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REVERENDISSIMO PADRE.... SIGNOR PIETRO.
Lettere da un manicomio.
Raccolte da Beppe Giannoni.
Reverendissimo Padre... Caro Pietro: sono i due personaggi prestigiosi a cui scrive Tonino dal Manicomio di San Salvi (Firenze). Sono i due rappresentanti in Terra, rispettivamente, dell'Altare e del Trono, del Potere Religioso e di quello Laico: il Papa e Pietro Nenni (siamo nei primi anni '70). Tonino scrive... per ottenere udienza.
Beppe Giannoni, psichiatra di Greve in Chianti, ci offre, attraverso le lettere dal manicomio di tre pazienti appartenenti a differenti generazioni, uno spaccato della loro condizione esistenziale.
TONINO
Un
impareggiabile eroe di imprese da nulla, da burla, paradossali ed amene ad un
tempo, ma anche fantasioso, troppo fantasioso, poeta e scrittore
baroccheggiante e dallo stile turgido che spesso ci parla per iperboli
fra richiami e citazioni di poeti classici della letteratura italiana,
soprattutto del gran padre Dante che ammira e predilige, con improvvisi colpi
d’ala, una parola che gliene richiami un’altra scatena voli pindarici magari
incomprensibili che lasciano stupiti e che sono tanto inattesi da muovere in chi
legge il buonumore se non la risata franca e schietta.
A prima vista le sue parole, le sue idee, il suo modo di esprimersi sono
completamente senza senso; ma a guardare più in fondo, fra le righe, si
ritrovano i perché, si ritrovano gli aneliti, i desideri, si ritrovano le
speranze e le delusioni. Si ritrova l’uomo, insomma.
Perché è un uomo: un uomo buono, un santo laico, un martire ingenuo,
(non ostenta la palma del martirio ma sempre martire è) di una società che lui
vorrebbe migliore; anche le lettere che scrive sono deputate talvolta a questo
scopo: parlare a grandi ed a piccini per far capire l’importanza della
giustizia.
E’ il nostro Brogiotti Tonino.
Lo chiameremo così ché il nome gli si addice ed un po’ somiglia al
suo.
Egli firma le sue lettere semlicemente,
solo col suo nome di battesimo sia che scriva al Papa o al Presidente
degli Stati Uniti sia che scriva ad un parente. Il nome ed il cognome lo scrive
sul retro della busta, a belle lettere, con l’indirizzo preciso (Ospedale
Psichiatrico, via di San Salvi 12, Firenze e preceduto immancabilmente
dall’appellativo per lui importante di “marinaio”.
Perché marinaio è stato per davvero nell’ultima guerra.
La sua vita è stata avventurosa sia da giovane sia ora da uomo che va
verso la settantina, una vita triste, tristissima ma anche movimentata e varia
che l’ha portato a navigare per il Mediterraneo ed a viaggiare oer mezza
Europa; ha conosciuto gente di disparati costumi e tradizioni, di tanti paesi,
ha sofferto e sognato e gli è rimasta l’ingenuita e la freschezza di quando
era bambino, dono questo dato a pochi.
Il Brogiotti scrive lettere
da circa sette anni. Cominciò con una lettera, “semplice” dice lui, ad un
suo amico e sembra che gli abbia
dato soddisfazione se ha continuato a scrivere. La cerchia dei destinatari si è
allargata nel tempo, ha sritto al Papa ed a Cardinali, a re ed a presidenti
della repubblica, a principesse ed a semplici amiche, ad ex regine ed a ex prime
donne, a parenti ed amici, a comandanti di navi, a personalità politiche
nazionali ed internazionali; addirittura una l’ha scritta anche a San Pietro.
E’ mancato poco che ne abbia scritta una anche a Dio.
Le più vive sono quelle scritte ai parenti ed agli amici. In esse, anche
se spesso nascoste nelle pieghe del suo esprimersi mascherato, sono più
evidenti le manifestazioni del suo stato d’animo, le preoccupazioni, gli
affanni, i dolori, le pene, anche d’amore. Quelle scritte a persone
altolocate, a grosse personalità politiche o religiose, più contorte, più
roboanti, più artificiose sono anc’esse una scusa per parlare di sé stesso,
per cercare apprezzamenti e valorizzazioni che mai ha avuto, per farsi grande
fra i grandi, insomma, sotto questa angolatura sono da leggere i consigli, gli
avverimanti che talvolta dispensa loro; ma altresì sono un modo per comunicarci
i suoi bisogni, le sue aspettative, le sue necessità.
Ne è un esempio questa breve lettera a Nenni nella quale professa la sua
antica fede di socialista rivoluzionario dichiarandosi tale per amore
dell’umanità. A Nenni chiede che si interssi di lui, negletto in manicomio da
un immenso numero di anni ma gli espone anche il suo sogno d’amore, quello di
sposare la Franca, compagna di sventura in manicomio.
“Siete assolutamente in errore. Io non ho trascurato nessuno. La
notte che io rappresento è il simbolo della mia delinquenza, Il mio
delinquere puole sembrare impossibile, ma non è che amore per l’Umanità.
Dite piuttosto Voi Sig. Pietro come è che fate del bene a chiccessia e
non a me. Io sono 76 anni che vivo quì e si sperde così il mio simbolo nella
notte dei tempi. Fate Sig. Pietro che riusciate a compiere questo miracolo per
me. La Umanità sarà salva solo quando sposerò in seconde nozze la Franca.
Operate ed io vi aprirò il mio cuore.
Tonino”
Splendido a mio parere il periodo “La notte che io
rappresento è il simbolo della mia delinquenza”, C’è il suo non essere
capito ed il suo non sapere farsi intendere,i suoi aneliti che sembrano folli
sono stati presi per delinquenza compreso la sua inclinazione rivoluzionaria. La
Franca, la ritroveremo più in seguito, è una povera giovane donna
schizofrenica con alle spalle un matrimonio fallito che Tonino vorrebbe redimere
e salvare sposandola perché la Franca è il simbolo dell’Umanità. Ed il
cerchio così si chiude.
“La mia vita” mi ha
confidato, “è cominciata dall’ingenuità e lentamente mi sono emancipato,
piano piano, e mi sono sentito grande a quarantotto anni; allora mi venne
l’idea di essere un dio con la “di” minuscola e gli dei, anche quelli con
la “di” minuscola, hanno il dovere di consigliare i loro figli”.
Il suo peregrinare, portandolo a contatto con popoli di lingua diversa,
l’ha spinto a studiare le lingue straniere: il francese (“cominciai a
studiare il francese in Albania”), cercò di imparare il tedesco mentre
era in un campo di concentramento in Germania, L’inglese a Vienna e si
rammarica di aver studiato poco il russo; sa anche qualche parola di polacco che
usa per scrivere a personalità polacche, nel suo incomprensibile tedesco scrive
alla ex regina Maria José ed al Cancelliere Schmidt; al sindaco Gabbuggiani ne
manda tre insieme, una in tedesco, una in francese, una in italiano; al Papa in
una lettera tenta di esprimersi con il latino in empito di commossa esaltazione,
lingua che desidererebbe tanto conoscere ma che non conosce,purtroppo. Ed a
Leone mentre era Presidente della Repubblica? solo il Brogiotti poteva riuscire
a pensare di scrivergli in napoletano!
Nato a Firenze, in via de’ Neri, nel cuore di Firenze, una Firenze
dalle strade strette ed ombrose, le case che reggono da secoli le loro pietre,
la Firenze minore ma che fino ad oggi, forse malauguratamente per poco ancora,
è a vera Firenze, spontanea ed ironica, pronta alla battuta scherzosa, al
frizzo, al lazzo ma non becero, popolare ma culturalmente ricca. La cultura che
viene da secoli di miseria e di lotta alla miseria.
Nasce in una casa proprio di fronte alle “Folies Bergieres”, un
teatro il cui nome è un programma, il nostro amico non poteva nascere che lì.
Era giovane la sua mamma, una ragazzina quasi, quando Tonino nacque, un
tempo a vent’anni le ragazze erano già sposate, e quando era per finire di
allattare il figlioletto, ché allora le mamme davano la poppa anche per due
anni, quando Tonino aveva undici mesi, mrì di “spagnola”. Meno male che
c’era la nonna che lo tirò su.
Suo padre, infermiere in un ospedale cittadino, aveva allora ventisette
anni, aspettò dieci anni e poi si risposò. Prima delle nozze chiamò Tonino,
lo prese da parte nel giardino della casa, se lo mise sulle ginocchia e gli
disse che si sarebbe risposato; Tonino da parte sua non ricordava di aver avuto
una mamma.
La matrigna, vedova con tre figli avuti nel precedente matrimonio, era
una donna austera, di garnde moralittà, una donna “di ferro” come la
ricorda il nostro Brogiotti. Morì che aveva quasi cinquan’anni ed era nata
pressappoco nell’anno di nascita della mamma di Tonino. Oltre a questo di lei
nonnsappiamo altro.
I rapporti in casa , specie con Adriano, figlio della matrigna, non
devono essere stati tranquilli, almeno per Tonino, ne fa fede una lettera
affettuosa ad Adriano come risposta all’invito di essere ospite per Pasqua
dalla quale traspare il fondale della loro relazione. Tonino gioca con le
parole, maschera ma non troppo con frasi altisonanti il tipo di rapporto fra
loro, dice facendo finta di non dire, dice che anche lui è al mondo, che ha
anche lui diritto di vivere come lo stesso diritto lo riconosce ad Adriano e s
pare proprio che rimandi al passato,e ad Adriano chiede che quando anrà a
trovarlo non gli faccia pesre la grande differenza delle reciproche condizioni,
potrebbero bene “regnare insieme”; pure si rammarica che neanche in politica
siano stati d’accordo, hanno cambiato idea politica prendendo quella dell’altro nello stesso momento trovandosi allo
stesso punto di partenza; “tutto
cambia ma resta la medesima cosa”.
“Caro Adriano.
Non è giusto che io debba essere il solo padrone sulla terra. In verità
ti dico che ci sei pure tu al mondo.
Come pure non è giusto che quando vengo a farvi visita, voi tutti vi
diate da fare, un grande da fare, per buttarmi a terra. No! Adriano no! Noi due
dobbiamo regnaare assieme. Appunto per la semplice ragione che Dio, il nostro
Signore, non a caso ci ha creato simili. Ma io, Adriano, non ti voglio
impaurire: Direi che se proprio mi volete con voi per le feste pasquali,
accettatemi il lunrdì di Pasqua. La santa Pasqua la devo passare con la zia a
Dicomano.
Per concludere, aro Adriano, tu eri nato Comunista e ti sei fatto
Socialista.
Io ho fatto all’inverso. Ciao.
Tonino.”
Quell’ “in verità ti dico” di evangelica memoria è una
vera perla. Sembra davvero trasparire anche una vecc
hia contesa su chi aveva più diritto a vivere nella casa del babbo di
Tonino dopo che si era risposato; Adriano ha vinto, Tonino è finito in
manicomio. Non si sente però di esprimere con chiarezza il suo pensiero, gli
risponderebbero subito che si sbaglia, che lui dice a quel modo perché è
malato ed allora per dire ciò che pensa non ha altro modo che far finta di
dirlo, che poi è la prassi del “dire schizofrenico”.
Il dire di Tonino che ha cambiato idea politica necessita un
approfondimento per capire anche la realtà manicomiale. Se un tempo frati e
suore facevano propaganda per la D.C. coartando la fragile coscienza dei
ricoverati, cambiato il vento politico, l’assunzione da parte
dell’amministrazione comunista nel manicomio sansalvino di personale di
provata fede rovesciò la medaglia e così cambiò tutto per non cambiare nulla,
cambiati i suonatori rimase la stessa musica, quella di perpetuare la violenza
anche psicologica ; Tonino, ma fu preso in ridere perché matto, lo
denunziò in una pubblica assemblea in
cui si discuteva sul manicomio, così si espresse. “Sono venuto in manicomio
che ero socialista e nel manicomio mi è stato spiegato che io dovevo diventare
comunista; lo sono diventato ma sono restato socialista”.
Desidera di andare d’accordo con Adriano superando inutili contrasti e
pertano chiede all’altro fratello di Adriano, Adolfo , al quale si sente più
legato, di mettere i suoio buoni uffici .
“Caro Adolfo.
Avrei potuto scrivere:caro fratello. ma io non oserò mai trattarti
diversamente da come tratto Adriano. Ti ricordi quando tu miscrivevi lettere
dalla Sicilia, la lucente trimacria. Chi sa mai perché noi tre non siamo
siculi. Adriano è nato comunista e si è iscritto al P.S.I. io che reo nato
socialista mi sono iscritto al P.C.I.
Solo tu Adolfo potresti metterci tutti e due sul chi vive, dimmi cosa ne
pensi di questo mondo arrembato, come appunto diceva la mamma Zita.
Lunedì di Pasqua sarò a pranzo da Adriano, spero di incontrarti.
Tonino.”
Potevano essere gli angoli di un
triangolo, distinti ma uniti, tre anime in un nocciolo, ma così non è. Adolfo
può far capire lo sbaglio a lui ed a Adriano. E nella breve ma commovente
lettera affiora il rispetto ed il rimpianto per “mamma Zita”.
A Tonino è rimasta una vecchia zia, sorella del babbo, e talvolta la va
a trovare, è la zia citata nella lettera ad Adriano; é una vecchietta che
sembra stia morendo da un momento all’altro, dice lui, ma che invece fa ancora
i tortellini da sé, è contraddittoria, fonte di turbamento per Tonino e di
perplessità anche per il modo di manifestargli l’affetto, in maniera troppo
patetica quasi da sembrare falsa, quasi da sembrare una presa in giro.
La perplessità nei confronti della sincerità della zia è tanto grande
da pensare di chiedere consiglio e lumi addirittura a Papa Montini, solo il Papa
può dirimare i suoi dubbi. Mescola il cavolo con le Quarantore, è vero, ma così
facendo mostra anche l’essere intrappolato in un “doppio legame”. La
lettera anche se buffa è umana e sofferta, parla delle sue perplessità, parla
della difficoltà di comprendere certe comunicazioni poco limpide, eccessive
rispetto alla necessità che la situazione richiede specie se rapportate ad
altre comunicazioni di tono e di stile opposti,
in particolare se recepite tramite il “non verbale”, realtà che traspaiono
dalla lettura della missiva.
Reverendissimo Padre.
Sì, sono sempre io. Né i tempi, né le arie riescono a mutare quello
che, con il di Ella consenso, oso chiamare il mio Spirito.Dodici anni, ben
dodici feste dellAssunzione, senza che io rivedessi il caro volto della zia
Assunta.
Io non posso, no. Io non posso abbracciare tutta la Umanità. Et dans en
friçon d’espoir, domandare a tutti il Perché; solo 3 o 4 volte in vita mia
io ho udito e soilo casualmente, pronunciare la parola “Madornale” o “Madornalesimo”.
Io ho soltanto un poco di Spirito e quasi nessuna cultura. Io voglio bene a mia
zia; ma lei tutte le volte che mi vedeva mi abbracciava e stringendomi forte,
esclamava”eccolo quì il mio nacchero, eccolo quì; è bellino lui!!!” Io
ascoltavo in estasi e quasi mai reagii a tanto affetto né a tanto entusiasmo.
Questa sera, caro Monsignore, non resisto più. Grido forte!?! Ci
occorrono 500.000.000.000 di Montini per costruire un’asse, da potersi
chiamare Roma-Berlino. Vorrei, in poche parole, che Vostra Santità fosse
sincero e tanto sincero da confidarmi il Segreto: è mia zia che vuole vedere me
morto, oppure sono io che vorrei vederemorta lei. Che Vostra Santità rompa il
ghiaccio. Oramai la Bibbia non è più muta; parla e dice:da Montini siamo nati
e in Montini torneremo.
Tonino.
Riannodare rapporti corretti tra lui ed i parenti,
“costruire un asse, da potersi chiamare Roma-Berlino” è così difficile che non basterebbero cinquecento miliardi di
Montini, però solo nella sapienza del Papa confida
al quale invia l’attestato conclusivo,
Papa Montini per Tonino è la Fede, è la Speranza, è la Sabbezza, è l’alfa
e l’omega. Comunque continua ad andare a trovare la zia ed a passare la Pasqua
con lei.
Mantiene buoni rapporti anche col cugino, figlio della veccia zia. Ecco
la lettera al cuginocon quel bollettino della vittoria rifatto a suo uso e
comsumo, commovente nel finale, si autoinvita a desinare perché l’appetito
gli è ritornato
“Caro Franco.
Non ti dimenticare di porgeredue bacioni alla Carla ed uno per uno alla
Govanna ed alla Vittoria. Ormai tu hai visto come ho saputo vincere la mia
battaglia. I resti di quello che fu al mondo dei miei avversari il gruppo più
potente, risalgono in silenzio i fiumi che avevano navigato con orgogliosa
tracotanza. La Vittoria è tua, Franco. Io per te ho pugnato e vinto. Ti prego
di mandarmi l’indirizzo esatto della zia Assunta. E, se vuoi, puoi dirmi
quando potrò venire a pranzo da te. Il mio appetito è tonato quasi per
miracolo: Credevo proprio che fosse giunta la fine,
tuo Tonino.”
E’ originale l’inizio per i baci
mandati in prima battuta; ed il nome di una delle tre donne, la Vittoria gli da
lo spunto per parlare di una sua vittoria non meglio precisata. Tonino nel suo
scrivere è lapidario, le sue lettere pur nella sfrenata fantasia con la quale
associa parole ed idee non sono mai lunghe e ripetitive; quel “La Vittoria
è tua, Franco. Per te ho pugnato e vinto” sembra tratta dall’Aida di Verdi.
Scrive anche ai figli di un un altro figlio della mamma Zita. Vengono
presentate due lettere, una a Giovanni per invitarlo ad essere un bravo ragazzo
prendendo esempio da lui, perché si avvicina la fine del mondo, Tonino lo sa
bene in quanto è bene infomato dai suoi collaboratori sparsi per ogni dove;
l’altra è per Paolo e Giovanni, è una lettera di uno zio affettuoso e
premuroso, desideroso di esser invitato a pranzo.
“Caro Giovanni,
ti prego, come ho fatto e facevo sempre, di essere ubbidiente ed
ossequioso nei confronti dei tuoi genitori.
Te lo dico adesso, ciò che devi fare, è in base al fatto che l’ora in
cui i buoni saranno Eleti è giunta, è vicina, wibila jest, così usano dire i
cittadini polacchi, fra i quali ho tanti amici e collaboratori.
Srivo poco, sono stanco; ho tanto lavoro ed ho tanto da fare,
tuo zio Tonino.”
“Cari Paolo e Giovanni,
Ho gijutato di non abbandonarvi r manterrò il mio giuramento.
Sono molto occupato. ma un poco di tempo ve lo voglio dedicare. Devo
dirvi che la salute è buona ma non
vorreio essere io sano a fare il guappo di fronte a due nipoti sofferenti.
Quindi mi auguro che anche voi stiate bene.
Dite a Franco vostro padre che ho incontrato il signor Cappelli che stava passeggiando nelle vicinanze del Ponte
Vecchio; gode buona salute ed invia i suoi migliori auguri.
Ragazzi!! Se mi volete bene ditemi voi quando devo capitare lassù per un
buon pranzetto. Scriverò più a lungo in seguito,
Tonino
Srive una lettera matta ad un vecchio zio in cui parla del re Costantino
di Grecia.
“Caro zio Ugo.
Non so, non capisco bene. Io ti voglio bene e questo è un fatto. Ma che
fatto sarebbe se come fatto si intendesse essermi io lasciato abbindolare da Sua
Altezza il Re Costantino di Grecia, il quale, stanco, chi sa mai il perché, di
regnare, profittò che ti volevo bene, per trovare stoffa bastante a far saltare
il trono.
Zio ugo, io ti voglio bene. Ma tu non devi dimenticare che io sono figlio
della strada. Quella strada sulla quale fu abbandonata la famiglia tutta.
Tonino
P.S. Ti prometto che sarò saggio”.
