richieste che Giacomo fa tenerezza.

Si attacca alle funi del cielo per essere aiutato, invoca la legge come nella precedente lettera o la beneficenza pubblica come in questa fornendo le prove della necessità che lo si aiuti: l’oppressione, l’insulsaggine, l’inutilità del manicomio, il modo criminale di come viene trattato. E’ costante, ripetitiva la denunzia; in giro non gli si crede, sono lettere di un matto, come si fa a credere alle lettere di un matto, tutt’al più si ride, lui dubita che le sue denunzie vengano lette “ignoro anche se la posta spedita da qui giunga a destinazione del quale fatto io dubito assolutamente perché nessuna risposta mi giunge”.

Ma in verità il suo giudizio è preciso e giusto. Del resto gli si è dato ragione nel far cessare “i procedimenti elettrici che sono sempre mortali e rimbecillenti” come lui afferma; a San Salvi, nel manicomio di Firenze, da anni ormai non si eseguono più né shock insulinici né elettroshock  considerati inappropriati, inefficaci e dannosi.

Cosìccome il suo denunziare che l’essere sottoposti a shock è come una rappresaglia è dire il vero; tante volte si condannava all’elettroshock a seguito di comportamenti furiosi e violenti al solo scopo di punire e di terrorizzare e reprimere ogni velleità  ed ogni reazione, “dottore ha rotto i vetri, bisognerà fargli un po’ d’elettrosciocche così dopo starà più bono”, ed il dottore lo prescriveva. Era un modo di fare usuale. Per questo è nel vero quando scrive delle “rappresaglie elettriche ed insuliniche che qui vengono dette “cure” ed altrove si direbbero procedimenti....penali se vogliamo usare macabro umorismo”. Da far notare, per chi non lo sapesse, che le “cure insuliniche” consistono in iniezioni endovenose di insulina per provocare il coma nella completa coscienza del paziente che vede avvicinarsi a passi sempre più rapidi la morte, la fine della sua esistenza; poi, quando si è raggiunto il coma, fleboclisi di glucosio per farlo ritornare cosciente però l’esperienza della paura resta. Pene corporali che rintontiscono che per niente risolvono i problemi, al nostro Giacomo gli sono state inflitte a diecine, i veri problemi che stanno alla radice dei comportamenti disturbati.

La sua denunzia va oltre le cure per arrivare all’istituzione, va alle cliniche psichiatriche “completamente inutili, anzi assai pericolose”, al manicomio, “detto ospedale psichiatrico”:

E lui è costretto a stare rinchiuso là dentro senza capire il perché, Giacomo non può accettare, vorrebbe capire il perché ma la situazione è complicata, strana, indecifrabile; solo macchinari complicatissimi, a onde elettromagnetiche, possono chiarirla. E’ un’idea costante di Giacomo che emerge anche nella lettera dell’agosto 1969 indirizzata

 

All’avvocatura Generale del Comune di Roma e del Governo Generale di Roma via del Tempio di Giove Capitolino N.3 Roma-

(non respingete questa lettera al mittente per nessun motivo né avvertite la Direzione del Manicomio, ma fate le azioni di guerra per farmi uscire.

Mi rivolgo all’Eccellenza Vostra con questa lettera per decrivervi la disperata situazione anche finanziaria, nella quale io sono chiuso. Io che Vi scrivo sono il sig. Giacomo Tarantini (ossia Giachomho Taranthinhi) studioso di Scienze politiche chiuso ed internato in Manicomio da undici anni di tempo in mezzo a persone fra il villico ed il rurale, dico questo affinché voi possiate riconoscere il luogo, caratteristico, purtroppo noto anche per oscuri misfatti e fatti strani. IO sono internato, chiuso, degente, ricoverato nel Manicomio Provinciale di San Salvi detto anche Manicomio “Vincenzio Chiarugi” luogo insulso e strano (per uscire dal quale occorrono diversi , ossia, varii miliardi (per fare aprire la porta) di lire e qualche banconota di 10.000 lire (per ristorarsi nel bar interni). Da dove mi viene questa terribile reclusione? Chiedo all’Eccellenza Vostra di effettuare le indagini per mezzo di una macchina che generalmente è chiamata “centrale ad onde elettromagnetiche per indagini giudiziarie” con la stessa macchina dovete trovare il modo preciso per farmi giungere nelle mani del denaro, e poi per invadere il luogo e farmi uscire, perché non è certo che con il denaro si riesca a far aprire la porta per uscire. Io sono rinchiuso al Sesto Reparto Uomini dell’Ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” situato in via San Salvi 12 Firenze (il cancello complessivo del Manicomio è in via San Salvi 12) il cancello dista dal reparto oltre un chilometro addentrandosi nei corridoi.

Io domando all’Eccellenza Vostra di incaricare degli agenti segreti del Governatorato Generale di Roma, o dell’Arma dei Carabinieri, o del Servizio Segreto del Console, di estrarmi fuori dal Manicomio (o dal luogo strano dove io mi trovo chiuso) e di prendere, dalla ingentissima somma che i Comuni mi devono, il costo dell’azione di guerra per estrarmi da questo luogo, per rivestirmi della divisa e delle armi e per vivere libero fuori da questa macchinosa situazione.

Se questo non fosse possibile, fatemi pervenire assolutamente il denaro in modo che venga dato nelle mie mani da un agente segreto. scrivetemi anche a questo indirizzo: al Signor Giacomo Tarantini degente, rinchiuso, internato, nel Sesto Reparto Uomini dell’Ospedale Psichiatrico (Manicomio) “V. Chiarugi” via San Salvi 12 Firenze, N. di C.A. Postale 50135.

Ricordatevi che io sono nobile e generale, sebbene questo sia ignorato sia qui che dai parenti, che non sono né cristiano né di razza ebraica, inoltre che di colpe non ne ho nessuna non avendo commesso alcun reato; se persone diverse da me ma di nome e cognome identico combattono e uccidono combattendo gloriosamente in guerra quella è guerra regolare interna o all’estero e quindi non reato; comunque potete togliermi da questo luogo, liberatemi dal Manicomio Provinciale o dall’Ospedale Psichiatrico dove sono assolutamente chiuso, ricordatevi che io non ho bisogno, né alcuna necessità, di cure, ma di uscire da questo luogo assolutamente e di tornare a casa.

Mi firmo e sono

Giacomo Tarantini

(ossia Giachomo Tatanthinhi)

POSCRITTO: Questa lettera è stata da me scritta molto in fretta

chiedo pertanto scusa  all’Eccellenza Vostra se lo

lo stile della lettera è quello di essere estratto fuori

dal Manicomio e di avere in persona (in mano) un

aiuto finanziario dal Comune e dal Governatorato

Generale di Roma e dal Fascismo e dal Ministero

della Real Casa.

Firenze: data della lettera, la data del timbro postale, qui agosto 1969-1970

Senza macchine complicatissime  e sofisticate non è possibile capire il perché sia stato condannato a quella reclusione, le stesse macchine che possono anche fare in modo che gli piovano o miliardi per corrompere chi lo tiene prigioniero o qualche diecina di migliaia di lire per sopravvivere; oppure le armi per combattere, o vincere o morire. Giacomo, già vissuto in epoche antiche chiama a soccorso il Console romano; in verità la ragione non basta per farlo uscire dalla “macchinosa situazione”, si deve pensare all’irrazionale ed al fantastico. Alla fine della lettera c’è un tentativo di spiegarsi il perché sia rinchiuso, forse è per una omonimia,  forse c’è uno col suo stesso nome che combatte ed uccide ma neanche lui sarebbe da punire perché combatte gloriosamente in guerra e quella guerra è regolare. “Comunque” dice Giacomo, “liberatemi dal Manicomio Provinciale o dall’Ospedale Psichiatrico dove sono assolutamente chiuso” questo sopratutto è importante.

E’ vero, le lettere di Giacomo Tarantini sono monotone, non c’è il navigare a vele spiegate del Conti Supremo o l’inventiva spumeggiante e fantasiosa, illimitata, del Brogiotti Tonino che avremo modo di incontrare in seguito. I contenuti sono sempre e soltanto la voglia di distruggere il manicomio dove è rinchiuso, l’ansiosa ed affannata bramosia di ritornare libero, costi quel che costi, l’idea che possa uscire pagando somme enormi, la smania di possedere una casa propria dalla quale nessuno possa buttarlo fuori o prelevarlo, l’asserto di non aver fatto nulla di male per essere condannato a quelle pene, l’illusoria certezza di essere già vissuto nobile e condottiero e capo di stato e di avere perciò diritto agli assegni nobiliari e di Stato ed alle relative pensioni compresi gli arretrati di secoli e di millenni.

 

In ogni lettera ripete stancamente dove e quando è nato, da chi nacque, chi lo rinchiuse, l’esatta ubicazione del manicomio col relativo numero del codice di avviamento postale e numero telefonico, il tutto in uno stile che ricorda quello burocratico ma che si ravviva quando esprime i suoi intenti di vendetta; solo allora si anima come in questa lettera indirizzata

A Sua Eccellenza il Primo Presidente della Suprema Corte di Kassazione attualmente in carica nel suo dicastero

Rivolgo questa lettera alla suprema Corte di Kassazione, così comincia, allo scopo di rivelare quello che mi viene fatto nel più terribile reclusorio d’Italia non sottoposto alla Magistratura, povero Giacomo , non può pensare che se dipendesse dalla Magistratura si potesse fare in manicomio quel che si fa, e dopo aver detto chi egli sia, come resti “ricoverato internato, recluso” contro la sua volontà e come non possa uscire “perché privo di chiave, di armi e di denaro” così continua:

....e poi vi consiglio di salire su di un aereoplano da guerra vostro, di sorvolare questo lurido luogo, e di lanciare all’improvviso alcune bombe atomiche incendiarie di distruzione totale compiendo così il mio progetto che da millenni ho stabilito di effettuare.

Sorprendente quell’ “all’improvviso”. Ridice dove è rinchiuso, proclama di nuovo la sua innocenza e prosegue:

Chiedo all’Eccellenza vostra che Voi incarichiate degli esperti per estrarmi da questo ignobile luogo e di effettuare la fucilazione di tutti quelli che concorsero a chiudermici dentro, poiché io non ho i nomi dovreste fare le indagini per mezzo di una cientrale a onde elettromagnetiche da guerra per conosciere il nome degli uomini e delle donne implicate in questa situazione.

Anni fa due donne pestifere di carattere, che occupano una abitazione che era di mio padre, pestifero anche lui, mi fecero di nuovo chiudere in Manicomio, il nome di quelle donne è Toscana Tarantini, Toscana Forbiti e Maria Rosa Tarantini, esse clericali assolute e mortalmente nemiche a me, avrebbero intenzione di eliminarmi in Manicomio, io, invece, di fucilarle e di farle arrosto.

E più sotto:

....la croce uncinata è il mio stemma, vorrei liquidare il Manicomio di Firenze con bombe d’aereo e precipitando tutti quelli che ci sono dentro nel forno sterminandoli con mitragliatrici Fiescki e farli ardere per miliardi di anni vivi, così impareranno a immischiarsi nella mia politica.

Finisce la lettera con l’ennesima denunzia della crudeltà del manicomio e con una nuova  richiesta di essere liberato. Chiude firmandosi alla stessa stregua delle altre lettere ma aggiungendo una croce uncinata con sotto la scritta: “questo è il mio stemma: la svastica”, con una freccia che la indica.

Di nuovo il paradosso del non conoscere i nomi di chi lo mise in manicomio e la certezza che la matrigna e la sorellastra l’hanno fatto rinchiudere che esprime compiutamente quel paradosso del “doppio legame” subito; la consapevolezza di una situazione, anche la più dolorosa, non provoca alterazioni psichiche del genere di quelle sofferte da Giacomo, possono causare turbamenti che magari determinano atti inconsulti, magari anche il suicidio, ma non la psicosi, la natura invece dell’inconsapevolezza del “doppio legame” è così tanto  tremendamente subdola quanto direttamente incisiva che la persona cui è diretto non può fare a meno di soffrire  ed allo stesso tempo di non rendersi conto del perché, di conoscere le persone implicate e di non essere certo di poterle accusare in una altalena di continue disconferme da parte degli altri, di continue affermazioni che negano, di continue negazioni che affermano. Così si entra nella psicosi, in quel vivere come in sogno, nel delirio, nelle allucinazioni.

Da lì viene fuori il multimiliardario povero in canna, l’arcipotente impotente, l’essere rinchiuso in un luogo sconosciuto di cui si conosce l’indirizzo, il numero di codice di avviamento postale e quello del telefono; e viene fuori l’idea di essere controllato ed ostacolato a distanza da forze estracorporee, un tempo tramite il magnetismo, ora con le nuove scoperte con le onde elettromagnetiche, le onde radio od il radar, come delirante spiegazione di ciò che veramente succede, viene fuori il sentirsi continuamente spiato, viene il furto del pensiero, viene fuori la necessità che indagini accurate , magari per mezzo di “cientrali ad onde elettromagnetiche” come indica Giacomo, facciano luce sull’arcano.

Perché il paradosso del “doppio legame” è non capire e non far capire, è fare del bene facendo del male (quanti disastri ha fatto “l’amore”!) e viceversa, quando per “curare” una persona, per il suo “bene”, la si rinchiude in un manicomio, e tutto ciò magari anche in buona fede, (ma succede pure per uno scopo incofessabile), in ciò è presente il paradosso del “doppio legame”; quando ci si sente il diritto, in una condizione di predominanza affettiva e o fisica e o economica, di sapere a priori cosa pensa l’altro, di sapere a priori il perché l’altro agisce a quel modo o risponde a quel modo, e non solamente con le parole, con il linguaggio verbale, ma soprattutto col linguaggio non verbale, con le azioni, vedi il riempire la propria stanza con i rifiuti e considerare questo come un sintomo di malattia mentale, lo fanno gli “psichiatri, in ciò è presente il paradosso del “doppio legame”.

Non abbiamo tutte le lettere di Giacomo; ci mancano ad esempio e sono ricordate in cartella, quelle che scriveva ad un avvocato perché lo riappacificasse col padre, che in quelle lettere trattava di tutti i titoli; anche questo è un inconsapevole “doppio legame” perché Giacomo amava sempre il padre ed a lui si sentiva sempre legato ma allo stesso tempo l’odiava perché aveva permesso che lo si ricoverasse in manicomio dove però, è stato già accennato, forse l’aveva fatto ricoverare in buona fede per il suo “bene”. Riguardo alla relazione con i parenti, e lo vedremo in seguito, non si può dire la stessa cosa per la sorellastra e la matrigna.

Soffermiamoci un po’ su ciò che dice sul manicomio nascosto e sconosciuto del quale si conosce l’indirizzo ed il numero del telefono; per Giacomo è incomprensibile che la Giustizia tolleri e permetta l’esistenza di un luogo siffatto dove si compiono atti contro la dignità ed i diritti delle persone rinchiuse; se non si fa nulla è senz’altro perché non si conosce che c’è, altrimenti si dovrebbe procedere, come si dice, se no che Giustizia sarebbe, ma il luogo esiste davvero anche se gli altri non  pensano che sia “ultrapessimo” come Giacomo denunzia a ripetizione. Anche questo è un paradosso, è un “doppio legame”.

Se non scrivesse vivendo una esperienza terribilmente dolorosa Giacomo sarebbe un umorista strepitoso: voler fucilare e fare arrosto le due donne, ed i nemici farli precipitare in un forno crematorio per miliardi di anni, ancora e sempre in vita, per miliardi di anni mitragliarli, la fucilazione ed il rogo perpetui. Una certa inventiva fantasiosa ce l’ha, riconosciamolo.

 

L’indirizzo delle sue lettere è quanto mai vario e sorprendente. Fa istanza di essere liberato anche alla Segreteria della Presidenza della Repubblica d’Italia, nel palazzo del Quirinale in piazza del Quirinale, in Roma.

Comincia con “Eccellenza a scrivervi questa istanza sono il sig. Giacomo Tarantini (nella Storia Antica Generale Giachomo Taranthinhi (credo che il mio nome si scriva così) per poi indicare dove e come  si trovi; pone un problema : dove sono andate a finire tutte le lettere che ha scritto e chiede che siano riprodotte nella solita maniera (“aggregate elettromagnieticamente “) e di nuovo impostate, “l’aggregazione delle mie lettere deve essere fatta a distanza, temo infatti che da questo mio reclusorio le mie lettere non giungano mai a destinazione, infatti non viene nessun avvocato ad accompagnarmi a casa.”  Chiede perciò che  “Voi Eccellenza del Palazzo Quirinale incarichiate degli avvocati di grado superiore, e degli ingegneri di grado superiore, capaci di farmi uscire da questo luogo”.

E continua

“questa lettera è diretta anche all’Eccellenza Ghihushephphe sei principi Shahrhahghaht attuale Presidente della Repubblica di indirizzo socialista di diritto ed anche perfino secondo i giornali che si leggono nel luogo (il nome di esso appare semplificato dalle h; come è semplificato dalle h il mio nome nei documenti di questo lugubre luogo) e nella realtà storica io chiedo che faccia la guerra anche contro il Vaticano. Dal punto di vista delle leggi eterne sulle razze io sottoscritto Giacomo Tarantini non essendo di razza ebraico, ma di razza certamente hariano (teutonico) e di nazionalità italico, chiedo di venire liberato dal luogo dove sono chiuso; dichiaro di essere vivente, di essere di sesso maschile per situazione naturale eterno e non temporaneo, dichiaro di poter camminare con le mie gambe speditamente.”

Poi di nuovo parla della sua vita e delle peripezie psichiatriche e così termina la lettera:

“Chiedo a tutti gli uomini di Stato che sono nel Palazzo Quirinale che fu sede del Regno d’Italia prima, e che da trent’anni è sede della Repubblica d’Italia, di liberarmi dal Manicomio dove ingiustamente sono chiuso da donnette e dalla Questura all’estrema periferia di Firenze, dico, ingiustamente, non avendo commesso omicidio e non avendo commesso alcun furto, quindi per il Diritto Romano devo venire assolutamente liberato e riscuotere dallo Stato d’Italia gli assegni nobiliari e la pensione di perseguitato politico. Questo scritto riguarda me stesso, leggetelo. Vi saluto romanamente.

Mi firmo e sono Giacomo Tarantini,

Un tuffo nel passato quel salutare romanamente e singolari le tredici “h” dentro il nome dell’allora Presidente della Repubblica per conferirgli lustro, prestigio, nobiltà il quale, sulla falsariga del socialista mangiapreti, dovrebbe fare guerra al Vaticano, solito chiodo fisso in omaggio alla famiglia; tanta è la paradossalità dello scritto che non si può fare a meno di ridere.

E  tutte le lettere che ha scritto non sono giunte a destinazione perché non ha ricevuto risposta e nel suo sognare non può pensare che chi le legga non intervenga, forse per il suo caso c’è la necessità che intervengano avvocati di grado superiore e per aprire la serratura della porta sono necessari ingegnieri anch’essi di grado superiore. Ma venga a tirarlo fuori di prigione qualsiasi Capo di Stato presente nel Quirinale, anche il Re, se c’è.

 

                Ma nessuno viene a liberarlo.

                Cambia allora indirizzo politico, passa dalla parte opposta e lì cercare aiuto per risolvere i suoi problemi.

Scrive dunque

 

                Alla Segreteria Generale del Partito Comunista dell’Armata Rossa.

                Al Segretario Generale della Zona di Firenze.

                Mi rivolgo con questa lettera alle Eccellenze Vostre per esporre la mia situazione e chiedere al Partito di estrarmi dal luogo dove io sono chiuso e di arruolarmi nell’Armata Rossa del Partito Comunista Bolscevico Italiano. Io che vi scrivo questa lettera sono chiuso in uno speciale reclusorio nel quale si può venire rinchiusi dalle polizie clericali senza aver commesso alcun reato o inosservanza delle leggi.

                Tali reclusori gestiti da clericali vengono detti manicomi civili, oppure, per idiozia ed ipocrisia vengono detti: Ospedale Psichiatrici e sono diretti da beghine e da giente in mala fede, da veri bulli e da stronzi dirigenti di conventi. Io sono il sig. Giachomho Taranthinhi qui conosciuto come Tarantini Giacomo o come Giacomo Tarantini nobile e generale in epoche antiche, nemico tuttora e sempre dei clericali e della chiesa. Io mi rivolgo a Voi Eccellenze del Partito Comunista e dell’Armata Rossa Bolscevica e chiedo che i clericali, i preti e le donne vengano eliminate con opportune azioni di guerra da Voi e dalle vostre Forze Armate; è necessario che voi adoperiate meno la parola e più il cannone e che diate la morte a tutti i porci che mi circondano.

                Chiedo di venire estratto dal luogo dove io sono chiuso assolutamente da Voi e dai compagni del Partito Bolscevico Comunista. Io sono chiuso, contro mia volontà, in un luogo assai strano detto: Ospedale Psichiatrico “Vincienzo Chiarugi” nell’edificio detto Sesto Reparto Uomini, il cancello complessivo è situato in via San Salvi 12 in fondo a via Lucrezio (a) Mazzanti, il reparto dove io sono chiuso dista circa un chilometro da quel cancello; questo luogo è una varietà di Manicomio di San Salvi, sorta di reclusorio clericale; io sono chiuso in questa zona da anni e tutte le volte che chiedo che mi venga aperta la porta per uscire in Firenze essi si rifiutano di aprire, io sono privo di armi, di chiavi, di grimaldelli, e di denaro , e sono in una situazione assai critica.

                Con questa lettera io chiedo al Partito Comunista di inviare nel luogo alcuni battaglioni di uomini dell’Armata Rossa incaricandoli di liberarmi dal luogo dove io sono chiuso sparando addosso a chiunque si opponesse.

                Domandate alle vostre centrali a onde elettromagnietiche da guerra di aggregarmi addosso la divisa dell’Armata Rossa e vicino degli arditi che sparino a quella canaglia clericale e mi facciano uscire per (ossia attraverso) la porta. Domandate alle vostre centrali a onde elettromagnietiche da guerra di stampare (elettromagnieticamente con analisi) la carta topografica del luogo dove io sono chiuso e dire a Voi come venire a cercarmi, e come venire a parlarmi, e come estrarmi fuori da questo infernale reclusorio: per mezzo delle Vostre centrali a onde elettromagnietiche aggregatemi nelle tasche una rivoltella antifortezza che con poche rivolverate distrugge l’edificio con proiettili atomici composti di razzi esplosivi (enormi) atomici e all’iprite e al fosgene e che permetta di far saltare la porte e uscire.

                Io sono in una congregazione di imbecilli e di straccioni nella quale io sono prigioniero da anni. Liberatemi!

                Con questa lettera io chiedo l’iscrizione al Partito Comunista dell’Armata Rossa, chiedo che distruggiate in modo completo  la chiesa cattolica costituita da stronzi che io ho sempre odiato a morte, e che mi tengono prigioniero credendomi forse uno di loro (!!!). Liberatemi! Fatemi uscire! Questa organizzazione è costituita da venti edifici e altre costruzioni, chiedo al Partito Bolscevico di mandare gli arditi a farmi uscire e a sparare a quegli imbecilli e a quelle carogne che me lo impediscono.

                Salutando le Eccellenze Vostre e augurando

                gloria possente nella guerra e nell’industria

                pesante da guerra dell’Armata Rossa e del

                Partito, termino la lettera. Sono Giachomho Taranthinhi, Giacomo Tarantini qui conosciuto come Tarantini Giacomo.

                (Note informative. nei secoli passati Generale d’Armata, e successivamente morto, generato di nuovo nell’anno 1931 il giorno 14 di novembre, abitai 27 anni a Roma dove frequentai il Liceo e l’Università senza laurearmi; fui portato a forza in Manicomio dove sono chiuso da un decennio; non sono né un cattolico, né un prete, né un medico, né un impiegato, ma un uomo di razza e di politica e di guerra, sebbene deformato e privo di armi; sono un unno (come razza) ossia monarchico dell’Impero all’origine, ora comunista, e sempre nell’eternità,     tempo nemico della chiesa e dei clericali).

                                Mi firmo e sono

                                Giachomho Taranthinhi

                                Giacomo Tarantini

                                Tarantini Giacomo

                Firenze: data della lettera, la data del timbro postale.

 

                Povero Giacomo! si attaccherebbe alle funi del cielo. Urla con una frase reboante ed esplicita: “E’ necessario che adoperiate meno le parole e più il cannone!” E, quì sta lo straripare della follia, non solo per liberarlo ma anche per distruggere la chiesa cattolica (e con essa tutti i suoi familiari); chi meglio dell’Armata Rossa può farlo? e chiede ancora che elettromagnieticamente gli venga aggregata in tasca una inimmaginabile rivoltella che spari razzi composti atomici, al fosgene e all’iprite, con questa farà saltare la serratura della crudele porta (che esagerato ma nel suo caso niente è troppo), vien da pensare al leopardiano “l’armi, qua l’armi”. Ed insieme a lui gli arditi (del popolo?), ed alcuni battaglioni di uomini dell’Armata Rossa. Che non sbaglino posto, vengano con una carta topografica precisa fatta all’uopo.

                E decide di  cambiare stemma, dalla svastica alla falce e martello, chiede la tessera del Partito Comunista dell’Armata Rossa, decide di diventare comunista in eterno, del resto anche prima era contro la chiesa, i preti, i clericali.

 

                Toccando temi analoghi chiede soccorso in una lettera indirizzata alla Direzione e Segreteria Generale del Partito Comunista Italiano in via delle Botteghe oscure n° 4 Roma ed al Segretario Generale della Zona di Firenze, in via Giuseppe Saverio        n°58 in Firenze.

                Dice subito di essere internato in un luogo senza via d’uscita, “tale luogo corrisponderebbe come situazione a un campo di concentramento in forma di Ospedale per matti, diretto da laici, da clericali, da persone che certamente all’inizio erano preti, monache, frati ecc.”, cerca così di far leva con l’anticlericalismo ateo dei comunisti.

Ha bisogno che tutto il mondo comunista conosca la sua situazione, per questo autorizza che la sua lettera sia pubblicata sui giornali politici del Partito comunista Italiano e del Partito Comunista Bolscevico e, quel che più importa, del Partito Comunista dell’Armata Rossa  come il giornale “Pravda, “Isvestia”, “Stella Rossa” ecc. in articoli che attacchino violentemente la Chiesa Cattolica e il Vaticano centro di preti e di mascalzoni, di cardinali e di canaglie.

                E viene subito al sodo. “Consiglio le Eccellenze Vostre a far sciendere in Italia l’Armata Rossa, come trenta anni fa era nei progetti del Generalissimo Stalin vero animatore fondatore e duce supremo del Partito Comunista Bolscevico e fondatore dell’industria meccanica pesantissima di guerra comunista”.

                Poi, dopo aver chiesto di essere liberato con una azione di guerra  denunzia che tutte le sue trattative col personale e con la dirigenza per l’apertura della porta risultino sempre vane; ancora chiede “che sia effettuata terribile rappresaglia” tale da vendicare quella sua prolungata ed ingiusta reclusione, “dovete assalire le sedi dei miei avversari e devastarle ed inoltre, sul piano nazionale, far scendere cioè far entrare l’Armata Rossa in Italia; ed effettuare la distruzione dei manicomi e delle cliniche chiuse che sono dei veri centri di tortura gestiti da clericali, da cattolici e da giente lurida, in uno di questi luoghi”, casomai non si fosse spiegato bene lo ripete, ”sono io prigioniero”.