E’ una lettera, si badi
bene, piena di sentimento e commovente nel poscritto come un bambino sa
coomuovere; però in quel “sarò saggio” fa
intravedere malefatte bizzarre se non pazzesche nei confronti dello zio Ugo a
cui vuole bene, se gli ha dato dispiaceri è stato per strane ragioni che non sa
spiegarsi, forse c’entra re Costanino di Grecia o qualcuno che gli ha
rassomigliato che profittando della
bontà di Tonino, fece in modo che lo zio perdesse il suo ascendente su di lui,
chissà, ma lo zio lo deve perdonare perché è senza colpa, il destino lo gettò
“sulla strada” e con lui tutta la famiglia.
Da ragazzino, dopo la quinta elementare, andò ad imparare il mestiere di
falegname ma guadagnava poco (dalle venti alle venticinque lire al mese) e per
questo ma certamente non solo per questo appena giunta l’età giusta fece
domanda di arruolamento in Marina; fu arruolato nel ‘40, a venti anni e per
tre anni prestò servizio militare come effettivo adibito dapprima a servizi
vari e poi come infermiere e come radiotelegrafista, si mise a studiare da sé,
diventò marinaio scelto, al tempo dell’armistizio
stava per prendere il grado di sotto-capo.
Del servizio militare in Marina gli è rimasto un ricordo indelebile,
fino al ‘76 circa andava in giro
con un cappello con la tesa, turchino, con un’ancora dorata sul davanti; è
rimasto fedele al giuramento al Re fatto a suo tempo, è socialista ma sempre
monarchico. Tale ricordo lo palesa
in tante lettere; in una particolarmente scritta per i compagni, gli amici, i
fratelli imbarcati con lui su una unità da guerra ai quali parla del comandante
morto, nella lettera per sentirsi importante accenna anche ai suoi rapporti col
Papa ed invita i destinatari a leggere la Divina Commedia come fa lui affinché non restino barbari e reazionari.
“Compagni, amici, fratelli.
L’ultima parola che io ho scritto è fratellki. fra fratelli si usa
consolarci. Io, dopo la immatura fine di S.E. l’Ammiraglio Fabri ho operato.
La bella immagine della nostra cara nave l’ho donata a S.Santità Padre Papa
Paolo Sesto. Non vi domando di dirmi se io abbia fatto bene o male; sono certo
di non avere sbagliato.
Vi comunico che ho ripreso a leggere la Divina Commedia di Dante
Alighieri, mi fa bene e vi
consiglio di fare altrttanto. Altrimenti dovrei dire che la barbarie della
controoffensiva redatta contro la mia battaglia democratica e comunista sia
dalla vostra parte.
Scrivete e perdonate.
Marinaio Brogiotti Tonino.
Venne a casa con l’8 settembre ma
non aveva nulla da fare né dove andare, cercava un lavoro che non trovava. Si
recò allora al comando tedesco in piazza San Marco a Firenze a chiedere il
“permesso” di recarsi in Germania a lavorare e partì.
“In tre mesi” mi raccontò il Brogiotti, “fecero di me un
deportato, per la mia ingenuità”; l’ingenuità fu quella di non tenere in
tasca il documento comprovante la sua posizione regolare di cittadino italiano
che lavorava nell’industria tedesca (era occupato in una fabbrica di accessori
per automobili a Dussardolf) ed una sera, uscito per recarsi al cinema, fu
fermato da una pattuglia di poliziotti; non aveva in tasca il documento
richiesto e fu quindi assegnato ad un vero campo di concentramento. Di quel
periodo mi ha narrato di un episodio commovente: assistette alla morte per fame
di un prigioniero che si era rifiutato il cibio dato dai tedeschi. Quando si
accorse che era proprio in fin di vita mise tre o quattro candele intorno allla
branda dove si stava spegnendo l’amico ed attese lì davanti, in piedi ed in
silenzio, pazientemente, la fine dello sventurato.
Tornò in Italia dopo la prigionia, che aveva 26 anni e nel turbinio
politico di quel tempo, come pioniere dell’intrnazionale voleva portare in
tutto il mondo le speranze del Socialismo. Non avrebbe voluto più lavorare
ma dedicarsi tutto alla Causa senza esigere niente per sé.
La sua inquietudine lo portò ad emigrare in Svizzera da dove però volle
essere espulso:aveva trovato lavoroin una mensa aziendale (“in un ristorante
grandioso” dice lui) dove serviva a tavola, spazzava e rigovernava. Dormiva in
una stanza dentro il piccolo teatro che l’azienda aveva costruito per i
dipendenti, cominciò a sentire voci che lo irritavano ed una notte prese della
benzina, la versò sulle assi del palcoscenicoe dette fuoco. All’istante si
pentì di ciò che aveva fatto, prese un estintore e spense l’incendio.
Nessuno si era accorto di nulla ma Tonino provò un terribile rimorso per ciò
che aveva fatto, andò dal direttore della fabbrica e gli chiese di chiamare un
poliziotto per farlo accompagnare alla frontira e d espellerlo. Il direttore gli
rispose. “Contento te....!” e lo esaudì. Il poliziotto che l’accompagnava
tentò di dissuaderlo ma invano, Tonino non si sentiva degno di restare in
Svizzera a causa del gesto compiuto; prima del confine gli consgnò, su incarico
dell’azienda, la paga corrispondente a due mesi di lavoro e con quei soldi il
Brogiotti si mise a viaggiare per tutta l’Italia a parlare di Libertà, di
Giustizia, di Socialismo, di Rivoluzione.
Quando finì il denaro gli si aprirono le porte del manicomio da dove non
è più uscito.
Nel manicomio continua ancora il suo sogno giovanile e scrive a Craxi, a Berlinguer, a Nenni. Lui che si è
iscritto al P.C.I. ma che nell’anima è sempre socialista dimostra questo suo
attaccamento ai suoi ideali nella lettera indirizzata a Craxi come segretario
del P.S.I. nella quale lo invita ad andare avanti non curandosi dei Leoni
(del presidente dell Repubblica Leone e di quelli intorno a lui) garanti
di un ordine di un tempo ormai sorpassato (“ditro ognuno di essi vegliano
le Guardie Regie”) ; con la lettera invia a Craxi, quale omaggio e
tesimonianza di fede, quasi tutta la sua produzione poetica.
“Io marinaio Brogiotti Tonino ho soppesato per trenta anni di gravi
pene il materiale che quì vi espongo e che ho accumulato trentacinque anni fa
durante il servizio nella R. Marina ; dopo aver soppesato per trenta anni e
vagliato pro e contro fra le due dottrine filosofiche. Una il P.C.I. et D.C. e
l’altra P.S.I. e fascismo.. Soppesando ho costatato che è il P.S.I. che
uccide il fascismo e libera il paese dall’odiato straniero.
Queso materiale lo ritengo bastante a creare una maggioranza perlamentare
del P.S.I. et portare il P.S.I.al vertice governativo (i Leoni fanno è vero
paura, ma dietro ognuno di essi vegliano le Guardie Regie).
Usa gli “et”
telegrafici, (era stato marconista), a sottolineare l’importanza della
comunicazione, da uomo importante ad uomo importante.Ed ecco le poesie:
“In memoria di un compagno marinaio perito per infarto cardiaco
(1942-43)
Se un dì l’umano essere in un Dio
Più
creder non volesse
In
cerca andrebbe, ho pensato io
Di
un tal che pace desse
Ai
suoi spiriti bollenti
Sempre
proclivi ad eccedere
In
fanatiche passioni incoerenti
Ma
ai suoi detti finirebbe poi col credere.
Quì
il dubbio mio è grande in quanto che
In
me si affaccia con logica chiarezza
Avendo
già provato su di me
Qual
da serenità finii nell’incertezza.
Parlo
del dì che trovato in un amico
Dei
miei pensier amministrator fedele e saggio,
La
mia mente per lui era aperto plico,
Il
suo elevato spirito fu per me miraggio,
D’orgoglio
unvago senso
Mi
prese in un momento.
L’ffrontai
e dissi: penso
Che
nel tuo dir non v’è discernimento.
Sorrise
e se ne sndò; mi parve strano
Che
offesa non vedesse nel mio dire
Ma
in me più nulla era di umano
Così
credetti ch’ei volesse assentire.
Ma
presa che ebbi la via da me segnata
Mi
accorsi, o Cviel che duro era il cammino,
Non
avevo più pace e come anima dannata
Per
sfogarmi maledivo il destino.
Tornai
sovra i miei passi e fui accolto
Come
prodigo figlio e con ugual sorriso
A
me si dedicò per farmi colto
Di
Divina Materia con dir conciso.
O
esseri che in Dio più non volete
Finisco
col dire ciò che ormai sapete,
Avendo
quì con versi alquanto spiegato
Che
Dio deve esistere
Che
Egli va amato”.
<<<>>>
“Nel rosso cuor che quì nel petto porto
Una
falce ed un martello è scolpita
Ma
se della ragione con trasporto
Non
faccio uso, compagni è finita”.
<<<>>>
“Sembrami o parmi, io non so preciso,
Ma
a lungo andare darmi
Dovete
partita vinta: è deciso”.
<<<>>>
“Sì come bimbi sull’umana sabbia
Regi
ed Imperatori in tutti i tempi
Fecero
a gara a chi più ne abbia
Talento
a dar di fantasia esempi.
Scavaron
fosse, costruiron torri,
Solchi
e muraglie fecero quei pazzi
E
grida e salta e schiamazza e corri
A
costruire ancora dei palazzi.
Ma
ora su quella sabbia finalmente,
Dopo
un’oscura notte preceduta
Da
un tramontotriste e sanguinante,
Una
rossa aurora è succeduta.
E
dilà dall’oriente allor si parte
L’onda
che ancor l’umana sabbia attende:
Non
è figlia di Nettuno né di Marte,
Ma
è madre della sabbia e la distende”.
<<<>>>
“Marsiglia per te adesso penso e scrivo,
perché
mi piaci, perché bella sei,
anche
perché di ogni artificio privo
il
leggiadro aspetto tuo io crederei.
Par che natura abbandonar non voglia
tu
che nel pien del suo cuor sei nata,
quindi
ti cinge, ti penetra, ti taglia,
di
monti,boschi e rivi la sua amata.
I tetti, i balconi, le terrazze
tinge
il sole al tramontar, del più bel rosso,
t’amo
Marsiglia e di te vo pazzo
pur
se chi vive in te amar non posso”.
<<<>>>
“O pesciolin che salti fuor dell’onda
e
attento sguardo lanci tutt’intorno,
dimmi
se nel vedermi sulla sponda,
mi
invidi o mi compiangi in questo giorno.
Ma
son felice sai, nonn tanto quanto
forse
tu sei nel liquido elemento,
quando
nell’ombra del tuo mondo il canto
delle
correnti ascolti e sei contento.
Di
pace il mondo tuo lo credo pieno,
di
gioia il cuore tuo vibrar lo sento,
quando
guizzante passi come il vento.
Tu
sei felice sì, dimmi qualcosa almeno,
del
pari tuo son credimi amico
io
pure soffro e spesso mi tormento,
è
pien la vita mia e non ti dico
quel
che sia l’insidia e il tradimento
che
ascosi son quì per ogni dove.
tanto
che v’è chi mangia i figli suoi,
e
rapido ti affrra quando muori.
Ignote
vie percorrere tu vuoi;
dai
suoi simili pur non sono amato
che
mille e mille mezzi usano quando
braman
vedermi imprigionato;
credimi
amico, nel destino vo fidando”.
<<<>>>
“Si parla e si riparla ancora
Ma
una ricostruzion per farla
Non
basta solo un’ora.
Vi
è poi chi dice pure
Che
per il popolo italiano
Ci
voglion leggi dure
Tipo
mussoliniano.
Chi
vuole l’assoluta monarchia,
Chi
la dittatura di stato;
Dittatura
ebbene sia
Ma
del Proletariato”.
Poesie di poco valore letterario, ingenue, sorpassate e sbiadite, la
metrica lascia a desiderare, il ritmo sovente zoppica, la rima talvolta è
difettosa; sono i difetti che portano a credere che le poesie siano scritte da
Tonino e non copiate. Sono ricordi di vita vissuta, intima, aver trovato un
amico in cui confidarsi e l’averlo disprezzato e l’esser ritornato
dall’amico dopo essersi trovato disperato e l’essere di nuovo accolto a
braccia aperte; sono immagini e ricordi di luoghi conosciuti , Marsiglia con i
suoi tramonti , il suo paesaggio e la donna che non può amare; o confidenze ad
un pesciolino; oppure dichiarazioni della sua fede politica, spendido a mio
parere l’immaginifico paragone tra gli umani e la sabbia sopra la quale i
potenti costruiscono il loro fasullo potere perché basato sulla sabbia (e la
sabbia ad un tratto ritorna ad essere la sabbia vera) e la rossa aurora che
diventa un’onda, un’onda che è madre affettuosa dell’umana sabbia. O
sfoghi,E se dittatura ha da essere perché da noi ci voglion leggi dure “dittatura,
ebbene sia,/ ma del Proletariato”. Ma non basta aver fede, ci vuole anche
un po’ di gnegnero se no è finita lo dice ai compagni ma nche per sé,
purtroppo.
Tramezzo alle poesie ci mette un pensierino su due versi, profondo e
vero:
“Si è lieti quando siamo veramente felici
ma non siamo felici quando si vuole essere lieti”.
L’essere lieti e felici sono uno
stato d’animo spontaneo, non si può essere lieti a comando, non ci si può
imporre di essere lieti.
A
Craxi rimprovera in un’altra lettera, siamo nella crisi politica
del ‘78, di non essere abbastanza ardito nel prendere le redini del
governo e lo punisce: voleva mandargli una serie di cartoline di Fgirenze e le
invia invece a Nenni, il vecchio leader a lui caro. La lettera ha un tono
distaccato, parla a Craxi che è il destinatario facendo finta di parlare con un
altro:
“Mi sento tutto confuso. Ho dovuto punire, per così dire, S.E.
l’Onorevole Bettino Craxi. Quale è la punizione?La punizione: io avevo
ricevuto in dono due o tre serie di cartoline con magnifiche vedute della città
di Firenze. Mia opinione era quella di regalare le tre serie, una a S.E.
l’On.le Enrico Berlinguer, una a S:E. l’On.le Bettino Craxi e l’altra, la
terza, a S.E. Indira Gandi alla quale persona io sono molto,affezionato.
Mentre io speravo, mi sono accorto che S.E. l’On.le Bettino Craxi ha
evitato di premere per andare occupando la carica di S.E. l’On.le Andreotti il
quale pure un bimbo affermerebbe che quell’uomo è oramai più stanco.
Alla fine ho dovuto sostituire Craxi con l’On.le Pietro Nenni.
Non me ne vorrete.
Tonino”
La lettera a Nenni che segue parla di sé, è amara, commovente perché
pregna di delusione,impotente di fronte a quelli che senza far nulla parlano e
mormorano e basta, però lui ancora crede e spera, lo fa da 77anni, ancora prima
di nascere:
“Essere così grande, trovarsi di fronte a un mando così piccolo e
dover ascoltare le persone che mormorano senza poter far niente.
Essere così piccolo ,trovare tanto spazio e non poter far nientealtro
che lasciarsi gonfiare dal Mormorio sino a divenire tali e quali nella testata
del foglio.
Avere vissuto tante esperienze le quali si sono liquefatte come neve al
sole lasciandomi solo con una gran testa vuota.
Ma ciò che terrorizza è il fatto di sentire la pienezza del Mormorioa
niente utile, se non a lanciare nello spazio il Socialista ed esserlo da anni
77.
Tonino”.
La lettera a Berlinguer (“Vostra Onorevole Eccellenza” così
comincia e non si capisce se è un atto di doveroso ossequio od una presa in
giro) è una lettera di rimprovero per come è stata portata avanti la crisi di
governo del ‘78: l’assersi messo d’accordo con la D.C. invece di puntare
ad un governo della sinistra ( fu più coerente nella sua azione Mussolini, ed
è tutto dire). Anche Tonino però si sente in colpa ché in una precedente
lettera , per eccessiva speranza, aveva parlato di sicura vittoria; purtuttavia
non si doveva arrivare a quel cedimento e per questo si sente confuso ed
avvilito:
“A Vostra Onorevole Ecc../nza.
Perché, perché, io mi domando, come è stato possibile errare?La colpa
mia è di avervi, in una mia, parlato di una certa Sicura Vittoria. Io l’ho
fatto in un momento di eccessiva fede.
Ma ella, On,le come ha potuto obliare ciò che fu e non fu che solo
bestiale incoerenza. Sua Ecc.nza il Duce restò fedele all’Avanti in quanto ne
fu capo redattore. Ciò che avvenne dopo dipoi non ha importanza, era che i
socialisti, pugnal fra i denti, corressero alla avanzata protetti alle spalle
dal caro e generoso P.C.I.
Abbiamo fallito il colpo; ma io non mi tolgo la giacca per stenderla sul
fuoco sacro.
Vi scriverò ancora quando sarò più lucido.
Tonino”.
Nel pomeriggio dello stesso giorno in cui scrive a Berlinguer scrive ad
un certo signor Nino Valentino, addetto alla stampa e propaganda della
Presidenza della Repubblica e sfoga
con lui il suo rammarico e la sua delusione:
“Gent.mo Signor Nino.
Sono sempre quì. tale e quelo lo mi avete incontrato. Eh! Sì, non si
puole.Oppure quanto a me, o per quel tanto che mi riguarda, mi sento incapace di
immaginare, di non dover essere più
quì in questo Maschio.Quì mi ci sento come uno di quei tanti, aimè pochi:
Martiri dello Italico Risorgimento. Ma quei pochi, aimè troppi Martri dello
Italico Risorgimento non tendono a me la mano a mo’ di soccorso, né infine a
somigliarmi.
La buona anima di S.Ecc.nza. l’Onorevole Palmiro Togliatti usva dire in
vita:se mi somigli! Io è da tempo che amo tutti i comunisti, ma non, aimè,
tutti quei capi che li guidano.
Tonino”.
Lo stile è solenne per dire che per quanto lo riguarda personalmente
ormai non può pensare di vivere fuori dal manicomio anche se lì è in prigione
ed a seguito di traversie causate da ideali politici, si rassomiglia infatti ai
Martiri del Risorgimento; e quando parla di quei Martiri tanti aimè pochi,
pochi aimè troppi sembra riecheggiare
il Brecht del “beati i popoli che non hanno bisogno di martiri. In quel finale
poi anticipa di decenni i tempi che corrono.
Del
manicomio conosce bene tutti i reparti, ha vissuto un po’ in tutti, subendo
anche le violenze fisiche che in manicomio sono di ordinaria amministrazione; mi
diceva: “Quando arrivai in manicomio ero distratto, ero poeta ma non avevo la
cultura per fare il poeta e allora mi facevano la strozzina perché mi vedevano
distratto, trovavano il verso di farmi perdere la pazienza e allora ricevevo le
busse che si danno a tutti quelli che perdono la pazienza”. Quanta umanità!
Quanta verità in quel “trovavano il verso di farmi perdere la
pazienza”! quel dirsi poeta poi è per dire che era un sognatore idealista che
voleva fare il politico senza avere “la cultura”, il non saper far uso della ragione di cui parla in una sua
poesia.
Dopo tanti anni il nostro Brogiotti è calmo, quieto e rassegnato, gira
con una cartella di peelle che sembra più grande di lui, come un ragazzino che
va a scuola, e nella borsa tiene tutti i
suoi beni, il fazzoletto, il pettine, le sigarette, la radiolina la carta da
lettere con le buste, la penna. Esce dall’ospedale e va a cercar fortuna,
qualche pezzo da cento lire che riesce a raccapezzare quà e là per arrotondare
la pensione. Sembra smorto ma dentro gli batte un cuore di innamorato perché
lui innamorato lo è sempre. L’ultimo suo grande amore è la Franca, la si è
già incontrata, una compagna di manicomioche gli sperpera tutto il suo poco
denaro; ma si sa , l’amore è cieco.
Scrive, partecipa a chiunque il proprio tormento e l’ansia di convolare
a giuste nozze con la Franca. A Nenni, al Papa; al direttore
dell’ospedale,consigliato dalla Franca, chiede di essere
aiutato:
“Signor direttore.
Vorrei che ella sentisse questo grido che dal profondo dell’anima mi si
diparte: pronto ad esultarle le partole della Franca. Ieri mi ha parlato ed
infine mi ha consigliatodi chiedere al signor Direttore una casetta di tre
stanze per noi due.
Signor Direttore!!!! non lasci che il grido finisca nei miei colossali
piedi di argilla. Sia duro. Reagisca.
Brogiotti Tonino.
Le donne: tormento ed estasi per il nostro Tonino; non si è mai sentito
amato veramente da alcuna e di loro ha un grande timore e purtuttavia ama,
riamma e riama ancora. E’ stato a letto con le donne solo a pagamento (“da
giovane, in via de’ Federighi, uno scudo d’argento”)ed ora la Franca gli
pela quei pochi soldi che ha e non gli concede alcunché; né egli peraltro le
chioede qualcosa. Vorrebbe solo salvarla, vorrebbe donarle pace e gioia ma non
ci riesce; e non può riuscirvi,lo possiamo ben dire conoscendo la Franca che
dopo un lungo periodo fra alti e bassi, di fughe maniacali e di gravi disordini
interiori che la facevano bolla re per “caratteropatica” (e giù
elettroshock) è ntrata in una dimensione esistenziale schizofrenica, ultimo suo
ripiego e difesa (il manicomio è una fabbrica di pazzi), ultimo suo modo di
comunicare e di capire il perché delle sue angosce, delle sue perplessità,
delle sue delusioni, del suo patire. A suo tempo la fecero sposare con un
biscugino del Brogiotti, anche lui ricoverato a San Salvi, dal quale ebbe anche
un figlio; poi si separarono. Ed il nostro Tonino è l’unico che abbia amato
ed ami la Franca.
La Franca è “la prima” , quella a lui più cara, il Brogiotti
lo dice al suo ,amico Serse Agnato, per lei ha speso in poco tempo
settecentomila lire. E’ la prima di chi sa quante migliaia di donne che
vorrebbe prendere in sposa. Nella lettera, accanto al confessare all’amico i
suoi sentimenti riguardo alla Franca, c’è la richiesta di amicizia con le
espressioni di affettuoso attaccamento all’amico dette con parole fantasiose,
con quel “logorio” che ricorda il pubblicitario ”logorio della vita
moderna”; c’è il confidargli di star bene economicamente ( gli devono
essere arrivati gli arretrati della pensione e per questo può soddisfare con
liberalità le voglie della Franca; oltre a ciò fa trasparire come la madre di
Serse vorrebbe allontanare il figlio da lui e come lui, Tonino, si sia accorto
che non li abbia messi in contatto telefonico quando gli ha
telefonato, lo dice parlando di un suo incontro con un’amica comune. E
nella lettera affiora uno sprazzo di vita manicomiale,quei poveri amori, quelle
larve di amori, che mirabilmente spuntavano in quella landa sconsolata di sassi
e di sterpaglie.
“Mio caro Serse.
Mi è sembrato che, aspetta aspetta, quella virtù che sta
nell’amicizia si logora nel tempo e non da luogo a riparazioni; questo, questo
voglio dire. Vogliamo noi che il logorio abbia ragione di noi tutti ed
aspettando questo nefasto evento ci vogliamo mettere a guardarci in cagnesco?
Bene! Noi non lo vogliamo, no!
Questa sera ho incontrato la Cleofe. Si è fermata e mi ha, come al
solito, domandato di te. Io ho fatto da nesci e dopo averla informata , sì e no
per l’ennesima volta, che quella sera avevo sì telefonato al tuo numero, ma
senza poter impedire a tua madre di assicurarmi che tu eri in casa e che stavi
benone. In quel momento qualcosa è apparso negli occhi della ragazza. Quegli
occhi volevano dire: Matu Briogiotti chi sei? Non ti ho sempre voluto bene, e
allora perché non mi chiedi in Sposa? Quel lampo mi ha colpito e mi ha fatto
pensare a quante Migliaia di donne io vorrei togliere in sposa. Mi sono
vergognato e così via.
Caro Serse, ti informo che da tre giorni sono milionario. Sì, proprio sì.
Ma non sposerò la Cleofe perché non è la prima; la prima è la Franca: io per
lei ho speso 700.000 lire nello spazio di pochi mesi. Io ho, in tal modo, avuto
la fortuna di conoscerla, cosa che ancora non sono stato capace di fare con la
Cleofe.
Ti saluto, sono stanco, buona notte.
Brogiotti Tonino.
Nella lettera balena pure uno sprazzo di vita manicomiale, quei poveri
amori, quelle larve di amori che talora spuntavano fra i sassi e la sterpaglia
di quel luogo sconsolato
E’ pronto anche a mettersi da parte essendo la Franca felice senza di
lui; ne fa fede un bigliettino che le scrive, delicato e riguardoso, le da del
lei:
“Lei è felice. Sì Lei è felice perché si sente unita al
suo sposo che è in cielo.Ecco perché non le farò visita per le Sante Feste.
Tonino Brogiotti.
Un amore impossibile visto lo sfascio ideativo della donna amata, fonte
di dolorosi turbamenti che però in breve tempo si dissolvono, un amore che lo
incalza furiosamente, un’ossessione il cui nome, chissà perché, gli ricorda
quello della Petacci. Di tutto ciò ne parla con Mafalda, altro suo grande amore
chiedendole aiuto.
Ecco la lettera:
“Qualche cosa che in breve si potrebbe
attribuirle è il nome “Diavolo alle calcagna” Un momento di
timore, uno di terrore, poi ancora uno di spavento e tutto passa e si scioglie
come neve al sole. Chi non si scoglie come neve al sole è lei, la donna.
Come tu, sai ne ho una, la Franca, un nome splendido, un nome che è
splendido: mi ricorda quello della grande Petacci. Io non so cosa fare. E se tu
mi salvassi?!? Se tu venissi a me e quegli spaventi e quei terrori divenissero
onore e gloria a questa nostra povera Italia. Es get alles varuber.
Tonino”.
L’andare a lui di Mafalda scatenerebbe un atto così eroico che la
povera Italia ne avrebbe onore e gloria, l’Italia,
la Patria che sta al disopra di tutto, lo dice sfoggiando davanti a Mafalda il
suo tedesco scrivendolo però come lo parla, storpiandolo anche, quel “varuber”
sta certamente per “vor uber”,
“questo, (la Patria), sta al disopra di
tutto .
Mafalda, il suo amore impossibile. La Franca è separata legalmente e può
sperare di sposarla; purtroppo Mafalda è sposata e Tonino ce l’ha a morte con
Remo, il marito, che gliela soffiò, gliela portò via a suo tempo. A Mafalda
Tonino scrive lettere d’amore, a lei apre il suo animo, la fa partecipe dei
suoi sentimenti più intimi e nascosti, addirittura inconfessabili. In una
lettera su carta rosa, contornata da variopinti fiorellini, le comunica le sue
paure, le sue ansie, il suo stato presente e quello futuro lontano ed oscuro,
trema al pensiero di ciò che il rifiorire della primavera gli può scatenare
dentro, la vendetta certamente solo a parole contro i vivi e contro i morti,
contro anche suo padre reo forse di essersi risposato:
“Cara la mia Mafalda.
Non ti parlo della mia salute: non me ne intendo. Tutto ciò che ti dirò
riguarda questa febbre, questa smania di grandezza che mi divora. Tremo al
pensiero che fra breve fiorirà la primavera e questi miei nervi, ora
intirizziti dal gelo, potranno alfine distendersi verso lontani e più oscuri
orizzonti.
Questa mia smania tramanda i miei più felici pensierini ad una voglia
matta di fare da me solo e per me solo, una unica vendetta.
Io sogno di vendicarmi, sì. E sogno di farlo, e sui vivi, come ad
esempio su Remo, e sui morti, come ad esempio su
mio padre.
Io soffro tanto Mafalda e solo tu mi sai e mi puoi consolare. Sii felice.
Il tuo Brogiotti Tonino, marinaio, ecc.ecc.”
Lettera dolce ed umana, appassionata e triste, Fa anche sorridere, Tonino
non si smentisce mai, è anche ironico nei suoi “più felici pensierini”
ma immalinconito in quel “marinaio ecc.ecc.” in cui è
sintetizzato il suo destino crudele e tormentoso, e suggellata la sua tristezza.
In un’altra lettera a Mafalda si scusa con lei per l’andare troppo
spesso a trovarla, si scusa dell’amare un’altra donna, forse la vuol fare ingelosire pur dichiarandosi sempre
innamoratissimo di Mafalda, le spiega perché spende i soldi per la rivale, ma
non li sperpera come male linguei nsinuano , é a causa
dell’amore che soccorre ai
suoi capricci:
Cara Mafalda.
Io sto bene. Ti chiedo scusa per le soventi visite che mi trovano un poco
troppo spesso sulla soglia della tua abitazione. Credimi, vi sono molte persone
le quali mi accusano di sperperare il mio denaro. Ma ti giuro che non è vero.
La verità è questa. Io, benché solitario, non potevo vivere in solitudine.
Una mia biscugina mi è venuta incontro come una ventata di primavera.
Naturalmente, come la primavera, anche lei è la fiamma, cioè è come te. Ha
ella i suoi capricci, ed io eccomi pronto a soccorrere. E’ tutto un correre.
Tonino”
In verità la Franca non è sua biscugina, ha sposato un suo biscugino.
Tonino offre immagini
poetiche parlando del nuovo amore “mi è venuta incontro come una ventata
di primavera”, fantasiosamente una parola gliene suggerisce un’altra,
il “soccorrere” porta pindaricamente al “è tutto un correre”.
GIACOMO
“libertà va cercando, ch’è sì cara”
Del
Destino gli antichi greci ne avevano fatto un dio, un dio crudele o generoso, a
seconda dei casi, che se crudele travolge buoni e malvagi, ciecamente, un dio
superiore a tutti gli altri dei, una divinità implacabile che nessuna preghiera
avrebbe potuto far desistere dalle sue decisioni, dalle sue sentenze senza
appello; ne avevano fatto un dio, il più misterioso ed imperscrutabile degli
dei forse per tentare di raddensare in una divinità il mistero antropologico
del venire al mondo ed il misterioso concatenamento degli eventi. Ci sarebbe da
dare loro ragione pensando al nostro Tarantini Giacomo.
Nasce
per parto cesareo, nel 1931, primo ed ultimogenito di una donna che dopo
quattordici giorni dal parto muore ( la madre aveva più di quarant’anni, si
era sposata a trentanove.) La famiglia del padre e della madre sono intrise da
turbe psichiche, un ambiente davvero poco augurabile a capitarci dentro ma non
per eventuali tare biologiche bensì per l’inevitabile, l’ineluttabile
difficoltà a vivere in quelle situazioni. Il padre si risposa subito, mette al
mondo una figlia. Giacomo comincia ben presto a non trovarsi a suo agio e lo
manifesta attraverso comportamenti che restano incomprensibili al padre ed alla
matrigna, interpretati come picche bizzarre, che di fatto rappresentavano il
bisogno costante di essere rassicurato: il farsi portare tutte le sere prima di
andare a letto a fare il giro intorno ad un determinato lampione, il voler
passare sempre per la stessa strada per non essere preso da terrore e da pianto
convulso, il farsi leggere per mesi le stesse pagine di un libro. A dodici anni
i sintomi del disagio si fanno più inquietanti, si nasconde dietro le porte e
quando mangia si para gli occhi, quasi a mangiare di nascosto. Tolto dalla
scuola pubblica (i professori così consigliano la famiglia) viene mandato a
studiare in una scuola privata dove arriva a prendere faticosamente la licenza
liceale. Il suo destino di emarginato è già segnato.
Il
primo ricovero in una clinica psichiatrica avviene a diciott’anni, a diciotto
anni subisce il primo elettroshock che però non risolve anzi aggrava ed
ingigantisce la sua paura di morire, di essere ucciso, e non dissolve i suoi
tormenti ed i suoi dubbi.
Dopo
questo ricovero comincia a raccattare tutto ciò che trova per strada, oggetti
rotti ed immondizie, tutte questi rifiuti li porta in casa, nella sua cameretta,
li conserva gelosamente, ha paura che gliele rubino queste sue ricchezze, le
sole cose di sua proprietà in quella casa, nessuno le deve toccare: un
veritiero specchio di come si sente al mondo, in quella famiglia.
Viene
ricoverato di nuovo in una casa di cura dove tentano di levargli dal cervello
quelle idee col provocargli artificialmente febbri elevatissime con iniezioni
endovenose di sostanze piretogene.
A
vent’anni, a seguito di un nuovo ricovero nella stessa casa di cura
viene sottoposto ad una serie di comi insulinici.
A
ventidue anni varca per la prima volta la soglia del manicomio; dimesso, dopo
breve tempo viene nuovamente ricoverato in una casa di cura privata per la
cosiddetta cura del sonno.
Va
e viene dal manicomio e fra un ricovero e l’altro studia faticosamente, si
iscrive all’Università, prima a chimica e poi a scienze politiche, ma anche
scrive lettere piene di accuse e di recriminazioni ai medici curanti ( peccato
non averle) incolpa i familiari del suo stato; è sempre più inquieto ed
agitato finché a venticinque anni entra definitivamente in manicomio,
“associato”, per non uscirne più.
Ora
che scrive ne ha quarantotto, di anni. Il destino!
In
un ingranaggio che lo stritola, che lo emargina, che lo esclude, guardato a
vista come se fosse un delinquente, come se avesse commesso chissà quali reati
man mano che procede il suo annientamento, per reazione si sviluppa, cresce, si
gonfia, straripa il sognare di essere stato, un tempo lontanissimo, un grande
uomo, l’uomo più potente, più ricco, più nobile, più feroce che mai sia
esistito sulla faccia della terra, già vissuto in epoche remote, ora ridotto in
rovina da spietati e crudeli nemici ma sempre potente, ricco, nobile nei secoli.
Il suo sogno che vive ad occhi aperti è la continua metafora della sua
esistenza e seppur ingigantita all’inverosimile ben rappresenta le sue
esperienze. Ultimo romantico, sogna vendette inimmaginabili, con armi di
sterminio totale.
E scrive lettere; come questa del 1970:
A
sua Eccellenza il Ministro delle Finanze attualmente in carica in tale
dicastero. (questa lettera è diretta a S.E. il Ministro di qualsiasi ideale
politico esso sia, ma non della Democrazia Cristiana, partito nettamente
avverso.) Chiedo che questa lettera non venga respinta per nessun motivo al
mittente né nella direzione dl luogo in cui io sono chiuso, ma conservata nel
Ministero; e non vada in mano né a medici né a donne.
Rivolgo
all’Eccellenza vostra questa lettera per spiegare la difficilissima situazione
nella quale io sono chiuso da circa diciotto anni di tempo, situazione davvero
terribile di reclusione, di mancanza di denaro, di impossibilità di combattere
perché privo di armi e di denaro per comprarle. Tale situazione si verifica pur
essendo io un nobile, pur non appartenendo a razze inferiori, pur non facendo
parte né del clero, né della chiesa, né della razza ebraica, né di correnti
sovversive, né di altre situazioni che possono portare in questo luogo, dove mi
trovo chiuso contro mia volontà, anzi internato ininterrottamente, da undici
anni di tempo.
Descriverò
nelle righe seguenti la mia situazione. Io che scrivo questa lettera sono il
recluso stesso, ossia il Sig., (anzi Eccellenza io stesso nei secoli precedenti)
Giachomho Taranthini, nel luogo dove sono chiuso fui internato col nome
semplificato senza le h intermedie, ossia come se fossi il Sig. (anzi
l’eccellenza, ma qui è ignorato) Giacomo Tarantini; mi rinchiusero senza
tener presente né la razza, né la nobiltà, né gli ideali politici, né le
cariche che io occupai nella storia dello Stato. Se io chiedo di essere messo in
libertà la libertà mi viene negata assolutamente; dai regolamenti politici,
Voi Eccellenza, sapete che per passare attraverso la porta di questi luoghi è
necessario pagare una certa somma, io vengo tenuto senza denaro dagli agenti che
sono vestiti in abiti civili (detti psichiatri) che impediscono, o quasi, che mi
venga dato; e vengo tenuto con cifre esigue che vanno dalle 10.000 alle 20.000
mila lire al mese, cosicché io da undici anni consecutivi sono chiuso in un
luogo che non è precisamente un carcere, né un campo di concentramento, ma è
assai peggio tale luogo di reclusione assoluta è detto dal pubblico: Manicomio
Provinciale di San Salvi è situato all’estrema periferia di Firenze; luogo
che all’interno ipocritamente è chiamato o detto: Ospedale Psichiatrico
“Vincienzio Chiarugi”, il cui canciello principale è situato in via San
Salvi N. 12 che è di estensione grandissima (vari chilometri quadrati) composto
tra reparti e servizi di oltre venti edifici, in questo luogo io mi trovo chiuso
nel sesto reparto uomini, e, complessivamente, da undici anni di tempo in tutti
i reparti come ricoverato, come recluso, come prigioniero. Non chiedo di venire
trasferito in altri reparti di questo stesso Manicomio; ma di venire liberato.
Posso aggiungere affinché Voi lo comunichiate al Tribunale supremo come
pervenni in questi luoghi. Fui portato “in
clinica chiusa” nell’anno 1951 e nel 1952 in Roma, luoghi terribili nei
quali le “terapie” erano torture in forma di terapie, come il veleno “insulino”.
trattamento atroce e le torture elettriche alla testa. Abitai in Roma da quando
fui generato (nei pressi di Montefiascone) il 14 novembre 1931, fimo all’anno
1968, poi fui condotto nel Manicomio di Firenze dove sono chiuso tuttora da
circa dodici anni di tempo, attualmente ho circa trentotto anni di età, sono
celibe e quindi al sicuro di congiure familiari. Nel periodo precedente alla mia
reclusione in Manicomio, ossia ventidue anni prima di ora, frequentai il liceo
classico parificato “G. Carducci” situato in Via del Corso Trieste N. 99
Roma, allora (ora mi pare che tale istituto sia altrove); circa venti anni fa
tentai in Roma studi di Fisica, Chimica, Mineralogia, poi, molto tempo dopo, mi
iscrissi alla Facoltà di Scienze Politiche “C. Alfieri” di Firenze (N. 2128
di scheda), non frequentai mai tale facoltà perché fui portato a forza in
manicomio dai nemici che mi trovarono privo di armi. Sono in questo manicomio,
nei vari reparti come recluso ininterrottamente da anni undici di tempo, sono
assolutamente senza denaro, senza abiti civili né divisa militare, ma vestito
con i soliti vestiti tipo Manicomio; poiché temo di morire nella congiura
interna (cosiddetta della “medicina a tortura”) ossia sotto iniezioni,
pasticche, gocce, e “rimedi” vari (elettrici), (mortali), uno più nocivo
dell’altro, e poiché l’uscire da questo luogo è cosa ultra-ultra-ultra
difficile perché la porta a mia richiesta non viene aperta (negazione
dell’apertura della porta), per uscire io chiedo all’Eccellenza Vostra di
farmi estrarre dal luogo dove io sono chiuso dai Vostri Ufficiali e dai Vostri
soldati ai quali Voi, Eccellenza, dovete ordinare di invadere il Manicomio dove
sono chiuso e di portarmi almeno parte del denaro che lo Stato mi deve e una
rivoltella “composta”, una divisa, incaricandoli di accompagniarmi in una
abitazione che Voi mi farete assegnare affinché io ci possa abitare da solo o
in compagnia di guardie del corpo per non essere più prelevato e portato in
questi luoghi.