                Prosegue dando notizie di sé:

                Vi darò brevemente mie note informative: nacqui il giorno 4 del mese di novembre dell’anno 1931 dopo molti anni di morte, il mio nome è Giacomo Tarantini (ossia Giachomho Taranthinhi), in questi trentotto anni di vita con tali persecuzioni alle spalle non ho raggiunto gli scopi politici e di guerra da me prefissati ossia la distruzione totale della Chiesa e dei partiti clericali, bombardare dagli aeroplani le città dove vengono effettuati arresti e deportazioni nei Manicomi e precisamente Roma e Firenze, ricostruzione dell’industria meccanica pesantissima di guerra e delle industrie delle quali per l’etimologia del mio nome dovrei essere titolare e condottiero supremo.

                Dunque chiede aiuto:

                Nei secoli precedenti morii sconfitto mentre tentavo di realizzare questo mio grande progetto, Vi chiedo di liberarmi dal luogo dove io sono chiuso e di riarmarmi, eseguiremo le battaglie insieme e bruceremo il nemico comune, sorvoleremo il manicomio dove sono chiuso e vi getteremo ordigni pesantissimi da guerra chimica annientandolo (istantaneamente) (bombe d’aereo ai gas tossici ed atomiche).

                E finisce:

                Chiudo la lettera chiedendo di venirmi a estrarre dal luogo terribile dove da molti anni sono chiuso, sono chiuso nel Sesto Reparto Uomini del Manicomio “Vincenzio Chiarugi” luogo di cretini totali , sono vestito da straccione, senza denaro, circondato dai clericali e dai reazionari. Liberatemi!! Rinnovate la mia iscrizione al Partito Comunista Italiano Bolscevico e dell’Armata Rossa.

                                                               Mi firmo e sono Giacomo Tatantini ossia

                                                                                              (Giachomo Taranthini)

                                                                              di anni trentotto di età, ora alto 1,65?, non

                                                                              cattolico  né di altre religioni,  studioso  di

                                                                              Scienze Politiche.

Data della lettera:

Firenze: data del timbro postale agosto 1969- 70

 

                Da mettere in evidenza quella perla dell’ “eseguiremo le battaglie insieme e bruceremo il nemico comune”.

 

                Non avendo avuto risposta, (e come poteva averla?) dopo un anno invia una missiva al Comandante dell’Armata Rossa; subito dopo l’intestazione scrive; “Lettera: da leggersi attentamente”.

                Comincia la lettera denunziando “la terribile reclusione che avviene del pubblico e dei cittadini nei terribili dormitori a porte chiuse gestiti dai clericali e dai reazionari. Uno dei terribili dormitori a “porte chiuse” è il Manicomio Provinciale di Firenze detto Ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” dove sono rinchiuso nel Sesto Reparto Uomini.

                Questa reclusione dura ininterrottamente da undici anni di tempo, e io accuso questo ente di sequestro di persona nelle associazioni clericale e reazionarie; io incarico il Partito Comunista di combatterle strenuamente”.

                Cita, in verità a suo modo, Carlo Marx. “Carlo Marx nel libro di dottrine politiche il “Capitale” descrive queste spaventevoli situazioni di sfruttamento del pubblico volute dalla Chiesa dai clericali dai reazionari. Incarico il Partito Comunista Italiano e l’Armata Rossa di combattere i nemici dello Stato, dell’Industria e del Progresso e di distruggerli completamente.

                Ma fa anche una solenne, doverosa autocritica. “E’ vero che nella Storia Antica fui comandante di Legioni del Fascismo e del Nazismo, ma non fui mai nemico del popolo e del progresso civile”. Parigi val bene una Messa.

                Ed ancora una volta racconta la sua storia, ancora una volta ripete dove sta con indicazioni topografiche precise, ancora una volta chiede di essere liberato, e che gli portino la tessera perché la lettera rappresenta la domanda di iscrizione.

                Poi:

                “E’ mia opinione che Voi fareste bene con degli aereoplani da bombardamento Mig 15 di bombardare il Manicomio “Vincenzio Chiarugi” in Firenze e il Manicomio di S.Maria di Pietà in Roma con bombe atomiche di distruzione totale e di buttare bombe atomiche (come a Hiroschima e a Nagasacki) sopra la città del Vaticano, chiedo al Partito di eseguire questo mio volere e questa mia giusta vendetta. Qualora il Partito, o per un motivo, o per un altro, non eseguisse tali bombardamenti, li eseguirò io uscendo dall’inferno dove i clericali mi hanno chiuso, sui medesimi obbiettivi che Vi ho accennato in questa lettera con distruzione totale del comune nemico e della cristianità. Con questa lettera voglio accennare alla mia situazione, sono chiuso in Manicomio, ente di cretini totali, e non riesco a uscire, sono senza abito, senza cappotto, senza orologio, senza rivoltella, poi si rifiutano di aprirmi la porta da anni. In questo inferno temo di morirci senza riuscire a eseguire la mia terribile vendetta, contro i clericali e i reazionari che mi tengono chiuso in manicomio”

                Fa alla fine l’ultima pressante richiesta, una richiesta minima:

                Con le centrali ad onde elettromagnietiche del Partito aggregatemi una rivoltella nelle tasche e degli arditi che scassino la porta. Incaricate delle persone di venirmi a trovare, di portarmi un abito nuovo ed un paio di rivoltelle da guerra e di far saltare la porta del Sesto Reparto Uomini dove, contro mia volontà, vengo tenuto chiuso e di condurmi in città.

                Nella lettera fra un richiamo a Marx ed un’autocritica sgorga incessante l’ansia di rivincita contro chi lo rinchiuse in manicomio, strabocca il sogno di una terribile vendetta e qualora il Partito, per un motivo o per un altro non eseguisse i bombardamenti atomici da lui richiesti sarà lui ad eseguirli appena libero; par di sentire quell’enfatico, assurdo “l’armi qua l’armi - sol io combatterò” di leopardiana memoria. Povero Giacomo, senza abito, senza cappotto, senza orologio, senza rivoltella.

 

                Cerca negli stessi anni vie legali tramite avvocati. Scrive difatti al Pregiatissimo Avvocato Giorgio Padoa. Dopo avergli chiesto di farlo uscire, di condurlo in Firenze e, non poteva mancare, di armarlo e farlo iscrivere ad una scuola di guerra o Accademia Militare gli rivolge una pressante supplica:

                “Chiedo di effettuare un processo per riabilitarmi di fronte alle Autorità Militari e alle Magistrature e cancellare l’onta di questa reclusione ingiusta che fu motivata da motivi di salute, motivi assai superati perché io sto bene e soprattutto dal comportamento delle parenti mie maligno ed insipido, maligno nel senso di tendenziosità a far applicare “terapie” od operazioni mediche che uccidono.

                Io che vi scrivo questa lettera sono il sig. Giacomo Tarantini (ossia Giachomho Taranthinhi) nobile nei millenni precedenti, ora completamente ignorato, ridotto come uno straccione e in situazione di estrema ed assoluta povertà. In questa situazione l’abitazione mia di appoggio avrebbe dovuto essere in Piazza delle Poste Centrali n° 110 Firenze, essendo io figlio del defunto dott. Francesco Tarantini morto quattro anni fa circa e passato in proprietà a Maria Rosa Tarantini figlia del medesimo n. nell’anno 1934.

                Nacqui il giorno 14 del mese di novembre dell’anno 1931, ho circa trentotto anni di età, nei pressi di Roma.

                Sebbene qui per farmi questo trattamento ultrapessimo credo che mi considerino ex prete o clericale o democristiano, Vi dirò che non sono né sono mai stato, né clericale, né prete, nemmeno nei millenni precedenti ma sempre studioso di Scienze Politiche e in epoche ultra-antiche (storia ultra-antica) condottiero militare e console. Ora sono chiuso al Sesto Reparto Uomini dell’ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” il cui canciello (di tutto il Manicomio) è situato in via San Salvi n. 12, e il reparto mi pare che disti circa un chilometro dal canciello, venite a trovarmi e fatemi tornare a casa.

                Mia “sorellastra” è persona intrattabile, non rivolgetevi ad essa, ma venite e liberatemi.

                Non ho procedimenti penali sospesi e sono senza reati, dunque liberatemi.

                Segue la solita firma.

 

Scrive anche

                All’Ecc.: Avv. Luigi Ferri (e a tutti gli avvocati con le h intermedie in tale nome: socialisti, comunisti e di tutti i partiti) al suo studio legale in via Camillo Benso di Cavour 90 in Firenze.  

                Gli parla dapprima della sua triste situazione, fa l’altro “La situazione è assai seria perché lo scarso cibo dà scarse forze e non permette a me di fuggire”. Allora chiede un suo intervento:

                “siccome questa reclusione dura da anni, io voglio che Voi, Avvocato, accusiate la Direzione di questa infernale organizzazione del reato di sequestro di persona in associazione a delinquere anti-Stato (di forma ospedaliera) e di torture, e limitazione di libertà.

                Desidero che voi veniate a trovarmi”, rompiate la porta con una bomba o con un attrezzo da scasso, con delle cannonate rompiate gli strumenti di arresto (che a me sono invisibili) e mi facciate uscire in Firenze e mi accompagnate in Roma.

                Che io riesca a uscire da solo è da scartarsi, perché se io chiedo che mi venga aperta la porta essi rispondono di no, e rispondono di no da anni e io non riesco ad uscire, la mancanza nelle tasche di denaro, di armi, di abiti decorosi, di cibo appropriato , è e fa sentire il suo peso. Chiedo che voi veniate a condurmi all’uscita subito, non nelle esistenze successive perché non voglio crepare qui dentro ma uscire assolutamente fuori.”

                E più sotto:

                Non so quali calunnie adducano per tenermi chiuso. Talvolta possono venire inventate dal nemico argomentazioni balorde: é.... ibrido, è prete..., è .prelato..., è   idiota...,è un mollusco..., è una donna....,è nemico del Vaticano ecc. Nulla di tutto questo è vero; io sono un uomo completo nelle membra sebbene di aspetto non più ariano teutonico ma ebraizzato”.

                Ed ancora:

                “Che relazione abbia tale luogo con gli ospedali a torture insuliniche e a veleni anti-zucchero lo dice la deformazione enorme dei crani delle persone, è connesso con la macchinazione(invisibile) della fabbricazione del veleno insulina e delle torture di un certo numero di persone che periodicamente vengono arrestate. Il luogo dove io vengo  tenuto  chiuso è un  Manicomio  a torture insuliniche, ed elettriche, (e P.O.L.A. -tortura atroce invisibile- nel terzo Reparto solamente), io ritengo tutto il Manicomio pericoloso, e chiedo a voi, Sig. Avvocato, di venirmi a trovare e di farmi uscire e di condurmi in Firenze dopo avermi portato una rivoltella da ufficiale.

                Strade vicine al Manicomio, ma ad esso esterne sono: via San Salvi, Via Lucrezia Mazzanti, Via del fiume Affrico, Via De Amicis, Via Mannelli, distante da qui alcuni  chilometri, Piazza di San Salvi dov’è la Chiesa col campanile che si vede in distanza dalle finestre. Venga a liberarmi.

                                Sono Tarantini Giacomo Giachomho Taranthinhi

                 Qui anno 1970, data del timbro postale.

Lettera: Poscritto:

                Signor Avvocato, io posso indicarvi la strada come venire a trovare.

                Il Vostro Ufficio è in Via Cavour, potete salire sul filobus n.20 in Piazza San Marco e raggiungere, traversando tutta la città, via Gabriele D’Annunzio sciendete alla fermata dopo Via del Fiume Affrico poi potete girare per Via Andrea del Sarto, Piazza San Salvi, Via San Salvi, il cancello del Manicomio è in Via San Salvi N.12 ad angolo e vicino il passaggio a livello di transito della ferrovia Roma Firenze Milano: Riepilogando sono chiuso al Sesto Reparto Uomini dellOspedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi in Firenze, chiedo all’Eccellenza Vostra di venirmi a fare uscire assolutamente perché sono in pericolo.

  Luogo pericoloso in genere questo, Eccellenza, prendete le precauzioni massime per la vostra incolumità e venite a trovarmi assolutamente.

                                Sono il ricoverato, l’internato, il recluso

                                Tarantini Giacomo

                                ossia nell’idioma italico completo

                                Giachomho Taranthinhi

                                (nella Storia Antica generale d’armata

                                ora recluso e povero nel Manicomio)

Firenze: data della lettera, la data del timbro postale (qui gennaio 1970)

 

                Dice le stesse cose in un’altra lunga lettera all’avvocato Ferri. Nel frattempo a San Salvi era avvenuto qualcosa di nuovo, si era costruito un nuovo reparto, il “reparto aperto”, si poteva essere ricoverati senza passare dalla clinica e senza essere “associati”, gli si era dato un’apparenza moderna pur restando manicomio nell’anima, nell’ingresso incombeva un enorme lampadario composto da una agglomerazione di forme geometriche poliedriche di plastica  da celestine ad azzurre, anche il quarto ed il decimo reparto si erano un po’ liberalizzati pur restando sempre gli stessi, e Giacomo lo nota nella lettera:

                “Non dovete credere alle dicerie che il Manicomio sia a porte aperte, purtroppo è a porte chiuse, tutto, eccettuato dei reparti speciali il “decimo” ed il “quarto” e il “reparto aperto”.

                Ma non il reparto dove è chiuso Giacomo. Perciò chiede all’avvocato Ferri un intervento più radicale che nella precedente lettera, di quella misera bomba e di quel grimaldello per aprire la porta, bensì:

                “chiedo a Voi Eccellenza di prendere dallo Stato quello che lo Stato mi deve in denaro ed adoperarlo per effettuare (una causa -segreta-) una azione di guerra, la mia liberazione e il mio riarmo”           

                E più sotto:

                “Mi venga a trovare, Eccellenza, mi liberi; effettueremo tale bombardamento di tale pericoloso centro che mi tiene prigioniero dopo, oppure effettuatelo Voi il bombardamento con protezione elettromagnietica di me stesso”.

                Oltre a ciò:

                “io avviso Voi affinché sganciate da qualche aereoplano sulla testa della famiglia Graticci la bomba atomica assolutamente. (La famiglia Graticci è quella della mamma morta). Nella lettera sono dieci le volte che chiede di essere liberato.

 

                Scrive lettere anche ad altri avvocati, sempre col solito tono ed i soliti contenuti.

               

                Lettere sconclusionate che muovono al riso, lettere ossessionatamente ripetitive, Giacomo è veramente matto; ma non è questo il problema, il problema è come è trattato e come è stato trattato, come è ed è stato curato.

                La sua richiesta ad avvocati affinché intentino un regolare processo a chi in nome di una falsa scienza rinchiude ed esclude e sottopone a cure tanto terrificanti quanto inefficaci i poveri cristi che capitano sotto le grinfie è analoga ed anticipa, siamo nel 1969, quel processo cui abbiamo assistito negli anni successivi contro il manicomio, quel movimento di idee culminato nella legge 180 che, purtroppo solo a parole, ha sancito la chiusura dei manicomi.

                La sua denunzia dal didentro l’istituzione si muove su due piani diversi e contrastanti, dobbiamo tenerlo presente, che la vanificano vicendevolmente: sul piano del reale, della sofferenza fisica e morale, del ricordo delle torture subite e della coscienza del suo non esser più un uomo riconosciuto come tale e di contro sul piano della espressione verbale dei suoi desideri e delle sue esigenze che scaturisce dalla sua allucinata fantasia che veste i suoi fantasmi. Questo è il paradosso col quale si esprime il nostro Giacomo. E non ne può fare a meno.

                E’ così’ che Giacomo, è stato già detto, ci può muovere al riso e così facendo ci libera dal pensare alla realtà crudele che l’annienta; Giacomo diventa un simpaticone, un personaggio estroso e fatuo.

                E di fatto lo è, anche, qui sta il paradosso.

                Non si può che ridere di fronte alle precise istruzioni sui giorni e l’orario in cui è permesso far visita ai ricoverati, alla indicazione esatta e pedante della localizzazione del manicomio, dei servizi pubblici per arrivare a lui, delle fermate, delle vie da percorrere per arrivare al manicomio che peraltro è misteriosamente nascosto alla estrema periferia di Firenze, tanto che per trovarlo è necessario comporre una mappa con “centrali elettromagnietiche”.

.

                Non si può che ridere leggendo il perché non possa uscire e come pensi di tornare libero, “lo scarso cibo dà scarse forze e non permette a me di fuggire”,  è privo di abiti civili, di armi, di denaro, ed è da scartarsi che riesca ad uscire da solo “perché se io chiedo che mi venga aperta la porta essi dicono di no e rispondono di no da anni e io non riesco a uscire”; per questo deve venire qualcuno a liberarlo, che rompa la porta con una bomba o con un attrezzo da scasso, che con n delle cannonate si rompano gli strumenti di arresto che tuttavia sono invisibili.

                Come non ridere?

                Ma a guardare bene Giacomo indica esattamente la situazione  psicopatologica in cui si trova: è legato senza poter vedere le catene che lo legano, è rinchiuso in una prigione senza aver commesso alcun reato, (anche legalmente, altrimenti sarebbe o in galera o in un manicomio giudiziario) ed ha ragione a dire che la sorella è veramente matta perché crede ben fatto il tenerlo in manicomio.

                Subito dopo però si torna a ridere e necessariamente; “Non so quali calunnie e imbrogli adducono per tenermi chiuso. Talvolta possono venire inventate dal nemico argomentazioni balorde: è....ibrido, ...è prete, ...è prelato, ...è idiota, ...è un mollusco, ...è...donna, ...è amico del Vaticano ecc. io sono un uomo completo di membra, sebbene di aspetto non più ariano teutonico ma ebraizzato”.

                Si ride nel leggere dei suoi assegni personali individuali mensili e nobiliari dai quali dovranno essere tolte le spese del processo, si ride leggendo le richieste che fa agli avvocati di azioni di guerra, le richieste di terribili bombardamenti con bombe atomiche, all’iprite, al fosgene sul manicomio di Firenze e di Roma e sulle città di Firenze e di Roma (che si stia però attenti e si faccia di tutto a non recargli alcun danno) ed il bombardamento atomico deve essere eseguito anche sulla testa della famiglia della madre morta. E che dire della sua insistenza a volersi iscrivere alla scuola di guerra aerea ed in specie a quella di Firenze.

                Ma non è fantasia quando afferma che la sorella è veramente matta perché crede ben fatto il tenerlo lì in manicomio.

 

                Dato che l’avvocato Padoa, l’avvocato Ferri e gli altri avvocati non gli rispondono (e come potevano rispondere a simili lettere anche se fossero loro giunte?) scrive all’Ordine degli Avvocati di Firenze una lunga lettera con una lunga postilla tutta enfaticamente retorica di quest’omino (in tante lettere confessa di essere alto, ora, solo m.1,65) che scrive, scrive e mai uno che gli risponda e che giustamente dubita che le persone cui affida le missive le imbuchino (e non sa che se anche partissero e fossero lette tutto finirebbe in una risata ciò che impedirebbe il riflettere sulla sua condizione).

                Per l’ennesima volta parla dapprima del suo delirante passato e del suo attuale stato, del suo sogno di distruzione e ad un tratto sbotta:

                “Avvocati di Firenze che cosa facciamo?

                Vi giungerà questa lettera?

                Essendo chiuso non riesco a metterla nella cassetta delle lettere, ce la metterà la persona che io incaricherò? Mi auguro di sì! Da quando io sono qui chiuso ho scritto 15.000 lettere, andrebbero ossia sarebbe bene che fossero di nuovo aggregata per mezzo di una centrale a onde elettromagnietiche da guerra e spedite di nuovo, lasco a Voi far questo.

                Non sono chiuso a ragione di pazzia, ma a motivo di manovre oscure del nemico interno al territorio nazionale mai sconfitto.

                Venite a trovarmi e liberatemi! si oppongono da anni alla mia uscita dalla porta.”

                Segue la postilla:

               

                                               Postilla alla lettera

Poscritto

                Questa situazione (che mi circonda) è da cretini completi, domando perciò a Voi Eccellenze dell’Ordine degli Avvocati di estrarmi fuori dal Manicomio e di iscrivermi alle Accademie di Guerra e di Scienze Politiche e alle Organizzazioni Militari e di Ingegnieria che il mio grado ed il nome che porto mi danno diritto a frequentare.

                Da chi fui introdotto in questa situazione? La seconda volta dalla Questura di Firenze, la prima volta da agenti privati, dell’ Amministrazione Provinciale che mi estrassero fuori da un manicomio in Roma che mi teneva chiuso per ordine di una certa Toscana Forbiti o di una certa Toscana Forbiti Tarantini che mi estromise da un villino  (in via Pinega 31 Roma) che avevo nell’anno 1950 in Roma e mi fece portare nella  terribile  clinica  detta a  veleni  (detta Parco delle Rose, situata sulla Via Aurelia

-situata in Roma); successivamente mi estromise dall’appartamento che avevo in Viale Eritrea N.157 in Roma e mi fece portare in Manicomio, questo nell’anno 1956 in Roma.

                Incaricate un avvocato (a Vostra scelta sia per il nome che per la scelta politica) di venirmi a trovare e di trarmi da questa situazione e di procurarmi una abitazione e di farmi ottenere ciò che di ordinariamente mi è dovuto dallo Stato d’Italia in denaro e banconote.

 

                Mescola come sempre il sacro col profano (è da qui che scaturisce la comicità della lettera); il tono però cambia quando denunzia di essere stato estromesso dalla casa del padre (e perciò anche sua) da una certa Toscana Forbiti, alias Toscana Forbiti Tarantini, la matrigna, e che la stessa era stata a decidere il da farsi trovando alleati gli psichiatri tanto inetti quanto compiacenti. Lì non non parla a vanvera.

 

                Non sa a che santo votarsi, uomini importanti non rispondono, né il Patito Comunista, né l’Armata Rossa, non rispondono avvocati e Ordine degli Avvocati.  Si ricorda allora della proprietaria di una pensione presso la quale in passato aveva soggiornato (da giovane, forse nel tentativo di fargli superare i suoi problemi fuori casa, “in epoche molto antiche della Storia” ) affinché lei od  un avvocato da lei incaricato lo traggano fuori dal manicomio o di fargli avere un po’ di soldi o rivolgersi ad una grande organizzazione militare perché possa essere liberato.

                Così inizia:

                “Pensando a situazioni simili alla presente situazione, mi sono ricordato di essere stato ospite (in epoche molto antiche della Storia) della Vostra Pensione del Vostro Albergo e per tale motivo sebbene indistintamente ricordandovi mi pare opportuno incaricarvi di quello che nelle righe presenti dirò”.

                Dopo avere esposto le sue richieste così continua:

                “Sono troppo sorvegliato, La fuga da questo luogo non mi riesce. D’altra parte non avendo mai commesso né reati di natura penale, né di natura politica, né azioni infamanti non capisco il perché di questa reclusione”.

                E termina:

                Alla presente unisco una cartolina caratteristica del luogo, che, se sottoposta alla attenta analisi di un avvocato, vi darà informazione precisa dove trovarmi”.

                                               Sono il ricoverato ossia il recluso stesso

                                               Giacomo Tarantini

                                               (qui il nome può, negli incartamenti del luogo, essere scritto:

                                               Tarantini Giacomo

                                               (ma nella Storia Antica era certamente

                                               Giachomho Taranthinhi Consul o Imperator)

 

                Lo si deve ribadire, sono lettere esplosivamente tragi-comiche la cui natura nasce dal contrasto fra l’illusione della fantasticheria e la realtà in cui crudamente è immerso, le due facce della medaglia.

                Una lettera, la lettera che segue è esemplare a questo proposito; due facciate non lunghe, sulla prima non si sbilancia troppo, chiede ad un ingegnere di farlo uscire dal “lagher”, agendo con astuzia come un avvocato che libera il suo cliente, una facciata abbastanza pacata, il termine “espugnare gli si può concedere, dà l’idea dell’ardimento necessario a forzare il portone, Ma nella seconda Facciata! dietro un “Dopo” viene la fine del mondo.

 

                                Pregiatissimo Ingegniere,

                io vi scrivo da uno strano luogo di reclusione, strano “lagher” situato a sud della città di Firenze.

                Questo Manicomio, Dove sono prigioniero, è il Manicomio Provinciale di Firenze, io sono chiuso nel Sesto Reparto Uomini, il cancello complessivo del “lagher” è in via San Salvi 12 Firenze, 50135 è il numero di  codice di avviamento postale) con questa lettera io vi chiedo di espugnare il Sesto Reparto uomini e di condurmi in città lasciandomi libero.

                Io sono prigioniero nel Sesto Reparto uomini e non ho la chiave che apra il portone di uscita, inoltre se chiedo di aprirmi mi rispondono di “no”. quindi occorre forzare il portone e lasciarmi uscire, chiedo pertanto che voi, agendo come un avvocato che libera il suo cliente dalle prigioni, mi facciate uscire.

                Dopo, potremo sorvolare il Manicomio a grande altezza con un aereoplano e lanciare sul manicomio centinaia di bombe esplosive incendiarie di guerra chimico-atomica al “nitrum” così da rendere incandescente la città ed arrostendo tutti gli uomini del Manicomio e anche tutte le donne che saranno fatte esplodere con la bomba atomica all’huranio acqua pesante idrogeno. Io sono generale degli Arditi Imperiali della Germania.

                Questa impresa dovete progettarla e liberarmi e farli saltare in aria nel modo precedentemente suddetto e metterli nelle macchine per torture fisse per millenni. Questi uomini sembrano selvaggi ed il luogo (topos ) deriva dal libro elettromagnietico “I Fantasmi di Mombasa”. Venitemi a trovare.

                Di salute sto bene. E’ ora di fare la guerra!

                                                               Saluti.

                                Mi firmo e sono

                                                               Giacomo Tarantini

                                                               Giachomho Taranthini, Feld Maresciallo e Capo di Stato ---> nella Storia Antica

                Il finale “Di salute sto bene. E’ ora di fare la guerra!” è un vero capolavoro.

               

                L’astuzia di chi interviene, la forza di armi distruttive, la potenza del denaro per corrompere, lo Stato che dovrebbe sborsare cifre enormi per arretrati secolari di pensione  sono i chiodi fissi di Giacomo per uscire dal manicomio. In alternativa al denaro contante od agli assegni esponenziali i funzionari statali potrebbero procurargli una macchinetta tascabile per stampare la carta moneta a lui necessaria, lo si è già visto. Oppure ci sarebbe un’altra soluzione che prospetta

 

                a Sua Eccellenza il Direttore Generale del “Banco di Napoli” Società per Azioni e al Direttore della Sede di Firenze del Banco stesso, in Via Camillo Benso di Cavour n°20 Firenze.

                 MI rivolgo con questa lettera all’Eccellenza Vostra per descrivere la terribile situazione nella quale io sono chiuso”.

                Descrive la sua situazione di recluso nel manicomio, indica la necessità di tanto denaro “molto, molte cifre, numeri di molte cifre, infiniti, per uscire, ossia pagare l’apertura della porta e potersi riarmare in una armeria uscendo libero in Firenze”. Però non ce la può fare: “le donne residue della famiglia che era di mio padre mi inviano solamente diecimila o ventimila (quasi mai) lire mensili”. Inoltre  rivela: “ho tentato di chiedere per lettera al Ministero della Guerra (aereonautica) e al Governatore Generale di Roma, al Comune di Firenze e all’E.C.A. il pagamento di assegni personali individuali mensili e sopratutto nobiliari ma ignoro se le lettere siano giunte.”

                Tutto invano. Specifica poi di non appartenere ad alcuna razza inferiore, né cristiana né ebrea né di medici e dopo essersi qualificato come nobile e Primo Console nella Storia Antica, dopo aver dato esatte indicazioni di dove si trova così continua:

                “Io vi domando se questa situazione può essere risolta facendo acquistare in una tabaccheria una cambiale firmandola io stesso, spedendovela per posta e convertendola Voi in denaro e successivamente risquotendola Voi stessi dal Ministero della Guerra o dal Ministero della Real Casa con i quali ministeri il mio nome è eternamente legato e connesso ossia connesso per infinito tempo nella storia. Ringraziando anticipatamente l’Eccellenza Vostra Vi chiedo di scrivermi in modo che la Vostra lettera mi arrivi e di estrarmi dal Manicomio e di procurarmi una abitazione. Comunicatemi quanto costa l’essere estratto fuori e sistemato fuori di qui”.

               

                La cambiale! Non poteva mancare la cambiale nella mente del nostro Giacomo tutto teso a trovare strattagemmi per trovare il denaro per pagarsi la libertà

 

                Mentre che scrive ad avvocati, a ministri, ad ingegneri, a capi di Armate Rosse scrive anche al primario del reparto in cui alloggia, gli chiede un po’ di libera uscita, non gli costerebbe un soldo, soggiunge , ma denunzia anche le angherie del manicomio; il paradosso è che Giacomo denunzia fatti a qualcuno che è al corrente dei fatti stessi.

 

                “Al Direttore del Sesto Reparto Uomini del Manicomio dove io stesso sono chiuso.

Data. 22 febbraio 1971

                Leggetela questa lettera e portatela con voi.

Io sottoscritto Giacomo Tarantini vivente fino dall’anno 1931, recluso in questo Manicomio dall’anno 1958, ossia da oltre un decennio chiedo che inoltriate presso il Direttore questa mia istanza che ha anche lo scopo di farmi ottenere la libera uscita nei viali che non è un beneficio finanziario, ovviamente, ma l’iscrizione del mio nome nella tabella della libera uscita che è laterale alla porta del corridoio del Reparto.

                Ho notato con l’osservazione diretta che in questo reparto ci sono molti provocatori, veri aggressori, che tenderebbero a prendere per il collo a perquisire, a vuotare le tasche a far disordini durante l’ora dei bagni, chiedo pertanto che tali provocazioni cessino assolutamente.

                Io non sono ancora riuscito a liberarmi da così prolungata situazione di reclusione perché ricevo solamente ventimila lire al mese dalla abitazione della sorellastra.

                Sebbene abbia chiesto al Municipio di Firenze gli assegni civici individuali mensili in carta di formato diplomatico non li ho ricevuti nemmeno una volta.

                E sebbene abbia chiesto per lettera, analogamente, al Ministero delle Finanze non ho ricevuto nulla. Ho dato sempre le lettere al caporeparto e al personale quando rincasano uscendo essi dal cancello di dietro, ossia posteriore del Reparto, pregandoli di impostare in città.

                Egregio dottore poiché voglio fare acquistare un abito civile (o una divisa militare) per indossarlo io stesso ho incaricato per lettera mia sorellastra di venirmi a trovare e di portarmi il denaro necessario a fare tali acquisti: alcuni biglietti da diecimila lire, ma ancora non è venuto nessuno, pertanto chiedo che telefoniate Voi stesso all’appartamento che era di mio padre e che è situato in piazza della Posta Centrale n° 110, (telefono credo 470047, è necessario guardare di nuovo sulla guida telefonica per vedere se fosse cambiato al nome Tarantini) e che chiediate alla sig. Maria rosa Tarantini di venirmi a trovare a scopo di prestito e di accompagniarmi a casa. Incaricate di accompagniarmi a telefonare.

                Mi firmo e sono il ricoverato da anni stesso Giacomo Tarantini, la lettera presente riguarda me stesso.

 

                Chiede poche ed esaudibili cose, piccoli desideri ma che però diventano enormi ed impossibili ad essere soddisfatti per Giacomo. Da notare che quando scrive al Primario si firma senza le “h” nobiliari, però fa notare al primario che lui stesso è chiuso.

 

                Ancora un’altra lettera al primario del reparto, questa è del 1970:

 

                Al Direttore del Sesto Reparto Uomini del Manicomio dove sono chiuso (riguarda me stesso, leggierla.)

                (Argomento di questo scritto: Darmi la libertà, mandarmi al Decimo o al Quarto Reparto che sono aperti, e uscire.)

 

                Dopo aver ricordato per l’ennesima volta le sue condizioni così scrive:

                Vi chiedo di venire inscritto nelle liste di libera uscita del pomeriggio; non frequentando uffici la situazione finanziaria non può variare.

                Voglio assolutamente sopravvivere a questa situazione di povertà e tornare a casa, si astenga dal sottopormi, ossia mi eviti qualsiasi provvedimento medico che tolga le forze o che diano la morte, poiché voglio assolutamente sopravvivere.

 

                Così conclude:

                Date disposizioni affinché io torni ad essere libero.

                Mi firmo e sono Giacomo Tarantini, nobile studioso di Scienze Politiche, di anni trentanove di età.

                Poscritto: Se è vero che il fare aprire la porta per uscire ha un certo prezzo, io potrei firmarvi una cambiale bancaria o convertibile in denaro o equivalente al denaro stesso, ossia definitiva.

                In quale modo io devo comportarmi in questa situazione? Io non ho debiti è vero ma fare aprire la porta ha un certo prezzo, se accettate la cambiale io la fo prendere in un negozio di tabacchi e di valori bollati e ve la firmo.

                                               Mi firmo e sono Tarantini Giacomo.

 

                La “libera uscita” (non è un termine inventato da Giacomo o da lui mutuato dal linguaggio di caserma; così veniva chiamato da medici ed infermieri il permesso di uscire dal reparto),non dovrebbe costare nulla ma se ha un prezzo è disposto a pagarlo, è vero che non possiede denaro liquido, lo dice con quel “non freguentando uffici la situazione finanziaria non può variare” e lo sottolinea, potrebbe firmare una cambiale e darla al primario; è commovente per la sua ingenua faciloneria e tocca il cuore la sua voglia di vivere, di sopravvivere, il chiedere di non venire sottoposto  “a qualsiasi procedimento medico che tolga le forze o che dia la morte”, gli psicofarmaci, l’elettroshock e lo shock insulinico. E se proprio dovesse restare in manicomio che almeno venga mandato in un reparto più vivibile.

                Solo chi non si è reso conto  della vera faccia del manicomio può pensare che la breve lettera sia frutto del delirio. Non è così. C’è da credergli che qualche sadico scherzi con la sua paura delle “terapie” di shock, c’è da ricordare che il sogno di chi gestisce il manicomio è di avere fra i piedi gente tranquilla, apatica, che non crei problemi ed anche questa è vera pazzia, è uno dei grandi paradossi del manicomio, come può stare tranquillo chi non è tranquillo? ma l’ideale è il paziente abulico, docile, mansueto, il fine è questo, da raggiungere in tutti i modi. Ed i modi erano tanti, dal più medicalmente accettabile, (ma quanto il sovradosaggio degli psicofarmaci! quelli a gocce erano misurati a “pompate”, non contando le gocce), alla contenzione con la camicia di  forza o con la contenzione fatta legando al letto, alla “strozzina (il ricoverato agitato  veniva, preso di spalle, stretto al collo dall’infermiere col braccio, venivano in tal modo schiacciate le carotidi cosicché non arrivando il sangue al cervello il paziente cadeva a terra come un cencio e si risvegliava intontito, c’erano degli specialisti in materia) per arrivare agli “shock”. Di solito erano gli infermieri in certi reparti a suggerire la “cura” e lo psichiatra nella frettolosa prassi della visita al reparto accettava la proposta essendo la tradizionale ideologia manicomiale adeguata a certi medici superficiali e menefreghisti ed a certi infermieri aguzzini e sadici che sapevano anche divertirsi alle spalle dei ricoverati minacciando loro quel che più temevano.

                Lo dice chiaramente in un’altra lettera al primario del reparto:

 

                “Elementi turbolenti introdotti dall’esterno freguentemente si appressano a me malmenandomi come se fossero ladri.

                Di salute sto  assai bene, tuttavia gli infermieri mi minacciano come se dovessi subire l’elettrosciok, terapia certamente mortale, evitatemela assolutamente.

                Il mio contegno generale è da impiegato e sono gentile con tutti. La notte dormo saporitamente.

                Trasferitemi al Primo o al decimo reparto uomini. Sono il ricoverato

                                                               Giacomo Tarantini

                                                               di razza ariana, di 40 anni di età.

 

                Di razza ariana. Idea fissa che gli ronza in testa, motivo in più per il povero Giacomo per non restare chiuso nel “Lagher”.

                Lo specifica e in un altra lettera, una lettera davvero folle ma non tutta, al primario del reparto.

 

                “...Tra le argomentazioni da portare per farmi mettere in libertà senza alcun contrasto con le Autorità di Firenze e di Roma è il mettere in rilievo che io di razza sono ariano.

                Taluni filosofi nazisti dicevano che gli ariani costituiscono la razza minima che possa stare perennemente fuori dai manicomi, questo è certamente vero. Le razze inferiori, diceva quella teoria che è tuttora sempre vera, le razze inferiori a quella ariana dovevano esser recluse nei manicomi e nei campi di concentramento; gli ariani e le razze superiori devono essere liberi e dirigere li Stato.

                Potete presentare questo mio scritto alla Procura Generale della Repubblica e mettermi in libertà, oppure farmi avere il permesso di uscire nei viali e in città.

                In questa organizzazione ci sono dei provocatori che con armi da ladri in funzione provocano con discorsi insulsi, provocano visibilmente e non visibilmente dei chiassi, dei rumori, delle risse e segniano i nomi sulle liste segrete dell’elettrosciok e chiedono, per evitarlo, sigarette; molte volte per evitarli è necessario mettersi in luoghi diversi dalle sale di soggiorno; pertanto cacciateli via dando loro una solenne punizione. E  mandatemi a casa; sono dodici anni che sono chiuso perché mi impediscono di attraversare la porta.

                                                               Giacomo Tarantini.

 

                Accanto al farneticamento folle sulla razza ariana c’è pure nella lettera la denunzia degli assurdi rapporti, della insopportabile convivenza in manicomio, c’è pure la rivelazione di un’intima esperienza del disturbo psichico, ecco dunque i “chiassi”, i “rumori”, le “risse” che “dei provocatori” con “armi da ladri in funzione provocano con discorsi insulsi, provocano visibilmente e non visibilmente” che indica con precisione la particolarità del “doppio legame” che sta alla base dell’esperienza psicotica, quei continui “doppi messaggi” indecidibili ed inspiegabili che gli provengono da chi lo cura, medici e sopratutto infermieri con i quali ha costanti rapporti che possono portare ad atti inconsulti e violenti, folli. Ma c’è dell’altro: “e segniamo i nomi sulle liste segrete dell’elettrosciok e chiedono, per evitarlo, sigarette”, lo spiegherà meglio in un’altra lettera.

                              

                L’essere sottoposto all’elettroshck deve essere atrocemente terribile, Giacomo lo indica come “la scarica elettrica alle tempie” nella breve lettera che segue del gennaio 1971:

                                               Al Direttore del Sesto Reparto Uomini

                Sono chiuso in questo Manicomio da anni, di salute sto bene.

                Chiedo che in primavera finito l’inverno, mi venga concessa la libera uscita, ossia il permesso di recarmi in città e nei viali.

                Evitate qualsiasi trasferimento nel Terzo Reparto dove c’è il pericolo di venire sottoposti per forza alla scarica elettrica alle tempie ossia al micidiale elettrosciok che è tremendo come nelle cliniche chiuse, che è mortale, che è da evitarsi assolutamente.

                Ossequiandovi sono il recluso da anni

                                               Giacomo Tarantini

                                               figlio di Francesco, io di 49 anni di età

                e questa lettera riguarda me stesso.

                Una lettera che non abbisogna di commenti e di spiegazioni.

 

                Non sa proprio dove battere il capo. Chiede difatti al primario che informi della sua situazione sia il Partito Repubblicano che il Partito Monarchico come in un’altra lunga lettera anche questa al primario chiede che gli faccia ottenere la tessera sia del Partito Comunista sia del Partito Liberale; chiede nella stessa lettera che il primario telefoni alla sorellastra perché gli mandi dei soldi per fare comprare un abito ed un trench:

                “Dovete far capire a quella donna che è penosa situazione abitare in Manicomio tutti questi anni e che farebbe bene a farmi uscire, a venirmi a trovare e farmi uscire.

                Telefonando a quel luogo io mi accorgo che esse rispondono sempre nel medesimo modo; (ma mi accorgo che il loro grado sociale è pari al grado di capitano mentre il mio grado è grado di generale d’armata) come potete facilmente calcolare dall’etimologia del nome e del cognome”.

                Chiede cose impossibili , chiede di far comprendere alla sorellastra ed alla matrigna che la sua condizione è miserevole, chiede loro i soldi ( che, lo vedremo in seguito, gli spettano); e si sente diverso da loro che hanno tutt’al più il grado di capitano.

 

                Una busta: conteneva un biglietto da diecimila lire. Il messaggio per l’infermiere caporeparto è scritto sulla busta:

                “Caporeparto, le do diecimila lire allo scopo che ella  in segreto mi lasci uscire dal manicomio da solo e recarmi a casa da solo.

                Poiché ora sono assolutamente sprovvisto di denaro, mi lasci 300 lire allo scopo che io possa uscendo bere una birra e prendere il filobus.

                                Sono Giacomo Tarantini

                                di 38 anni di età

 

                Il biglietto dovrebbe essere del 1969.

                Risibile il tentativo di corruzione ma commovente il tono umano ed ingenuo della richiesta.

 

                Intorno al 1970 anche quando scriveva al Direttore del manicomio firmava senza le “h” nobiliari e navali. Come in questa:

 

                                “Al Direttore del Manicomio di Firenze, Prof. Mario Nistri.

                Io sottoscritto Giacomo Tarantini riflettendo alla          mia situazione generale trovo che sarebbe bene che mi concedesse il permesso, sia pure orale, di libera uscita nei viali e che iscrivesse il mio nome nella tabella delle libere uscite, essendo fortemente dannoso alla salute ed alla propria amministrazione lo stare recluso ancora per anni in questo tetro luogo.

                Questa situazione di reclusione stretta, dico in genere, credo sia cominciata dopo, come evento storico, dopo la caduta del Fascismo, ossia del regime Fascista in Italia, ossia da circa trenta anni di tempo; tale situazione reazionaria va superata dando la libertà agli oppressi come è nel costume politico dei forti.

                Io è circa dodici anni che sono rinchiuso nel manicomio di Firenze e mi negano ancora l’iscrizione nella tabella di libera uscita che non à privilegio finanziario ma la libertà.

                Siccome per uscire in città mi occorre un abito decente e nuovo chiedo che Voi telefoniate alla sedicente mia sorellastra (telefono 470047 e che le diciate: La pessima situazione nella quale avete messo vostro fratello va migliorata acquistando ad esso un abito o una divisa militare e venendolo a trovare”.

                Dice anche che quelle che abitano nella casa che fu del padre  dal loro comportamento corrispondono al grado di capitano “e di conseguenza è vano attendersi da loro qualsiasi azione audace, compreso l’azione lodevole di venirmi a farmi uscire”

                “Il manicomio è un insieme di stupidi completi, essi delirano su argomenti come l’elettrosciok che è vero sia nefando, è vero sia mortale, ma stavano minacciando di volermelo applicare a forza, per respingerlo indietro c’è voluto pacchetti di sigarette Philippe Morris. Direttore, disponete in modo che l’elettrosciok (che è pessima cosa) non avvenga mai, dico assolutamente mai.

                Dovete pensare che tutte le derrate alimentari che acquisto al bar interno del reparto le pago con i denari che provengono dalla mia abitazione. Prof. Nistri, volete liberarmi o no da questa prigionia? Telefonate, io vi prego, alla abitazione della mia sorellastra di portarmi denaro per acquistare in Firenze un abito.

                                               Sono Giacomo Tarantini.

 

                Una lettera pacata a parte qualche stramberia (il collegare la sua situazione alla caduta del fascismo, il richiedere una divisa militare, l’affibbiare alle parenti solo il grado di capitano, però spiega il perché). Ci sono altre stramberie apparenti che in verità non sono stramberie; quella di ricordare al Direttore del manicomio che restare per tanti anni segregato non fa bene alla salute, il dirgli papale papale che il manicomio è un insieme di stupidi completi (del manicomio fa parte anche il Direttore), l’ordinargli di disporre che “l’elettroshock (che è pessima cosa )non avvenga mai, dico assolutamente mai.

                Giacomo però da notizia anche di un fatto che il Direttore, se avesse letto lo scritto, avrebbe dovuto appurare per una eventuale punizione. Chi prese i pacchetti di sigarette Philippe Morris? Chi minacciava Giacomo di sottoporlo ad elettroshock? Giacomo accennava al fatto anche in un’altra lettera.

               

                Ma leggiamo le lettere scritte al Direttore sette anni dopo. Balza evidente che aveva ragione Giacomo nel dire che lo stare in manicomio fa male alla salute. L’ospedale dovrebbe curare, le “cure” dovrebbero portare qualche beneficio al ricoverato se no che ci stanno a fare tutti quei medici, tutti quegli infermieri? Tutte quelle medicine a cosa servono?

                Invece:

 

                All’Illustrissimo Prof: Mario Nistri,

                Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale “Vincenzio Chiarugi” situato in                 via San Salvi 12 Firenze

                Egli abitante in via Masaccio n°47 in Firenze, (telefono n° 571571)

 

                Con questa istanza io mi rivolgo alla Signoria Vostra Illustrissima e dico che, essendo senza palazzo di abitazione e senza alcun edificio da abitare io stesso da solo, la mia situazione strategica e politica è compromessa, quindi procuratemene vari.

                Di conseguenza le mie guerre non avvengono, le mie Società per Azioni Navali da guerra non funzionano, le mie Società a Delitto Segrete non funzionano; e da questo fatto, come io già vi dissi nelle istanze precedenti, deriva il fatto che io sono nell’Ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” da venti anni di tempo se si considera la durata del ricovero nei manicomi di Roma detti Clinica Chiusa Parco delle Rose situato sulla via Aurelia che è micidiale e Manicomio di Santa Maria della Pietà in Roma.

 Vi incarico di ricostruire la mia Flotta Navale da Guerra radiocomandata per navigare io stesso da solo, essendo io stesso Grande Ammiraglio del Giappone, Stato del Continente Asia.

                Vediamo come è composta la mia flotta:

                1) Navi da Battaglia Super Corrazzate a turbina a Gas d’Uranio Acqua Pesante Idrogeno.

                2) Navi da Battaglia Super Porta- Aerei Pesantissimi da Bombardamento a turbina a Gas d’Uranio-Acqua pesante Idrogeno che è il propellente del Motore.             

                3)  Incrociatori Pesantissimi e Medi e Veloci.

                4)  Navi Super Petroliere da Guerra per il rifornimento automatico del carburante alle mie Navi stesse radiocomandate, necessarie da navigare da solo io stesso.

                5) Cacciatorpediniere da Inseguimento e da Incameramento della Torpediniera che viene distrutta a Cannonate e Missili e Siluri.

                6)  Torpediniere per silurare nelle Guerre Private.

                7) MAS per silurare nelle Guerre Private.

                8) Sommergibili Ultra- Potenti e di grandissima autonomia, e Sommergibili Atomici con Missili modello “Polaris” verticali.

                9)  Navi da Trasporto dei Mezzi d’Assalto, come i Siluri Pilotati a Lento Corso                 e come i siluri pilotati a Rapido Corso, e come le Torpedini e come i Barchini                 Esplosivi. Per la letteratura estesa leggere “X Flottiglia MAS” del Principe Valerio Borghese.

                10)  Navi Dragamine per il Dragamento dei Campi Minati.

                11)  Navi Posamine per l’istaurazione dei Campi Minati propri contro il nemico.

                12) Navi per il posamento dei Cavi Telefonici, ossia Navi Posa Cavi Telefonici da Guerra.

                13)  Navi Draga-Cavi per interrompere le comunicazioni telefoniche del                 nemico.

                14) Navi da Battaglia con a bordo le Grandi Macchine per ottenere la terremotazione tellurica di sterminio totale di uno o più Stati, o di tutto l’Universo, per propri motivi di guerra e di vendetta suprema (il progetto lo troverete in Giappone in una Società per la Costruzione delle Navi da Guerra Private e di Stato e lo realizzerete per mezzo di una centrale atomica a onde elettromagnietiche detta “Discoide” da Ingegniere elettromagnetico.

                Fornitemi inoltre i Palazzi di Abitazione, che sono a me urgentissimi e necessari, e chiedo questo, come si suol dire nelle istanze, in nome di S.A. il Presidente della Repubblica, in nome di S.E. il Primo Ministro. Dei Palazzi di Abitazione chiedo che mi venga qui data la chiave a me stesso qui stesso, senza che venga deviata verso altri, e così anche che mi venga dato, in modo visibile, il Libro di Proprietà che contiene gli indirizzi dei Palazzi da Abitare da solo.

                E’ bene che io effettui il pagamento per evitare assolutamente qualsiasi incidente. Essendo questo luogo il Sesto Reparto Uomini che negli Scritti Danteschi è l’Inferno, è bene evitare assolutamente di lavorare io stesso e di scopare all’interno, evitare di subire bastonate dopo aver ricevuto il Libro dei Palazzi, evitare le gocce di Serenase, evitare le gocce di faseina, evitare assolutamente le gocce di Largactil, evitare comparizioni di serpenti (come dice nell’Inferno scritto dal Poeta e Condottiero Dante Alighieri), evitare tutte le altre malefiche invenzioni parallele alle medicine o prese per tali. Chiedo che facciate venire la valuta dal Ministro delle Finanze e del Tesoro di Vari Stati e che mi portiate la chiave del portone di una casa da abitare situata in Firenze.

 

                Sono (11h) Giachomho Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh, Ingegniere Grande Ammiraglio dello Stato del Giappone nella Storia Ultra Antica e nella cartella clinica Giacomo Tarantini nato io stesso in a. 1931, figlio di Francesco (nelle generalità) qui vestito come nel Manicomio.

                Data attuale Giugno dell’anno 1978 in Firenze.

 

                Così in una lettera. In un’altra ancora indirizzata al Direttore dell’Ospedale Psichiatrico, sempre del giugno 1978, così si esprime:

 

                “... Mi rivolgo alla Signoria Vostra Illustrissima con questa mia pregiatissima Istanza     per incaricarvi della ricostruzione delle mie Industrie Metallurgiche Pesantissime di Guerra che sono le più importanti dell’Universo in modo assoluto. Sono il Grande Ammiraglio Ingegniere e Dittatore Militare Assoluto, che nellAraldica Nobiliare Germanica e giapponese è scritto:  (11h) Giachomho Whohnh Taranthini Unhnhoh, scritto anche in Lingua Orientale Sanscrito Cuneiforme Ultra-Antico (è bene non omettere le h, altrimenti vengo predo per povero, mentre sono l’uomo più ricco dell’Universo in modo assoluto)”.

 

Prosegue poi col ripetere ancora la storia della sua vita , col domandare di nuovo un “Palazzo di Abitazione” per lui stesso e continua:

 

                “...Essendo io, nella Storia Antichissima, il Massimo Industriale dell’Universo, e Condottiero dell’Artiglieria Pesantissima come l’Imperatore Napoleon Buonaparte I, egli Imperatore                 indiscusso di Francia, come affermano i Libri di Storia, io Vi incarico di ricostruire le mie Industrie Chimiche di guerra dei Gas Tossici, che vengono chiusi nei proiettili d’Artiglieria e delle bombe d’Aereoplano e nelle bombe di Dirigibile da Guerra; allora Vi incarico di ricostruire le Industrie di Gas Iprite e del Gas Fosgene, e dl Gas Arsine, e del Gas Holeum Incendiario, e del Gas Nitrum Incendiario da Guerra Chimica, e gli Impianti, che nei Libri di Ingegnieria sono detti Impianti Bijrkeland won Hejde, che sono importanti Impianti Industriali Chimici di Guerra, e che siano di mia proprietà. Industrie dell’Huranio e dell’Acqua Pesante e dell’Hidrogeno da Guerra;

Vi incarico a tal proposito, in nome di S.A. il Presidente della Repubblica Federale di Germania, e di S.E. il Primo Ministro, di ricostruire tutte, le mie Industrie di Guerra del gruppo dell’Huranio e delle bombe d’Aereoplano Atomiche e dei proiettili d’Artiglieria Atomica, situati nei territori negli Stati di Mongolia e negli Stati del Manciunquò a nord della Grande Muraglia Cinese.

                Tra gli impianti di Fisica Atomica che mi dovrebbero appartenere sono i Ciclotroni, (Macchine Accelleratrici di Particelle ) situate in varie Città dell’Impero Giapponese , del quale Stato io sono Dittatore Supremo.

                Essendo nella Stria Antica Ingegniere Supremo, dovrebbero appartenermi molte Centrali Termoelettriche situate in Estremo Oriente del Continente Asia, ricostruitele e passatemele in proprietà a me stesso, portandomi la chiave del Portone d’Ingresso e il Libro che le descrive e dandomelo qui stesso a me stesso.

                Per questa opera di ricostruzione industriale e per procurarmi e farmi ottenere in proprietà molti Palazzi di Abitazione che mi occorre abitare io stesso da solo, essendo attualmente privo di Palazzo, (che fu demolito in Roma nell’anno 1953 e che era di altre persone) occorre far venire dal Ministero delle Finanze dello Stato del Giappone  (situato nella Città Capitale Tokio) la valuta esponenziale anche a 10(dieci) o 12(dodici) righe di numeri per pagare Voi o i Vostri Impresari il costo di ciò che ho chiesto, e che mi portiate qui a me stesso la chiave di alcuni Palazzi da abitare io stesso da solo.

                                               Mia firma in Lingua Tedesco e in Lingua Sanscrita

Io stesso mi firmo e sono

                (11 h) Giachomho Taranthinhi Hunhnhoh del Giappone e degli Stati di Manciuria e dello Stato di Mongolia io stesso detto nella Cartella Clinica Giacomo Tarantini n. anno 1831

                Firenze, Data: Giugno dell’Anno 1978, data attuale.

                Questo scritto è sempre valido per infinito tempo.

 

                Il risultato delle cure fra il 1971 ed il 1978 è strepitoso, le “acca” sono diventate undici! La vita frustranea ed avvilente cui è costretto lo spinge a sognare flotte impossibili, a vaneggiare infiniti palazzi e case, a presumere di essere creditore di cifre enormi da tutti gli Stati del mondo. Il delirio si è ancora più strutturato, si è ancor più ingigantito; se un tempo presumeva di essere generale adesso è imperatore e padrone assoluto di tutta la terra, dell’universo, è ammiraglio supremo, lo da per scontato. Un tempo gli stipendi arretrati dei quali aveva la certezza di essere creditore gli dovevano servire per uscire dal manicomio e per acquistare qualche gingillino da portare con sé, adesso gli sono necessari per armare la sua flotta da guerra radiocomandata che lui solo governerà non si fida che di sé stesso, gli sono necessari per ricostruire le sue favolose industrie di guerra, le fabbriche di gas tossici, le industrie atomiche. Prima gli bastava una casa per abitare fuori del manicomio, ora ha bisogno di un numero immenso di palazzi, di grattacieli, di fortezze, spanti dappertutto, anche negli spazi estraterrestri, nelle galassie, sulle stelle lontanissime. E tutto deve essere legalizzato affinché nessuno possa portargli via i suoi possessi, deve essere messo nero su bianco, ci devono essere atti notarili, sono tanti i suoi possessi che  gli elenchi riempiranno interi libri da consegnare a lui stesso nelle sue stesse mani, se no punto e a capo, così come le cassette di chiavi per aprire tutti quei palazzi. L’efficacia delle Cure!       Eppure l’aveva detto al Direttore del Manicomio che era: ”estremamente dannoso alla salute ed alla propria amministrazione lo stare recluso ancora per anni in questo tetro luogo.” Forse il Direttore non aveva letto lo scritto.