Potresti
provare a farmi spedire, in una lettera di formato non maggiore di questa che io
indirizzo all’Eccellenza Vostra, tre biglietti di 10000 lire (diecimila)
detraibili dagli assegni nobiliari ed individuali mensili (perché penso che
maggiore somma verrebbe fermata dal nemico, ossia da chi mi tiene prigioniero) e
in una busta successiva della stessa dimensione una banconota di lire
1.000.000.000; e una successiva con la stessa cifra col segno di fattoriale
vicino (angolo o punto ! esclamativo). Eccellenza poiché questa pagliacciata
del nemico deve finire, Vi chiedo, essendo Voi un abile generale, di armare una
squadriglia di aeroplani da bombardamento pesante e di lanciare bombe ad
altissimo potenziale sul luogo dove io sono chiuso, ossia nel Manicomio di
Firenze o di San Salvi o V.Chiarugi dove io mi trovo chiuso così da
diatruggerlo completamente e mettendo nella cientrale-ordini degli aerei (a onde
elettromagnietiche di guerra) l’ordine di lasciarmi vivo e armato e di
distruggere tutti gli edifici del manicomio, anche tutti gli altri reparti
diversi da quello dove io sono chiuso che forse è meno peggiore di essi.
Quello
che io chiedo che venga fatto è un imponente bombardamento dagli aeroplani che
mi liberi dalla prigionia del Manicomio. Questa lettera ha significato
letterale, è scritta in fretta e di stile italiano approssimato, ma descrive
bene la situazione nella quale io sono chiuso.
Il
reparto dove sono internato ha un cortile caratterizzato da panche metalliche
verniciate a colori strani, giallo, verde, azzurro, rosso, bleu; dovete
domandare, Eccellenza, alle centrali ad onde elettromagnetiche da guerra o
d’artiglieria che significato hanno quei colori e quale è il progetto per
farmi uscire dal Manicomio e attuarlo, estrarmi,
effettuare l’iscrizione alla scuola di Guerra Aerea per Generali d’Armata e
per Comandanti di Squadre di Bombardamento Pesante e Membri del Governo che
dovrebbe essere laterale al Ministero
dell’Aereonautica Militare da Guerra, mi pare in Viale dell’ Università
degli Studi N.4 Roma (in Italia).
Seguiterò
la presente lettera raccontando, affinché voi lo riferiate al Tribunale
Supremo, che negli undici anni di degenza in questo Manicomio Civile sono venute
diverse persone a trovarmi, ma tutte hanno rifiutato di farmi uscire; una donna,
una certa Maria Rosa Tarantini (nella parentela è detta sorellastra ma è
clericale e nemica atroce, sparatele) è venuta dieci o quindici volte deformata
in modo caratteristico, tale donna si è rifiutata di farmi uscire ed è certo
che ha adoperato armi insidiose invisibili del tipo esploditori per eliminazione
ritardata con torture mediche (elettriche o veleno insulino) torture che sono
riuscito fino ad ora a evitare (questo dovete raccontarlo al Comandante della
Polizia Segreta del Capo dello Stato e di S.M. il Re incaricandoli di fare
indagini profonde sul perché io vengo tenuto chiuso, trovare i colpevoli e le
colpevoli ed eliminarli con la fucilazione e con l’arsione dei forni per
torture; essi ed esse sono colpevoli di associazione a delinquere anti -Stato,
di sequestro di persona, ed infine del reato di eliminazione di persona con
metodi insidiosi, si pensa che le persone (uomini) chiusi in questi luoghi siano
infiniti (ossia topos)
e che in questi luoghi ogni giorno vengano uccisi un numero enorme di uomini;
potete considerare Eccellenza che ogni “clinica chiusa” sia un luogo di
orribili torture non autorizzate dalla giustizia; in questa istanza chiedo
all’Eccellenza Vostra che tali centri vengano distrutti con azioni di lancio
di bombe ad alto esplosivo dagli aereoplani, e azioni di fanteria e che voi
facciate eseguire questo dall’Esercito e dai Servizi Segreti SS; io non posso
partecipare perché chiuso in ”Manicomio” perché assolutamente privo di
denaro e di armi. Chiedo all’Eccellenza Vostra di venire liberato ed estratto
assolutamente dal “Manicomio” dalle Forze armate, riarmato e condotto in una
abitazione che voglio Voi mi facciate assegnare, bene inteso, con il denaro che
lo Stato mi deve come assegni personali individuali mensili e nobiliari; la mia
carica nei secoli precedenti era di Generale di Armata, di Primo Console, di
Capo di Stato, ho diritto dunque agli assegni nobiliari (da nobile) e agli
assegni personali mensili (come se fossi considerato un uomo non nobile, questi
ultimi, perché se mal vestito e se scambiato per persona diversa non possono
venire rivolte accuse né a me né agli Uffici Finanziari dello Stato.)
Mi
sono rivolto a Voi Signor Ministro delle Finanze analogamente a come feci in
situazioni disastrose in epoche molto antiche (secoli prima d’ora).Prima di
chiudere questa lettera io Vi consiglio di liberarmi da qui e di far sparare sui
colpevoli che a Voi risulteranno dalle indagini che Voi farete con le macchine
da guerra a radioonde da indagine e preparazione dei piani di guerra. Questa mia
reclusione in diversi luoghi, comunemente detti “Manicomi” che dura quasi da
venti anni, chiedo che abbia fine e di venire liberato dall’Esercito e che mi
venga assegnato una abitazione.
Salutandovi
sommamente Vi ossequio e sono
Giachomho
Taranthinhi ossia qui Giacomo Tarantini attualmente recluso nel luogo che è
detto nelle righe precedenti, ma nei secoli della Storia Antica Primo Console e
Condottiero e Generale Nobile e sommo nella politica e nella guerra e
nell’industria pesantissima di guerra.
Data
della presente lettera:
La data del timbro postale; data locale interna settembre 1969 (oppure 1970 in città)
Lo stile è ampolloso, curiale.
Parla per iperboli e per metafore il nostro Giacomo, parla per allusioni.
Già
nell’indirizzo ci sono le prime allusioni: la specificazione che il ministro
non deve essere democristiano rimanda alle idee politiche dei familiari e
siccome essi sono tali egli li odia e non può fidarsi di gente che abbiano le
loro stesse idee. Chiede anche che la lettera non venga rimandata in manicomio e
fatta conoscere a medici, compreso suo padre che è medico, ed a donne, la
sorellastra e la matrigna, temendo ritorsioni.
In
un mondo di corrotti potrebbe uscire dal manicomio se avesse molto denaro ma non
ne ha, in un mondo di violenti, ed a causa di questi lui subisce una
insopportabile violenza, potrebbe evadere con le armi ma lui non ne possiede,
tuttalpiù riceve da casa fra le diecimila e le ventimila lire al mese,
un’inezia rispetto al necessario. E’ inconcepibile per lui , ed ha ragione,
l’essere tenuto prigioniero, di fatto lo è, e segregato; non si rende conto
del perché, egli è una persona di riguardo e di rango sociale superiore, la
sua famiglia si considera tale, (lo enfatizza dicendosi “nobile”),
la sua matrigna e la sua sorellastra
che associa al “clero” ed alla “chiesa” semmai dovrebbero subire
quei patimenti, anzi eliminarle perché colpevoli “con la fucilazione e con
l’arsione nei forni per torture”. Assolutamente stravagante pare il suo
dirsi non ebreo, sembra affiorare una vena razzista nel suo pensare che in fondo
anche gli ebrei furono rinchiusi nei lager e forse c’era qualche motivo, chissà,
ma lui non è neanche ebreo ed allora? E poi non è neanche un sovversivo che
abbia commesso crimini efferati, lui è uomo che chiede giustizia secondo legge.
In
verità, e non può essere diversamente, chi, in una situazione di rapporti
folli e di continua disconferma viene designato “malato di mente” da chi non
è meno “malato di mente” di lui e costretto a subire cure violente
e terrificanti quanto inefficaci da psichiatri presuntuosi ed incapaci,
parlo in specie delle “terapie” di shock
sia elettrico che insulinico, e costretto a rimanere carcerato in un
manicomio non può comprendere ed accettare
la situazione paradossale cui è stato fatto andare incontro; entra così
in un suo mondo mentale surreale nel quale il delirio, che nel dentro contiene
sempre una verità anche se difficile ad essere evidenziata, è reazione e sogno
per evadere alla terribile realtà che esperimenta. Il delirio di Giacomo è di
essere “il Sig. (anzi Eccellenza io stesso nei secoli precedenti) Giachomho
Taranthinhi”, di essere stato nei secoli precedenti generale d’armata, primo
console e capo di stato e, Shakespeare
dice: “è follia, ma c’è del metodo”, è creditore dello Stato di
arretrati della pensione maturata nei secoli, cifre enormi anche per “assegni
mensili nobiliari” a lui dovuti ( forse tutto ciò gli viene suggerito
dall’importo esorbitante delle liquidazioni e delle pensioni a grandi
funzionari statali e parastatali). Lui è nobile e le ”h” che inframmezza
alle lettere del suo nome lo testimonierebbero ( le “cure” e le medicine che
gli vengono propinate gli fanno così bene che le quattro “h” nella firma di
questa lettera diventeranno nel tempo otto, sedici; arriverà a mettere fra il
nome ed il cognome un altisonante “vhon”.
C’è,
in questa lettera come in altre lettere, la
testimonianza di come si possa impazzire
in una situazione subdola senza potersi rendere conto del come e del perché di
ciò che accade, di come il delirio venga fuori da un groviglio di
incomprensioni contraddittorie e paradossali (per il suo bene, gli viene detto,
è curato, per il suo bene è stato rinchiuso, per il suo bene è stato
sottoposto all’elettroshock ed a quello insulinico) un insieme di situazioni
paradossali in cui soltanto col delirio si può cercare di rendersi conto del
perché, ed ecco la presunzione, il
sogno di grandezza reattivo, le speranze inappagabili ed assurde come del resto
è assurdo ciò che gli tocca di subire. Ed è presente la smania insopprimibile
di sapere il perché deve subire tutte quelle angherie.
Il
suo delirare però se può essere visto come manifestazione della sua
sofferenza, del suo star male, è anche modo di comunicarci i sentimenti, le
esperienze, i desideri, le speranze, ci comunica il ricordo di un tempo,
lontanissimo ormai, quando gli sembrava di essere ( o di dover essere) al centro
dell’attenzione in casa, ci
comunica il suo sentirsi diverso dai familiari, ci partecipa la sua lotta impari
per venire fuori dal manicomio.
Ma
l’analisi del manicomio pur nel saltare di palo in frasca è precisa, con
precisione denunzia l’inutilità, l’inefficacia e la dannosità delle cure,
le astrusaggini, le panche colorate di giallo, di verde, di rosso, di azzurro
chissà perché, solo le centrali ad onde elettromagnetiche da guerra o
d’artiglieria possono ravvisare il significato di quei colori
in quell’ambiente “detto dal pubblico: manicomio provinciale di San Salvi “e che
“nell’interno ipocritamente è chiamato o detto ospedale psichiatrico”;
ci vuole altro, sembra dire, per abbellire quell’ambiente
squallido e moralmente desolante per farne un luogo di cura e di
riabilitazione, quel luogo “che non è precisamente un carcere, né un
campo di concentramento ma è assai peggio” . La sua angoscia
fa diventare immenso quel luogo che è “di
dimensione grandissima (vari chilometri quadrati) composto tra reparti e servizi
di oltre venti edifici”. Anche il numero dei reclusi a quanto dice Giacomo
è infinito; si ricordi a questo proposito che in uno stanzone di circa
nove metri per sette ci stavano dalla mattina alla sera ai tempi della lettera,
nel reparto in cui viveva Giacomo, cinquanta-sessanta ricoverati, Ed in
quell’ambiente ci sono aguzzini vestiti in abiti civili , gli psichiatri ( di
solito gli psichiatri, che capitavano in reparto per poco tempo la mattina, non
portavano il camice). Ma anche affiora chiaramente il crudele gioco relazionale
fra lui ed i parenti, fra lui e l’istituzione.
Se
guardato a vista, controllato ogni momento, sottoposto a vere torture, viene da
sé il pensare di essere un perseguitato politico, (qualcun altro ci mette
dentro di solito la CIA), per darsi una spiegazione all’inspiegabile che
subisce. La libertà oltre che morale ha un significato politico ed il problema
della chiusura dei manicomi è un problema politico oltre che scientifico e
medico. La libertà viene negata a Giacomo e come non pensare, in un paese dove
la corruzione regna sovrana a tutti i livelli, che si possa uscire solo
corrompendo col denaro, moltissimo, con cifre esponenziali, chi lo tiene
prigioniero; è imposto dai “regolamenti politici” come ben sa anche Sua
Eccellenza il Ministro cui si rivolge.
La
sua richiesta di denaro comincia in sordina per poi espandersi in un crescendo
illimitato cosiccome fa nella richiesta degli atti di guerra necessari per la
sua liberazione.
Dapprima
tre biglietti da diecimila lire per non dare nell’occhio, e poi con la busta
uguale alla prima che è passata inosservata una banconota da un miliardo ed in
una successiva busta una banconota
da un miliardo elevata a potenza, il tutto ben inteso da detrarre da ciò che lo
Stato gli deve per assegni mensili di pensione maturata nei secoli ed assegni
nobiliari essendo stato generale d’armata, Primo Console e Capo di Stato.
Un
crescendo si ha pure riguardo agli atti di guerra necessari a ristabilire la
legge violata. Il Ministro ha certamente ufficiali e soldati ai suoi ordini ed
allora dovrebbe comandare loro di invadere il manicomio portandogli i soldi, una
rivoltella, una divisa militare, fargli assegnare una casa ed una scorta armata
onde impedire un suo nuovo arresto. Ma non basta; che ordini pure che tutti i “luoghi
di terribili torture non autorizzate dalla giustizia vengano distrutti con
azioni di lancio di bombe ad alto esplosivo dagli aereoplani, e azioni di
fanteria”. Ma non basta, ha paura che i nemici lo catturino di nuovo perciò
chiede che uscito dal manicomio, una scorta armata lo protegga da nuovi
eventuali attacchi.
Talvolta
non si può fare a meno di ridere ma è un riso che subito si smorza pensando a
ciò che deve subire il povero Giacomo Tarantini, pensando alla sua urlata
disperazione che provoca la sua pressante richiesta di aiuto pur se umoristica.
Sempre
del 1970 è quest’altra lettera che viene trascritta per intero anche se si
leggono cose già lette in quella precedente.
A
Sua Eccellenza il Procuratore Generale della Repubblica
A
Sua Eccellenza il Procuratore Generale del Regno d’Italia
Lettera:
da leggiersi attentamente.
Con
questa istanza formato lettera- non avendo a disposizione carta bollata- io
chiedo all’Eccellenza Vostra di incaricare i Vostri collaboratori di estrarmi,
ossia di farmi uscire, ossia di rendere possibile che io esca, per sempre, dal
manicomio di San Salvi, detto Manicomio “V. Chiarugi”, dove da anni io vengo
tenuto chiuso come internato, come recluso. Tutte le volte che io chiedo che mi
venga fatto il permesso di “libera uscita” questo permesso mi viene
rifiutato dal Direttore del Reparto. Vengo tenuto chiuso nel Sesto Reparto
Uomini da circa un anno, e rifiutano costantemente di aprirmi la porta, io vengo
tenuto internato recluso ricoverato da oltre un decennio, nettamente contro mia
volontà, che sarebbe quella di iscrivermi a una Accademia di guerra, ossia di
uscire assolutamente non avendo io
commesso alcun omicidio, né alcun furto, né
alcuna sommossa
non giustificata dalle leggi politiche,
né alcuna
azione disonorante. Chiedo
all’Eccellenza
Vostra che voi facciate eseguire la
mia estrazione, o la mia liberazione, o la mia fuga, voglio assolutamente la
libertà. Io vengo tenuto chiuso in un Manicomio di San Salvi “V. Chiarugi”
non molto noto, nell’interno di ogni reparto c’è un bar, nell’interno del
cortile del Reparto Sesto ci sono delle panche metalliche di vari colori: giallo
(una), rosso, verde, azzurro. Le grondaie dei tetti sono tinte in verde, gli
stipiti delle porte di pietra sono verniciate in grigio chiaro, le porte del
primo piano verniciate di bianco, quella esterna è bianca dalla parte interna e
dalla parte esterna è color legno. Dall’osservazione del terreno circostante
mi pare che abbia un aspetto alquanto strano. I Reparti Decimo e Quarto paiono a
porte aperte e ciò è bene, ma il Sesto Reparto dove sono io è a porte chiuse,
ma ciò è male perché io non riesco a uscire assolutamente mai.
Ho
voluto darvi questi particolari perché penso che il Manicomio abbia più strati
compenetrati elettromagnieticamente e invisibili gli uni agli altri e perciò
temo che voi non riusciate a trovarmi, e che i Vostri incaricati, Eccellenza,
non riescano a trovarmi e allora la situazione è seria e grave se fallisse ogni
tentativo di venirmi a liberare. Talvolta nelle Accademie ci dice che tali
Manicomi sono contenuti in “strati” e in “croste” oscure nel senso che non riusciate a sapere dove sono.
Eccellenza, lo scopo di questa istanza e lettera è di chiedere che voi
incarichiate assolutamente di liberarmi e che mi facciate trovare assolutamente
e condurre via da qui e mettere in libertà.
Eccellenza
poiché l’ambiente dove io sono chiuso è alquanto strano e poiché le persone
che ci sono dentro sono mattissime e d’aspetto strano, assai strano, paiono
poveracci, ebrei, clericali, uomini col camice bianco, eccietera, vorrei che
chiedeste alle cientrali a onde
elettromagnetiche da guerra vostre e da indagine giudiziaria e politica, i dati
necessari a trovarmi e come fare affinché l’impresa di farmi uscire non
fallisca, ossia come disporre affinché avvenga la mia liberazione. Chiedo
all’Eccellenza Vostra che mi venga data, da chi mi verrà a liberare una
rivoltelle da guerra normale da ufficiale italiano da tenere in tasca. Fui
generato nell’anno 1931 il giorno 14 novembre nei pressi di Roma (in una città
oscura , dove non sono mai stato, Montefiascone) abitai per ventisei anni in
Roma, è un decennio che sono chiuso -contro mia volontà-
nell’0spedale Psichiatrico (di San Salvi) ”V. Chiarugi”, voglio che
mi facciate uscire. Nei documenti di internamento e nelle carte del Manicomio il
mio nome è scritto: Tarantini Giacomo, ma nella cartella, negli incartamenti, i
titoli nobiliari che esistevano nella Storia
Antica vicino al mio nome sono omessi. Il mio nome nelle situazioni
militari e di Stato è, e dovrebbe essere: Giachomho Taranthinhi, generale
famoso e di primissimo piano nella Storia Antica Comandante e Console. il mio
indirizzo politico non conoscie Manicomi e ritiene il Manicomio un insieme di
mascalzoni e di canaglie.
Talvolta
il nemico vuol far credere a delle situazioni inesistenti per giustificare la
mia situazione da reclusione che è assolutamente ingiustificato.
I
clericali ed i luridi che reggono questi Manicomi talvolta trovano difronte a
Voi, per avere ragione, argomentazioni oscure e fantastiche: dicono che il
soggietto è sciemo, dicono che il soggietto ........è una donnetta pur essendo
uomo e generale d’armata, dicono che ha rubato pur non essendo vero nulla,
dicono che ha ammazzato, pur avendo fatto onoratamente e in guerra, ....ed in
fine, quando non sanno più che dire, dicono che,,,,,l’individuo e prelato (e
nel mio caso non è vero nulla), io sono nemico tremendo della Chiesa che per
mandarmi a morte e in malora tiene aperto il Manicomio di Firenze che è la più
infernale congiura contro il Capo
dello Stato che sia mai stata realizzata in tutte le epoche: antiche,
medioevali, moderne, e contemporanee (avviene ora). Io non fuggo perché sono
disarmato, altrimenti farei scoppiare il cervello di chi guarda la porta con una
scarica di proiettili atomici, passerei oltre , mi recherei in città ad
iscrivermi alla Accademia di Guerra Aerea da Bombardamento pesante (di molte
Accademie di Guerra teoricamente dovrei essere il Comandante.) Di solito i
Procuratori Generali della Repubblica qualche aereoplano da guerra lo dovrebbero
avere, ebbene, se lo avete, adoperatelo, sorvolate questo luogo e lanciateci
sopra delle bombe atomiche (come a Hirochima e Nagasaki, località nipponiche
nominate sulla stampa di venticinque anni fa); sorvolate questo luogo e
lanciatevi sopra la bomba atomica dando ordine alle cientrali a onde
ellettromagnietiche da guerra dell’aereoplano di lasciarmi fuori
dall’esplosione, di non comprendermi nell’esplosione, di aggregarmi addosso
la divisa di generale d’armata aerea: il mio nome è Giachomho Taranthinhi che
nei registri d’internamento, e talvolta anche sui documenti personali, è
scritto: Tarantini Giacomo.