                Ma pur nel turbinio delle fantasie deliranti Giacomo e da queste obnubilato palesa il suo profondo desiderio di uscire da dove è rinchiuso, di non essere sottoposto a cure disumane, manifeste la sua voglia di dirigere la sua vita da sé stesso.

                Ed è sempre presente sua maestà la chiave, oggetto magico potentissimo, la chiave simbolo di schiavitù (la porta del manicomio che non si apre) o di redenzione (la porta dei suoi palazzi).

                Per pagare navi, fortezze, palazzi industrie belliche ci vuole moneta suonante, moneta di grossissimo taglio, e tanta, se Giacomo non paga finirà di nuovo in galera. Per un pagamento più semplice evitando l’inimmaginabile quantità di carta moneta inventa e sogna la valuta esponenziale che in un’altra lettera al direttore spiega cosa sia:

 

                “....Che cosa si intende per valuta esponenziale, si intende la valuta di grossissimo taglio che generalmente io adopero per acquistare, dagli Armatori navali da Guerra, le Navi da Guerra Portaaerei di dimensione enorme, e le Navi da Battaglia Corrazzate, il cui scafo e i cannoni sono di metallo Titanio, metallo prezioso circa 8.000 volte più dell’oro, e che si adopera per le costruzioni navali da Guerra.

                Vediamo nella valuta esponenziale come è scritto il numero; supponiamo che sia una banconota a cinque righe di numeri, col simbolo   , di infinito matematico.

                Così:                        Numero di Banconota esponenziale

                                                                                                                                            x oo

                                                                                  esp. 1.000.000.000.000.000.  

                                                                                 esp. 1.000.000.000.000.000.

                                                                                esp. 1.000.000.000.000.000.

                                                                               esp. 1.000.000.000.000000.

                                                                              esp. 1.000.000.000.000.000.  

                Nelle Scienze Finanziarie Segrete si studia anche i calcoli e l’impiego della valuta altissima che occorre, a me per esempio, per comprare Navi da Guerra; e incarico Voi di chiederle, a mio nome, al Ministero delle Finanze e del Tesoro della Repubblica Federale di Germania, e della Repubblica Italiana, allo scopo di farmi ottenere  alcuni Palazzi in Firenze, alcuni Palazzi in Berlino, alcuni Palazzi in Tokio, nel Giappone, affinché io possa uscire dal Manicomio. Portatemene direttamente la chiave a me stesso in mano ed il libro che ne dice gli indirizzi.

                                               Mi firmo e sono:

(11 h) Giachomho Whonhnh Taranthinhi Hunhnhoh, sulla cartella Clinica scritto Giacomo Tarantini, io stesso nato il 14 Novembre 1931 in Montefiascone prov. di Viterbo, io stesso sono qui internato e ricoverato dall’anno 1958. ora siamo nell’anno 1978.

 

                Le cure, si vede bene, gli hanno fatto benissimo. Ma, seppure mescolato fra tutte le idee sconclusionate e da loro sommerso e sopraffatto, emerge l’impellente bisogno di non restare chiuso in manicomio, c’è l’idea corretta che per uscire dal manicomio ci vuole un posto dove andare, sempre ha avuto bisogno di avere una casa sua, tutta per sé, senza il pericolo e la minaccia di essere scacciato e finire poi in manicomio. E’ tanto forte questo desiderio da trasformarsi in una iperbolica smania di possedere un numero enorme di case.

 

                Ma perché solo? Lo spiega nel mezzo di una lettera inviata sempre al Direttore del manicomio:

 

                “....Evidentemente, assolutamente io non posso andare ad abitare con la mia sorellastra per incompatibilità di carattere e per motivi politici essendo la politica nostra assolutamente opposta, il fluido delle armi e le volontà nostre darebbero ordine di morte reciprocamente, ossia essa contro di me e io stesso contro essa.

                Mia zia, creduta tale, che è micidiale di carattere, diede addirittura l’ordine micidiale, contro di me, venticinque anni fa, di portarmi, arrestandomi, nella terribile Clinica Manicomio Parco delle Rose, situato in Roma sulla via Aurelia, che è il luogo più lurido e pessimo e micidiale dell’Universo, e che è da sottoporsi a Scomunica Papale e Distruzione”.

 

E’ onesta e franca la considerazione nei confronti della sorellastra , sarebbero sempre a farsi guerra. E con la zia non se ne parli.

                Dobbiamo ricordare che durante gli anni ‘70, nell’intento di svuotare il manicomio, si pensò e si fece di tutto perché le persone ricoverate fossero riprese dai loro parenti. Fatto augurabile che però troppe volte cozza contro la realtà della situazione familiare che per le interne distorte relazioni portò un tempo al ricovero in manicomio del portatore del sintomo e che nessuno nel frattempo ha cercato di modificare; a volte, poi, la famiglia si può essere ristrutturata in un modo nuovo, diverso, durante la degenza del parente. Giacomo che annusa l’aria lo dice a chiare note a chi era preso dalla furia della deistituzionalizzazione a tutti i costi (un parolone che quasi sempre non ha detto assolutamente nulla), che è impossibile che lui torni a vivere in famiglia, lui ha bisogno di vivere solo, non è stato possibile un tempo, non è possibile ora; una sacrosanta verità detta in maniera stravagante ma sempre verità. E saggezza.

 

                Davvero stravagante e bislacca è la lettera che segue nella quale manifesta il sogno di un viaggetto abbastanza lungo sia per durata che per itinerario. E’ diretta “all’Illustrissimo prof. Mario Nistri, a lui stesso in mano”, datata l’8 luglio 1978.

                Dopo aver elencato le città dove lui desidera possedere i palazzi da abitare lui stesso da solo, Firenze, Berlin,capitale della Repubblica federale di Germania, Hessen città dalle grandi acciaierie, Amburgo che ha il più celebre porto del Mare del Nord, così scrive:

 

                “.... io non capisco bene di chi sia il progetto di farmi stare trent’anni di tempo in Manicomio di Firenze o forse 50 anni nel Manicomio stesso mentre per cultura politica e di Ingegnieria io dovrei essere in Berlin Città Capitale della Germania e successivamente in Scyangay Città Capitale della Cyna Stato Supremo dell’Oriente, e successivamente, dopo qualche anno di permanenza in quella Città, recarmi a Tokyo nell’isola di Hondo nell’Impero del Nyppon, e successivamente nel Pianeta Saturno, raggiungibile in Aereoplano e successivamente recarmi nella Nebulosa di Handromeda (che dista dalla Terra 9000 bilioni di Anni Luce).

                Io sono illustre trasvolatore e Condottiero Aereonautico o almeno lo fui nella Storia Antichissima.

                Lo stare in Roma e Firenze, città mediocri dell’Italia Centrale, diminuisce le facoltà intellettive e fa diventare cretino, come io stesso ho constatato che si verifichi frequentemente in Italia, In quei luoghi io mi recherò da solo, ma mi occorre avere vari Volumi di Proprietà Private, io Vi chiedo di portarmi l’atto di proprietà di un Palazzo di Abitazione in Firenze, ossia situato in Firenze e quì stesso a me stesso la chiave necessaria per entrare ad abitarvi io stesso da solo, che la chiave mi venga portata in modo visibile qui nel Sesto Reparto Uomini a me stesso, che nella cartella Clinica sono detto Giacomo Tarantini nato il 14 novembre 1931 in Montefiascone, provincia di Viterbo, figlio del prof; Francesco Tarantini e della fu Sterpiggia Paola.

                Portatemi anche un libro di Indirizzi di Palazzi da abitare io stesso da solo come è mio volere e di passarmeli in proprietà totale.

                Auspicando che questa situazione mia di internamento finisca, vi incarico anche di dire a mia Sorella di portarmi una chiave di una casa o Palazzo o Appartamento, da abitare io stesso da solo e un libro di Indirizzi di Palazzi da Abitare io stesso da solo e di passarmeli in mia proprietà.

                Mia firma:l a firma navale contiene 16 h Nobiliari e Navali da Guerra, io stesso sono Giachomo Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh (in Lingua Orientale Antica Sanscrito Cuneiforme) ossia 11 h, e 5 nella parola Primo scritto in tedesco, e sono Ingegniere, Grande Ammiraglio, Dittatore Militare non d’Italia che è Stato di Poveri ma dei ricchissimi Stati del Continente Asia. Nella Cartella Clinica il nome è italianizzato e scritto Giacomo Tarantini.

                                               Mio Stemma Navale da Guerra

                                               con Spada Incrociata e Motto

                                              

                E’ la prima volta che si firma con 16 h, oltre alle solite ancora cinque h nella parola “Primo” scritto in tedesco che non sa come si scrive ma immagina che ci stiano cinque h in quella parola.

                Una mia ipotesi, certamente troppo fantasiosa ed irreale: si usa dire no vale un’acca di una persona che conta poco, Giacomo involontariamente ci fa capire quanto nullo sia il suo potere.

               

                Un lungo poscritto ad una lettera , ad una istanza urgente, chiede i soliti palazzi e di uscire dal manicomio, è tra gli scritti più strambi, e sorprendenti. Eccolo:

 

                “....Chiedo pertanto che mi portiate Armadi con Abiti e con Divise Militari e Scarpe relative.

                A elenchi e istanze precedenti io unii l’elenco dei famosi Palazzi ai quali elenchi possono essere aggiunti i Templi Mitologici  della Religione Pagana situati nei pressi di Atene, di forma in ansi, doppio in ansi, prostilo, antiprostilo, periptero, menoptero-periptero, come la copia in marmo del partenone di Atene, del Tempio di Zeus in Olimpia, del Tempio di Hefesto, del Tempio di Poseidone, del Tempio di Hera, del Tempio di Ares, dell’Eretteo, dei Propilei, ed infine di tutta l’Acropoli, ossia la copia fedele in marmo di tutti gli Edifici, anche Fortezze di Atene, di Sparta, di Micene, di Tirinto e di tutte le località della Grecia Antica e dell’Isola di Creta e di Cipro.

                Vediamo il motivo: io sono senza Polveriere e senza Fortezze e quei Templi mi servirebbero per deposito di Armi per fare le Guerre.

                Senza le Guerre io sono perduto....

                ...Inoltre essendo io stesso Grande Ammiraglio, nella Geografia Militare Comparata dell’Universo dovrei possedere io stesso dei Continenti da solo, di forma uguale al Continente Africa ma di maggiore superficie e più grande dove nel centro dovrebbero essere situate le Officine Metallurgiche Navali da Guerra con le torri degli Altoforni di circa 300 Kilometri di Altezza ciascuno come quelle delle Officine Navali da Guerra “Won Krupp” di Germania e come quelle delle Officine Navali da Guerra “J.V.W Stalin di Russia, supreme Industrie d’Armi Altiforni, Acciaierie, Cannoni, Crogioli per colare il metallo Titanio, Fortezze, Ferrovie per Treni Blindati con Cannoni, occorrono per sparare contro le organizzazioni che mi tengono prigioniero.

                E per essere vittorioso le Acciaierie dovrebbero avere milioni, anzi miliardi di Kilometri quadrati di superficie ed io stesso avere la centrale atomica in forma di orologio e di rivolver in tasca dell’abito borghese (= civile) e della divisa da Gr. Ammiraglio o Generale Aereonautico.

                Quindi non basta telefonare, bisogna sparare, non basta scrivere ma è necessario impostare i plichi di valuta esponenziale altissima, ho detto altissima, altrimenti come quantità ce ne vuole miliardi di tonnellate di valuta. Quì il Parlatorio, ossia la Parente seguita a non venire  mentre chiedo che venga assolutamente dovendo dire ad essa varie argomentazioni d’affari. Dico di prendere a cannonate, con i miei ultraterribili ciclotroni a palle di cannone (del diametro di Kilometri ciascuna) quelli che si oppongono al venire della parente e ridurli in poltiglia con i terremoti e le cannonate; ossia ridurre, io ordino. in poltiglia tutto il Manicomio e tutto il personale che è pestifero in modo totale.”

 

                Se ci si ferma al contenuto lo scritto è decisamente spassoso. tutto è iperbolico, le officine metallurgiche che occupano miliardi di chilometri quadri, gli Altiforni di 300 chilometri di altezza (se no che altiforni sono?), i ciclotroni a palle di cannone del diametro di chilometri ciascuna. Ed i templi antichi non per ripetere antichi riti bensì per farne depositi di armi e di esplosivi, come barzelletta è più ardita di quella dell’elastico. Ma, scavando più dentro, ritroviamo l’estrema amarezza di essere lasciato solo, ritroviamo l’inadeguatezza dei suoi sforzi per comprendere le regole di quel gioco terribile ed incomprensibile che lo segrega dal vivere civile; ossessivamente ripete che tanto enorme è la sua impotenza quanto immensi dovrebbero essere i mezzi per raggiungere la libertà. Ciò che fa usualmente non è sufficiente, il telefonare e lo scrivere, ed allora bisogna sparare, devono arrivare i plichi con la valuta esponenziale altissima.

                E c’è dell’altro, c’è lo smanioso desiderio, c’è l’assillante bisogno di parlare con la sorellastra per avere da lei un aiuto economico, il conforto di una visita anche se la disposizione d’animo è ambigua e contraddittoria. Ma solo Giacomo è contraddittorio oppure è la relazione familiare che è contraddittoria? Nella stessa lettera parlando delle telefonate alla sorellastra Giacomo ricorda che “la risposta è incerta, quando posso o potrò,verrò”. La situazione è ambigua da sempre, lo si è fatto notare lui che si sente un intruso e bisognoso di essere rassicurato ma che viene messo in manicomio e derubato, lo vedremo in seguito, gli si manifesta talora gentilezza con le diecimila lire che diventano raramente ventimila al mese, e vedremo che non è gentilezza, ed è stato messo lì per il suo “bene”. Così coinvolto Giacomo talvolta accusa veementemente la sorellastra talaltra, come in questa lettera, la scusa pensando a strane macchinazioni manicomiali impediscano le sue visite, a persone a lui ostili, persone che regolano la vita del “lagher”, persone da ridurre in poltiglia.

               

                Però anche se macchinazioni strane gli impediscono di parlare con la sorellastra non si da per vinto. In una letterea fa una pressante richiesta:

 

                “...Ed ora veniamo all’argomento dei colloqui con la parente, telefonando io  non sono riuscito a indurla a venirmi a trovare, con trecentosessanta telefonate all’anno, quindi richiedo che facciate funzionare le macchine segrete /radio) per farla apparire, in modo che io possa parlare all’ora dei colloqui”.

 

                Ancora, in un’altra lettera al direttore scrive:

 

                “....Ho notato che la sorellastra non viene a trovarmi da quattro anni di tempo, essa è Maria Rosa Forbiti oppure Maria Rosa Tarantini e abita in Piazza della Posta Centrale di Firenze n°110 tel.470047.

                Come si riattiva la periodicità dei colloqui? io dico con Macchina da Avvocato da Relazione con Persone, ma credo devono essere di potenza ultra-ultra-ultra enorme.”

 

                A parte l’idea fissa della “macchina, (ma non gli si può dar torto se ha più fiducia nelle macchine che negli uomini) Giacomo offre un consiglio adeguato e corretto; uscendo dalla forma singolare e strana afferma che per risolvere la sua situazione non erano e non sono gli elettroshock gli shock insulinici, non gli psicofarmaci ed il ricovero in manicomio bensì professionisti preparati per riassettare relazioni distorte o spezzate, purché molto abili e validi..

                Gli è rimasto sempre l’amor proprio di vestire decentemente, di vivere decorosamente; nella stessa lettera scrive:

                “....Ho notato che è enormemente difficile ottenere dalla calzoleria interna dell’Ospedale Psichiatrico un paio di scarpe comuni da uomo n° 45. Urge che me ne venga dato un paio da indossare io stesso perché le mie sono rotte. Inoltre non ricevo lettere da anni.”

 

                Come si vede dopo le scarpe rotte c’è il suo patire per aver perso ogni legame con i familiari. Tale motivo è presente in tante lettere di Giacomo, un desiderio costante che anni di abbandono hanno rinfocolato anziché spento  ché implora in una lettera al Direttore:

 

                “....Vi do una lettera da me scritta oltre questa Istanza a voi diretta, una lettera a mia sorellastra, impostatela per favore, in città, spero così, che dopo un certo numero di lettere, essa venga a trovarmi all’ora dei colloqui con i parenti, quì stesso.”

 

                Ed ecco la lettera alla sorellastra:

 

                                                               Data: Firenze, 6-8 luglio dell’anno 1978, Data Attuale.

                                Pregiatissima Sorella,

                ti scrivo dall’Ospedale Psichiatrico di Firenze, dove sono ricoverato da venti anni di tempo. Di salute sto benissimo, ma sono privo di Appartamento di Abitazione fino dall’epoca della guerra. Vieni a farmi visita. Vieni a portarmi un piatto di paste dolci alla crema, e un paio di scarpe da uomo n°45 o 45 e 1/2 che le indosserò io stesso. Sono al Sesto Reparto Uomini.

                Speravo che gli accordi presi per telefono bastassero, mentre invece non sono bastati, vieni a trovarmi, ci vedremo volentieri.

                Portami la chiave di una Dimora da abitare io stesso da solo. Portami anche le sigarette e un accendino per accenderle.

                Augurandovi molte belle cose concludo queste mie righe.

                                Sono Giacomo Tarantini degli Unni (del Nippon)

                Attendo la vostra venuta all’ora dei Colloqui, ossia all’ora del Parlatorio.

                Sono Giacomo, figlio di Francesco Tarantini, io nato il 14  novembre dell’anno 1931 in Montefiascone.”

 

                Lettera eloquente anche nei sottintesi; inizia la lettera con un “Pregiatissima” per subito dopo darle del “tu” ma termina col darle del “voi” che rende palese la sua perplessità sulla loro relazione. Giacomo desidererebbe molto stabilire un rapporto affettuoso “ Vieni a farmi visita”, “vieni a trovarmi, ci vedremo volentieri” dice e soffre che la sorella non accetti i suoi inviti “Speravo che gli accordi presi per telefono bastassero”  ma è incerto sulla possibile intimità fra loro due ed usa il “voi” alla fine, un tono distaccato quasi si pentisse del trasporto affettuoso cui si è abbandonato. Fa tenerezza la sua infantile golosità che gli fa chiedere le paste dolci alla crema e quel dolce è allusivo a ben altre faccende; anche il chiedere le scarpe è patetico ed il chiedere le sigarette e l’accendino, e la chiave di un appartamento per vivere da solo senza dar noia ad altri. Si firma, è vero, dicendo che è “degli Unni (del Nippon)” che appare fuori luogo, ma così può comunicare senza comunicare il suo sentirsi lontano, estraneo, abbandonato; è tristissima questa firma senza la prosopopea altisonante, non ci sono le solite “acca”. Le ricorda poi che hanno un padre in comune,”sono figlio di Francesco Tarantini”

 

                Una settimana dopo scrive un’altra lettera che intesta alla matrigna ed alla sorellastra; la lettera precedente non è arrivata e con la nuova lettera chiede le stesse cose ma con un tono molto diverso, un tono eroicomico, roboante che in verità fa più piangere che ridere. Non sa che la lettera precedente non è stata inviata ( il Direttore che conosceva il mio interesse per le lettere dei ricoverati l’aveva passata a me insieme a quella a lui indirizzata senza leggerle) e che pertanto non poteva avere risposta. L’effetto della frustrazione per la mancata risposta è evidente:

 

                                “ Alla Signora TOSCANA FORBITI

                                Alla Signora Maria Rosa TARANTINI

                                Alla Signora Maria Rosa FORBITI

                Vi scrivo questa mia Lettera, per dirvi di vari argomenti.

                Io sono da anni 30 in Manicomio, non perché malato di mente, poiché di salute sto benissimo, ma perché io sono privo di Palazzo di Abitazione che fu demolito in Roma nell’anno 1953.

                Attualmente io sono con le scarpe assolutamente rotte, e la calzoleria interna non le da, vi chiedo di procurarmene.

                URGENTE:

                Vi incarico di comprarne un paio in città e di mandarmele.

                Il prezzo se si comprassero qui dentro è di L.35.000, oppure di L.38.000.

                E nei libri di studi segreti. è di L.40.000, e di tali scienze io sono Super Professore.

                Vi incarico di farmi ottenere, comprandole in città, un paio di scarpe da uomo n°45,1/2 di color marrone o di color nero con la suola di gomma para (così è soffice) oppure di cuoio.

Urgente

                Le scarpe che io vi chiedo sono assai urgenti, quindi mandatemele per uno del personale, io le indosserò subito.

                Sono il Grande Ammiraglio Navale da Guerra Ingegniere (in lingua Orientale Sanscrita), io stesso Giachomho Whonh Taranthihni Hunhnhoh 1° non omettere le h nelle diciture nobiliari.

                Qui sono internato col nome:

                io stesso Giacomo Tarantini, figlio di Francesco, n. Anno 1931

 

                Poscritto-

                Essendo senza Palazzi di Abitazione perché la Casa ( che era di un Parente di parte politica opposta) fu demolita nell’anno 1953 in ROMA io non riesco ad uscire dal Manicomio come è ovvio. 

                Io sono privo di centrale bancaria e di conseguenza da qui non riesco a spedirvi nulla di denaro.

                Se fossi fuori con una sola carta bollata farei venire la valuta e i lingotti d’oro del Ministero delle Finanze e del Tesoro della Repubblica Italiana (che è pessima) e degli Stati di Germania, di Russia, di Cyna, del Giappone (unità monetaria lo yen) e pagherei subito tutti i conti.

                Mandatemi un paio di scarpe. Mi occorre che mi mandiate a me stesso in mano la chiave di una casa da abitare io stesso da solo , altrimenti non è possibile mai uscire dal Manicomio non avendo un tetto sotto il quale andare a dormire.

                Nella pratica da Armatore i Palazzi hanno gli indirizzi, vie, ecc. elencati in Libri stampati e rilegati, chiedo che di tali libri me ne mandiate (o meglio venite a portare in mano in modo visibile a me stessi e NON ad altri), uno di tali Libri.

(NOTA: il sottolineare è rafforzativo del senso dello Scritto).

 

                Continua poi ripetendo che è ricchissimo, che gli servono tanti palazzi, si firma affibbiandosi i più altisonanti e strampalati titoli che così riassume in un altro poscritto:

 

                “....Io vi ho telefonato un numero grandissimo di volte e vi ho chiesto:

                1) Di venirmi a  trovare nel Sesto Reparto del luogo dove sono internato da venti-trenta anni  (complessivamente)

                2) Di mandarmi con urgenza un paio di scarpe n°45 e ½ da UOMO che io indosserò subito e che sono urgentissime.

                3) Di procurarmi e farmi ottenere a me stesso la chiave di un Palazzo di Abitazione da abitare io stesso da solo e il Libro degli indirizzi.

                                Molti saluti, sono

                Giachomho Whohnh Taranhinhi Huhnhnhoh

                                detto nella cartella

                Giacomo Tarantini

                nato il 14 novembre dell’anno 1931 in Montefiascone, Provincia di Viterbo, roccaforte dell’Etruria.

                Data: 15 Luglio dell’anno 1978 Firenze

Questa mia lettera è valida per infinito tempo.

 

                Ricordiamoci che siamo nel 1978 e che dal maggio è operante la legge 180 che decreta la fine del ricovero coatto negli Ospedali Psichiatrici; Giacomo ha sentore  che  non dovrebbero tenerlo più rinchiuso con la forza, c’è una legge in suo favore. Difatti il suo ricovero viene trasformato in volontario, cioè Giacomo accetta di rimanere lì perché non c’è dove farlo andare; è vero che continuano il sopruso e l’ingiustizia però gli sono riconosciuti diritti prima impensabili, le porte devono restare aperte (ma che lotte all’interno dell’istituzione  con quegli infermieri abituati a tenerle chiuse!),  potrà finalmente uscire a prendere un po’ d’aria.

               

                Allo stesso tempo viene avvertito dalla matrigna e dalla sorellastra il pericolo che Giacomo in virtù della nuova legge si faccia avanti ad esigere i propri diritti anche nei loro confronti.

                Difatti da parte della Sorellastra giunge alla Direzione dell’Ospedale Psichiatrico il ricorso contro la legge per ottenere l’interdizione di Giacomo. in esso si legge:

 

                “....Recentemente la Questura di Firenze ha comunicato alla ricorrente che, per effetto della legge del 13/5/78 n°180 doveva tenersi cessata dall’ufficio di tutrice.

                L’infermità che ha colpito da tanti anni Giacomo Tarantini è tale, tuttavia, da non consentire allo stesso di attendere con consapevolezza e discernimento alla amministrazione del suo modesto patrimonio. Egli è infatti comproprietario di un quartiere posto in Roma in via dello Scandaglio n°16 ed è destinatario del 20/100 dell’importo di una pensione ENPAM e di una pensione INPS intestata alla signora Toscana Forbiti matrigna, seconda moglie di Francesco Tarantini padre di Giacomo.

                Poiché Giacomo Tarantini si trova in condizioni di infermità che lo rendono incapace a provvedere ai propri interessi dovrà essere interdetto a norma degli articoli 414 e seg. C.C.”

 

                Dopo aver fatto la lista dei parenti entro il quarto grado così conclude:

 

                “....Ciò premesso la sottoscritta chiede come sopra rappresentata e difesa

                                                                              chiede

che sia pronunciata l’interdizione del sig. Giacomo Tarantini nato a Montefiascone il 15.11.1931, con ogni conseguenziale provvedimento di legge.

                Fa presente, altresì, che necessita provvedere alla nomina di un tutore provvisorio a norma dell’art. 419, 3° comma C.C. che curi l’Amministrazione dei beni dell’interdicendo.”

 

                Ma allora la casa c’è!!, non è vero che sia stata distrutta nel 1953, allora le pensioni esistono davvero!! e quanto era la rendita della casa?, a quanto ammontavano le pensioni? quanto denaro è stato sottratto a Giacomo (e si vuol continuare a sottrarre), perché nessuno ha difeso e difende Giacomo? Già, dimenticavo lui non possiede valuta.

                Ed è sempre la stessa musica! Per il “bene” di Giacomo deve continuare ad essere interdetto, complici psichiatri ed avvocati, così da non dilapidare “il proprio modesto patrimonio, per il suo “bene” deve continuare a non avere personalità giuridica se no finisce per gli altri la pacchia,. Che importa se vive un’esistenza tristissima, se è segregato dal mondo? E’ per il suo “bene” e basta. E la sorellastra deve continuare ad essere la tutrice di Giacomo altrimenti come può campare alle sue spalle? come può sottrargli quel che gli à dovuto?

                Sarebbe bastevole questo evento per rendersi conto di quanto le leggi in materia possano essere utilizzate per angariare il debole a favore di chi è più potente, di quanto siano inadeguate le “cure del caso”.

                C’era un disagio in famiglia, soprattutto per Giacomo, ma anziché risolvere il disagio, anziché modificare la situazione difficile portando ad una relazione corretta e chiara, si pensò di “curare” lui, lui a metà fra il colpevole e l’indemoniato, si pensò di “cambiare” Giacomo mentre gli altri avevano il diritto di restare gli stessi, così si cambiava tutto per non cambiare nulla, si faceva “sempre di più” per fare sempre di peggio. E gli psichiatri, forse e magari in buona fede, vittime della loro incapacità di comprendere, sono stati al gioco anzi ne tenevano il banco, chi guadagnandoci molto e chi pochino. Insieme ad essi gli avvocati.

                La psichiatria del IXX e del XX secolo, benemerita senza dubbio per aver strappato alla magia ed alla superstizione i “mentecatti” come un tempo si chiamavano, di averli sottratti alle fumigazioni di solfo, si è preoccupata di proteggere e difendere i “sani”, i “normali” dal contegno dei “malati” escludendoli dal vivere civile, rinchiudendoli in luoghi “chiamati ipocritamente Ospedali Psichiatrici”, ed in quel luogo anormale, fuori dal contesto usuale, studiarli “scientificamente”, ed è un controsenso assoluto, e “curarli” con bagni gelati, la contenzione  fisica, le terapie di shock e così via. Anche gli psicofarmaci, che pure rappresentano un’espressione più umana e scientifica dell’approccio col disturbato psichico e tali, non sempre, da far superare, magari solo temporaneamente, momenti di gravissimo turbamento psichico sono per loro natura farmaci sintomatici, se non riservati a questo scopo specifico rientrano anch’essi nell’ottica tradizionale di controllo e di contenzione annullando coscienza e volontà, annichilendo la personalità ma non portando però alla risoluzione del problema.

                Lo schema solito in occasione di una situazione di disagio psichico è sempre lo stesso: la persona che presenta il sintomo psicopatologico dopo un primo tentativo di dissuasione o di convincimento in famiglia viene portato da chi se ne dovrebbe intendere, di solito dal medico di famiglia il quale oltre che a bonari ansiolitici prescrive una cosiddetta cura ricostituente; si arriva così a  prescrivere cure “ricostituenti” a persone floridamente in salute. Se il paziente rifiuta di curarsi perché fisicamente sta bene la sua opposizione viene paradossalmente connotata come un altro sintomo di insania;  “Se tu non fossi malato, accetteresti di curarti” gli si replica non rendendosi conto della natura del messaggio che gli si manda; per dimostrare di essere sano lui deve accettare di essere malato ed in conseguenza di curarsi. Le cure, come prevedibile, non ottengono l’effetto sperato anzi la situazione peggiora pertanto ci si rivolge a chi se ne intende di più, dallo psichiatra, trascinando con la forza o con sotterfugi ”dobbiamo da un professore che ti visita il cuore” o il fegato, od i reni ma il cuore lui ce l’ha sanissimo come il fegato e i reni. Il “professore”, grande scrivania, grande poltrona, immensa coscienza di sé, grande sussiego domanda, interroga, visita, fa la diagnosi ”purtroppo si tratta di schizofrenia” prescrive psicofarmaci assicurando che tutto si sistemerà. E “fra un mese ci rivedremo”.

                E dopo un mese si ritorna, e così ogni mese successivo, per mesi, per anni, con alti e bassi, quando va bene; i familiari si rammaricano magari che è ancora un po’ inquieto, è ansioso, (come potrebbe non esserlo) oppure che è apatico, quando l’apatia è l’unico risultato possibile con gli psicofarmaci usati. Si cambiano le dosi, si cambiano gli psicofarmaci, si cambia talvolta il professore.

                I casi sono due: o gli psicofarmaci riescono ad intontire il paziente e farlo diventare veramente “paziente”, salvo riacutizzazioni della sintomatologia, in una completa progressiva dipendenza dai familiari che decidono per lui sempre più designato come  malato di mente, oppure gli psicofarmaci non ottengono questo risultato, si scatenano continue crisi acute e lo psichiatra decide allora che è indilazionabile il ricovero in luogo adatto, in un reparto psichiatrico “ma forse sarebbe meglio in una Casa di Cura, lì posso seguirlo personalmente io, se siete d’accordo” “ma le pare, professore, certamente, noi abbiamo fiducia in lei”. Poi dalla Casa di Cura quelli la cui famiglia non poteva permettersi di pagare finivano in manicomio. Questa era la trafila e presso a poco è analoga anche oggi.

                Ed eccoci all’acqua. Emarginato, rinchiuso, guardato a vista.

                Una volta i ricoverati erano considerati tutti, per legge, “pericolosi a sé ed agli altri” pertanto veniva consentito di usare soltanto il cucchiaio per mangiare e di solito si mangiava con le mani, provate a mangiare col cucchiaio gli spaghetti che normalmente venivano serviti , i piatti ed i bicchieri erano di alluminio ( in qualche reparto del manicomio di Firenze soltanto verso il ‘70 si cominciò ad usare piatti di ceramica, bicchieri di vetro, forchette e coltelli ma con grandissima resistenza da una  parte del personale dell’ospedale) alte mura circondavano spazi ristretti dove era permesso prendere un po’ d’aria, i gabinetti non potevano essere chiusi dall’interno, tutte le porte errano sbarrate da enormi chiavistelli, i più inquieti erano legati al letto o rinchiusi in particolari celle con tanto di spioncino alla porta, inferriate alle finestre, senza letto, si potevano ferire, in terra una materassa ripiena di alghe secche se non il materasso ma un cumulo di alghe secche, il cosiddetto “vegetale” ; nel reparto dei “sudici”, nel manicomio di Firenze c’era quando vi entrai, la pasta asciutta veniva scolata sul pavimenti i “sudici” la mangiavano con le mani, tanto erano “sudici” e come non potevano essere?, li ho visti io con i miei occhi e non c’era verso di fare smettere quella usanza.

                La differenza fra tale luogo ed una prigione vera e propria stava soltanto che in manicomio bazzicavano gli psichiatri ed i secondini erano chiamati infermieri il cui compito essenziale era quello di non far scappare nessuno, di badare che nessuno si suicidasse, di impedire gli inevitabili disordini e di sedare in qualsiasi modo le intemperanze.

                E non basta; oltre alla esclusione dal mondo  e la reclusione in un luogo siffatto non si dimentichi che i “malati” erano criminalizzati, iscritti nel casellario giudiziario senza diritti civili.

                Senza parlare delle “cure” denunziate anche da Giacomo, la contenzione a letto o con la camicia di forza, la strozzina.

                Questa è stata l’esperienza di Giacomo e di quelli che come lui sono stati rinchiusi in manicomio. Per tanti malauguratamente un progressivo adattamento all’ambiente, era così che si producevano i cosiddetti “istituzionalizzati”. D’altra parte “istituzionalizzati” diventavano a lungo andare anche gli infermieri manicomiali.

                E’ da domandarsi se proprio questo è il modo di risolvere i problemi dei pazienti e delle loro famiglie. Perché nel più dei casi anche la famiglia incolpevolmente soffre in questa situazione; oltretutto tante volte da fondo a tutte le proprie sostanze.

 

                Per tornare doverosamente sul problema degli psicofarmaci, già in precedenza accennato si deve riconoscere che negli ultimi cinquanta anni sono stati un grande progresso in psichiatria, si cominciò nei primi anni ‘50 del secolo scorso col Fargan, poi col Largactil che ne seguì e tutti gli altri fino ad arrivare agli psicofarmaci depot, una iniezione aveva effetto per 15-30 giorni. Hanno permesso di acquietare gli agitati senza legarli al letto, hanno potuto offrire un po’ di tranquillità a tanti stemperando la loro angoscia, ammansendo le chimere dei loro deliri, annebbiando la percezione delle loro allucinazioni senza tuttavia portare al rinsavimento sperato essendo la loro azione, come già detto, puramente sintomatica, come l’aspirina che può calmare il mal di denti ma che non cura la carie o la periodontite o gli ascessi dentari.

                Però tralasciando gli effetti secondari alle forti dosi, il camminare come un burattino, come un ebete dallo sguardo assente, dal volto inespressivo, dai movimenti rigidi e lenti, la parola inceppata perché la lingua non si articola bene, la saliva che smoderatamente secreta fuoriesce dalla bocca che non la può contenere né può essere inghiottita per la mancata coordinazione della muscolatura del cavo orale, si deve anche tener presente che nell’uso degli psicofarmaci vi è un’altra implicazione di fondo: è che rinforzano giocoforza la designazione di “malato” di chi manifesta il “sintomo”, la designazione di “diverso dagli altri”, lui solo da curare, le medicine le prendono i malati; così i parenti, gli amici i curanti stessi si confermano nella loro convinzione che è nel cervello malato del paziente la causa della malattia, sono le sue degenerazioni cerebrali che devono essere guarite tramite gli psicofarmaci.

                Il disturbo psichico, che in realtà è la manifestazione di un disagio relazionale retto da modificazioni funzionali dell’attività cerebrale e non da alterazioni anatomo patologiche del cervello, viene visto col paraocchi della “malattia mentale”, le relazioni distorte vengono scotomizzate, nessun altro è chiamato in causa all’infuori di chi è “curato”; i parenti devono convincerlo a “curarsi”, devono portarlo dallo specialista, devono acquistare gli psicofarmaci e farglieli prendere, alle ore ed alle dosi  prescritte oppure se le cure a casa non danno un buon risultato devono portarlo in Casa di Cura o all’Ospedale. Tutto questo senza sentirsi direttamente implicati anzi, in buona fede, con l’avere la coscienza tranquilla, “abbiamo fatto tutto il possibile, tutto quello che ci è stato detto di fare, ma purtroppo la Scienza non ha ancora trovato il rimedio giusto”.

                Per quel che riguarda il nostro Giacomo sono state tentate su di lui tutte le terapie farmacologiche possibili col risultato che alla fine stava meglio senza tanti psicofarmaci, senza le terapie di shock, la contenzione e l’internamento coatto. Ciò appare chiaro leggendo la cartella clinica dalla quale si trascrivono le note salienti in proposito:

 

                26/10/60   Un ciclo di Faseina non ha migliorato le condizioni del paziente”

               

                “24/1/61     Ha compiuto terapia con cocktail (sic) litico senza alcuna  modificazione delle condizioni psichiche”

 

                “17/7/61     Attualmente non fa cure anche a causa del sistematico rifiuto;  mentalmente è assolutamente invariato”

 

                “1/9/62      Sta facendo Liranol 100+ 5o mg. intramuscolo da 15 giorni .

                                    Da oggi Talofen 100mg. + Faseina 1mg. al giorno”.

 

                “1/10/62     Il paziente si è procurato due ferite alla mano destra rompendo un  vetro  per protestare  contro la terapia, è eccitato, delirante, a tratti incoerente.

Viene fermato”.

 

                “3/10/62     Eccitato, clamoroso, deve esser contenuto. Largactil 1 fiala”.

 

                “17/10/62   Si scioglie, è però sempre eccitato. Prosegue Nozinan 1 fiala, 2  volte al dì + Cortiplex. Delirantissimo”.

 

                “11/1/63      Invariato nonostante l’assunzione di 300 mg. di Melleril. Chiede e   deve essere contenuto perché rompe, se libero, vetri. Sospende Melleril retard ed inizia Serenase 2 fiale”.

 

                “25/1/63     Immodificato”.

 

                “30/1/63     Si passa a Liver Atox (un epatoprotettore). Cessa Serenase”.

 

                “6/4/63       Sta assai bene dopo terapia con Liver Atox. Supplica  continuamente che non gli facciano cure neuroplegiche.

 

                “30/4/65      Da molto tempo non prende nessun neuroplegico, con notevole  vantaggio, è più sereno, meno inquieto, meno aggressivo”.

 

                “12/2/67      Dopo 4 giorni di terapia con Faseina 2,5 mg. al dì appare in   terribile stato di ansia”.

 

                “20/12/73    Il paziente rifiuta ogni tipo di terapia, si tenta a sua insaputa, la   somministrazione  di Serenase, 10 gocce 2 volte al dì”.

 

                “15/1/74     Ha saputo che gli viene somministrato il Serenase, è diventato subito ansioso, inquieto, scrive lettere chiedendo che gli venga tolto  ogni farmaco”.

 

                “1/2/74      Nuovamente tranquillo da quando siamo stati costretti a togliere il  Serenase”.

 

                “20/5/78     Condizioni invariate. Rifiuta ogni terapia.

 

                Illuminante una delle ultime note in cartella, siamo alla fine del 78, nella quale si indica la vera terapia, l’unica terapia che giova a Giacomo, quella che tante volte aveva consigliato e richiesto; egli chiede sì carta da scrivere e palazzi da abitare ma con la nuova terapia ha raggiunto un comportamento sociale tranquillo ed accettabile:

 

                “27/12/78    Condizioni psichiche invariate, fisicamente in buone condizioni, Da quando il reparto è aperto esce regolarmente per i viali ma non si allontana dall’ospedale. Chiede carta da scrivere e palazzi da abitare”.

 

                L’imbeccata finale dello psichiatra del reparto che ricorda come ancora Giaoomo sia pazzo fa capire che per dimostrare di essere sano di mente dovrebbe essere contento di vivere nel manicomio e non desiderare una casa propria.

 

                Ma torniamo a bomba, torniamo a Giacomo comproprietario di una casa a Roma e destinatario del 20 % di due pensioni. In cartella ho trovato la relazione di una assistente sociale del maggio 1976 in cui si legge:

 

                “Il Tarantini è ricoverato in Ospedale Psichiatrico da vari anni, proveniente dall’Ospedale Psichiatrico di S.Maria della Pietà di Roma con diagnosi di schizofrenia,

                La sorella Bianca Rosa Tarantini, residente in P.zza della Posta Centrale n°110,Firenze è l’unica dei familiari che mantiene rapporti con il paziente in oggetto.

                Risulta che fino ad un anno fa inviava al reparto dove è ricoverato il fratello L.15.000 mensili più due vestiti e due paia di scarpe l’anno.

                Da vario tempo effettua telefonate al caporeparto dicendo di non poter fornire al fratello più di L.10000 mensili che direttamente vengono versate all’Economato dell’Ospedale.

                La sorella viene a trovarlo due volte l’anno.

                Il paziente è ricoverato coatto, non esce mai dal reparto e da vari anni non è rientrato in famiglia neppure per brevi periodi”

 

                Incredibile ma questa era  la prassi consueta dei familiari dei ricoverati, se questi avevano dei beni ed una pensione il tutto veniva gestito dai familiari i quali portavano in manicomio qualche pacchetto di sigarette e qualche migliaio di lire ed il resto se lo tenevano per sé. Nessun giudice tutelare si interessava se al ricoverato venisse dato ciò che gli spettava legalmente né si faceva diversamente da chi lo “curava”.

                Giacomo aveva una casa dove andare, la chiave di un edificio di abitazione intestata a lui sui libri notarili vi è indicata, l’ha ereditata dal padre insieme alla matrigna ed all sorellastra ma il fatto gli è stato nascosto, gli si è fatto credere che sia stata demolita, Giacomo è “malato, è “incapace di intendere e di volere”, anzi “è pericoloso a sé ed agli altri, perché dirglielo? gli si potrebbe recare un dispiacere, potrebbe peggiorare chissà quali guai avrebbe combinato “a causa dell’infermità che l’ha colpito da tanti anni e che è tale, tuttavia, da non consentire allo stesso di attendere con consapevolezza e discernimento alla amministrazione del suo modesto patrimonio”, avrebbe potuto malauguratamente esigere che fosse venduto l’appartamento per avere la sua parte spettante, avrebbe potuto controllare l’importo delle due pensioni.  Che premura! Quanto riguardo! quanta preoccupazione per il suo modesto patrimonio che permette alla sorellastra ed alla matrigna di vivere alle sue spalle!

                Ma perché quando si è letto a chiare note come fosse veramente la situazione economica di Giacomo non si è intervenuto denunziando la sorellastra tutrice di furto continuato, perché non si è nominato un tutore onesto, se davvero Giacomo aveva bisogno di un tutore?

               

                Giacomo resta a passeggiare nei viali del manicomio in compagnia della sua amarezza e delle sue strampalate fantasticherie. Pensa sempre di andar via da quel luogo, andare da qualsiasi parte ma non restare lì.

                Scrive ancora, su fogli di vecchi encefalogrammi che qualcuno gli procura, scrive sempre per chiedere aiuto a non rimanere in manicomio. Una delle sue ultime lettere che mi è stata passata è diretta ad una Carmen Catalano Todisco alla quale ha scritto altre volte che, a quanto scrive Giacomo, ha diretto una casa di cura psichiatrica e per tale ragione sarebbe “Professoressa del modo di uscire da situazioni” come la sua ed alla quale nell’indirizzo attribuisce il titolo di marchesa.

 

                                “Illustrissima Signora,

                “io le scrivo da Firenze affinché Lei faccia il progetto di farmi uscire dal Manicomio di Firenze (dove mi chiuse una mia zia maligna e pessima). Come io le scrissi nelle lettere precedenti, io sono con libertà limitata in Firenze, e sono nel Manicomio come ricoverato da anni ventidue e da anni trentadue in modo complessivo.

                Mi rivolgo a lei che è Professoressa del modo di uscire da situazioni come quella che descriverò nelle righe seguenti. Scritto questa lettera io esco ad impostarla essendo il luogo ora fortunatamente a “porte aperte”.

                Io sono nel Sesto Reparto Uomini Misto del Manicomio “Vincenzio Chiarugi” il cui cancello complessivo è in via San Salvi n°12 in Firenze, in Italia, in fondo a via Lucrezia Mazzanti, io sono (mi trovo) in tale luogo con le seguenti circostanze avverse:

                1) Mi trovo assolutamente senza Edificio di Abitazione e senza valuta in mano per comprarlo da un Ingegniere dell’Edilizia.

                2) Mi trovo assolutamente senza Biglietti di Banca nel seguente senso che stando nel luogo dove io mi trovo non mi giungono né lettere, né plichi contenenti denaro, e neppure comunicazioni postali, ossia Lettere di solo scritto, esse vengono fermate in portineria e in Direzione e non mi vengono date.

                In questo modo non posso uscire dal Manicomio, purtroppo, nemmeno tra mille anni, quindi incarico Voi, Signora, di venirmi a trovare, ed esaminata la mia situazione di fornirmi un Libro Notarile di Edifici e le chiavi del portone degli Edifici elencati nel Libro, che chiedo mi venga dato in mano a me stesso in modo visibile.

                Non deviare assolutamente questa ordinazione di Edifici e di Armi verso altre persone perché mi occorrono assolutamente a me e non ad altri.

                Ho notato che ci sono Macchine Deviatrici degli Affari, che purtroppo provocano la mia rovina.

                Inoltre che il Libro Notarile di Edifici e le Chiavi, a me, occorrerebbe in mano e non in ripiani diversi e invisibili del luogo.

                Pregiatissima Signora mi venga a trovare nel luogo che le ho indicato e mi estragga fuori del Manicomio con tutta la Valigia e se non fosse possibile fuggire all’Estero in Aereoplano, mi ricoveri in “Villa Santa Rita” per un anno, evitandomi, come è ovvio, l’elettrosciok, ed evitandomi il “Parco delle Rose (che è sulla via Aurelia che è micidiale) come lei sa benissimo. Io successivamente Le scriverò in Carta Bollata affinché lei possa prelevare dal mio Stipendio Nobiliare di Stato i biglietti di Banca necessari a pagare quello che ho chiesto; lo chiederò  al Ministero del Tesoro degli Stati di Germania e degli Stati del Continente Asia (dai quali io araldicamente derivo).

                Si legga tutte le mie lettere e mi venga a trovare; io ho scritto sette volte fino adesso alla “Villa Santa Rita che è in via Cilento N°5 oppure in via Cilento N° 3 in Roma, alla Direzione di quel luogo della quale Lei, credo, fosse Dirigente del Tempo.

                Molti saluti con migliore stima mi firmo con il nome come sono iscritto nel manicomio

                io stesso Giacomo Tarantini, nato anno 1931 figlio di Francesco, ed essendo Dittatore e Grande Ammiraglio nella Storia Antica con il nome vero ignorato (forse) nel Manicomio che è in Lingua Tedesca e in Lingua  Orientale Antichissima

                io stesso Giachomho Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh 1°, con sedici h e in Lingua orientale Sanscrito Tre volte Ultra-Antica.

 

                Non può smentirsi. Deve sempre parlare di cose ovvie con parole altisonanti che danno corpo a pensieri stravaganti che mascherano i suoi umani bisogni come la sua altisonante e bislacca firma maschera la sua impotenza. E scrive, scrive; una volta la settimana al Direttore e gli consegna a mano la lettera in occasione della visita settimanale al reparto.

                Lettere meno roboanti di quelle di una volta, meno complicate, firmate sempre con le sedici h, le armi restano un suo impellente bisogno ma non vuol più fare la  guerra, la relativa libertà raggiunta gliene ha tolto la voglia  e la necessità; al guerriero in disarmo semmai gli servirebbero solo per difendersi se qualcuno decidesse di costringerlo a soffrire di nuovo il calvario già esperimentato. In una di queste, spassosa come involontariamente sa essere Giacomo nel suo malinconico strascicarsi la vita, così scrive:

 

                “...Sono in Manicomio perché privo di edificio di abitazione. Mi occorre un palazzo in Cemento Armato e Armi.

                La “specie” di mia sorella che risponde al telefono è di tirchieria enorme, io non ho bisogno di conservare Capitali ma di  spenderli in Armi assolutamente, quindi fatela sostituire.

                Importante: ho notato che nei dintorni non c’è neppure un negozio d’Armi, e siccome io sono Armatore, Ingegnere, e oltre, ne sono preoccupato assai

                Io sono un uomo di studi di Guerra e di affari e di Armi. E mi occorre un Edificio con Cassaforte, e molti fucili lungo le pareti, e garage con Carro Armato. Non deviare da me ciò che è Armi, Macchine, Edilizia, Fortezze.

                La sorella che risponde per Telefono è negativa e non procura Libri Notarili di Edifici neppure a spararla. Come debbo fare a ottenere tutti gli armamenti e uscire dal Manicomio?

                Letterale assolutamente e nello stesso senso. Sono l’Ingegnere Assoluto d’Armi Artiglieria Imperatore e Condottiero

mia firma: in Lingua Orientale e non Italiano

                Giachomho Whohnh Taranthinhi Huhnhnhoh 1° (con 16 h)

detto ing. Giacomo Tarantini (io circa Attila, nella politica)

 

                Pure se rattristati per la tragedia del suo destino ed addolorati rendendoci conto del suo costante vivere nella paura di essere nuovamente imprigonato non ci si può reprimere dal ridere leggendo di quel suo cercare armerie nei dintorni del manicomio e del suo rammarico di non trovarne, del suo desiderio di avere una casa in cemento armato (sic)  con i fucili appoggiati alle pareti e col carrarmato in garage!

 

                Alla fine Giacomo esce dal manicomio per essere accolto in un ricovero a Firenze,in via Orcagna. Da lì scrive una lettera al ProF. Nistri che per Giacomo resta il mandatario ufficiale del suo destino.

 

                “In queste mie righe dico che di salute sto bene. Attualmente io abito nel Ricovero di via Orcagna N°”4 Firenze che è adiacente al Lungarno del Tempio in Città.

                Purtroppo mi sono accorto che non vengo rifornito di denaro e di questo io sono assai preoccupato. Chiedo che facciate un piano finanziario per farmi rifornire di Denaro (telefonando a mia Sorellastra essa era di umore impossibile e con le macchine purtroppo voltate a fare spendere milioni in Telefonate, e inoltre ho capito c’è ottica di segnalazione che ostacola purtroppo il giungermi del Denaro. Levare quindi i segnali sfavorevoli.)

                 Chiedo quindi che venga attivata la situazione finanziaria. Distinti ossequi

                MIA FIRMA: io stesso Giacomo Tarantini

                MIA FIRMA: io stesso Giachomho Taranthinhi mio nome da scriversi in Tedesco e in Lingua Orientale.

 

Biglietto ben comprensibile pur in quella forma particolare e personale di Giacomo. Non chiede più armi, non ne ha più bisogno, per uscire dal manicomio; non chiede più Palazzi di Abitazione con relativi Libri Notarili perché bene o male ha trovato dove vivere fuori del manicomio: gli manca soltanto un po’ di soldi e non milioni, non miliardi, non assegni esponenziali, solo un po’ di denaro. Avverte che la sorellastra non ha intenzione neanche di ascoltarlo perché è “con le macchine purtroppo voltate a fare spendere milioni in Telefonate”, si accorge che la sorellastra non vuole dargli ciò che lui chiede, “ho capito che c’è ottica di segnalazione che ostacola purtroppo il giungermi del Denaro” . Ma nessuno ha fatto niente perché a Giacomo fosse detto come stavano le cose e che gli fosse dato quel che gli spettava, si poteva esigere che la casa in Roma fosse venduta e dargli la  parte che gli spettava per legge, si poteva togliere alla sorellastra la gestione di quel 20% delle due pensioni( e di più se la matrigna fosse morta), si poteva ben dirgli che era meglio farla finita di cercare aiuto nella sorellastra.Nella ambiguità del “doppio legame” in cui è rimasto giocoforza, uscendo dal solco, pensa a macchinazioni strane ed a particolari ottiche di segnalazione.

                Giacomo sa comunque che per avere il suo dalla sorellastra è necessario un intervento di qualcuno che abbia più potere di lui, quel “piano finanziario” cui accenna.

 

                Ha perduto tutta la sua falsa boria, ha dimenticato qel suo sognare di essere il Consul, l’Imperator, l’Ammiraglio, il Dittatore dellUniverso, si è adeguato ad una vita di umile pensionato; nella firma sono scomparse le sedici h nobiliari, è

ritornato alle lontane quattro. Forse ne ha ancora bisogno per sopravvivere, lasciamogliele.        

                Povero Giacomo!

 

   

  SUPREMO

 

 

 

 

                                                                                              “ma per tuguri ancora e per fenili

                                                                                              spesso si trovan gli uomini gentili.”

                                                                                                             (Orlando Furioso, canto quartodecimo, stanza LXII)

 

 

 

                “....L’eticità è il compimento delle spirito oggettivo, la verità dello stesso spirito soggettivo ed oggettivo. L’unilateralità dello spirito oggettivo è nell’avere la sua libertà, da una parte, immediatamente nella realtà e quindi nell’esterno, nella cosa; dall’altra parte, nel bene in quanto universale astratto. Anche l’unilateralità dello spirito soggettivo consiste in ciò che esso, di fronte all’universale, è astrattamente auto determinante nella sua individualità interna. Soppresse queste unilateralità, la libertà soggettiva diventa il volere razionale universale in sé e per sé, il quale ha il suo sapere di sé e la sua disposizione d’animo nella coscienza della soggettività individuale, ma la sua attenzione e la sua realtà immediata ed universale nel costume dell’ethos; onde è la libertà consapevole di sé, diventata natura.

                La sostanza che si sa liberamente, in cui il dover essere assoluto è altresì essere, ha la sua realtà come spirito di un popolo, la scissione astratta di questo spirito è l’isolamento in persone, della cui indipendenza esso costituisce l’intima potenza dominatrice e la necessità. Ma la persona, come intelligenza pensante, sa la sostanza come sua essenza propria; cessa tale disposizione d’animo di essere un accidente di essa; da una parte, la contempla quale suo scopo finale assoluto nella realtà come un di là raggiunto; e, dall’altra, mediante la sua attività lo produce, ma lo produce come qualcosa che semplicemente è. Così compie, senza la selezione selettiva, il suo dovere come il suo e come tale che è; e, in questa necessità, la persona ha sé stessa e la sua libertà reale.”

 

 

                “.....Il rapporto della ragione colla realtà umana è un’esperienza di una profonda ragione, che parte ed ha inizio da una convinzione della vita genuinamente umana ed interiore in cui si rispecchia, l’amore, e la convinzione della propria condizione rispetto agli altri e rispetto alla dignità e la libertà altrui nel rapporto interiore e personale, in cui la propria personalità si evolve e si matura obbiettivamente ed organicamente rispetto alla propria volontà nei riguardi anche della dignità altrui nel rispetto della condizione umana come espressione della propria filosofia, in cui le attività umane si trovano a confronto, nella profonda armonia del mondo in cui si realizza e si armonizza armoniosamente il piano della ragione che è il bene più prezioso, oltre alla libertà, che possa compensare nell’uomo il suo bisogno di vivere e di trovare sempre nuovi impulsi vitali per affrontare da uomo ciò che nel mondo fa parte dell’uomo con tutti i benefici che la vita può offrire, ché nel suo mondo l’uomo racchiude la sua anima e la sua ragione redenta, rendendo il terreno fertile perché la vita sia propizia e da questo che attraverso una scelta l’uomo si può imporre coi soli propri mezzi rispetto alla vita affrontando gli eventi con obbiettività e ottimismo e costanza, pieno di volontà di esistere per il mondo, in cui nella sua anima è racchiuso il segreto e il seme, che germogliando darà frutti in abbondanza e nella buona volontà racchiusa nel cuore della terra, e nel mondo in cui l’uomo deve vivere insieme agli altri per il bene di ognuno, specialmente nel caso in cui ai poeti manchi la pace, cioè in un mondo in cui l’iniquità trascenda il bene.”  