Ripeterò
per maggior chiarezza gli scopi di questa lettera, io chiedo di venire espulso,
lasciato uscire, estratto, condotto via dai Vostri incaricati fuori dal luogo
dove io vengo tenuto chiuso, complessivamente, come internato e recluso da circa
dieci anni di tempo. Sono chiuso, anzi vengo tenuto chiuso contro la mia volontà
nel: Manicomio “Vincienzio Chiarugi” da anni, attualmente vengo tenuto
chiuso nel Sesto Reparto Uomini, chiedo di venire da Voi liberato perché non mi
lasciano uscire, perché non ho né armi, né chiavi, né denaro, per procurarle
e non riesco a uscire da solo e a fuggire come sarebbe bene in queste
circostanze.
Chiedo
che venga effettuato da Voi, Eccellenza, un sorvolamento del luogo con qualche
aereoplano da bombardamento e con il lancio improvviso di alcune bombe atomiche
di distruzione totale, questo cientro e colpevole di sequestro di persona, di
associazione a delinquere contro me stesso, di torture contro me stesso, e di
furto di tutto il denaro che lo Stato
mi dovrebbe sotto forma di assegni nobiliari e di indennità per la situazione
nella quale io sono recluso che è di pericolo e di sofferenza. Chiedo che
veniate a liberarmi perché da solo non riesco a uscire.
Mi
firmo e sono come internato
Tarantini Giacomo
e come è l’identità di me stesso
Giachomho
Taranthinhi
Firenze:
data della lettera, la data del timbro postale
(la
data locale è anno 1970 circa)
“L’istanza
formato lettera”! e si scusa subito
di non usare carta bollata come richiederebbe il rivolgersi alla persona in
indirizzo, scrive proprio su carta bollata quando manda le sue lettere ad uffici
pubblici ché del resto è obbligo nel burocraticissimo e vessatorio
funzionamento del nostro Stato.
La
lettera è indirizzata al sempre, all’oggi(la Repubblica) ed all’ieri (il
Regno d’Italia), a chi comanda oggi ed a chi comandava ieri, a tutti; la sua
disperazione è infinita nella impossibilità di capire il perché del suo dover
per forza restare segregato in quell’ambiente inverosimile e senza senso che
descrive con acuta precisione, elenca le stranezze del manicomio, il bar in ogni
reparto, gli stipiti di pietra verniciati a finta pietra, i colori vivaci della
grondaia e delle panchine di ferro, le porte bicolori, strani sono anche le
persone che ci vivono dentro, ”persone
mattissime e d’aspetto strano, assai strano, paiono poveracci, ebrei,
clericali, uomini col camice bianco, eccietera” (e con ciò non indica i
ricoverati ma gli aguzzini, il
camice bianco degli infermieri è l’espressione della loro stramba singolarità,
in verità gli infermieri del manicomio, che non brillavano di suo per
l’intelligenza, bastava vederli e stare con loro cinque minuti, erano
anch’essi funzionali alla sottocultura dell’istituzione manicomiale e perciò
mattissimi, strani, “paiono poveracci, ebrei, clericali”; un posto
così strano e malvagio da far sorgere il pensiero che chi di dovere, i
procuratori generali, che dovrebbero sovrintendere al corretto funzionamento
della giustizia ed assicurare ai cittadini il godimento dei loro diritti; non si
siano accorti che esista un simile luogo e non possano così prendere i rimedi
necessari.
Per
questo denunzia loro l’esistenza di quei luoghi pur cercando di spiegare perché
sia così difficile scorgerli, “talvolta nelle Accademie si dice che tali
Manicomi sono contenuti in “strati” e in “croste” oscure nel senso che
non riuscite a sapere dove sono”. Povero Giacomo, la sua fantasia non ha
limiti, l’immagine delle “croste” rimanda a malattie della pelle che fanno
ribrezzo, a cose rinsecchite e riarse, senza vita cosiccome la loro
conformazione a strati può spiegare l’essere indotti in errore vedendo
soltanto lo strato superiore ma non vedere ciò che sta sotto l’apparenza
superficiale. Soltanto “cientrali a onde elettromagnetiche” possono
scoprire la loro vera natura e dove sono poste, confida così che i Procuratori
Generali non possano esimersi dall’intervenire dopo essersene accertati.
Questo
fa parte del suo delirare, hanno ragione gli psichiatri, solo un folle può
pensare che i Procuratori Generali vogliano rendersi conto di come le persone
siano maltrattate nei manicomi e prendere i conseguenti provvedimenti.
Strambe
sono le accuse che gli vengono mosse a giustificazione del suo ricovero in
manicomio, (la forma dello scritto rende il bisbigliare subdolo, le
insinuazioni maligne, le accuse infamanti), riappare così
il tipo di rapporti con la famiglia, il disaccordo, il potere
soverchiante dei familiari i quali sono visti come Chiesa che ha il potere di
tenere aperti i manicomi per tenerlo chiuso dentro.
Allora
Giacomo pensa alla guerra, alla sua guerra, sogna ancora le azioni di guerra le
più terribili per distruggere il luogo ( ma con l’ordine sempre di escluderlo
dalla catastrofe con mezzi elettromagnetici ) sogna che gli sia materializzato
addosso per magia e per mezzo di fantascientifici espedienti, la divisa di
generale d’armata aerea perché il suo nome è Giachomho Taranthinhi. Grande
è la sua sventura, immenso è il suo abbandono e la sua sofferenza, immensa
perciò deve essere la sua vendetta, immenso il suo sogno di grandezza.
Giacomo
non sopporta più di stare rinchiuso tra quelle quattro luride mura, vuole
uscire fuori, vorrebbe far saltare le cervella con una scarica di proiettili
addirittura atomici a chi fa da guardiano alla porta, sogna di iscriversi alla
Accademia di Guerra Aerea di Bombardamento pesante. Sogna, sogna.
Giacomo
ha una sola aspirazione, quella di non restare sempre rinchiuso in quel
maledetto reparto, di uscire fuori delle mura del manicomio. E quanto le lettere
precedenti sono rimbombanti e fantasiose come altre che saranno presentate in
seguito, tanto semplice, umano,
commovente è un biglietto, conservato in cartella ed indirizzato al “Primario
del reparto”, firmato senza le “h” nobiliari che recita:
La
prego di mandarmi a fare una passeggiata in città fino al centro di Firenze o
fino alle cascine
sono
Giacomo
Tarantini
Fa
tenerezza specie sapendo che fu lettera morta, come fa tenerezza, seppure
scritta col solito stile reboante e con il solito sognare che il manicomio venga
distrutto con un bombardamento, la lettera
all’ente
Comunale di Assistenza di Firenze con la quale Giacomo senza una lira chiede
aiuto; e fa anche ridere. E’ del
settembre 1969.
Alla
Direzione Generale del Comune di Firenze e del comune di Roma e al Direttore
dell’E.C.A. di Firenze
in
via Palazzuolo n. 12 Firenze.
(Notare
bene: non comunicare il contenuto di questa lettera né alla direzione del luogo
dove sono chiuso, né alla direzione di altri luoghi di funzione simile, né a
medici, né respingere la lettera alla Direzione di questo luogo.)
Mi
rivolgo con questa lettera, che ha il significato di una istanza in carta
bollata, al Vostro Spettabile Ente del quale mi sono ricordato le funzioni e
l’esistenza per essermi rivolto ad esso in circostanze analoghe in
antichissime epoche della storia,
Mi
rivolgo con questa lettera, che ha il significato di istanza in carta bollata,
al Vostro Spettabile Ente del quale mi sono ricordato le funzioni e
l’esistenza per essermi rivolto ad esso in circostanze analoghe in
antichissime epoche della Storia.
Io
che vi scrivo questa lettera sono il sig. Giacomo Tarantini (ossia
nell’italiano completo Giachomho Taranthinhi), disperso per macchinazioni
politiche e per persecuzioni da parte della famiglia in un luogo che dirò nelle
righe che seguono, e rimasto senza neppure una lira in tasca, e chiedo aiuto
finanziario per me stesso al vostro Ente, che tra gli scopi principali deve
avere lo scopo di assistere i perseguitati politici, i perseguitati dalle donne
(di casa), i perseguitati da infortuni diversi, e i poveri.
Vi
scrivo questa lettera da un luogo assai riposto e complicato nell’interno e
pericoloso oltremodo e di regolamento complesso difficile, (e sconosciuto anche
nello studio delle Scienze Politiche). dove io sono da anni come ricoverato e
come recluso, e dal quale non mi riesce assolutamente ad uscire e nel quale sono
rimasto assolutamente privo di denaro (e di abito), ignoro anche se la posta
spedita da qui giunga a destinazione, del fatto io dubito assolutamente perché
nessuna risposta mi giunge. Descriverò brevemente il luogo, il nome del quale
è conosciuto in città è: Manicomio Provinciale di San Salvi, in questo luogo
è chiamato : Ospedale Psichiatrico Provinciale “Vincenzio Chiarugi” ed è
situato in via di San Salvi N. 12 Firenze (numero di codice di avviamento
postale 50135), il reparto dove sono chiuso è detto Sesto Reparto Uomini, nel
passato sono stato rinchiuso in tutti gli altri reparti uomini, quasi; prima di
giungere (il visitatore o chi entra) nel Manicomio osserva lateralmente due
edifici detti “cliniche” assolutamente inutili, anzi assai pericolosi,
essendo i procedimenti detti “cure” vere torture; chiedo che nel Manicomio
sia aumentata la quantità e la qualità del cibo e che vengano eliminate tutte
le “cure psichiatriche” che sono autentici “supplizzi” di carattere
medico, come le iniezioni neuroplegiche nel culo, e che vengano eliminati i
procedimenti elettrici che sono sempre mortali o rimbecillenti.
Se
Voi invece di essere un Amministratore di un ente di poveri foste un Generale
d’Armata Vi chiederei di prendere
a cannonate il manicomio e di farmi uscire; con questa lettera io Vi chiedo di
estrarmi fuori dal manicomio ( o dall’Ospedale Psichiatrico come essi lo
chiamano) e di assegnarmi un’abitazione che contenga una quantità di viveri e
di farmi avere una rivoltella e qualche fucile per difendermi.
Ho
trentotto anni di età, essendo stato generato il 14 novembre dell’anno 1931,
ho l’organismo di altezza ridotta, credo di essere di m. 1,65, capelli neri,
abito da poverissimo, grigio, i sensi di questo luogo ingannano, Voi lo sapete,
i benpensanti e clericali (ossia i cretini) vedono questo luogo bello, gli
uomini di posizione politica superiore e di eccelso intelletto, come io stesso,
lo vedono bruttissimo tal da parere (ed essere) una associazione di canaglie
democristiane di nessuna funzione politica e sociale, anzi
assai pericolosa (ultrapericoloso è il IIIR.) per i procedimenti medici
(assolutamente vero). Chiedo all’Eccellenza Vostra di comunicare il contenuto
di questa lettera al ministero della Guerra
della Repubblica e del Regno d’Italia e a tutti gli enti dello Stato;
questa congregazione è pericolosa, io voglio uscirne (non cambiare reparto)
(questo è il migliore forse non so) ma essere estratto condotto in città )in
Firenze, Roma) e che mi venga assegnata una abitazione e una quantità di denaro
per sopravvivere. E nel luogo, di nascosto, che mi venga assegnata una piccola
somma con tutte le precauzioni politiche massime ed estreme per evitare
rappresaglie elettriche ed insuliniche che qui vengono dette “cure” e che
altrove si direbbero procedimenti....penali, se vogliamo usare macabro umorismo,
Venite a trovarmi al Sesto Reparto uomini dove sono chiuso.
Chiudo la lettera salutando l’Eccellenza Vostra.
Sono
Giacomo
Tarantini (nell’italiano completo
Giachomho
Taranthinhi eccellenza generale
nell’antico
passato storico, ora di trentotto
anni
di età.)
Straripa
nella comicità la differenza incolmabile fra la sua condizione al momento di
scrivere ed il segno di ciò che fu, l’eccellenza generale
della firma, cosiccome induce al sorriso quel suo pensare che l’E.C.A.
fra i suoi doveri istituzionali abbia l’assistenza ai perseguitati politici,
ai perseguitati dalle donne (di casa) ed ai perseguitati da infortuni diversi
oltre che ai poveri, Giacomo sente di far parte di tutte queste categorie; e fa
sorridere il suo rammarico che l’E.C.A. non possa distruggere il manicomio,
“se Voi invece di essere un
amministratore di un ente di poveri foste un Generale d’Armata vi chiederei di
prendere a cannonate il manicomio”. Come non ridere difronte a questa
inaspettata uscita? Ma non glielo chiede, sa bene che la persona cui si rivolge
non è un Generale, chiede una abitazione ed un po’ di denaro e viveri in
natura per sopravvivere; in più, entrando in una coerente assurdità, la sua
paura di essere di nuovo catturato e di nuovo imprigionato gli fa chiedere anche
una rivoltella ed un fucile, “per difendermi” come spiega. Chiede che
in qualche modo lo tolgano dal manicomio; nell’impossibilità di
ottenere questo scopo che gli venga almeno assegnato un sussidio per campare
alla meglio, è in queste richieste che Giacomo fa tenerezza.
Si
attacca alle funi del cielo per essere aiutato, invoca la legge come nella
precedente lettera o la beneficenza pubblica come in questa fornendo le prove
della necessità che lo si aiuti: l’oppressione, l’insulsaggine,
l’inutilità del manicomio, il modo criminale di come viene trattato. E’
costante, ripetitiva la denunzia; in giro non gli si crede, sono lettere di un
matto, come si fa a credere alle lettere di un matto, tutt’al più si ride,
lui dubita che le sue denunzie vengano lette “ignoro anche se la posta
spedita da qui giunga a destinazione del quale fatto io dubito assolutamente
perché nessuna risposta mi giunge”.
Ma
in verità il suo giudizio è preciso e giusto. Del resto gli si è dato ragione
nel far cessare “i procedimenti elettrici che sono sempre mortali e
rimbecillenti” come lui afferma; a San Salvi, nel manicomio di Firenze, da
anni ormai non si eseguono più né shock insulinici né elettroshock
considerati inappropriati, inefficaci e dannosi.
Cosìccome
il suo denunziare che l’essere sottoposti a shock è come una rappresaglia è
dire il vero; tante volte si condannava all’elettroshock a seguito di
comportamenti furiosi e violenti al solo scopo di punire e di terrorizzare e
reprimere ogni velleità ed ogni
reazione, “dottore ha rotto i vetri, bisognerà fargli un po’ d’elettrosciocche
così dopo starà più bono”, ed il dottore lo prescriveva. Era un modo di
fare usuale. Per questo è nel vero quando scrive delle “rappresaglie
elettriche ed insuliniche che qui vengono dette “cure” ed altrove si
direbbero procedimenti....penali se vogliamo usare macabro umorismo”. Da
far notare, per chi non lo sapesse, che le “cure insuliniche” consistono in
iniezioni endovenose di insulina per provocare il coma nella completa coscienza
del paziente che vede avvicinarsi a passi sempre più rapidi la morte, la fine
della sua esistenza; poi, quando si è raggiunto il coma, fleboclisi di glucosio
per farlo ritornare cosciente però l’esperienza della paura resta. Pene
corporali che rintontiscono che per niente risolvono i problemi, al nostro
Giacomo gli sono state inflitte a diecine, i veri problemi che stanno alla
radice dei comportamenti disturbati.
La
sua denunzia va oltre le cure per arrivare all’istituzione, va alle cliniche
psichiatriche “completamente inutili, anzi assai pericolose”, al
manicomio, “detto ospedale psichiatrico”:
E
lui è costretto a stare rinchiuso là dentro senza capire il perché, Giacomo
non può accettare, vorrebbe capire il perché ma la situazione è complicata,
strana, indecifrabile; solo macchinari complicatissimi, a onde
elettromagnetiche, possono chiarirla. E’ un’idea costante di Giacomo che
emerge anche nella lettera dell’agosto 1969 indirizzata
All’avvocatura
Generale del Comune di Roma e del Governo Generale di Roma via del Tempio di
Giove Capitolino N.3 Roma-
(non
respingete questa lettera al mittente per nessun motivo né avvertite la
Direzione del Manicomio, ma fate le azioni di guerra per farmi uscire.
Mi
rivolgo all’Eccellenza Vostra con questa lettera per decrivervi la disperata
situazione anche finanziaria, nella quale io sono chiuso. Io che Vi scrivo sono
il sig. Giacomo Tarantini (ossia Giachomho Taranthinhi) studioso di Scienze
politiche chiuso ed internato in Manicomio da undici anni di tempo in mezzo a
persone fra il villico ed il rurale, dico questo affinché voi possiate
riconoscere il luogo, caratteristico, purtroppo noto anche per oscuri misfatti e
fatti strani. IO sono internato, chiuso, degente, ricoverato nel Manicomio
Provinciale di San Salvi detto anche Manicomio “Vincenzio Chiarugi” luogo
insulso e strano (per uscire dal quale occorrono diversi , ossia, varii miliardi
(per fare aprire la porta) di lire e qualche banconota di 10.000 lire (per
ristorarsi nel bar interni). Da dove mi viene questa terribile reclusione?
Chiedo all’Eccellenza Vostra di effettuare le indagini per mezzo di una
macchina che generalmente è chiamata “centrale ad onde elettromagnetiche per
indagini giudiziarie” con la stessa macchina dovete trovare il modo preciso
per farmi giungere nelle mani del denaro, e poi per invadere il luogo e farmi
uscire, perché non è certo che con il denaro si riesca a far aprire la porta
per uscire. Io sono rinchiuso al Sesto Reparto Uomini dell’Ospedale
Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” situato in via San Salvi 12 Firenze (il
cancello complessivo del Manicomio è in via San Salvi 12) il cancello dista dal
reparto oltre un chilometro addentrandosi nei corridoi.
Io
domando all’Eccellenza Vostra di incaricare degli agenti segreti del
Governatorato Generale di Roma, o dell’Arma dei Carabinieri, o del Servizio
Segreto del Console, di estrarmi fuori dal Manicomio (o dal luogo strano dove io
mi trovo chiuso) e di prendere, dalla ingentissima somma che i Comuni mi devono,
il costo dell’azione di guerra per estrarmi da questo luogo, per rivestirmi
della divisa e delle armi e per vivere libero fuori da questa macchinosa
situazione.
Se
questo non fosse possibile, fatemi pervenire assolutamente il denaro in modo che
venga dato nelle mie mani da un agente segreto. scrivetemi anche a questo
indirizzo: al Signor Giacomo Tarantini degente, rinchiuso, internato, nel Sesto
Reparto Uomini dell’Ospedale Psichiatrico (Manicomio) “V. Chiarugi” via
San Salvi 12 Firenze, N. di C.A. Postale 50135.
Ricordatevi
che io sono nobile e generale, sebbene questo sia ignorato sia qui che dai
parenti, che non sono né cristiano né di razza ebraica, inoltre che di colpe
non ne ho nessuna non avendo commesso alcun reato; se persone diverse da me ma
di nome e cognome identico combattono e uccidono combattendo gloriosamente in
guerra quella è guerra regolare interna o all’estero e quindi non reato;
comunque potete togliermi da questo luogo, liberatemi dal Manicomio Provinciale
o dall’Ospedale Psichiatrico dove sono assolutamente chiuso, ricordatevi che
io non ho bisogno, né alcuna necessità, di cure, ma di uscire da questo luogo
assolutamente e di tornare a casa.