 

 

                Due scritti densi e contorti, e per seguire il bandolo bisogna fare sforzi e violenza a sé stessi. letta la prima frase viene la voglia di mettere tutto da parte e rinunziare alla lettura. Non appartengono alla stessa persona anche se, a prima vista, si rassomigliano nella esteriorità della forma ma un lettore, coltissimo e scrupoloso e specializzato, che abbia buona memoria e sia esperto in filosofia si può accorgere che uno scritto è di Hegel, il primo, ed il secondo no. Perché il secondo è del nostro amico filosofo, e non solo filosofo, il Conti Supremo, il cui amore per la filosofia, almeno così sembra, purtroppo l’ha portato come si usa dire “alla nostra osservazione”.

 

                “(dal padre) Un cugino del padre è da tempo in ospedale psichiatrico. Figlio unico, nato col forcipe, primo sviluppo regolare. Scuole tecniche. “Capiva, ma si applicava poco, sempre mesto, isolatissimo, appartato”. Vari traumi nel corso della fanciullezza-adolescenza., sembra non cranici. A 14 anni tossicosi con stato confusionale.

                Dal dicembre 64 i parenti si accorsero di inquietudine e di incongruenze psicomotorie del paziente; interrompeva a metà gli atti; non voleva vedere i quadri dipinti da lui e li rompeva; era del tutto taciturno; voleva stare al buio. “Aiutami” disse alla madre, “sono un uomo finito”. Gli ultimi tempi non si lavava né si pettinava, tendeva a stare a letto. Spesso si guardava di continuo allo specchio.

                Nel febbraio fu ricoverato a Poggio Sereno per pochi giorni. A casa ebbe aggressività contro il padre; era ansiosissimo.”

 

                                Questo discorso, scritto nella sua cartella clinica dell’ospedale psichiatrico di Firenze in cui fu ricoverato all’età di ventun anni è un accozzo di verità e di abbagli, di speciosità (il cugino del padre da tempo in manicomio, il nascere col forcipe, i vari traumi “sembra non cranici”, la tossicosi, le incongruenze) che il padre, poveromo, porta allo psichiatra col desiderio di offrire una ragione del disturbo psichico del figlio ed, allo stesso tempo, parlando soltanto del figlio, dimostrare che soltanto il figlio è matto, solo lui, e così il padre si tira fuori dal gioco. E ci riesce, lo psichiatra che la pensa come il padre accetta, segna tutto ciò che il padre dice rispondendo alle sue domande, di tutto ne tiene conto nella convinzione che siano fatti importanti senza volerne sapere di più, senza volersi rendere ragione di cosa avvenga in casa di Supremo, delle relazioni all’interno della sua famiglia. Il matto è Supremo e questo basta. Con tali e gravi limiti la psichiatria tradizionale si è strascicata nella “cura” del disturbo psichico.

                Ma c’è di più. Lo psichiatra che redige la cartella non si accorge che involontariamente il padre gli fornisce la possibilità di capire come sia insorta e maturata la sofferenza psichica di Supremo, involontariamente gli sono stati offerti esempi veramente indicativi di un rapporto relazionale distorto fra Supremo ed i suoi genitori, non si accorge che nella frase “capiva ma si applicava poco” è racchiuso un modo distorto di comunicare fra i genitori e Supremo, un’espressione abituale nei suoi riguardi, infinite volte gli si saranno rivolti a quel modo, direttamente od indirettamente, quella frase è un preciso “doppio legame” che afferma mentre nega, che mentre nella prima parte asserisce che Supremo è intelligente nella seconda parte sconfessa ciò che prima è stato detto affermando che Supremo dovrebbe stare molto sui libri come deve fare chi non è intelligente. Un ragazzo che comprende alla prima gli basta applicarsi poco, si dice di solito che gli è sufficiente ascoltare la lezione in classe e pertanto non ha bisogno di sgobbare tanto sui libri; un ragazzo poco dotato intellettivamente sopperisce a quella deficienza con un maggiore impegno sui libri. Dunque, se Supremo capiva, se era intelligente, gli sarebbe bastato poco tempo per lo studio ma se avesse dovuto applicarsi molto voleva dire che non era intelligente.

                Senza contare che si interessava anche di Filosofia, materia non compresa nelle materie di studio per la scuola che frequentava, leggeva Nietzche ed altri autori dell’Ottocento, interesse che a sua volta diventava, per chi gli stava vicino, un sintomo di follia ed invece indicava il suo non sentirsi appagato dal tipo di scuola che frequentava, il suo mirare più in alto.

                Ma non è il solo “doppio legame” che affiora nelle parole del padre; anche per il dire “non voleva vedere i quadri dipinti da lui e li rompeva”, sarebbe stato necessario un approfondimento, non è un banale atto strambo bensì una risposta adeguata ad una situazione paradossale. Se si fosse indagato a fondo si sarebbe saputo che i genitori assecondavano, anche col fornirgli i mezzi, gli intenti artistici del ragazzo mentre costantemente definivano orrendi i quadri che il figlio dipingeva, per questo l’atto apparentemente incongruo di Supremo era una risposta congrua. Ricordo che una cara persona, grandissimo e disgraziatissimo pittore, finito un quadro, ed era stato continuamente importunato durante l’esecuzione dal committente che lo subissava di consigli, cancellò totalmente il quadro con rabbiose pennellate di vernice nera; povero Patrizio, anche questo atto contribuì a portarlo sotto gli elettroshoks. “Eppure”, si rammaricava il committente, “era un quadro meraviglioso chissà perché ha fatto a quel modo!” .

                Ma tant’è, il matto era Supremo, solo lui. Ci si può immaginare la scena del commiato fra il padre e lo psichiatra, infatti era sempre la stessa in analoghe situazioni, il padre avrà domandato, ( gli psichiatri sono sempre professori) “allora cosa ha mio figlio?”  e gli si sarà risposto con voce grave e preoccupata, gli occhi un po’ socchiusi, le sopracciglia stirate in alto, dondolando lentamente e lievemente il capo avanti e indietro il capo “caro signor Conti, si tratta di schizofrenia”. “E’ una malattia grave?” “Gravissima, purtroppo” e lo psichiatra avrà stretto la mano al povero signor Conti, gli avrà magari poggiato l’altra mano sulla spalla per fargli coraggio, con sul volto una stereotipata espressione di un mesto sorriso.

                Di solito, quando va bene, sono questi i dialoghi al termine delle formalità del ricovero nel luogo di cura di disturbati di mente.

                L’osservazione inizia subito e si annota in cartella: “Lucido, orientato, logorroico, subeccitato su base ansiosa con gravi e continue esperienze di depersonalizzazione autopsichica, con incongruenze ideative ed abnormi rapporti di significato”. Parole difficili per dire che sapeva bene di essere dove era (lucido ed orientato), che parlava molto (logorroico), che era ansiosamente inquieto (subeccitato su base ansiosa) che non si raccapezzava gran che del come era stato portato con la forza in quel luogo schifoso (le continue esperienze di depersonalizzazione autopsichica), che tentava invano di potersi rendere conto del perché con fantasiose interpretazioni (con incongruenze ideative ed abnormi rapporti di significato).

                Quattro giorni dopo si è più chiari: “Molto ansioso, batte la testa nel muro”.

                Iniziano gli accertamenti e le cure, subito un esame radiografico del torace, subito un elettrocardiogramma e gli esami del sangue per poterlo sottoporre quanto prima ad una serie di shok insulinici (a Spremo se ne faranno trenta di tali shok ed in seguito, nei successivi ricoveri, non verrà più sottoposto al trattamento insulinico bensì, diverse volte, all’elettroshok). l’isolamento dal mondo è completo. Non può uscire dal reparto, non può esercitare una qualsiasi attività personale, deve sopportare passivamente a tutto ciò che gli viene fatto.

                Ma lui, Supremo, come vive l’esperienza del manicomio, quali sono i suoi pensieri, i suoi sentimenti?

                Ce lo dice lui stesso in una lettera indirizzata allo psichiatra che l’ha tenuto in cura ed intitolata “storia della mia vita in manicomio”.

 

                “18.2.1965. Ore 1,30. Aspetto mio padre in preda ad una crisi depressiva collo scopo di ucciderlo.

                Ore 2. Appena tornato, subito preso da raptus omicida tento di aggredirlo, senza peraltro essere privo o totalmente privo di coscienza, la tragedia si svolge in pochi minuti, subito avvertita l’autoambulanza vengono a prendermi due infermieri vestiti di bianco.

                Ore 2,30. Mi trovo all’ospedale di S. Maria Nova per essere portato nel reparto osservazione, per esservi trattenuto, in attesa di decidere della situazione, mi rendo conto della gravità del caso, ed in un momento di drammatica lucidità penso dentro al mio pensiero, già consapevole del destino che mi attende. L’unione fra l’anima ed il corpo e la verità, come se intuissi improvvisamente la ragione della mia follia.

                19.2.1965. Ore 10. Vengo trasferito ancora mezzo intontito alla clinica dell’ospedale psichiatrico di S.Salvi di Firenze.

                Ore 11. Dopo aver ripreso parzialmente conoscenza mi trovo all’improvviso nella clinica, dentro il manicomio, i miei genitori dopo avermi accompagnato, scoraggiato io li guardo e mi salutano, e rimango solo e mi attengo a studiare la situazione, e mi viene da pensare cosa fossero i matti credendo in buona fede che quello fosse tutto il manicomio, ,perché per me lo era, e che lì ci fossero tutti i pazzi del mondo, e che fossero riuniti in quell’ambiente fatto come una casa, senza mobili, scambiandolo in apparenza per un padiglione in cui fossero rinchiuse delle persone, come si chiude dei cani in gabbia, era questo che mi opprimeva.

                Il giorno dopo, dopo aver dormito nel primo letto che mi avevano dato, cominciai ad essere pervaso da un senso di intollerabile oppressione, data la persecuzione degli infermieri, che per renderti il soggiorno più piacevole ti inzuppano di medicinali, allo scopo di disfarti l’equilibrio psichico ed umano di sopportabilità, anzi oltre la condizione psichica in cui mi trovavo e l’ambiente stesso mi causavano questa oppressione, finirono per degenerare, io che ero assolutamente sano di mente, in una vera psicosi, con mania di persecuzione, era l’inizio della schizofrenia, che dai sintomi, di agitazione psicomotoria, preannunziavano il crollo, la completa rottura della mente, anche in relazione al fatto ch’io non ero molto influenzabile, e anche in relazione all’insopportabile senso di claustrofobia, peggiorato dalla situazione di lager nazista od anche peggio, almeno essi avevano il diritto a morire, che mi opprimevano inesorabilmente, da quel momento mi resi conto di cosa voleva dire il manicomio e la repressione organizzata per fare perdere l’equilibrio e la rispettiva coscienza e dei limiti delle inibizioni che tu conosci, da quel momento ero diventato soltanto un pazzo, e forse anche peggio trattandosi della mia persona presa di mira dall’odio di tutti che vedevano in me il capro espiatorio e si organizzavano come belve per trarne vantaggio essi stessi, colla mia vita. Io mi ero creato in me, oltre il senso di colpa, della vigliaccheria umana, che non ha confini, in questo mondo di merde, al fatto di essere rinchiuso io un’anima tanto libera, un’indicibile forza manicomiale di mania di persecuzione.

                                                                               xxxxxxxxxxxxxxxxxx

Dal 20.2. al 17.3 65.

I giorni che seguirono furono tutti a questa maniera, non potevo vedere nessuno, e in preda a forti disturbi psichici e nel dramma profondo ed interiore non facevo niente per darmi pace. anzi soffrivo il mio dramma con profonda coscienza, perché io intuivo che non c’era altra speranza, o in quanto io non tolleravo assolutamente gli altri malati, e spesso quando la mattina dovevamo alzarci, alle 5 ancora nel sonno e ne eravamo costretti e ancora congestionati dagli psicofarmaci che spezzavano la mente privandone il più breve attimo di suspense emotiva, fatto di cui non ho saputo il perché, mi esento di fare credere alla bestia braccata, per motivi umani, e religiosi, mi fermavo alla finestra a guardare nel buio della notte, mentre un’aria gelida mi soffiava sul volto infreddolito e stanco, una nausea forte mi cresceva dal di dentro, io sapevo di non essere pazzo, ma non lo potevo dire a nessuno di questo mondo che mi aveva condannato senza pietà, mettendomi in mano a carnefici senza pietà  e giustizia e che voleva la mia vita in riscatto della loro.

                Come per Gesù Cristo nostro Signore che a causa di ciò che non abbiamo finito dopo secoli di odiarlo, io lo posso dire giacché grazie a Dio sono ancora vivo. Non possiamo dire male di nostro Signore se non a cagione dei nostri peccati. A metter fine alla religione ci penso io perché c’è il fatto che io sono l’Anticristo.

                Eppoi  arrivato al centrale, vengo destinato al terzo reparto uomini in cui subitamente vengo rinchiuso dentro, senza peraltro essere o non essere, messo al corrente degli sviluppi della situazione. La notte stessa, per una crisi nervosa, dopo aver richiesto di essere trasferito nel luogo peggiore del manicomio, come facessi a sapere questo non lo so, e come fossi arrivato a conoscerlo non so, so però che era un appuntamento col destino, io non conoscevo ancora l’ambiente e le strutture interne, ma come fossi arrivato a conoscerlo questo fatto mi meraviglia ancor oggi, nella vita ci sono fatti del genere di cui ignoro la vera natura, vengo preso quindi dopo la mia vocale richiesta e trasportato da due infermieri nella piena notte al sesto reparto uomini, come sapessi queste cose nella loro vera natura è un fatto inspiegabile, forse era soltanto intuizione o forse qualcosa di più. Allora il sesto reparto ere considerato il reparto peggiore, dove vi erano i pazzi incurabili e furiosi, come erano ritenuti, ma a me non sembrò, forse chissà perché quello era il mio ambiente naturale, congeniale alla mia natura, avventurosa e senza scrupoli di sorta e senza moralismi, a dire il vero l’ambiente era poco rassicurante, ma gli stessi internati quando mi videro mi fecero una calda accoglienza, sapevo chi fossero ma subito si familiarizzò affettuosamente.

                A causa della mia forte cultura intuitiva , io seppi subito intuire il rapporto che esisteva fra me e loro. ciò che in seguito hanno capito anche gli psichiatri, loro malgrado, e a causa della mia disonestà morale, che ha finito di coinvolgere anch’essi, nei miei panni. togliendo loro forse la giusta obbiettività che in questi casi è necessaria sopra qualsiasi altra cosa, che perfino gli internati dopo la prima infatuazione ne avranno trovato del danno, fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura. Perché nei casi della follia bisogna essere necessariamente anzitutto obbiettivi, come un orologio elettrico, e lasciare che la pazzia abbia il suo sviluppo, come anche io penso, e come essi stessi onestamente hanno ammesso e messo in pratica, questo devo dirlo, in tutta onestà, nelle mie piene facoltà mentali ed  intellettive.

                Dunque appena mi videro subito mi corsero incontro, affettuosi e comprensivi. Poi il resto è noto a tutti nell’ospedale chi io fossi, ma questo lo devo dire in onore ai medici che sono stati sempre molto buoni e tolleranti, specialmente nel manicomio di Firenze, che io penso si distingua fra tutti i manicomi d’Italia per innovazioni che vi sono state apportate a vantaggio dei ricoverati, che l’arte medica in questi casi pietosa e umana deve ottemperare, in favore di chi non si può difendere dalla vita, e in questo senso io forse li ho traditi, ma sento che è mio preciso dovere  dire questo, anche se non verrò creduto sulla parola, E in onore dei medici va tutto il merito perché a parer mio, hanno saputo capire a fondo queste anime sciagurate. Dio onnipossente abbia misericordia di noi tutti. Distintamente la saluto.

                                               Conti Supremo

P.S. Però una cosa è certa in tutto questo discorso, nel mio caso non furono capiti i misteri segreti di Dio.

Dato che oggi l’arte è a scopo politico, le opere d’arte le terrò per me. Per beneficenza e per amore del prossimo non si fa nulla, aggiornatevi, oggi è tutto fatto in due”.

 

                Pagine quanto mai sconvolgenti e crude. E vere. Non dobbiamo farci distogliere da quel “a mettere fine alla religione ci penso io perché c’è il fatto che sono l’Anticristo” e dalle  a prima vista fumose espressioni finali circa il rapporto fra lui e gli altri ricoverati che in altre lettere chiarisce. Il resto è orridamente coerente ed adeguato, è terribile testimonianza della violenza subita coscientemente senza poter fare nulla per opporsi, poteva solo battere la testa nel muro, non un modo di dire ma reale ed adeguata reazione all’esperienza che gli toccava subire. Precisa è la testimonianza dell’effetto degli psicofarmaci, acute le osservazioni del modo di fare degli infermieri, penetrante il ricordo dei locali “quell’ambiente fatto come una casa senza mobili”. Come non pensare di non essere perseguitato se uno è costretto a subire quelle violenze, in quella “situazione da lager nazista o forse peggio”? Resta impressa l’immagine di lui, immobile alla finestra, a guardare il nulla nel buio della notte gelida, le cinque del mattino, senza poter dire a nessuno, nessuno l’avrebbe creduto, che lui non era pazzo, che lui era condannato senza colpa, che era in mano di carnefici senza pietà, come Gesù Cristo messo in croce dall’odio e dai peccati degli uomini. E le sofferenze continuano anche dopo la dimissione a causa dei malvagi giudizi e pregiudizi della gente, “io lo posso dire giacché grazie a Dio sono ancora vivo”. Ed è commovente l’incontro con i disgraziati rinchiusi nel sesto reparto che gli vanno incontro affettuosi e comprensivi, il reparto di punizione, il reparto dei furiosi e degli irrecuperabili, il reparto dei sudici, dove la pasta asciutta non si serviva nei piatti ma si buttava per terra in mezzo allo stanzone ed i sudici, tanto erano sudici, la mangiavano con le mani, proni sul pavimento come animali.

                Di quella esperienza tristissima ha un buon ricordo degli psichiatri dei quali tutto sommato ha stima e rispetto. Supremo non è stato un lungodegente nel manicomio, viene e va; i suoi scritti non sono “dal” manicomio, ma “al Manicomio, gli scritti li manda a psichiatri che ha incontrato nel manicomio, sono dal manicomio del mondo alla cittadella del manicomio.

 

                Ad un altro psichiatra scrive la lettera seguente, sullo stesso argomento, e ritorna a paragonare Cristo a sé stesso ed a tutti coloro che soffrono ingiustizie, una lettera breve nel cui finale, nel firmarsi, riaffiorano le sue letture filosofiche:

 

                “Il mio passato appartiene alla morte. Ed è solo il ricordo che non riesco a cancellare perché io ho pagato con la mia stessa vita ciò che ero, mi si chiede, mi si chiede, per il riscatto della mia stessa esistenza è il prezzo dell’assassinio. Giuda vendé Cristo ai suoi carnefici per 30 denari, è la solita vicenda ma i veri colpevoli furono chi in silenzio parlò e ne godette, della morte dell’uomo. Oggi è la medesima zuppa cambia musica ma i suonatori sono i medesimi. La vita è così. E’ la storia umana di Cristo che rivive nel figlio dell’uomo.

                                                               Così parlò Zaratustra”

 

                Da un’altra lettera emergono acute osservazioni sui manicomio, unico luogo dove paradossalmente i folli possono vivere ed i veri folli sono quelli che per viltà si adattano a vivere lì dentro, lettera inviata al Direttore del manicomio, dura ed aspra nei confronti degli psichiatri i quali, se in qualche modo si interessano dei pazienti fra le mura manicomiali, se ne disinteressano quando li abbiano dimessi:

 

                                “Illustrissimo Professore,

                Lei manda fuori gente clinicamente guarita ma dopo aver subito il martirio nel manicomio ne subiscono un altro assai peggiore fuori nel mondo esterno alle mura manicomiali.

                Le dirò in buona fede, Lei mi conosce, e sa, io credo che io sia, o sia sempre stato, una persona integerrima moralmente, e ne conosce le ragioni, quindi in tutta coscienza, comprende le motivazioni che mi hanno fatto passare anche giorni piacevoli in cui in qualche modo ero ben visto, perché non deve essere più a quel modo.

                Non mi sono spiegato ma fa lo stesso.

                Un caso come un altro, ma quanti sono questi casi, Lei è uno psichiatra e se ne sta comodamente nascosto dentro le sue mura e la sua omertà, anche se in buona fede ed in armonia, ma pur sempre carnefice della società che le mette in mano i mezzi della repressione e gli strumenti di tortura per gli errori commessi e per la merda che va tenuta sotto banco perché se no se ne sente il fetore.

                No, non è patologico tutto questo,  Lei mi comprende.

                Lei in tutta coscienza accetta questa società che si serve dei manicomi per imporre la paura e come strumenti di repressione organizzata come un esorcista al tempo delle streghe.

                Io credo di NO!

                Ammetto però che ne permetta la sussistenza e la sopravvivenza ed è anche appagato per questo servizio, per tenere in piedi i manicomi che sono nel complesso uno stato di membra umane distorte dai sofismi di molti, fatti pagare da pochi che la scontano per tutti.

                Io capisco che si viva in un sistema di cose, in cui anche lei personalmente, io penso, non possiate fare fronte alla mania di persecuzione della società.

                Ne convengo è un giro chiuso.

                Gente che viene mandata fuori dopo essere servita da cavia a farsi mangiare vivo sotto il nome di pazzo, nonostante che sia stato riabilitato è una vergogna ancora peggiore di coloro che ne sono gli esecutori.

                Ma i più, i più furbi sono come i lupi braccati, stanno chiusi in manicomio a vegetare ed a subire ogni umiliazione alla loro dignità, pur di non sortire all’aperto, accettando il loro destino passivamente e rinunziando alla vita come ultima speranza di sopravvivere a sé ed agli altri, trattati con vari sistemi e vari metodi che sono pagliativi e buffonate per non far scoprire la truffa come una caramella ad un bambino; che rispetto alla vera libertà i manicomi non dovrebbero esistere o per lo meno dovrebbero andarci chi manda gli altri per dare il buon esempio perché questa è pazzia, di coloro che dicono di non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te stesso, e predicano bene e razzolano peggio, la vera libertà che dovrebbe essere uguale per tutti gli uomini, e non cogito cartesiano della masturbazione cerebrale.

                Lei ora conosce il mio pensiero si tenga bene in mente che glielo ho detto.

                                                                                                             In fede

                                                                                                             Conti Supremo

P.S. Ammesso che non manchi l’acqua alla fontana. Se no l’eterna giovinezza andrebbe a farsi fottere, come la pietra filosofale e tutta quanta la filosofia. Uomo avvisato mezzo salvato. Questo vale per me. Comunque il presagio è di questa natura.

                                                               Conti Supremo, Anticristo.

                Voi fate la vostra politica io faccio la mia anche se sono solo e disperato. Ma cosa vorrebbero la gente che i pazzi li curano peggio per mangiarli meglio, giacché io capisco i vostri problemi.

 

                Il manicomio serve alla società , è servitore del potere, il manicomio “uno stato di membra umane, distorte dai sofismi e dagli errori di molti, fatti pagare da pochi che la scontano per tutti”, lapidaria definizione dei manicomi, di tutti i manicomi, anche di quelli aperti, anche di quelli che sono venuti e che verranno magari sotto altro nome dopo che burocraticamente, solo burocraticamente,  siano stati aboliti. Ma anche felice intuizione clinica, frutto della propria esperienza, circa la follia intesa come esito dell’essere un “capro espiatorio”.

                Penetrante poi e sofferta è la disamina della situazione di quelli che “dopo aver subito il martirio nel manicomio ne subiscono successivamente un altro, assai peggiore, fuori, nel mondo esterno alle mura manicomiali”, dopo essere stati dimessi. Resta il marchio d’infamia anche se gli psichiatri  hanno certificato il diritto dei pazienti di tornare nella vita civile. Cosa si fa per loro? domanda  Supremo, addirittura è inutile darsi da fare per aiutare una persona a ristabilirsi ed a superare le sue difficoltà se con irresponsabile  faciloneria si rimanda in quell’ambiente ostile che gran rilievo ha avuto nel disporre il ricovero. Supremo ha chiara l’intuizione che il disturbo psichico è un evento relazionale, che chi ne soffre non può essere avulso dal contesto in cui vive.

                Ma il vero malato di mente dice Supremo, il malato d.o.c. , è chi accetta di continuare a vivere in manicomio senza pensare di uscirne, ma anche scaltro ché, lupo braccato, ha trovato una tana per nascondersi agli occhi di tutti e sta lì a vegetare pur subendo umiliazioni, pur di non uscire all’aperto, pur di sopravvivere; la vera pazzia è di non affrontare la vita sociale; e ne hanno diritto. Aveva accennato a tale problema in una lettera precedente e ne riparlerà in altri scritti, lui ha lottato contro quella pazzia, la vera pazzia, avendo contro tutto quel mondo che della pazzia non ne può fare a meno. Cercò infatti di far cambiare idea ai ricoverati del sesto reparto; ma il tentativo di toglierli dalla apatica assuefazione del proprio destino ed all’ambiente manicomiale, lo sforzo di fare loro comprendere che avrebbero dovuto reagire e tornare a vivere insieme agli altri fallì, anzi fu per essi soltanto di turbamento  e ne soffrirono, “dopo una prima infatuazione ne avranno trovato del danno, fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura”.  Nel suo tentare di far cambiare loro idea sente di averli traditi “perché nei casi della follia bisogna essere necessariamente innanzitutto obbiettivi,  come un orologio elettronico, e lasciare che la pazzia abbia il suo sviluppo, come anche io penso, e come essi stessi onestamente hanno ammesso e messo in pratica”. Certamente ebbe scontri anche con i medici di reparto a questo riguardo ma alla fine “in onore dei medici va tutto il merito, perché a parer mio, hanno saputo capire a fondo queste anime sciagurate”. Lui infatti faceva una violenza sulla violenza tentando di rimediare alla violenza precedente, pensiero quanto mai saggio tenendo presente tanti maldestri tentativi datti in nome di una demagogica, illusoria, mistificante deistituzionalizzazione.

                Dice in un altro scritto:

               

                “.....allora sapete che vi dico, i pazzi hanno ragione; e perché non ragionano solo per il fatto che non pensano se pensassero vorrebbero essere diversi come è successo a me, se pensassero sarebbero di sesso diverso.

                E quindi la mia ricerca finisce; il resto ai posteri l’ardua sentenza. Il futuro ci attende rinnovato grazie a questo fesso non senza un destino.

                Lo sapete questo aneddoto: Ci sono i pazzi ! Io sono il più pazzo. Allora torna fuori?”

 

                A voler tornare fuori bisogna essere più pazzi dei pazzi. In fondo, sembra concludere, il manicomio è brutto finché non ci si adatta, è luogo di incomprensione e di violenza per chi voglia ed abbia bisogno di essere compreso e capito nelle proprie difficoltà esistenziali, è invivibile finché non ci si è arresi alle regole dell’istituzione ma chi accetta di considerarsi ed essere considerato pazzo lì ci  può vivere tranquillamente, anzi non può fare a meno di vivere lì dentro; del resto è analogo a ciò che avviene nel mondo “normale”, è anch’esso un manicomio, è anch’esso violento e crudele al quale ci si deve adattare. Supremo è il pazzo fra i pazzi, non si adatta né a questo né a quello, pur se il manicomio, quello vero, paradossalmente può essere per qualcuno un’ancora di salvezza o di sopravvivenza.