Mi
firmo e sono
Giacomo
Tarantini
(ossia
Giachomo Tatanthinhi)
POSCRITTO:
Questa lettera è stata da me scritta molto in fretta
chiedo
pertanto scusa all’Eccellenza
Vostra se lo
lo
stile della lettera è quello di essere estratto fuori
dal
Manicomio e di avere in persona (in mano) un
aiuto
finanziario dal Comune e dal Governatorato
Generale
di Roma e dal Fascismo e dal Ministero
della
Real Casa.
Firenze:
data della lettera, la data del timbro postale, qui agosto 1969-1970
Senza
macchine complicatissime e
sofisticate non è possibile capire il perché sia stato condannato a quella
reclusione, le stesse macchine che possono anche fare in modo che gli piovano o
miliardi per corrompere chi lo tiene prigioniero o qualche diecina di migliaia
di lire per sopravvivere; oppure le armi per combattere, o vincere o morire.
Giacomo, già vissuto in epoche antiche chiama a soccorso il Console romano; in
verità la ragione non basta per farlo uscire dalla “macchinosa situazione”,
si deve pensare all’irrazionale ed al fantastico. Alla fine della lettera c’è
un tentativo di spiegarsi il perché sia rinchiuso, forse è per una omonimia,
forse c’è uno col suo stesso nome che combatte ed uccide ma neanche
lui sarebbe da punire perché combatte gloriosamente in guerra e quella guerra
è regolare. “Comunque” dice Giacomo, “liberatemi dal Manicomio
Provinciale o dall’Ospedale Psichiatrico dove sono assolutamente chiuso”
questo sopratutto è importante.
E’
vero, le lettere di Giacomo Tarantini sono monotone, non c’è il navigare a
vele spiegate del Conti Supremo o l’inventiva spumeggiante e fantasiosa,
illimitata, del Brogiotti Tonino che avremo modo di incontrare in seguito. I
contenuti sono sempre e soltanto la voglia di distruggere il manicomio dove è
rinchiuso, l’ansiosa ed affannata bramosia di ritornare libero, costi quel che
costi, l’idea che possa uscire pagando somme enormi, la smania di possedere
una casa propria dalla quale nessuno possa buttarlo fuori o prelevarlo,
l’asserto di non aver fatto nulla di male per essere condannato a quelle pene,
l’illusoria certezza di essere già vissuto nobile e condottiero e capo di
stato e di avere perciò diritto agli assegni nobiliari e di Stato ed alle
relative pensioni compresi gli arretrati di secoli e di millenni.
In
ogni lettera ripete stancamente dove e quando è nato, da chi nacque, chi lo
rinchiuse, l’esatta ubicazione del manicomio col relativo numero del codice di
avviamento postale e numero telefonico, il tutto in uno stile che ricorda quello
burocratico ma che si ravviva quando esprime i suoi intenti di vendetta; solo
allora si anima come in questa lettera indirizzata
A
Sua Eccellenza il Primo Presidente della Suprema Corte di Kassazione attualmente
in carica nel suo dicastero
Rivolgo
questa lettera alla suprema Corte di Kassazione,
così comincia, allo scopo di rivelare quello che mi viene fatto nel più
terribile reclusorio d’Italia non sottoposto alla Magistratura, povero
Giacomo , non può pensare che se dipendesse dalla Magistratura si potesse fare
in manicomio quel che si fa, e dopo aver detto chi egli sia, come resti “ricoverato
internato, recluso” contro la sua volontà e come non possa uscire “perché
privo di chiave, di armi e di denaro” così continua:
....e
poi vi consiglio di salire su di un aereoplano da guerra vostro, di sorvolare
questo lurido luogo, e di lanciare all’improvviso alcune bombe atomiche
incendiarie di distruzione totale compiendo così il mio progetto che da
millenni ho stabilito di effettuare.
Sorprendente
quell’ “all’improvviso”. Ridice dove è rinchiuso, proclama di
nuovo la sua innocenza e prosegue:
Chiedo
all’Eccellenza vostra che Voi incarichiate degli esperti per estrarmi da
questo ignobile luogo e di effettuare la fucilazione di tutti quelli che
concorsero a chiudermici dentro, poiché io non ho i nomi dovreste fare le
indagini per mezzo di una cientrale a onde elettromagnetiche da guerra per
conosciere il nome degli uomini e delle donne implicate in questa situazione.
Anni
fa due donne pestifere di carattere, che occupano una abitazione che era di mio
padre, pestifero anche lui, mi fecero di nuovo chiudere in Manicomio, il nome di
quelle donne è Toscana Tarantini, Toscana Forbiti e Maria Rosa Tarantini, esse
clericali assolute e mortalmente nemiche a me, avrebbero intenzione di
eliminarmi in Manicomio, io, invece, di fucilarle e di farle arrosto.
E più sotto:
....la
croce uncinata è il mio stemma, vorrei liquidare il Manicomio di Firenze con
bombe d’aereo e precipitando tutti quelli che ci sono dentro nel forno
sterminandoli con mitragliatrici Fiescki e farli ardere per miliardi di anni
vivi, così impareranno a immischiarsi nella mia politica.
Finisce
la lettera con l’ennesima denunzia della crudeltà del manicomio e con una
nuova richiesta di essere liberato.
Chiude firmandosi alla stessa stregua delle altre lettere ma aggiungendo una
croce uncinata con sotto la scritta: “questo è il mio stemma: la
svastica”, con una freccia che la indica.
Di nuovo il
paradosso del non conoscere i nomi di chi lo mise in manicomio e la certezza che
la matrigna e la sorellastra l’hanno fatto rinchiudere che esprime
compiutamente quel paradosso del “doppio legame” subito; la consapevolezza
di una situazione, anche la più dolorosa, non provoca alterazioni psichiche del
genere di quelle sofferte da Giacomo, possono causare turbamenti che magari
determinano atti inconsulti, magari anche il suicidio, ma non la psicosi, la
natura invece dell’inconsapevolezza del “doppio legame” è così tanto
tremendamente subdola quanto direttamente incisiva che la persona cui è
diretto non può fare a meno di soffrire ed
allo stesso tempo di non rendersi conto del perché, di conoscere le persone
implicate e di non essere certo di poterle accusare in una altalena di continue
disconferme da parte degli altri, di continue affermazioni che negano, di
continue negazioni che affermano. Così si entra nella psicosi, in quel vivere
come in sogno, nel delirio, nelle allucinazioni.
Da lì viene
fuori il multimiliardario povero in canna, l’arcipotente impotente, l’essere
rinchiuso in un luogo sconosciuto di cui si conosce l’indirizzo, il numero di
codice di avviamento postale e quello del telefono; e viene fuori l’idea di
essere controllato ed ostacolato a distanza da forze estracorporee, un tempo
tramite il magnetismo, ora con le nuove scoperte con le onde elettromagnetiche,
le onde radio od il radar, come delirante spiegazione di ciò che veramente
succede, viene fuori il sentirsi continuamente spiato, viene il furto del
pensiero, viene fuori la necessità che indagini accurate , magari per mezzo di “cientrali
ad onde elettromagnetiche” come indica Giacomo, facciano luce
sull’arcano.
Perché il
paradosso del “doppio legame” è non capire e non far capire, è fare del
bene facendo del male (quanti disastri ha fatto “l’amore”!) e viceversa,
quando per “curare” una persona, per il suo “bene”, la si rinchiude in
un manicomio, e tutto ciò magari anche in buona fede, (ma succede pure per uno
scopo incofessabile), in ciò è presente il paradosso del “doppio legame”;
quando ci si sente il diritto, in una condizione di predominanza affettiva e o
fisica e o economica, di sapere a priori cosa pensa l’altro, di sapere a
priori il perché l’altro agisce a quel modo o risponde a quel modo, e non
solamente con le parole, con il linguaggio verbale, ma soprattutto col
linguaggio non verbale, con le azioni, vedi il riempire la propria stanza con i
rifiuti e considerare questo come un sintomo di malattia mentale, lo fanno gli
“psichiatri, in ciò è presente il paradosso del “doppio legame”.
Non abbiamo
tutte le lettere di Giacomo; ci mancano ad esempio e sono ricordate in cartella,
quelle che scriveva ad un avvocato perché lo riappacificasse col padre, che in
quelle lettere trattava di tutti i titoli; anche questo è un inconsapevole
“doppio legame” perché Giacomo amava sempre il padre ed a lui si sentiva
sempre legato ma allo stesso tempo l’odiava perché aveva permesso che lo si
ricoverasse in manicomio dove però, è stato già accennato, forse l’aveva
fatto ricoverare in buona fede per il suo “bene”. Riguardo alla relazione
con i parenti, e lo vedremo in seguito, non si può dire la stessa cosa per la
sorellastra e la matrigna.
Soffermiamoci un
po’ su ciò che dice sul manicomio nascosto e sconosciuto del quale si conosce
l’indirizzo ed il numero del telefono; per Giacomo è incomprensibile che la
Giustizia tolleri e permetta l’esistenza di un luogo siffatto dove si compiono
atti contro la dignità ed i diritti delle persone rinchiuse; se non si fa nulla
è senz’altro perché non si conosce che c’è, altrimenti si dovrebbe
procedere, come si dice, se no che Giustizia sarebbe, ma il luogo esiste davvero
anche se gli altri non pensano che
sia “ultrapessimo” come Giacomo denunzia a ripetizione. Anche questo
è un paradosso, è un “doppio legame”.
Se non scrivesse
vivendo una esperienza terribilmente dolorosa Giacomo sarebbe un umorista
strepitoso: voler fucilare e fare arrosto le due donne, ed i nemici farli
precipitare in un forno crematorio per miliardi di anni, ancora e sempre in
vita, per miliardi di anni mitragliarli, la fucilazione ed il rogo perpetui. Una
certa inventiva fantasiosa ce l’ha, riconosciamolo.
L’indirizzo
delle sue lettere è quanto mai vario e sorprendente. Fa istanza di essere
liberato anche alla Segreteria della Presidenza della Repubblica d’Italia, nel
palazzo del Quirinale in piazza del Quirinale, in Roma.
Comincia con
“Eccellenza a scrivervi questa istanza sono il sig. Giacomo Tarantini (nella
Storia Antica Generale Giachomo Taranthinhi (credo che il mio nome si scriva così)
per poi indicare dove e come si
trovi; pone un problema : dove sono andate a finire tutte le lettere che ha
scritto e chiede che siano riprodotte nella solita maniera (“aggregate
elettromagnieticamente “) e di nuovo impostate, “l’aggregazione
delle mie lettere deve essere fatta a distanza, temo infatti che da questo mio
reclusorio le mie lettere non giungano mai a destinazione, infatti non viene
nessun avvocato ad accompagnarmi a casa.”
Chiede perciò che “Voi
Eccellenza del Palazzo Quirinale incarichiate degli avvocati di grado superiore,
e degli ingegneri di grado superiore, capaci di farmi uscire da questo luogo”.
E continua
“questa
lettera è diretta anche all’Eccellenza Ghihushephphe sei principi
Shahrhahghaht attuale Presidente della Repubblica di indirizzo socialista di
diritto ed anche perfino secondo i giornali che si leggono nel luogo (il nome di
esso appare semplificato dalle h; come è semplificato dalle h il mio nome nei
documenti di questo lugubre luogo) e nella realtà storica io chiedo che faccia
la guerra anche contro il Vaticano. Dal punto di vista delle leggi eterne sulle
razze io sottoscritto Giacomo Tarantini non essendo di razza ebraico, ma di
razza certamente hariano (teutonico) e di nazionalità italico, chiedo di venire
liberato dal luogo dove sono chiuso; dichiaro di essere vivente, di essere di
sesso maschile per situazione naturale eterno e non temporaneo, dichiaro di
poter camminare con le mie gambe speditamente.”
Poi di nuovo
parla della sua vita e delle peripezie psichiatriche e così termina la lettera:
“Chiedo a
tutti gli uomini di Stato che sono nel Palazzo Quirinale che fu sede del Regno
d’Italia prima, e che da trent’anni è sede della Repubblica d’Italia, di
liberarmi dal Manicomio dove ingiustamente sono chiuso da donnette e dalla
Questura all’estrema periferia di Firenze, dico, ingiustamente, non avendo
commesso omicidio e non avendo commesso alcun furto, quindi per il Diritto
Romano devo venire assolutamente liberato e riscuotere dallo Stato d’Italia
gli assegni nobiliari e la pensione di perseguitato politico. Questo scritto
riguarda me stesso, leggetelo. Vi saluto romanamente.
Mi firmo e
sono Giacomo Tarantini,
Un tuffo nel
passato quel salutare romanamente e singolari le tredici “h” dentro il nome
dell’allora Presidente della Repubblica per conferirgli lustro, prestigio,
nobiltà il quale, sulla falsariga del socialista mangiapreti, dovrebbe fare
guerra al Vaticano, solito chiodo fisso in omaggio alla famiglia; tanta è la
paradossalità dello scritto che non si può fare a meno di ridere.
E
tutte le lettere che ha scritto non sono giunte a destinazione perché
non ha ricevuto risposta e nel suo sognare non può pensare che chi le legga non
intervenga, forse per il suo caso c’è la necessità che intervengano avvocati
di grado superiore e per aprire la serratura della porta sono necessari
ingegnieri anch’essi di grado superiore. Ma venga a tirarlo fuori di prigione
qualsiasi Capo di Stato presente nel Quirinale, anche il Re, se c’è.
Ma nessuno viene a liberarlo.
Cambia allora indirizzo politico, passa dalla parte opposta e lì cercare
aiuto per risolvere i suoi problemi.
Scrive dunque
Alla Segreteria Generale del Partito Comunista dell’Armata Rossa.
Al Segretario Generale della Zona di Firenze.
Mi rivolgo con questa lettera alle Eccellenze Vostre per esporre la mia
situazione e chiedere al Partito di estrarmi dal luogo dove io sono chiuso e di
arruolarmi nell’Armata Rossa del Partito Comunista Bolscevico Italiano. Io che
vi scrivo questa lettera sono chiuso in uno speciale reclusorio nel quale si può
venire rinchiusi dalle polizie clericali senza aver commesso alcun reato o
inosservanza delle leggi.
Tali reclusori gestiti da clericali vengono detti manicomi civili,
oppure, per idiozia ed ipocrisia vengono detti: Ospedale Psichiatrici e sono
diretti da beghine e da giente in mala fede, da veri bulli e da stronzi
dirigenti di conventi. Io sono il sig. Giachomho Taranthinhi qui conosciuto come
Tarantini Giacomo o come Giacomo Tarantini nobile e generale in epoche antiche,
nemico tuttora e sempre dei clericali e della chiesa. Io mi rivolgo a Voi
Eccellenze del Partito Comunista e dell’Armata Rossa Bolscevica e chiedo che i
clericali, i preti e le donne vengano eliminate con opportune azioni di guerra
da Voi e dalle vostre Forze Armate; è necessario che voi adoperiate meno la
parola e più il cannone e che diate la morte a tutti i porci che mi circondano.
Chiedo di venire estratto dal luogo dove io sono chiuso assolutamente
da Voi e dai compagni del Partito Bolscevico Comunista. Io sono chiuso, contro
mia volontà, in un luogo assai strano detto: Ospedale Psichiatrico “Vincienzo
Chiarugi” nell’edificio detto Sesto Reparto Uomini, il cancello complessivo
è situato in via San Salvi 12 in fondo a via Lucrezio (a) Mazzanti, il reparto
dove io sono chiuso dista circa un chilometro da quel cancello; questo luogo è
una varietà di Manicomio di San Salvi, sorta di reclusorio clericale; io
sono chiuso in questa zona da anni e tutte le volte che chiedo che mi venga
aperta la porta per uscire in Firenze essi si rifiutano di aprire, io sono
privo di armi, di chiavi, di grimaldelli, e di denaro , e sono in una situazione
assai critica.
Con questa lettera io chiedo al Partito Comunista di inviare nel luogo
alcuni battaglioni di uomini dell’Armata Rossa incaricandoli di liberarmi dal
luogo dove io sono chiuso sparando addosso a chiunque si opponesse.
Domandate alle vostre centrali a onde elettromagnietiche da guerra di
aggregarmi addosso la divisa dell’Armata Rossa e vicino degli arditi che
sparino a quella canaglia clericale e mi facciano uscire per (ossia attraverso)
la porta. Domandate alle vostre centrali a onde elettromagnietiche da guerra di
stampare (elettromagnieticamente con analisi) la carta topografica del luogo
dove io sono chiuso e dire a Voi come venire a cercarmi, e come venire a
parlarmi, e come estrarmi fuori da questo infernale reclusorio: per mezzo delle
Vostre centrali a onde elettromagnietiche aggregatemi nelle tasche una
rivoltella antifortezza che con poche rivolverate distrugge l’edificio con
proiettili atomici composti di razzi esplosivi (enormi) atomici e all’iprite e
al fosgene e che permetta di far saltare la porte e uscire.
Io sono in una congregazione di imbecilli e di straccioni nella quale io
sono prigioniero da anni. Liberatemi!
Con questa lettera io chiedo l’iscrizione al Partito Comunista
dell’Armata Rossa, chiedo che distruggiate in modo completo
la chiesa cattolica costituita da stronzi che io ho sempre odiato a
morte, e che mi tengono prigioniero credendomi forse uno di loro (!!!).
Liberatemi! Fatemi uscire! Questa organizzazione è costituita da venti edifici
e altre costruzioni, chiedo al Partito Bolscevico di mandare gli arditi a farmi
uscire e a sparare a quegli imbecilli e a quelle carogne che me lo impediscono.
Salutando le Eccellenze Vostre e augurando
gloria possente nella guerra e nell’industria
pesante da guerra dell’Armata Rossa e del
Partito, termino la lettera. Sono Giachomho Taranthinhi, Giacomo
Tarantini qui conosciuto come Tarantini Giacomo.
(Note informative. nei secoli passati Generale d’Armata, e
successivamente morto, generato di nuovo nell’anno 1931 il giorno 14 di
novembre, abitai 27 anni a Roma dove frequentai il Liceo e l’Università senza
laurearmi; fui portato a forza in Manicomio dove sono chiuso da un decennio; non
sono né un cattolico, né un prete, né un medico, né un impiegato, ma un uomo
di razza e di politica e di guerra, sebbene deformato e privo di armi; sono un
unno (come razza) ossia monarchico dell’Impero all’origine, ora comunista, e
sempre nell’eternità,
tempo nemico della chiesa e dei clericali).
Mi firmo e sono
Giachomho Taranthinhi
Giacomo Tarantini
Tarantini Giacomo
Firenze: data della lettera, la data del timbro postale.
Povero Giacomo! si attaccherebbe alle
funi del cielo. Urla con una frase reboante ed esplicita: “E’ necessario
che adoperiate meno le parole e più il cannone!” E, quì sta lo
straripare della follia, non solo per liberarlo ma anche per distruggere
la chiesa cattolica (e con essa tutti i suoi familiari); chi meglio
dell’Armata Rossa può farlo? e chiede ancora che elettromagnieticamente gli
venga aggregata in tasca una inimmaginabile rivoltella che spari razzi composti
atomici, al fosgene e all’iprite, con questa farà saltare la serratura della
crudele porta (che esagerato ma nel suo caso niente è troppo), vien da pensare
al leopardiano “l’armi, qua l’armi”. Ed insieme a lui gli arditi (del
popolo?), ed alcuni battaglioni di uomini dell’Armata Rossa. Che non sbaglino
posto, vengano con una carta topografica precisa fatta all’uopo.
E decide di cambiare stemma,
dalla svastica alla falce e martello, chiede la tessera del Partito Comunista
dell’Armata Rossa, decide di diventare comunista in eterno, del resto anche
prima era contro la chiesa, i preti, i clericali.
Toccando temi analoghi chiede soccorso
in una lettera indirizzata alla Direzione e Segreteria Generale del Partito
Comunista Italiano in via delle Botteghe oscure n° 4 Roma ed al Segretario
Generale della Zona di Firenze, in via Giuseppe Saverio
n°58 in Firenze.
Dice subito di essere internato in un luogo senza via d’uscita, “tale
luogo corrisponderebbe come situazione a un campo di concentramento in forma di
Ospedale per matti, diretto da laici, da clericali, da persone che certamente
all’inizio erano preti, monache, frati ecc.”, cerca così di far leva
con l’anticlericalismo ateo dei comunisti.