                Del resto Supremo l’ha sperimentato ché nella sua carriera manicomiale è andato più e più volte a farsi ricoverare spontaneamente, spesso senza neanche avvertire i genitori, senza che alcuno lo accompagnasse, dicendosi peggiorato; rientrava in manicomio perché la vita in famiglia ed in paese gli era diventata impossibile. Una volta che, sentendosi meglio dopo un periodo di degenza, provò a tornare a casa senza dirlo a nessuno del manicomio vi ritornò subito la mattina seguente. “Nella notte” si annota in cartella “ha un ripensamento”.

                In occasione di uno di tali ricoveri, “perché in paese non si trovava a suo agio, i ragazzini gli dicevano tu sei pazzo” così è annotato in cartella, deve subito tornare a casa perché la madre si precipita in manicomio e lo rivuole a forza con sé; lo psichiatra del reparto annota in cartella: “stamani la madre piomba in reparto, con strida e lacrime convince il paziente a lasciare il reparto perché è brutto e rivuole il ragazzo a casa. Il paziente evidentemente più in sesto della madre (sic) la accontenta e si scusa con lo scrivente per la dimissione”.

                Con ciò non si può dire che il manicomio sia o sia stato o possa essere un luogo di cura, non lo dice neanche Supremo. Supremo afferma che il manicomio è l’unico luogo dove i matti possono fare i matti e non possiamo dargli torto. Difatti, sono solito raccontarlo, una sera che ero di guardia venne a trovarmi in manicomio il carissimo Carlo Coccioli; passeggiavamo per i viali, era d’estate, non c’era anima viva, al dilà delle muraglie i padiglioni, qualche finestra illuminata, molte buie, molte dalla luce azzurrastra, i pavoni, nel manicomio di Firenze c’erano anche i pavoni, che urlavano le loro grida paurose ed allucinanti, solo chi le ha sentite sa quanto siano allucinanti; la prima notte che fui di guardia sentendo quelle terribili urla telefonai al portiere per sapere se qualcuno fosse torturato, “stia tranquillo” mi rispose, ”sono i pavoni”. Carlo, ad un tratto, pensieroso, mi disse: “Giuseppe, ma come fai a stare qui dentro?” “Guarda Carlo” e feci sull’erba una capriola. “Falla anche tu”. “No, sei pazzo? io non la fo”. “Allora ne fo un’altra io” E feci un’altra capriola. “Vedi Carlo” gli dissi” se io avessi fatto queste capriole in piazza del Duomo mi avrebbero portato quì dove posso fare le capriole”. Paradossalmente anche questo era il manicomio.

 

                Per i folli troppe volte la vita è ancora più dura fuori del manicomio, può diventare impossibile. lo ripete in una lettera all’amico psichiatra:

 

                “Pensate che c’è gente che mi considera ancora pazzo, perché non gli avete spiegato come stanno le cose, perché non avete detto loro che c’è gente che è diversa e possiede un altro cervello, e che la mente dell’uomo non è uguale per tutti gli ambienti. Quì al paese mi prendono ogni giorno più pazzo, ogni volta che procedo per il mio cammino. Allora aveva ragione il N. sulla vita e sulla violenza. Pensare che ogni giorno che passa e che mi rendo conto cosa sia veramente questa gente, e che prima non conoscevo pur restandone in buona fede, ogni giorno che passa mi preparano sempre più la fossa, negando nei loro cervelli marci ogni ragione ad uso umano. Date retta a me, ammazzato mi avete già una volta, due sarebbe troppo, date retta è l’ora di tirare meno la corda.

 

                Una richiesta precisa. La fa agli psichiatri che dovrebbero curare più i sani che i “malati”. Continua comunque ad aver fede nella vita anche se deluso. lo scrive al Direttore del manicomio:

 

                                               “Egregio Signor Direttore,

                Siccome io ho fede nella vita e penso che essa sia fatta a fin di bene, nonostante ci sia chi la odia, ma in questo credo fermamente di non aver torto. Anche se dalla ragione si può aver torto. In questo mondo c’è da spettersi di tutto, specialmente in questo mondo concepito a questo modo. Con esseri di diversa natura. Il che equivarrebe a dire che la pazzoa vada a riba, ed è l’unica cosa a cui nessuno sappia rinunziare, sia nel bene che nel male. Questa pazzia del cervello di chi se ne serve come strumento di oppressione.

                Ma da quale parte sta la ragione. Io non ci voglio pensare, pensare troppo fa male alla salute, e come diceva il filosofo è meglio prendere il nutrimento a filo d’onda e pensare più a sé stesso.

                                                               Distinti saluti

                                                               Conti Supremo”.

 

                Lettera umanissima e malinconica, Supremo sembra darsi per vinto, beati quelli che non pensano, pensare fa male alla salute.

                Insieme alla lettera che è del ‘76 invia al Direttore anche uno scritto di dieci anni prima, ad un anno dal perimo ricovero, un foglio di carta ingiallita dal tempo, l’inchiostro violaceo, scolorito, una confessione che parla del suo bisogno di certezze e di conoscenza fin da quando era un bambino e che lo portò a cercare invano nella filosofia le risposte,del ribollire dentro di sé aneliti generosi di darsi agli altri perché si sentiva ricco, più ricco di chi gli stava dintorno, fino a divenire consapevole di essersi ingannato:

 

                “penso che la mia vita negli ultimi anni è stata tutto un inganno cioè mi sono illuso di essere diverso, quello che riscontro ora è una mancanza di significato che trovo nelle parole, fin da bambino ero un carattere un po’ tragico e sono finito nella filosofia che ha portato non poca confusione nel mio carattere, mi posso portare a dire che colpa ce ne ho io se ho trovato nella folosofia quello che poi doveva essere tutto il corso della mia vita il carattere intellettuale e una vera pace per me che ho sempre donato quello che avevo dentro  riscattando così una tranquillità ed una serenità e da questo fatto ho risolto di base la mia vita. E ora mi trovo un disgraziato, insomma, per la maggior parte del tempo che ho trascorso mi è parso sempre di dover dare qualcosa ad ognuno per quello che in precedenza rispetto al valore noto io avevo ad aver che in analisi era la mia realtà psichica.

                Quello che ho appreso dagli altri è stato per me sempre un fattore noto”.

 

                Si è sentito diverso dagli altri. Nato in un paesotto pur importante ma lontano da Firenze nel quale è difficile essere accetto se non si sa adeguare alla mentalità comune, si dimostrò intelligente alle elementari tanto che i genitori lo fecero continuare negli studi iscrivendolo alle scuole tecniche, avrebbe dovuto diventare un perito industriale. I suoi interessi veri erano altri,  anche se andava avanti negli studi, era arrivato all’ultimo anno del corso, gli piaceva dipingere, aveva sete di verità, leggeva libri di filosofia il che agli altri, specie ai genitori, sembrava un’atto di pura pazzia ma Supremo sentiva il bisogno di cercare i perché, di frugare per scoprire le verità del mondo, per trovare il movente delle sue spinte interiori. Si infervorò così nella lettura degli autori tedeschi dell’ 800, Kant, Hegel, Shopenauer, sopratutto shopenauer; nel “Così parlò Xaratustra” Supremotrovò esposti i suoi aneliti le sue esigenze come delresto è capitato a tanti che in gioventù abbiano letto il libro, trovò la spiegazione del suo sentirsi diverso, sentì affermato il suo diritto di considerarsi migliore di chi gli stava intorno. Nel Superuomo si rispecchiò e si riconobbe. E cominciarono i guai. Disconfermato dai genitori infastiditi  dal manifestarsi della personalità del figlio, era preso in giro dalla gente del paese e dai compagni di scuola e dai paesani appagati dal quieto vivere e dalla proria ignoranza che schernivano quel ragazzo che con i suoi discorsi li metteva in crisi. Il non essere compreso ed accettato diventò per Supremo un tormento indicibile che si trasformò in ribellione anche violenta,  sognò di essere l’anticristo che avrebbe dovuto distruggere quel mondo di insulsi e di meschini. Fu così che perse il senno, fu così che arrivò al rapsus subito represso di uccidere il padre. “Pensare troppo fa male alla salute”.

                Agli psichiatri amici talvolta ha voluto far conoscere il suo pensiero inviando loro i suoi appunti filosofici. Eccone un esempio:

 

                “Il principio selettivo della metafisica è la ragione empirica dei pensieri intellettivi, se la mano sostituirà la passera del domani allora io sono l’anticristo in ragione del mondo da cui traggo questa ragione la verità ah come potrei dimenticare o credere alla fede se non potessi credere che io sono me stesso come potrei capire o follia del povero viandante ristorato dalla fede ardente di infinito che in esso trova rifugio ardente delle sue speranze e dei suoi pensieri che nome non hanno da sé stessi a sé stessi nell’ineffabile mistero che copre il velo della mente trovar rifugio e consolazione della speranza che si perde nel vuoto e nei pebnsieri  ritrova l’antica consolazione di perdersi in essi ancora una volta prima ancor di esistere, nella comprensione del prossimo e della coscienza a cui la ragione nell’oblio dimentica il passato che in sé rivive le dolci rimembranzedel tempo perduto della ragione che finì nel dolce oblio del sogno fugace che la rapì nella realtà dell’ultima speranza che sempre si rinnovò per l’eternità ancora una volta”.

 

                Un periodo senza punteggiatura che non finisce mai, imparato da Hegel. Un buglione di frasi in cui ci si sperde non trovando il bandolo del discorso, e viene proprio da ridere pensando a quella mano che in avvenire sostituirà la passera, pensando a quel suo essere l’anticristo in relazione al tipo di mondo che esige quella sostituzione. Ma leggiamo attentamente la scritto di Supremo, andiamogli più vicino cercando di affacciarci al suo dentro, forse capiremo di più, capiremo quel che ci vuol dire: che alla base della metafisica, cioè della scienza che studia l’essenza ultima delle cose e che cerca di spiegare il mondo e la vita al dilà delle conoscenze fisiche, sta l’esperienza intellettiva del pensiero (“la ragione empirica dei pensieri intellettivi”). Usando questa facoltà ci si rende conto che il mondo è lercio e ripugnante (“la mano sostituirà la passera del domani”) e che l’unica cosa giusta sarebbe che lui diventasse l’anticristo distruggitore. Detto ciò si ribella a questo pensiero, sente che può credere di essere ancora sé stesso, e perciò può dimenticare , può avere ancora fede, può capire . Solo la fede di uinfinito può ristorare il povero viandante che lui sente di essere, nella sete d’infinito trovano rifugio le sue speranze ed i suoi pensieri ineffabili che nome non hanno, misteriosi come la mente che li produce nel susseguirsi di oblio e di rimembranze che si mescolano al fluire di speranze deluse e di sogni inappagati che continuamente rinascono e si spengono ancora prima di rinascere; la sola realtà è la speranza, l’ultima speranza, che sempre si rinnova, all’infinito. Lo scritto è da essere riletto attentamente perché a parte il contenuto è splendida la forma, il lunghissimo periodare, personalissimo, senza soste, senza pause, un rincorrersi galoppante, un frangersi di pensieri, uno dietro l’altro incessantemente come onde marine sulla riva che mozzano il fiato per significarci la sua angosciosa solitudine. Ma chi l’avrebbe potuto capire se chi, aduso a leggere di filosofia, appena lo percepisce?

                Spiega meglio gli stessi concetti in un altro scritto che invia al solito amico psichiatra che intitola “l’anticristo. Il mondo è in disfacimento, sono tanti i grandi eroi che si sono dimostrati buffoni ed il mondo si va riducendo in una commedia falsa e vana; per questo è tempo di anticristo e lui è l’anticristo, segno dei tempi:

 

                                                                              “L’anticristo

                Se è vero che si vive in un’epoca di contrasti in cui i valori della vcita vengono diffamati se è vero che la pazzia è uma situazione che si rinnova attraverso simbiosi caratteriale sottoposta implacabilmente al giudizio della gente come col marchio d’infamia. Allora ciò non è giusto: Se la gente ha paura della coscienza e di un modo di vita in cui non capisce il significato in alternanza di un modo o di un altro, così non puòandare avanti.

E’ inutile diore che la gente capisce, non è vero, la gente generalmente non capisce niente , fra il capire e il non capire finisce sempre che qualcuno cimette lo zampino. E poi c’è una persecuzione particolare per questo tipo di conoscenza. Il mondo è ingiusto bisogna saper rendere al mondo quel che il mondo crede di non rendere conto, il mondo della Pazzia e il mondo dell’Ipocrisia. Oggi è il mondo dell’ipocrisia, è una vergogna perché a questo mondo un fatto è sicuro si muore prima del tempo, la società, si dice che comprende, ioo invece ho esperimentato che la gente non capisce niente, non c’è più cultura non c’è più genialità aq parte qualche caso, il mondo si va riducwendo ad una commedia fgalsa e vana. Molte sono le caratteristiche sociali ma di sostanzioso ci sta poco. Tutti chiaccherano ma pochi sanno intendere: insomma il Nazismo folle, il comunismo non esiste, il fascismo è ritenuto come il Diavolo, allora che rimane? L’anarchia, sì l’Anarchia, il mondo stenta a vivere perché sa che la fine è prossima ma non è detto che debba essere domani. Gli interessi egoistici dominano gli animi della gente che non ha saputo perdonare neanche a me la colpa di essere stato in manicomio, hanno preferito condannare per cause di egoismo una persona piuttosto di dover ammettere una disquisizione. La situazione è grave sono tanti i grandi eroi che si sono sdimostrati buffoni che la gente non crede più a niente ma volevano il Padre Eterno quello sta in cielo e non può accontentarli. Tempo di anticristo e di aspettative ma comunque esiste il paradosso fra le forze politiche e la realtà umana. Capisco la diffidenza della gente è ovvio ma più che paura è  male ed egoismo.

                Il mondo strutturalizzato non va più di moda allora perché non vibrarsi e tendersi come archi, tesi verso l’infinito, una cosa è certa tutto questo l’ha voluto il Padre Eterno.”

 

                E più sotto continua:

 

                “....La pazzia per me è sempre un bene io ricordo proprio bene il periodo della Pazzioa e non ne ho ricordi sconmcertanti anzi di un peeriodo di benessere. Ma comunque molti sono gli scettici, troppi sono i pesci che non vogliono abboccare all’amo e non essere pescati. Ho in braccio un bambino mentre scrivo, l’ingenuità fatta persona eppure non trovo niente di buono in questo mondo strumentalizzato, le persone sono restie, confuse dal comunismo e dalla plebaglia, gli istinti nobili sono stati adeguatamente soppressi tutto ciò è alla mercé dei poveri di spirito, non c’è più una ricerca ed una evoluzione in senso romantico, i rapporti umani sono condizionati dall’uso del pensiero organizzato, la morale è questa. Però è inutile, qualcosa deve succedere, lo so la gente cerca di trovare un rimedio all’ Inferno, al Diavolo, all’Anticristo, certo è chiaro se la gente pone dei limiti questi limiti verranno rispettati se la gente rende la vita dura illudendosi di passarla liscia allora significa che saranno tempi duri, non passeranno 40 mesi che ne riparleremo se sarò ancora vivo”.

 

                E  conclude:

 

                “Se l’Anticristo fosse stato un fatto storico cioè una realtà si avrebbe potuto dire che sarebbe stato un mondo normale, almeno io credo. Il dubbio mi viene pensando a tutte le occasioni perdute ed al contesto sociale. Ci sono delle responsabilità la Chiesa per esempio ha tradito la sua funzione originaria quella di essere di guida e di conforto spirituale invece di rendere il peccato necessario. A me per esempio è stata proprio la religione che mi ha messo in cattiva luce con gli altri ponendo il male come necessario e quindi in conseguenza la cattiva coscienza.  Fate voi un po’ i conti se il mondo è veramente questo od è un imbroglio. La responsabilità della Chiesa è certa essi hanno mentito sull’origine della vita per trarre l’uomo in inganno considerato il fatto che per l’uomo si apriva una nuova vita ed essa per sopravvivere ha agito così. Non sentite il battito di questo cuore, di questa vita rinnegata, la nostra cattiva coscienza. Certo i preti sono oggi come pur sempre, benché una volta fossero necessari, i nemici più antichi dell’uomo. I preti con le tonache nere. essi odiano la buona coscienza dell’uomo. Quantunque essa volesse mostrare le sue buone ragioni e chi glielo impedirebbe. Questo per me è L’Anticristo. I Farisei, Caifa, i Giudei, i Preti, Cristo criocifisso.

P.S. Questi preti sfruttano la civiltà perché non hanno nulla da temere.

                                                                              Conti Supremo, frenastenico”.

 

                Provocatoriamente si firma “frenastenico”.

                In un altro foglio appunta una breve massima parafrasando un detto evangelico: “molti saranno i chiamati, pochi gli eletti ma tanti i figli di puttana!” ed altrove: “il mondo è proprio una stalla di pecore in cui lo spirito si è confuso col lezzo degli escrementi.  Purtuttavia si deve reagire e l’unico modo è vibrarsi e tendersi come archi protesi verso l’infinito.” Al centro di tutto il suo dire sta sempre la grande sofferenza di vivere fra gente che non lo comprende, “sottoposto implacabilmente al giudizio della gente come col marchio d’infamia”, che non gli perdona la “colpa” di essere stato in manicomio, che non accetta di discutere con lui ma lo condanna pregiudizialmente e senza appello tanto che vorrebbe essere l’Anticristo per scardinare questa società, si è sentito tradito anche dai preti,”i preti con le tonache nere”, che tolgono la tranquillità della “buona coscienza”.

 

                Tralascia a volte l’uso dei lunghissimi periodiper scrivere sinteticamente ciò che pensa in frasi compendiose e spesso difficili a capire che invia per lettera sempre all’amico psichiatra:

 

                                                               “Filosofia esistenzialistica

                Oggetto: verità

                La coscienza non può finire in questa realtà. Perché la realtà è eterna in questo sogno fugace che è la vita.

                                Sentimento mistico o irrazionale:

                                La conoscenza della propria ragione entro le condizioni dell’esistenza, che deriva dalla coscienza di sé

                                A=Appercezione metafisica:

                                Questa coscienza del corpo (sentimento razionale)

                                Sentimento mistico.

                                La coscienza deriva dal fatto delle ragioni delle realtà. Es.

                                Sentimento metafisico.

                                In cui..... Il corpo ha coscienza di sé nella conoscenza della ragione nbelle condizioni d’esistenza.

                                Processo naturale

                                Considerazioni:

1° La realtà è assoluta ed imperitura.

2°La realtà che il mondo chiama umana non esiste: non c’è niente d’umano nella realtà solo la coscienza di sé è la realtà umana.

3°La ragione che fa parte della propria coscienza  di sé è solo derivata dal fatto che è esistita una tale realtà.

4°Il processo naturale della coscienza di sé è un fatto naturale.

Ultima considerazione filosofica sull’ambiente come condizione naturale dell’uomo e della propria esistenza.

 

                Ma la ragione è dunque esistita anch’essa esistita questo è il problema filosofico.

                Ricapitolare:

                Ma la ragione (essenza da dimostrare=nulla dimostrabile) è dunque esistita. questo è il problema filosofico che fga parte della ragione dell’esistenza, che la filosofia trae dalle conclusioni che io stesso pongo che la ragione dell’esistenza non sartà mai in alcun modo la sua stessa ragione che il dubbio filosofico è senza confini e non si è filosofi se non dubitando infinitamente senza accettare altro che la certezza di se dubitare, eternamante dubitare per credere eternamente peché la ragione non è mai ragione.

                                                                              FINE

 

                Tute queste considerazionifino al tempo finora acquisito siano giuste od ingiuste non fanno parte di quel che di umano si considere ma di una vera intelligenza di natura -dono?

                                                                              Grazie

                                                                              Conti Supremo”

 

                Il nostro Brogiotti esclamerebbe: ” mi sperdo dinanzi all’esame che mi trova digiuno di latino”. Vuole certamente stupire lo psichiatra cui manda lo scritto, vuol forse strabiliarlo, vuole certamente diomostrargli la propria intelligenza, lo afferma chiaramente , le sue considerazioni filosofiche, giuste od ingiuste che siano,sono sempre scaturite da una vera intelligenza di natura-dono.

 

                Talora ironicamente indossa la veste dello psichiatra e fa una disamina, quasi una diagnosi,

 circa la propria pazzia alla maniera degli addetti ai lavori:

 

                                               “Il parere dello psichiatra.

                Il Conti nel tentativo di definire certi suoi aspetti sembra presentare contenuti masochistici passivi che d’altronde in una personalità dotata come la sua hanno creato una rivalsa pseudo filosofica, per cui il delitto viene concepito come estrema azione di rottura fra il mediocre uomo che subisce tutto dalla vita e viceversa il superuomo nietzchiano, il quale diviene così il simbolo del dissacramentodi tutti i valori normali ed etici dell’uomo normale.

                                                               Distinti saluti

                                                               Conti Supremo”

 

                Supremo è cosciente dei pericoli e dei danni cui va incontro, tanto da parere un masochista, a causa della sua ribellione al costume di vita del cosidetto uomo normale ma non può farne a meno, in un quaderno annota “dire la verità quando domina la non verità procura un tal diletto che l’uomo sceglie l’esilio e anche peggio per amor suo”; anche il suo interesse per la filosofia, la sua “rivalsa pseudo filosofica”, fa parte della scelta culturale in reazione ai luoghi comuni della mentalità corrente. Ammette comunque che la sua filosofia in realtà è una pseudo filosofia.

 

                In un suo scritto parla della mania di persecuzione che, si badi bene, non è del paziente bensì della societàche teme gli uomini liberi:

 

                “Il punto è la mania di persecuzione della società, che non può sopportare la smania che qualcuno può avere di decidere per proprio conto in piena coscienza quando proprio  per causa della coscienza non si è badato ad uccidere ignobilmente gente che volevano la libertà e la dignità dell’uomo al disopra di ogni repressione e di ogni sfruttamento che invece sono alla base del sistema e della vita ridotta dalla coscienza stessa senza più difese ad un servilismo ignobile e degradante in cui tutti i valori umani sono capovolti ed il resto ognun sa”.

 

                Di fronte ai vigliacchi che accettano passivamente le leggi di chi comanda Supremo si erge come superuomo. Lo scrive al solito amico psichiatra:

 

                “Il superuomo è un fatto naturale, la natura non ha sesso, si può solo dimostrare attraverso la ragione le capacità intrinseche all’essere che contraddistinguono le ragioni umane, la regola conferma la ragione, ma se io portassi le ragioni degli altri non sarei un superuomo e non lo sono forse stato, se l’eccezione conferma la regola, sì io sono un superuomo, perché la natura è fatta così ilpeccato lo inventò dio, accusando l’uomo di iniquità, lo creò ma se l’uomo è un superuomo al dilà del bene e del male. è il solo padrone di sé stesso, io sono il creatore del mio bene e del mio male ma è solo un’illusione, anche Nietzche lo diceva non si può andare contro l’uomo, dio lo creò per peccare, ma si sbagliava pure lui, dio dice io sono dio, e io dico io solo sono il padrone di me stesso servo solo me, ebbene questo è un superuomo, nella visione paradisiaca del paradiso terrestre, è nel modo che avvengono i mali perché l’uomo è una bestia non bastante a sé stesso sempre in agitaziione per recare il male all’altro per ragione del proprio, meschino, traditore, ipiocrita e fallace, non nuomo, come Adamo, ma uomo contro uomo, bestia nell’istinto e nei propositi, che col nome di morale si nasconde dietro alle sue debolezze, che dissimila, per nascondersi vigliaccamente, allo scopo di sopravvivere, l’eccezione che conferma la regola il superuomo è l’eccezione, la natura è il suo bene, la ragione la sua vita,perché dimostrarla. Quando il mondo si macchia di ingiustizie assai, peggiori, come la menzogna, chi tradisce il prossimo, rinnega Dio e come Giuda si vende al mondo boia, il resto è di comune conoscenza. Che sono proprio i più meschini che fanno le bestie per tradimento, venderebbero anche suo fratello, eppoi dicono che fa la puttana, e’ lo credo, zotico, ma se t’avessero domato, l’alzeresti meno le tue pretese, che l’invidia della tua meschinità mi riempie di disgusto al solo vederti, cafone, che la tua cafonaggine è voluta dall’inferno, come potresti rendermi giustzia? pure voi siete degli zimbelli.

                Io ve lo dico per l’ultima volta.

                                                                              Conti Supremo”.

 

                Alla fine della lettera l’amico psichiatra si trasforma in nemico, insiema agli altri psichiatri zimbello di quel mondo di ingiusti, di traditori, di rinnegatori di Dio, di bugiardi.

 

                In un’altra lettera testimonia, con acuto intuito e illuminante introspezione, il cambiare  di natura della follia dopo che il folle è stato esaminato, osservato, studiato in manicomio dagli psichiatri:

 

                                               “Egregio dottore,

                certo una psicosi è una cosa normale ma conveniente per studiare e analizzare le situazioni, una vera pappa reale per i competenti e l’intenditore.

                Ho capito che una psicosi è una cosa normale se rimane nei limiti della psiche, facoltà di ragionamento, facoltà connettive ecc.ecc.; però ho anche notato che se questa è conosciuta viene studiata ed analizzata diviene una psicosi strana per la gente che non è pratica ma per chi la conosce rimane sempre una psicosi normale rispetto alla psiche, ed una vera grazia.

                Distintamente i miei più sentiti rispetti.

                                                                              Conti Supremo”.

 

                Una breve lettera che fa intravedere tanta verità, le varie sfaccettature della follia, la follia che non è malattia bensì una modalità della attività psichica, la follia che rappresenta anche una difesa per il folle, “una vera grazia”, la follia che solo dagli intenditori può essere capita, che la “scienza” psichiatrica fa diventare un oggetto il folle mentre lo studia e lo esamina, gli toglie l’umanità e la normalità facendolo diventare altro, un oggetto.  

 

                Supremo è anche burlone, la follia può servire per sfidare gli addetti al lavoro, Supremo è anche ironico; e manda un biglietto al Direttore del manicomio dal titolo “L’agonia del filosofo”:

               

                “C’era una volta un pazzo furioso che in preda a convulsioni girava velocemente sui piedi intorno a sé stesso. Un infermiere guardandolo stupito gli domanda come mai girasse così velocemente. A qual modo tutto preso com’era dal turbine delle sue evoluzioni risponde il pazzo: vedi, dice, voglio vedere chi ha più paura.

                                                                              Conti Supremo”

 

                Ad un altro psichiatra che gli è amico e comprensivo verso di lui, uomo benigno e gentile quanto mastodontico e massiccio così scrive;

 

                “(Scrivo all’Anticristo cioè a me stesso)

                                Caro Culettone,

                Sai è passato molto tempo da allora quando ci conoscemmo, caro amico. Ma se Dio fa i mali e gli uomini li rimediano, io non so come facciano gli uomini a rimediarne così tanti.

                Ma con la grazia....

                                                               Egregi saluti.

                                                                              Conti Supremo”

 

                Ma non scrive soltanto agli psichiatri, scrive anche ai compagni di sventura. Ci sono tre lettere inviate al Brogiotti Tonino, l’altro personaggio di questo lavoro; tre lettere, l’una più gustosa dell’altra.

                Supremo, è stato già detto, aveva tentato di togliere i ricoverati, che aveva trovato al sesto reparto, dallo stato di acquiescenza e di abiezione in cui si trovavano cercando di far loro comprendere che la loro vita non era vita, che avrebbero dovuto lottare per affermare ed esigere il riconoscimento dei loro diritti di fronte a tutto il mondo, che avrebbero dovuto tornare a vivere fuori del manicomio superando ogni ostacolo. Trovò, com’era prevedibile, l’indifferenza e l’ostilità di quei compagni di sventura, i veri pazzi come li chiama in una lettera, che accettavano e spportavano la vita in quelle condizioni; e qualcuno fu messo in crisi tanto che Supremo se ne dispiace pur non potendo farne a meno “ne avranno trovato del danno fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura”.

                Conobbe il Brogiotti Tonino al decimo reparto uomini; Supremo aveva ravvisato di portarlo alle sue idee ma quanto più si affannava quanto più Tonino restava impassibile e fermo nelle proprie convinzioni. Supremo cercava di impressionarlo con i suoi discorsi filosofici, strabuzzando talora gli occhi per fargli magari paura ed impressionarlo esaltandosi da Anticristo ma Tonino restava imperturbabile. Supremo urlava e Tonino rispondeva quasi sottovoce, educatamente. Perché tra l’altro Tonino lo stava ad ascoltare. Ma con Tonino Supremo non l’aveva mai vinta. Per ciò i suoi sentimenti verso Tonino sono contraddittori: lo disprezza ma gli vuole bene, losberleffa ma comprende umanamente la sua situazione. “Al distinto Signore “ così gli si rivolge in indirizzo il che è insieme e una presa di giro ed un atto di rispetto. Una lettera in particolare esprime i contraddittori stati d’animo, una lettera di auguri di Natale, la terza della serie:

 

                “Caro amico Brogiotti ora ti spiego tutta quanta la faccenda, per chiudere una volta per sempre i conti con te. La pazzia è come guardarsi allo specchio riflette sempre la stessa immagine che si riflette, così io vedevo sempre me stesso e nonostante che mi sarebbe bastato un consenso mi accontentavo di quel che avevo mentre voi da ciò ne potevate trarre vantaggio perché potevate vedere in voi stessi, io dapprima lo ignoravopoi da ultimo me ne son reso conto appieno che i pazzi non sono tutti eguali, e che non erano come io avevo voluto essere, ed è per questo che vi sono andato nel culo.

                                                                              Distintissimi saluti al santo della

                                                                              combriccola e spero che questo

                                                                              ti chiarisca le idee una volta per tutte.

P.S. Se vuoi falla leggere anche al becco di tuo padre, quel povero uomo che faticò tanto a metter al mondo uno stronzo come te, sarebbe meglio se si fosse fatto una seghe.

                                                                              Conti Supremo

                                                                         Rispettosamente

                Ed ora parliamo di noi ne ho una voglia matta perché sono sicuro che questa la porti dallo Psichiatra, per ridere della tua pazzia e della mia dissennatezza ma tu sai che ero già dissennato prima della tua nascita e che la mia pazzia era già voluta e destinata, brutto frocio, e che quando ho capito tutta quanta la combriccola ho penato poco a mettere giudizio, mi è bastato capire che fra tutti i pazzi come te ce ne sarebbe voluto uno in più, e non sarebbe bastato, per farne uno solo come me. Contento!

                E ora ti auguro col cuore in mano ed umanamente, in quanto tu sai e lo credo, che io nel profondo sia fondamentalmente buono, e so perdonare i torti subiti. Buon Natale a te e a tutta quanta la combriccola di matti.E un’altra volta fai meno lo spiritoso altrimenti ti mangio il naso”.

 

                E Tonino il naso l’aveva davvero grosso. Un continuo tornare a capo, fra postscripum e riprese, lo tratta male, poi si pente, gli dà del pazzo ma poi afferma che è più pazzo di Tonino, lo insulta e poi gli chiede scusa nell’intento di sopraffarlo, compreso il bonario  “altrimenti ti mangio il naso”.  Una vera perla è quel “Risperttosamente”  dopo gli insuti a Tonino ed a suo padre.

                Tonino come previsto passò la lettera allo psichiatra senza accennare la minima sorpresa,la minima reazione, erano problemi che non lo toccavano né lo riguardavano. Supremo ne era certo, lo sapeva.

                Supremo aveva già scritto una lettera a Tonino, indirizzata come al solito “al distinto Signore Brogiotti Tonino”, lapidaria, una riga di parole e la firma in cima al foglio, il rimanente della pagina bianco, un silenzio per meditare:

 

                “Grandissimo figlio di puttana, vai all’inferno.

                                                                                              Conti Supremo”

 

                No comment.

                Inimmaginabile la lettra lasciata per ultima ma che è la prima in ordine di tempo. Il nostro Supremo dopo la morte del padre aveva costretto la madre a vendere una casa lascita in eredità ed intascati i soldi che gli spettavano era partito di casa per finirli. Venne a Firenze e prese dimpora al Savoy Hotel, hotel digran lusso. Da lì scrive al Brogiotti su carta intestata dell’albergo:

 

                “Carissimo compagno,

                sono a Firenze al piccolo Hotel Savoy, pensa che con me ho, ho solo 5.000.000 tutti per me. Anche la pazzia ha il suo pregio, non credi?

                                                                              Conti Supremo”.

 

                Come dargli torto? Solo a pochi è dato di permettersi ciò che si è permesso Supremo. C’è una bella differenza fra il manicomio ed il Savoy Hotel, “il piccolo Hotel Savoy”  come lo chiama e lui è potuto andarci forte dell’esser pazzo diverso da tutti gli altri pazzi che gli ha pemesso di evadere da ogni regola del cosiddetto buon senso. Come dargli torto al suo affermare che la pazzia ha il suo pregio? ma una pazzia diversa da quella di Tonino i cui pregi consistono soltanto nel fargli sopportare la grama esistenza nel manicomio.  Supremo è un pazzo diverso,  troppo diverso, e lo tiene a precisare. In pochi giorni dette fine ai cinque milioni; poi tornò al paese dove nessuno era mai potuto essere cliente del Savoy Hotel.

                Fra le lettere ce n’è una scritta ad una donna già sua amica che gli aveva fatto un torto. La lettera comincia con una lunga lista di libri letti e studiati, libri filosofici, libri di morale, romanzi, libri di storia, gli autori vanno da Nietzeche a Sartre, da Poe a Baudelaire, poi la lettera:

 

                                                “Cara amica Sandra;

                ciò che è stato commesso ci ha divisi per sempre non potevo immaginare che tu mi avresti trattato nella maniera che poi mi facesti ma con chi credevi di trattare con il tuo schiavo, il dottor Zivago.

                Comunque è il minimo che tu possa fare per me è rendermi perlomeno i miei dischi. Perlomeno questo potresti fare e  ricorda quando avrai una cultura come la mia allora potresti anche essere al mio pari.

                                                                              Conti Supremo.

                P.S.Chi sale ad Eze non pratica più i sentieri sassosi in cui vi accede il filosofo nel 1882. Oggi vi si arriva praticamente in auto, a destra Polvere di stelle, a sinistra un folto rosaio di rose rosse americane. Avrebbe detto il filosofo: amate la vita anche se non sapete il perché solamente perché essa è bella.

                                                                              Federico Nietzche in Italy

 

                Se nella parte centrale parla direttamente al contrario nel preambolo e nell postscriptum dice con metafore che, poverina, lei è nulla nei suoi confronti, l’uomo è ciò che legge e lui ha letto molto, e la vita è bella anche senza di lei. “Guarda cosa hai perso” é il succo della lettera.

                Sempre il bisogno di dimostrarsi superiore cela sempre una grande insicurezza. E specie nei confronti della donna Supremo si sente insicuro e pertanto vorrebbe esserle superiore. Non è quel che si può dire, fisicamente, un bel ragazzo il che, messo insieme al titolo di pazzo che gli si è affibbiato  ma del quale si è anche compiaciuto, non ha contribuito a renderlo appetibile alle donne; la sua naturale scontrosità , il suo essere di natura solitario e diverso ha rifinito l’opera. La donna lo impaurisce; risulta chiaro nelle sue considerazioni di uno scritto che invia all’amico psichiatra:

 

                                                                               Il serpente

                La donna è l’essere più strano che viva sulla terra e che esiste contro l’uomo nella battaglia alla vita perché fra l’uomo e la donna c’è il serpente (invidia,rancori, gelosie, tradimenti) di cui la donna è causa di queste: Per ragione sua nel mondo si genera la discordia; il disprezzo che ha per la naturae la malvagità di cui si serve per raggiungere i suoi scopi per la vita che giustifica tutte le sue azioni malvagie permettendole iniquità che dietro il suo nome vengono commesse.

                La sua battaglia per sopravvivere le impone di lottare con ogni mezzo, e per non essere sopraffatta si serve di ogni strumento, giustificando le sue azioni nel nome dell’amore, non è forse ciò più crudele della stessa vita, essa si redime solo nell’amore non per diletto ma per piacere anche se c’è la vita di mezzo, è come una foglia che si piega al vento, così fa la donna, in quanto essa avvicina l’inferno al paradiso e impone di forza la ragione della vita che l’uomo nel dominio della sua volontà che la donna non sa fare di meglio, o meglio finge di non sapere, dissimula ecco perché l’uomo le è superiore, è il dramma che sempre si rinnova, il Peccato.

                                                                              Conti Supremo”

 

                La donna alla radice del dramma del Peccato, l’essenza del peccato originale, segno di contraddizione, “fra l’uomo e la donna c’è il serpente”, lei longa manus del serpente, inferno e paradiso, lei insegue il piacere pur essendoci di mezzo la Vita, lei che sta al disopra di tutto.

                Oggetto attivo che d’altronde fa parte della modernità  e del progresso secondo una propria supremazia. Lo scrive in un biglietto: “La donna a livello pubblicitario informativo e sessuale collo scopo di trasmettere la società ed il progresso di cui la realtà è a sua immagine e su cui si conforma la realtà umana secondo l’etica metafisica della donna e della sua realtà. In cui la donna si cela sul peccato originale che sta alla base di ogni rapporto esistenziale in quanto la donna è al disopra della ragione umana e al di sopra di tutto”.

                E nel rapporto sessuale si sente indifeso e fragile tanto che su un quaderno annota: “Ci si può credere, chi fa da sé fa per tre. Della moralità me ne importa un tubo” che con altre parole l’ha già detto nel ”se la mano sostituirà la passera del domani”.

                Non è che Supremo liquidi il problema in un modo così superficiale; allo stesso medico amico invia un pensiero sull’amore, un pensiero sul rapporto sessuale, “l’elogio al sesso, sentimento profondo” come lo intitola:

 

                “per chi capisce l’amore, l’amore è solo un attimo e più nulla, un sogno, una conseguenza senza esistenza; il cuore del mondo è molto debole a cagione dei molti mali”.

 

Supremo era un “diverso” ed il “diverso” è un pazzo perché non sta alle regole specie in quel paesotto dove viveva.Gli stessi interessi culturali erano diversi, si era entusiasmato nel leggere Nietzche, e quale giovane non si entuasiasma leggendolo, si era immedesimato nel superuomo, e rispetto ai suoi concittadini lo era veramente e proprio per questo non era né compreso né accettato, specie dopo essere stato ricoverato in manicomio, dopo, era davvero inconfutabilmente un pazzo d.o.c. per tutti.

                Altresì era, apparentemente, incoerente; sotto la scorza ruvida del suo carattere esplosivo contro l’idiozia di chi gli stava intorno si celava un animo sensibilissimo e delicato. Il problema religioso,di Dio, lo tormentava. Talora sull’onda degli scritti di Nietzche si scaglia contro Dio, afferma che Dio è morto, come in questo scritto, complesso, complicato, contrastato:

 

                “E se del superuomo si vuol fare quistione ebbene venga la portatrice d’acqua al pozzo e mettiamoci a discutere umanamente i pro e i contro questa miserabile commedia si fa finta di nulla e tutto ricomincia ma se la pazzia non è più d’ostacolo c’è chi per essa ha lottato per un ideale non certo da cani, per una dignità, per un senso di omertà, di una giustizia che non riguardasse solo lui come uomo ma anche dio, una giustizia trascendentale e non solo il suo misero egoismo d’uomo attaccato ai beni terreni come il mondo d’oggi che non reagisce né in male né in bene. Bisogna pur scegliere ma il mondo non ha più posto per questo, oggi questi problemi non se li pone più, basta l’uomo e dio può benissimo andare al diavolo che tanto l’ha creato lui e non è certo la mia una considerazione pazzesca nulla mi vieta di tacere ma se una ragione è filtrata nel mondo questa basta per tutte. E tutto questo ha finito di uccidere dio, noi l’abbiamo ucciso, io per primo per amor del proprio smisurato egoismo. Nietzche 100 anni fa aveva ragione Dio è veramente morto e la capacità di ragionare non è più una capacità umana e quando mai lo è stata se questa ragione non è più, ben poco rimane da fare. Anch’io sono l’assassino di dio e sfrutto abilmente questa veritiera intuizione. E’ vero, sono un assassino perfetto un vero genio della natura e se non ammazzerete anche me finirete per diventare dementi e i pazzi come sempre avranno ragione, ma il mondo che fine farebbe. Se la ragione fosse la stessa allora ci sarebbe una soluzione potrei diventare pazzo completamente per essere l’anticristo perché lo si sa i pazzi sono i guardiani dei morti e per i morti tutti i vivi sono pazzi finché nel sepolcro un altro corpo occupa il posto che gli hanno preparato, credetemi diceva bene Eschilo: i morti sono coscienti di tutto quello che accade giorno per giorno ai vivi e spesso li influenzano in modo determinante in modo tale che non si sa più chi sia vivo o chi sia morto.

                Io, così disse Iddio, sono Iddio dei vivi e non dei morti, ecc.

                Quindi questa realtà spirituale io la conosco molto bene perché io devo essere stato un Vampiro e vivo la mia vita col solo scopo di evitare che ciò succeda anche agli altri, la mia è una missione di stregoneria è per questo che non conosco la realtà umana e sono sempre in cerca della verità finché non mi avviluppi a un nuovo corpo (Cebete dal Fedone di Platone) il destino del mondo dovrà essere  intellettivo non occulto in attesa della venuta dell’anticristo.

                E’ per questo che sono sano di mente, la natura con i suoi misteri ha voluto così. Il resto me lo spiegherà il mago.

                                                               Conti Supremo”.

 

                Un dialogo più con sé stesso che con lo psichiatra cui scrive. Nella sua pazzia ha lottato per un ideale di giustizia soprannaturale; si vanta di avere ucciso dio per poter fare meglio il proprio comodo, come tutti del resto, ma rammaricandosene. Si esalta, parla con foga, si contraddice anche,nel susseguirsi incalzante di situazioni oniriche, il suo potere di far diventare tutti dementi (“ma il mondo che fine farebbe”)il diventare completamente pazzo ed essere così l’anticristo, ma anche guardiano dei morti i quali influenzano i vivi tanto che non si sa chi agisca se il vivo od il morto, un mescolarsi di pazzia, di morte, di vita. Ma Iddio è Iddio dei vivi, non dei morti. Lui uomo stregato, forse un Vampiro in una vita precedente  vive la sua vita per fare evitare agli altri i guai che lui ha sofferto; ma non si sa rendere conto del perché anche se è continuamente in cerca della verità, per questo è sano di mente.

 

                Resta però un uomo religioso, conserva nell’intimo una fede profonda; in un breve scritto che intitola “Il peccatore filosofo” così si confessa:

 

                “anche il peccatore filosofo ha in sé il perdono e la misericordia di Dio se per peccatore significa aver perduto il proprio senno e seguire il proprio intelletto giacché è buona cosa l’amor di Dio riposto al bene dell’anima ed alla gioia di tutto ciò che di buono Iddio ha creato nel mondo; il misconoscere ciò non sarebbe rendere grazie a Dio”.

 

                Spinto da tali sentimenti scrive una preghiera, nello stile di una preghiera rituale:

 

                “Il Signore Iddio nostro Dio ci aiuti nel debellare il male di questa nostra umanità in Gesù Cristo nstro Signore il quale nella sua misericordia vuole ricondurre il suogregge alla Pace Perduta nelle iniquità di cui la mente dell’uomo si è colpevolmente macchiata e fra i mali infiniti di cui è causa per sua colpa che altres’ sarebbero i suoi profondi beni.

                Preghiamo.

                Signre Iddio, abbi misericordia per i tuoi fratelli in Cristo.

                                                                                              Conti Supremo.

 

                Se siamo fratelli di Gesu Cristo, e Gesù è Dio, siamo fratelli di Dio.

 

                Con eguale partecipazione emotiva comunica in versi analoghi contenurti:

 

                “Canti di Gloria al Signore

                Pace a te o Signore

                Pace a te o Dio

                Volgi a me il tuo sguardo

                volgi a me la tua mano

                non lasciare che io muoia senza di Te.

 

                Piaccia a te mio Signore

                 dare a ciò la tua misericordia,

                delle opere tue lo splendore,

                che la tua onnipossenza a ciascuno sa dare,

                grande prova della tua bontà,

                della tua grandezza e dei tuoi prodigi

                sulla terra dei simili tuoi immagine

                e somiglianza del tuo creato.

               

                Supremo invia anche le sue poesie a leggere ai suoi amici psichiatri, “io sono anche questo” sembra dire loro, “e  lo mostro a voi che mi avete giudicato mentecatto”.

 

                A Friedrich Nietzche scrive una poesia intitolata “ Il dominio dell’intelletto”:

 

                Del mio modo di vivere

                ......forse.....

                nella tua anima!

                la coscienza non avrai.

                Della tua delicata ombra,

                luce splendente per chi sa

                riconoscere

                in te

                uno spazio

                di luce nel mondo e di luce

                nel fare tuo,

                creatura

                creata

                dal cielo, in terra.

                Angelo, dalle ali di ombra,

                del tuo paradiso pensiero

                per chi ti conosce,

                e sogno fuggitivo

                dichi dalle tue ali,

                al vento

                agitate, si perde

                nell’ombra che risplende come fiammella

                nel cimitero in compagnia dei morti,

                Tu sei la Dea della vita, dallo sguardo triste e profondo:

                Della rimembranza dei miei ricordi sei l’anima mia”.

 

                Tutt’intorno alla poesia scrive: “io vorrei vivere questa breve estate senza alcuna intenzione profana”.

 

                E scrive in versi anche a sé stesso, al dolce Superuomo:

 

                “O dolce superuomo

                isrione dalle anguste

                vedute e dal tuo

                consueto fare

                nel lubrido tuo sepolcro

                te ne stai,

                cerca cerca

                qual’è tu lo sai

                non c’è posto per te

                solo la tomba

                accoglierà

                i tuoi bianchi resti.

                Nel pensiero dell’illusioni

                cerchi la tua speranza

                in un mondo non fatto

                per te

                cerchi l’unica speranza

                che ragione non trova.

 

                e che lui commenta:

 

                “La vita dell’uomo è come la verità, un rincorrere la verità, un rincorrere sé stesso nel tempo di ciò che si è e di ciò che si fu? L’uomo è mosso da un forte vento che si chiama esistenza.

                La vita dell’uomo non è che un buffo giuoco fatto in società per sopportare l’uomo con l’altro e perdonare con le lacrime agli altri le altrui debolezze nella realtà della finzione da cui ognuno cambia la ragione del proprio essere, ma quando all’orizzonte della vita il cavallo nero della morte appare all’orizzonte col suo maestoso cavaliere nessuno ride più. Perché l’uomo pensa più alla vita che alla verità”.

 

                Non ci è dato commentare le sue poesie anche perché non hanno bisogno di spiegazioni tanto sono chiare tanto più se abbiamo, per quanto ci è possibile, capito Supremo. Sarebbe poi sciuparle da quanto sono delicate e fragili, si passerebbe da superficiali e da presuntuosi. E’ doveroso semmai tener presente, per una migliore comprensione, come Supremo usi la parola “ragione” tante volte, la usi per i vari significati che ha, nel significato di causa, motivo primo, nel significato di prova,di argomentazione, nel significato di facoltà intellettiva, nel significato di diritto, l’avere ragione.

                Come in questo componimento nel quale ricorda i giorni passati in manicomio:

 

                                               “La bella vita nell’ambiente

 

                Qualunque sia la ragione, non ha colpa la pazzia

                dal suo disprezzo genera disprezzo.

                E’ come un sasso che rotola giù dal monte

                tutto travolgerà.

                O solo il ricordo sembrerà ch’esso sia esistito.

                L’amore non si potrà dimenticare,

                quest’ultima ragione della realtà.

                Su, fatti da parte uomo, e la verità, che tu hai calpestato,

                ti tenga il passo.

                Che io debba passare ove sei caduto perché la ragione rimanga, e la fede non sia vana,

                inn verità, la verità di questo mondo, non ha colpa la verità,

                né ha colpa la colpa, che tutto travolgerà insieme a lui.

                Potrà esso dire basta. A torto o Ragione, o è la stessa cosa.

                Che la ragion non trova.....

               

                Sempre sulla follia compone altre due poesie che invia, scritte sullo stesso foglio insieme alla precedente, allo psichiatra cui è affezionato:

 

                                               “La sola ragione della follia.

                La verità non fa male a nessuno

                solo la cattiveria fa scudo alle mie parole,

                e qualunquecosa faccia è sempre fatta male.

                Nel desio del ricordo dell’ebrezza del passato

                il vago pensiero va e passa oltre il tempo!

                Solo questo so non essere, per dover essere;

                Pazzo, pazzo io son soltanto?

 

                                               “La speranza perduta.

                Ov’è il buiop della ragione di sé

                negli occhi solo lacrime,

                bisognerà fare l’amore sotto terra

                frai Morti perché questo mondo non ce lo permetterà,

                nella realtà perenne far solo un giuramento solenne.

 

                Di profonda intuizione secondo la psicopatologia relazionale  sono i versi “e qualunque cosa faccia faccio male”, “solo questo so non essere, non essere, per dover essere” e “pazzo, pazzo io son soltanto?” nei quali balza lampante la situazione di “doppio legame”. 

 

                Si duole della sua ingenuità e della altrui malvagità:

 

                “Chi lo poteva pensare che nella

                felicità ci fosse il verme

                roditore che ti rodeva la carne

                per farti morire.

                Chi poteva pensare che nel

                mondo dell’anima senza perché

                ci fosse in un altro mondo

                sconosciuto che ti preparava

                la fossa per metterti sotto

                terra; chi poteva pensare

                che c’era degli esseri che

                di nascosto pensavano

                nelle loro menti di vendicarsi

                per farti morire, chi poteva credere

                in questo mondo, in un altro

                mondo che di sotto terra

                ti preparava la bara

                per sotterrarvici vivo.

                Chi poteva pensare oltre

                agli uomini bestie primordiali

                fatte uomini ancora prima del

                tempo nate per uccidere l’uomo.

 

                E protesta in:

 

                                               “Contro di te.

                Tu uomo non hai diritto di togliemi la vita,

                perché Giuda l’hai inventato tu, e sei tu,

                l’Anticristo dici che è il mio nome mentre la bestia che dici tu sei tu.

                Il figlio dell’uomo è ciò che sei, e ciò che vorresti essere.

                Io sono Adamo, colui che non fu.

                Tu dici io sono niente. Mentre tu sei tutto. Dici il vero. Ma solo  metà.            

                L’altra metà sono io”.

 

                E continua dopo la poesia:

 

                “E’ meglio tradire la legge piuttosto che negarla e opporsi alla volontà di Dio che non permette che si usino simili sistemi che sono contrari alla sua Santità e al suo Nome, che la legge può essere anche violata ma non contraffatta e usata a modo proprio per i propri fini. E a questo scopo che la sua malizia nel vedermi si è riferito a questo dato di fatto per mettere la mia fede alla prova. E perché superassi il limite della realtà in cui voleva attrarmi per farmi cadere in errore.

                I componenti di un’operetta sono 837 escluse le donne. E tornerebbe lo stesso numero. Compreso il primo attore che sei tu”.

                                                               “Conti Supremo”

 

                Solo conforto è il pensare:

 

                “Come il cane gli animali

                di laggiù dal profondo

                della notte,

                agli occhi spenti, il sole i suoi raggi

                raccoglie il pensiero

                allo sguardo la mente

                i suoi fulgidi bagliori

                rapprende,

                che risplendono e rifulgono

                accecanti di luce,

                la vita illuminano,

                il tardo pensare; in loro riposto

                l’anima sua di bestia una carezza

                rallegra.

 

                Ed interessante ed originale è la poesia che segue con quel mettere in mezzo alla poesia un brano di prosa:

 

                                               “La vita si sconta con la morte.

                Col sangue si uccide,

                col sangue si vive,

                colla notte si sopravvive

                alla vita, coll’uomo, si spera, con sé stessi si muore.

Se l’uomo uccide sé stesso con le proprie mani quanto mai dovrà temere di uccidere col pensiero le sue mani assassine ed essere così il suo carnefice e vittima del proprio inganno, l’uccidere colle proprie mani e col proprio sangue.

                Coll’amore si pensa

                si pensa coll’amore,

                sperando si ama

                amando si muore.

 

                In due composizioni che sembrano frammenti così canta:

 

                “Sole spento senza più calore

                né luce nel cuore

                fu un meriggio a portarlo in alto.

 

                Piangerà solo chi ha creduto nelle favole.

                E il mondo è fatto così.

 

                Ma è anche pieno di sarcasmo; ricordando il manicomio così scrive:

 

                “Mutande e merda

                canzoni e poesie”.

 

                Od ironico e, nella seconda, umoristico citando una vecchia barzelletta:

 

                “Dio salvi la Regina

                ed a San Salvi si salvi chi può”.

 

                “E’ andata tanto in là l’onda

                che la si è sentita pure di quà”

                                               “Gesù Cristo”.

 

 

Supremo, di fondo, angosciato sempre dal dolore cui sovrasta sovrana la morte; la sua vita è intrisa di morte, la sua dimora terrena è un sepolcro in cui attende l’ora ultima:

 

                                “Ultimatum senza pretese”

                “Abbassa o muro le tue ali

                e spezze le tue ossa

                nel tuo sepolcro deserto

                e muto

                di un morto vivo

                che aspetta di risuscitare colla sua schiera

                o promesso sposo con la morte

                congiunto nella sua ora fatale”.

 

                Ma anche con un grande desiderio d’amore che gli viene negato, amore che è vivere e morire all’un tempo:

 

                “Quando l’amor si struggerà

                in una dolce passione

                dimentica il sogno

                per morir senza mano e senza follia”.         

 

                Un poeta, un vero poeta, così l’ho conosciuto ed apprezzato, che ha sofferto nelle sue carni e nel suo spirito la cattiveria del non essere compreso, voce soffocata in gola, speranza schiacciata nel sorgere; ma cche contrinua a pensare, continua a scrivere anche poesie, solo per sé, solo per gli psichiatri amici che da parte loro poco le comprendono e le apprezzano. Ne sono venuto in possesso di poche, molte altre ne avrà scritte che non mi è dato conscere, molto probabilmente più belle di queste che sono però bastevoli a farci gioire nell’avere trovato un poeta, un poeta nascosto come tanti, infiniti altri, ce ne sono al mondo.

 

                Per ultimo questo anelito, pregno di delusione:

 

                “Cieli chiusi in una stanza

                pensieri al dilà del tempo;

                nel mondo iniquo

                il riflesso della perduta speranza.

                Ma in chi e per chi canzone mia

                canti

                questa poesia della perduta gente?”

 

                Con tutto il cuore vorerei che il desiderio di Supremo, di far sentire il proprio canto, non fosse una perduta speranza bensì una speranza avverata, vorrei che fosse soddisfatto di aver cantato almeno per noi la sua canzone.

                Un ciottolo raccattato per un viottolo, che magari una pedata l’aveva buttato ai margini. Ma carezzandolo per levargli di dosso la polvere ci si accorge di aver davanti una pietra preziosa. Mi è capitato con Supremo.