Ha bisogno che tutto il mondo
comunista conosca la sua situazione, per questo autorizza che la sua lettera sia
pubblicata sui giornali politici del Partito comunista Italiano e del Partito
Comunista Bolscevico e, quel che più importa, del Partito Comunista
dell’Armata Rossa “come il
giornale “Pravda, “Isvestia”, “Stella Rossa” ecc. in articoli che
attacchino violentemente la Chiesa Cattolica e il Vaticano centro di preti e di
mascalzoni, di cardinali e di canaglie.
E viene subito al sodo. “Consiglio le Eccellenze Vostre a far
sciendere in Italia l’Armata Rossa, come trenta anni fa era nei progetti del
Generalissimo Stalin vero animatore fondatore e duce supremo del Partito
Comunista Bolscevico e fondatore dell’industria meccanica pesantissima di
guerra comunista”.
Poi, dopo aver chiesto di essere liberato con una azione di guerra
denunzia che tutte le sue trattative col personale e con la dirigenza per
l’apertura della porta risultino sempre vane; ancora chiede “che sia
effettuata terribile rappresaglia” tale da vendicare quella sua prolungata
ed ingiusta reclusione, “dovete assalire le sedi dei miei avversari e
devastarle ed inoltre, sul piano nazionale, far scendere cioè far entrare
l’Armata Rossa in Italia; ed effettuare la distruzione dei manicomi e
delle cliniche chiuse che sono dei veri centri di tortura gestiti da clericali,
da cattolici e da giente lurida, in uno di questi luoghi”, casomai non si
fosse spiegato bene lo ripete, ”sono io prigioniero”.
Prosegue dando notizie di sé:
Vi darò brevemente mie note informative: nacqui il giorno 4 del mese di
novembre dell’anno 1931 dopo molti anni di morte, il mio nome è Giacomo
Tarantini (ossia Giachomho Taranthinhi), in questi trentotto anni di vita con
tali persecuzioni alle spalle non ho raggiunto gli scopi politici e di guerra da
me prefissati ossia la distruzione totale della Chiesa e dei partiti clericali,
bombardare dagli aeroplani le città dove vengono effettuati arresti e
deportazioni nei Manicomi e precisamente Roma e Firenze, ricostruzione
dell’industria meccanica pesantissima di guerra e delle industrie delle quali
per l’etimologia del mio nome dovrei essere titolare e condottiero supremo.
Dunque chiede aiuto:
Nei secoli precedenti morii sconfitto mentre tentavo di realizzare questo
mio grande progetto, Vi chiedo di liberarmi dal luogo dove io sono chiuso e
di riarmarmi, eseguiremo le battaglie insieme e bruceremo il nemico comune,
sorvoleremo il manicomio dove sono chiuso e vi getteremo ordigni pesantissimi da
guerra chimica annientandolo (istantaneamente) (bombe d’aereo ai gas tossici
ed atomiche).
E finisce:
Chiudo la lettera chiedendo di venirmi a estrarre dal luogo terribile
dove da molti anni sono chiuso, sono chiuso nel Sesto Reparto Uomini del
Manicomio “Vincenzio Chiarugi” luogo di cretini totali , sono vestito da
straccione, senza denaro, circondato dai clericali e dai reazionari.
Liberatemi!! Rinnovate la mia iscrizione al Partito Comunista Italiano
Bolscevico e dell’Armata Rossa.
Mi firmo e sono Giacomo Tatantini ossia
(Giachomo Taranthini)
di anni trentotto di età, ora alto 1,65?, non
cattolico né di altre
religioni, studioso
di
Scienze Politiche.
Data della lettera:
Firenze: data del timbro
postale agosto 1969- 70
Da mettere in evidenza quella perla
dell’ “eseguiremo le battaglie insieme e bruceremo il nemico comune”.
Non avendo avuto risposta, (e
come poteva averla?) dopo un anno invia una missiva al Comandante dell’Armata
Rossa; subito dopo l’intestazione scrive; “Lettera: da leggersi
attentamente”.
Comincia la lettera denunziando “la terribile reclusione che avviene
del pubblico e dei cittadini nei terribili dormitori a porte chiuse gestiti dai
clericali e dai reazionari. Uno dei terribili dormitori a “porte chiuse” è
il Manicomio Provinciale di Firenze detto Ospedale Psichiatrico “Vincenzio
Chiarugi” dove sono rinchiuso nel Sesto Reparto Uomini.
Questa reclusione dura ininterrottamente da undici anni di tempo, e io
accuso questo ente di sequestro di persona nelle associazioni clericale e
reazionarie; io incarico il Partito Comunista di combatterle strenuamente”.
Cita, in verità a suo modo, Carlo Marx. “Carlo Marx nel libro di
dottrine politiche il “Capitale” descrive queste spaventevoli situazioni di
sfruttamento del pubblico volute dalla Chiesa dai clericali dai reazionari.
Incarico il Partito Comunista Italiano e l’Armata Rossa di combattere i nemici
dello Stato, dell’Industria e del Progresso e di distruggerli completamente.
Ma fa anche una solenne, doverosa
autocritica. “E’ vero che nella Storia Antica fui comandante di Legioni
del Fascismo e del Nazismo, ma non fui mai nemico del popolo e del progresso
civile”. Parigi val bene una Messa.
Ed ancora una volta racconta la sua storia, ancora una volta ripete dove
sta con indicazioni topografiche precise, ancora una volta chiede di essere
liberato, e che gli portino la tessera perché la lettera rappresenta la domanda
di iscrizione.
Poi:
“E’ mia opinione che Voi fareste bene con degli aereoplani da
bombardamento Mig 15 di bombardare il Manicomio “Vincenzio Chiarugi” in
Firenze e il Manicomio di S.Maria di Pietà in Roma con bombe atomiche di
distruzione totale e di buttare bombe atomiche (come a Hiroschima e a Nagasacki)
sopra la città del Vaticano, chiedo al Partito di eseguire questo mio volere e
questa mia giusta vendetta. Qualora il Partito, o per un motivo, o per un altro,
non eseguisse tali bombardamenti, li eseguirò io uscendo dall’inferno dove i
clericali mi hanno chiuso, sui medesimi obbiettivi che Vi ho accennato in questa
lettera con distruzione totale del comune nemico e della cristianità. Con
questa lettera voglio accennare alla mia situazione, sono chiuso in Manicomio,
ente di cretini totali, e non riesco a uscire, sono senza abito, senza cappotto,
senza orologio, senza rivoltella, poi si rifiutano di aprirmi la porta da anni.
In questo inferno temo di morirci senza riuscire a eseguire la mia terribile
vendetta, contro i clericali e i reazionari che mi tengono chiuso in
manicomio”
Fa alla fine l’ultima pressante
richiesta, una richiesta minima:
Con le centrali ad onde elettromagnietiche del Partito aggregatemi una
rivoltella nelle tasche e degli arditi che scassino la porta. Incaricate delle
persone di venirmi a trovare, di portarmi un abito nuovo ed un paio di
rivoltelle da guerra e di far saltare la porta del Sesto Reparto Uomini dove,
contro mia volontà, vengo tenuto chiuso e di condurmi in città.
Nella lettera fra un richiamo a Marx ed un’autocritica sgorga
incessante l’ansia di rivincita contro chi lo rinchiuse in manicomio,
strabocca il sogno di una terribile vendetta e qualora il Partito, per un motivo
o per un altro non eseguisse i bombardamenti atomici da lui richiesti sarà lui
ad eseguirli appena libero; par di sentire quell’enfatico, assurdo “l’armi
qua l’armi - sol io combatterò” di leopardiana memoria. Povero Giacomo,
senza abito, senza cappotto, senza orologio, senza rivoltella.
Cerca negli stessi anni vie legali tramite avvocati. Scrive difatti al
Pregiatissimo Avvocato Giorgio Padoa. Dopo avergli chiesto di farlo uscire, di
condurlo in Firenze e, non poteva mancare, di armarlo e farlo iscrivere ad una
scuola di guerra o Accademia Militare gli rivolge una pressante supplica:
“Chiedo di effettuare un processo per riabilitarmi di fronte alle
Autorità Militari e alle Magistrature e cancellare l’onta di questa
reclusione ingiusta che fu motivata da motivi di salute, motivi assai superati
perché io sto bene e soprattutto dal comportamento delle parenti mie maligno ed
insipido, maligno nel senso di tendenziosità a far applicare “terapie” od
operazioni mediche che uccidono.
Io che vi scrivo questa lettera sono il sig. Giacomo Tarantini (ossia
Giachomho Taranthinhi) nobile nei millenni precedenti, ora completamente
ignorato, ridotto come uno straccione e in situazione di estrema ed assoluta
povertà. In questa situazione l’abitazione mia di appoggio avrebbe dovuto
essere in Piazza delle Poste Centrali n° 110 Firenze, essendo io figlio del
defunto dott. Francesco Tarantini morto quattro anni fa circa e passato in
proprietà a Maria Rosa Tarantini figlia del medesimo n. nell’anno 1934.
Nacqui il giorno 14 del mese di novembre dell’anno 1931, ho circa
trentotto anni di età, nei pressi di Roma.
Sebbene qui per farmi questo trattamento ultrapessimo credo che mi
considerino ex prete o clericale o democristiano, Vi dirò che non sono né sono
mai stato, né clericale, né prete, nemmeno nei millenni precedenti ma sempre
studioso di Scienze Politiche e in epoche ultra-antiche (storia ultra-antica)
condottiero militare e console. Ora sono chiuso al Sesto Reparto Uomini
dell’ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi” il cui canciello (di tutto
il Manicomio) è situato in via San Salvi n. 12, e il reparto mi pare che disti
circa un chilometro dal canciello, venite a trovarmi e fatemi tornare a casa.
Mia “sorellastra” è persona intrattabile, non rivolgetevi ad essa,
ma venite e liberatemi.
Non ho procedimenti penali sospesi e sono senza reati, dunque liberatemi.
Segue la solita firma.
Scrive anche
All’Ecc.: Avv. Luigi Ferri (e a tutti gli avvocati con le h intermedie
in tale nome: socialisti, comunisti e di tutti i partiti) al suo studio legale
in via Camillo Benso di Cavour 90 in Firenze.
Gli parla dapprima della sua triste
situazione, fa l’altro “La situazione è assai seria perché lo scarso
cibo dà scarse forze e non permette a me di fuggire”. Allora chiede un
suo intervento:
“siccome questa reclusione dura da anni, io voglio che Voi, Avvocato,
accusiate la Direzione di questa infernale organizzazione del reato di sequestro
di persona in associazione a delinquere anti-Stato (di forma ospedaliera) e di
torture, e limitazione di libertà.
Desidero che voi veniate a trovarmi”, rompiate la porta con una bomba o
con un attrezzo da scasso, con delle cannonate rompiate gli strumenti di arresto
(che a me sono invisibili) e mi facciate uscire in Firenze e mi accompagnate
in Roma.
Che io riesca a uscire da solo è da scartarsi, perché se io chiedo che
mi venga aperta la porta essi rispondono di no, e rispondono di no da anni e io
non riesco ad uscire, la mancanza nelle tasche di denaro, di armi, di abiti
decorosi, di cibo appropriato , è e fa sentire il suo peso. Chiedo che voi
veniate a condurmi all’uscita subito, non nelle esistenze successive perché
non voglio crepare qui dentro ma uscire assolutamente fuori.”
E più sotto:
Non so quali calunnie adducano per tenermi chiuso. Talvolta possono
venire inventate dal nemico argomentazioni balorde: é.... ibrido, è prete...,
è .prelato..., è idiota...,è
un mollusco..., è una donna....,è nemico del Vaticano ecc. Nulla di tutto
questo è vero; io sono un uomo completo nelle membra sebbene di aspetto non più
ariano teutonico ma ebraizzato”.
Ed ancora:
“Che relazione abbia tale luogo con gli ospedali a torture insuliniche
e a veleni anti-zucchero lo dice la deformazione enorme dei crani delle persone,
è connesso con la macchinazione(invisibile) della fabbricazione del veleno
insulina e delle torture di un certo numero di persone che periodicamente
vengono arrestate. Il luogo dove io vengo tenuto
chiuso è un Manicomio
a torture insuliniche, ed elettriche, (e P.O.L.A. -tortura atroce
invisibile- nel terzo Reparto solamente), io ritengo tutto il Manicomio
pericoloso, e chiedo a voi, Sig. Avvocato, di venirmi a trovare e di farmi
uscire e di condurmi in Firenze dopo avermi portato una rivoltella da ufficiale.
Strade vicine al Manicomio, ma ad esso esterne sono: via San Salvi, Via
Lucrezia Mazzanti, Via del fiume Affrico, Via De Amicis, Via Mannelli, distante
da qui alcuni chilometri, Piazza di
San Salvi dov’è la Chiesa col campanile che si vede in distanza dalle
finestre. Venga a liberarmi.
Sono Tarantini Giacomo Giachomho Taranthinhi
Qui anno 1970, data del
timbro postale.
Lettera: Poscritto:
Signor Avvocato, io posso indicarvi la strada come venire a trovare.
Il Vostro Ufficio è in Via Cavour, potete salire sul filobus n.20 in
Piazza San Marco e raggiungere, traversando tutta la città, via Gabriele
D’Annunzio sciendete alla fermata dopo Via del Fiume Affrico poi potete girare
per Via Andrea del Sarto, Piazza San Salvi, Via San Salvi, il cancello del
Manicomio è in Via San Salvi N.12 ad angolo e vicino il passaggio a livello di
transito della ferrovia Roma Firenze Milano: Riepilogando sono chiuso al
Sesto Reparto Uomini dellOspedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi in Firenze,
chiedo all’Eccellenza Vostra di venirmi a fare uscire assolutamente perché
sono in pericolo.
Luogo pericoloso in genere questo, Eccellenza, prendete le
precauzioni massime per la vostra incolumità e venite a trovarmi assolutamente.
Sono il ricoverato, l’internato, il recluso
Tarantini Giacomo
ossia nell’idioma italico completo
Giachomho Taranthinhi
(nella Storia Antica generale d’armata
ora recluso e povero nel Manicomio)
Firenze: data della
lettera, la data del timbro postale (qui gennaio 1970)
Dice le stesse cose in un’altra lunga
lettera all’avvocato Ferri. Nel frattempo a San Salvi era avvenuto qualcosa di
nuovo, si era costruito un nuovo reparto, il “reparto aperto”, si poteva
essere ricoverati senza passare dalla clinica e senza essere “associati”,
gli si era dato un’apparenza moderna pur restando manicomio nell’anima,
nell’ingresso incombeva un enorme lampadario composto da una agglomerazione di
forme geometriche poliedriche di plastica da
celestine ad azzurre, anche il quarto ed il decimo reparto si erano un po’
liberalizzati pur restando sempre gli stessi, e Giacomo lo nota nella lettera:
“Non dovete credere alle dicerie che il Manicomio sia a porte aperte,
purtroppo è a porte chiuse, tutto, eccettuato dei reparti speciali il
“decimo” ed il “quarto” e il “reparto aperto”.
Ma non il reparto dove è chiuso Giacomo. Perciò chiede all’avvocato
Ferri un intervento più radicale che nella precedente lettera, di quella misera
bomba e di quel grimaldello per aprire la porta, bensì:
“chiedo a Voi Eccellenza di prendere dallo Stato quello che lo Stato mi
deve in denaro ed adoperarlo per effettuare (una causa -segreta-) una azione di
guerra, la mia liberazione e il mio riarmo”
E più sotto:
“Mi venga a trovare, Eccellenza, mi liberi; effettueremo tale
bombardamento di tale pericoloso centro che mi tiene prigioniero dopo, oppure
effettuatelo Voi il bombardamento con protezione elettromagnietica di me
stesso”.
Oltre a ciò:
“io avviso Voi affinché sganciate da qualche aereoplano sulla testa
della famiglia Graticci la bomba atomica assolutamente. (La famiglia
Graticci è quella della mamma morta). Nella lettera sono dieci le volte che
chiede di essere liberato.
Scrive lettere anche ad altri avvocati, sempre col solito tono ed i
soliti contenuti.
Lettere sconclusionate che muovono al riso, lettere ossessionatamente
ripetitive, Giacomo è veramente matto; ma non è questo il problema, il
problema è come è trattato e come è stato trattato, come è ed è stato
curato.
La sua richiesta ad avvocati affinché intentino un regolare processo a
chi in nome di una falsa scienza rinchiude ed esclude e sottopone a cure tanto
terrificanti quanto inefficaci i poveri cristi che capitano sotto le grinfie è
analoga ed anticipa, siamo nel 1969, quel processo cui abbiamo assistito negli
anni successivi contro il manicomio, quel movimento di idee culminato nella
legge 180 che, purtroppo solo a parole, ha sancito la chiusura dei manicomi.
La sua denunzia dal didentro l’istituzione si muove su due piani
diversi e contrastanti, dobbiamo tenerlo presente, che la vanificano
vicendevolmente: sul piano del reale, della sofferenza fisica e morale, del
ricordo delle torture subite e della coscienza del suo non esser più un uomo
riconosciuto come tale e di contro sul piano della espressione verbale dei suoi
desideri e delle sue esigenze che scaturisce dalla sua allucinata fantasia che
veste i suoi fantasmi. Questo è il paradosso col quale si esprime il nostro
Giacomo. E non ne può fare a meno.
E’ così’ che Giacomo, è stato già detto, ci può muovere al riso e
così facendo ci libera dal pensare alla realtà crudele che l’annienta;
Giacomo diventa un simpaticone, un personaggio estroso e fatuo.
E di fatto lo è, anche, qui sta il paradosso.
Non si può che ridere di fronte alle precise istruzioni sui giorni e
l’orario in cui è permesso far visita ai ricoverati, alla indicazione esatta
e pedante della localizzazione del manicomio, dei servizi pubblici per arrivare
a lui, delle fermate, delle vie da percorrere per arrivare al manicomio che
peraltro è misteriosamente nascosto alla estrema periferia di Firenze, tanto
che per trovarlo è necessario comporre una mappa con “centrali
elettromagnietiche”.
.
Non si può che ridere leggendo il perché non possa uscire e come pensi
di tornare libero, “lo scarso cibo dà scarse forze e non permette a me di
fuggire”, è privo di abiti
civili, di armi, di denaro, ed è da scartarsi che riesca ad uscire da solo “perché
se io chiedo che mi venga aperta la porta essi dicono di no e rispondono di no
da anni e io non riesco a uscire”; per questo deve venire qualcuno a
liberarlo, che rompa la porta con una bomba o con un attrezzo da scasso, che con
n delle cannonate si rompano gli strumenti di arresto che tuttavia sono
invisibili.
Come non ridere?
Ma a guardare bene Giacomo indica esattamente la situazione
psicopatologica in cui si trova: è legato senza poter vedere le catene
che lo legano, è rinchiuso in una prigione senza aver commesso alcun reato,
(anche legalmente, altrimenti sarebbe o in galera o in un manicomio giudiziario)
ed ha ragione a dire che la sorella è veramente matta perché crede ben fatto
il tenerlo in manicomio.
Subito dopo però si torna a ridere e necessariamente; “Non so quali
calunnie e imbrogli adducono per tenermi chiuso. Talvolta possono venire
inventate dal nemico argomentazioni balorde: è....ibrido, ...è prete, ...è
prelato, ...è idiota, ...è un mollusco, ...è...donna, ...è amico del
Vaticano ecc. io sono un uomo completo di membra, sebbene di aspetto non più
ariano teutonico ma ebraizzato”.
Si ride nel leggere dei suoi assegni personali individuali mensili e
nobiliari dai quali dovranno essere tolte le spese del processo, si ride
leggendo le richieste che fa agli avvocati di azioni di guerra, le richieste di
terribili bombardamenti con bombe atomiche, all’iprite, al fosgene sul
manicomio di Firenze e di Roma e sulle città di Firenze e di Roma (che si stia
però attenti e si faccia di tutto a non recargli alcun danno) ed il
bombardamento atomico deve essere eseguito anche sulla testa della famiglia
della madre morta. E che dire della sua insistenza a volersi iscrivere alla
scuola di guerra aerea ed in specie a quella di Firenze.
Ma non è fantasia quando afferma che la sorella è veramente matta perché
crede ben fatto il tenerlo lì in manicomio.
Dato che l’avvocato Padoa, l’avvocato Ferri e gli altri avvocati non
gli rispondono (e come potevano rispondere a simili lettere anche se fossero
loro giunte?) scrive all’Ordine degli Avvocati di Firenze una lunga lettera
con una lunga postilla tutta enfaticamente retorica di quest’omino (in tante
lettere confessa di essere alto, ora, solo m.1,65) che scrive, scrive e mai uno
che gli risponda e che giustamente dubita che le persone cui affida le missive
le imbuchino (e non sa che se anche partissero e fossero lette tutto finirebbe
in una risata ciò che impedirebbe il riflettere sulla sua condizione).
Per l’ennesima volta parla dapprima del suo delirante passato e del suo
attuale stato, del suo sogno di distruzione e ad un tratto sbotta:
“Avvocati di Firenze che cosa facciamo?
Vi giungerà questa lettera?
Essendo chiuso non riesco a metterla nella cassetta delle lettere, ce la
metterà la persona che io incaricherò? Mi auguro di sì! Da quando io sono qui
chiuso ho scritto 15.000 lettere, andrebbero ossia sarebbe bene che fossero di
nuovo aggregata per mezzo di una centrale a onde elettromagnietiche da guerra e
spedite di nuovo, lasco a Voi far questo.
Non sono chiuso a ragione di pazzia, ma a motivo di manovre oscure del
nemico interno al territorio nazionale mai sconfitto.
Venite a trovarmi e liberatemi! si oppongono da anni alla mia uscita
dalla porta.”
Segue la postilla:
Postilla alla lettera
Poscritto
Questa situazione (che mi circonda) è da cretini completi, domando perciò
a Voi Eccellenze dell’Ordine degli Avvocati di estrarmi fuori dal Manicomio e
di iscrivermi alle Accademie di Guerra e di Scienze Politiche e alle
Organizzazioni Militari e di Ingegnieria che il mio grado ed il nome che porto
mi danno diritto a frequentare.
Da chi fui introdotto in questa situazione? La seconda volta dalla
Questura di Firenze, la prima volta da agenti privati, dell’ Amministrazione
Provinciale che mi estrassero fuori da un manicomio in Roma che mi teneva chiuso
per ordine di una certa Toscana Forbiti o di una certa Toscana Forbiti Tarantini
che mi estromise da un villino (in
via Pinega 31 Roma) che avevo nell’anno 1950 in Roma e mi fece portare nella
terribile clinica
detta a veleni
(detta Parco delle Rose, situata sulla Via Aurelia
-situata in Roma);
successivamente mi estromise dall’appartamento che avevo in Viale Eritrea
N.157 in Roma e mi fece portare in Manicomio, questo nell’anno 1956 in Roma.
Incaricate un avvocato (a Vostra scelta sia per il nome che per la scelta
politica) di venirmi a trovare e di trarmi da questa situazione e di procurarmi
una abitazione e di farmi ottenere ciò che di ordinariamente mi è dovuto dallo
Stato d’Italia in denaro e banconote.
Mescola come sempre il sacro col
profano (è da qui che scaturisce la comicità della lettera); il tono però
cambia quando denunzia di essere stato estromesso dalla casa del padre (e perciò
anche sua) da una certa Toscana Forbiti, alias Toscana Forbiti Tarantini, la
matrigna, e che la stessa era stata a decidere il da farsi trovando alleati gli
psichiatri tanto inetti quanto compiacenti. Lì non non parla a vanvera.
Non sa a che santo votarsi, uomini importanti non rispondono, né il
Patito Comunista, né l’Armata Rossa, non rispondono avvocati e Ordine degli
Avvocati. Si ricorda allora della
proprietaria di una pensione presso la quale in passato aveva soggiornato (da
giovane, forse nel tentativo di fargli superare i suoi problemi fuori casa, “in
epoche molto antiche della Storia” ) affinché lei od
un avvocato da lei incaricato lo traggano fuori dal manicomio o di fargli
avere un po’ di soldi o rivolgersi ad una grande organizzazione militare perché
possa essere liberato.
Così inizia:
“Pensando a situazioni simili alla presente situazione, mi sono
ricordato di essere stato ospite (in epoche molto antiche della Storia) della
Vostra Pensione del Vostro Albergo e per tale motivo sebbene indistintamente
ricordandovi mi pare opportuno incaricarvi di quello che nelle righe presenti
dirò”.
Dopo avere esposto le sue richieste così
continua:
“Sono troppo sorvegliato, La fuga da questo luogo non mi riesce.
D’altra parte non avendo mai commesso né reati di natura penale, né di
natura politica, né azioni infamanti non capisco il perché di questa
reclusione”.
E termina:
Alla presente unisco una cartolina caratteristica del luogo, che, se
sottoposta alla attenta analisi di un avvocato, vi darà informazione precisa
dove trovarmi”.
Sono il ricoverato ossia il recluso stesso
Giacomo Tarantini
(qui il nome può, negli incartamenti del luogo, essere scritto:
Tarantini Giacomo
(ma nella Storia Antica era certamente
Giachomho Taranthinhi Consul o Imperator)
Lo si deve ribadire, sono lettere esplosivamente tragi-comiche la cui
natura nasce dal contrasto fra l’illusione della fantasticheria e la realtà
in cui crudamente è immerso, le due facce della medaglia.
Una lettera, la lettera che segue è
esemplare a questo proposito; due facciate non lunghe, sulla prima non si
sbilancia troppo, chiede ad un ingegnere di farlo uscire dal “lagher”,
agendo con astuzia come un avvocato che libera il suo cliente, una facciata
abbastanza pacata, il termine “espugnare gli si può concedere, dà l’idea
dell’ardimento necessario a forzare il portone, Ma nella seconda Facciata!
dietro un “Dopo” viene la fine del mondo.
Pregiatissimo Ingegniere,
io vi scrivo da uno strano luogo di reclusione, strano “lagher”
situato a sud della città di Firenze.
Questo Manicomio, Dove sono prigioniero, è il Manicomio Provinciale di
Firenze, io sono chiuso nel Sesto Reparto Uomini, il cancello complessivo del
“lagher” è in via San Salvi 12 Firenze, 50135 è il numero di
codice di avviamento postale) con questa lettera io vi chiedo di
espugnare il Sesto Reparto uomini e di condurmi in città lasciandomi libero.
Io sono prigioniero nel Sesto Reparto uomini e non ho la chiave che apra
il portone di uscita, inoltre se chiedo di aprirmi mi rispondono di “no”.
quindi occorre forzare il portone e lasciarmi uscire, chiedo pertanto che voi,
agendo come un avvocato che libera il suo cliente dalle prigioni, mi facciate
uscire.
Dopo, potremo sorvolare il Manicomio a grande altezza con un aereoplano e
lanciare sul manicomio centinaia di bombe esplosive incendiarie di guerra
chimico-atomica al “nitrum” così da rendere incandescente la città ed
arrostendo tutti gli uomini del Manicomio e anche tutte le donne che saranno
fatte esplodere con la bomba atomica all’huranio acqua pesante idrogeno. Io
sono generale degli Arditi Imperiali della Germania.
Questa impresa dovete progettarla e liberarmi e farli saltare in aria nel
modo precedentemente suddetto e metterli nelle macchine per torture fisse per
millenni. Questi uomini sembrano selvaggi ed il luogo (topos ) deriva dal libro
elettromagnietico “I Fantasmi di Mombasa”. Venitemi a trovare.
Di salute sto bene. E’ ora di fare la guerra!
Saluti.
Mi firmo e sono
Giacomo Tarantini
Giachomho Taranthini, Feld Maresciallo e Capo di Stato ---> nella
Storia Antica
Il finale “Di salute sto bene.
E’ ora di fare la guerra!” è un vero capolavoro.
L’astuzia di chi interviene, la forza di armi distruttive, la potenza
del denaro per corrompere, lo Stato che dovrebbe sborsare cifre enormi per
arretrati secolari di pensione sono
i chiodi fissi di Giacomo per uscire dal manicomio. In alternativa al denaro
contante od agli assegni esponenziali i funzionari statali potrebbero
procurargli una macchinetta tascabile per stampare la carta moneta a lui
necessaria, lo si è già visto. Oppure ci sarebbe un’altra soluzione che
prospetta
a Sua Eccellenza il Direttore Generale del “Banco di Napoli” Società
per Azioni e al Direttore della Sede di Firenze del Banco stesso, in Via Camillo
Benso di Cavour n°20 Firenze.
MI rivolgo con questa
lettera all’Eccellenza Vostra per descrivere la terribile situazione nella
quale io sono chiuso”.
Descrive la sua situazione di recluso
nel manicomio, indica la necessità di tanto denaro “molto, molte
cifre, numeri di molte cifre, infiniti, per uscire, ossia pagare l’apertura
della porta e potersi riarmare in una armeria uscendo libero in Firenze”.
Però non ce la può fare: “le donne residue della famiglia che era di mio
padre mi inviano solamente diecimila o ventimila (quasi mai) lire mensili”.
Inoltre rivela: “ho tentato di
chiedere per lettera al Ministero della Guerra (aereonautica) e al Governatore
Generale di Roma, al Comune di Firenze e all’E.C.A. il pagamento di assegni
personali individuali mensili e sopratutto nobiliari ma ignoro se le lettere
siano giunte.”
Tutto invano. Specifica poi di non
appartenere ad alcuna razza inferiore, né cristiana né ebrea né di medici e
dopo essersi qualificato come nobile e Primo Console nella Storia Antica, dopo
aver dato esatte indicazioni di dove si trova così continua:
“Io vi domando se questa situazione può essere risolta facendo
acquistare in una tabaccheria una cambiale firmandola io stesso, spedendovela
per posta e convertendola Voi in denaro e successivamente risquotendola Voi
stessi dal Ministero della Guerra o dal Ministero della Real Casa con i quali
ministeri il mio nome è eternamente legato e connesso ossia connesso per
infinito tempo nella storia. Ringraziando anticipatamente l’Eccellenza Vostra
Vi chiedo di scrivermi in modo che la Vostra lettera mi arrivi e di estrarmi dal
Manicomio e di procurarmi una abitazione. Comunicatemi quanto costa l’essere
estratto fuori e sistemato fuori di qui”.
La cambiale! Non poteva mancare la
cambiale nella mente del nostro Giacomo tutto teso a trovare strattagemmi per
trovare il denaro per pagarsi la libertà
Mentre che scrive ad avvocati, a ministri, ad ingegneri, a capi di Armate
Rosse scrive anche al primario del reparto in cui alloggia, gli chiede un po’
di libera uscita, non gli costerebbe un soldo, soggiunge , ma denunzia anche le
angherie del manicomio; il paradosso è che Giacomo denunzia fatti a qualcuno
che è al corrente dei fatti stessi.
“Al Direttore del Sesto Reparto Uomini del Manicomio dove io stesso
sono chiuso.
Data. 22 febbraio 1971
Leggetela questa lettera e portatela con voi.
Io sottoscritto Giacomo
Tarantini vivente fino dall’anno 1931, recluso in questo Manicomio dall’anno
1958, ossia da oltre un decennio chiedo che inoltriate presso il Direttore
questa mia istanza che ha anche lo scopo di farmi ottenere la libera uscita nei
viali che non è un beneficio finanziario, ovviamente, ma l’iscrizione del mio
nome nella tabella della libera uscita che è laterale alla porta del corridoio
del Reparto.
Ho notato con l’osservazione diretta che in questo reparto ci sono
molti provocatori, veri aggressori, che tenderebbero a prendere per il collo a
perquisire, a vuotare le tasche a far disordini durante l’ora dei bagni,
chiedo pertanto che tali provocazioni cessino assolutamente.
Io non sono ancora riuscito a liberarmi da così prolungata situazione di
reclusione perché ricevo solamente ventimila lire al mese dalla abitazione
della sorellastra.
Sebbene abbia chiesto al Municipio di Firenze gli assegni civici
individuali mensili in carta di formato diplomatico non li ho ricevuti nemmeno
una volta.
E sebbene abbia chiesto per lettera, analogamente, al Ministero delle
Finanze non ho ricevuto nulla. Ho dato sempre le lettere al caporeparto e al
personale quando rincasano uscendo essi dal cancello di dietro, ossia posteriore
del Reparto, pregandoli di impostare in città.
Egregio dottore poiché voglio fare acquistare un abito civile (o una
divisa militare) per indossarlo io stesso ho incaricato per lettera mia
sorellastra di venirmi a trovare e di portarmi il denaro necessario a fare tali
acquisti: alcuni biglietti da diecimila lire, ma ancora non è venuto nessuno,
pertanto chiedo che telefoniate Voi stesso all’appartamento che era di mio
padre e che è situato in piazza della Posta Centrale n° 110, (telefono credo
470047, è necessario guardare di nuovo sulla guida telefonica per vedere se
fosse cambiato al nome Tarantini) e che chiediate alla sig. Maria rosa Tarantini
di venirmi a trovare a scopo di prestito e di accompagniarmi a casa. Incaricate
di accompagniarmi a telefonare.
Mi firmo e sono il ricoverato da anni stesso Giacomo Tarantini, la
lettera presente riguarda me stesso.
Chiede poche ed esaudibili cose,
piccoli desideri ma che però diventano enormi ed impossibili ad essere
soddisfatti per Giacomo. Da notare che quando scrive al Primario si firma senza
le “h” nobiliari, però fa notare al primario che lui stesso è chiuso.
Ancora un’altra lettera al primario del reparto, questa è del 1970:
Al Direttore del Sesto Reparto Uomini del Manicomio dove sono chiuso
(riguarda me stesso, leggierla.)
(Argomento di questo scritto: Darmi la libertà, mandarmi al Decimo o
al Quarto Reparto che sono aperti, e uscire.)
Dopo aver ricordato per l’ennesima
volta le sue condizioni così scrive:
Vi chiedo di venire inscritto nelle liste di libera uscita del
pomeriggio; non frequentando uffici la situazione finanziaria non può variare.
Voglio assolutamente sopravvivere a questa situazione di povertà e
tornare a casa, si astenga dal sottopormi, ossia mi eviti qualsiasi
provvedimento medico che tolga le forze o che diano la morte, poiché voglio
assolutamente sopravvivere.
Così conclude:
Date disposizioni affinché io torni ad essere libero.
Mi firmo e sono Giacomo Tarantini, nobile studioso di Scienze Politiche,
di anni trentanove di età.
Poscritto: Se è vero che il fare aprire la porta per uscire ha un certo
prezzo, io potrei firmarvi una cambiale bancaria o convertibile in denaro o
equivalente al denaro stesso, ossia definitiva.
In quale modo io devo comportarmi in questa situazione? Io non ho debiti
è vero ma fare aprire la porta ha un certo prezzo, se accettate la cambiale io
la fo prendere in un negozio di tabacchi e di valori bollati e ve la firmo.
Mi firmo e sono Tarantini Giacomo.
La “libera uscita” (non è un
termine inventato da Giacomo o da lui mutuato dal linguaggio di caserma; così
veniva chiamato da medici ed infermieri il permesso di uscire dal reparto),non
dovrebbe costare nulla ma se ha un prezzo è disposto a pagarlo, è vero che non
possiede denaro liquido, lo dice con quel “non freguentando uffici la
situazione finanziaria non può variare” e lo sottolinea, potrebbe firmare
una cambiale e darla al primario; è commovente per la sua ingenua faciloneria e
tocca il cuore la sua voglia di vivere, di sopravvivere, il chiedere di non
venire sottoposto “a qualsiasi
procedimento medico che tolga le forze o che dia la morte”, gli
psicofarmaci, l’elettroshock e lo shock insulinico. E se proprio dovesse
restare in manicomio che almeno venga mandato in un reparto più vivibile.
Solo chi non si è reso conto della
vera faccia del manicomio può pensare che la breve lettera sia frutto del
delirio. Non è così. C’è da credergli che qualche sadico scherzi con la sua
paura delle “terapie” di shock, c’è da ricordare che il sogno di chi
gestisce il manicomio è di avere fra i piedi gente tranquilla, apatica, che non
crei problemi ed anche questa è vera pazzia, è uno dei grandi paradossi del
manicomio, come può stare tranquillo chi non è tranquillo? ma l’ideale è il
paziente abulico, docile, mansueto, il fine è questo, da raggiungere in tutti i
modi. Ed i modi erano tanti, dal più medicalmente accettabile, (ma quanto il
sovradosaggio degli psicofarmaci! quelli a gocce erano misurati a “pompate”,
non contando le gocce), alla contenzione con la camicia di
forza o con la contenzione fatta legando al letto, alla “strozzina (il
ricoverato agitato veniva, preso di
spalle, stretto al collo dall’infermiere col braccio, venivano in tal modo
schiacciate le carotidi cosicché non arrivando il sangue al cervello il
paziente cadeva a terra come un cencio e si risvegliava intontito, c’erano
degli specialisti in materia) per arrivare agli “shock”. Di solito erano gli
infermieri in certi reparti a suggerire la “cura” e lo psichiatra nella
frettolosa prassi della visita al reparto accettava la proposta essendo la
tradizionale ideologia manicomiale adeguata a certi medici superficiali e
menefreghisti ed a certi infermieri aguzzini e sadici che sapevano anche
divertirsi alle spalle dei ricoverati minacciando loro quel che più temevano.
Lo dice chiaramente in un’altra lettera al primario del reparto:
“Elementi turbolenti introdotti dall’esterno freguentemente si
appressano a me malmenandomi come se fossero ladri.
Di salute sto assai bene,
tuttavia gli infermieri mi minacciano come se dovessi subire l’elettrosciok,
terapia certamente mortale, evitatemela assolutamente.
Il mio contegno generale è da impiegato e sono gentile con tutti. La
notte dormo saporitamente.
Trasferitemi al Primo o al decimo reparto uomini. Sono il ricoverato
Giacomo Tarantini
di razza ariana, di 40 anni di età.
Di razza ariana. Idea fissa che gli ronza in testa, motivo in più per il
povero Giacomo per non restare chiuso nel “Lagher”.
Lo specifica e in un altra lettera, una lettera davvero folle ma non
tutta, al primario del reparto.
“...Tra le argomentazioni da portare per farmi mettere in libertà
senza alcun contrasto con le Autorità di Firenze e di Roma è il mettere in
rilievo che io di razza sono ariano.
Taluni filosofi nazisti dicevano che gli ariani costituiscono la razza
minima che possa stare perennemente fuori dai manicomi, questo è certamente
vero. Le razze inferiori, diceva quella teoria che è tuttora sempre vera, le
razze inferiori a quella ariana dovevano esser recluse nei manicomi e nei campi
di concentramento; gli ariani e le razze superiori devono essere liberi e
dirigere li Stato.
Potete presentare questo mio scritto alla Procura Generale della
Repubblica e mettermi in libertà, oppure farmi avere il permesso di uscire nei
viali e in città.
In questa organizzazione ci sono dei provocatori che con armi da ladri in
funzione provocano con discorsi insulsi, provocano visibilmente e non
visibilmente dei chiassi, dei rumori, delle risse e segniano i nomi sulle liste
segrete dell’elettrosciok e chiedono, per evitarlo, sigarette; molte volte per
evitarli è necessario mettersi in luoghi diversi dalle sale di soggiorno;
pertanto cacciateli via dando loro una solenne punizione. E
mandatemi a casa; sono dodici anni che sono chiuso perché mi impediscono
di attraversare la porta.
Giacomo Tarantini.
Accanto al farneticamento folle sulla
razza ariana c’è pure nella lettera la denunzia degli assurdi rapporti, della
insopportabile convivenza in manicomio, c’è pure la rivelazione di
un’intima esperienza del disturbo psichico, ecco dunque i “chiassi”,
i “rumori”, le “risse” che “dei provocatori”
con “armi da ladri in funzione provocano con discorsi insulsi, provocano
visibilmente e non visibilmente” che indica con precisione la particolarità
del “doppio legame” che sta alla base dell’esperienza psicotica, quei
continui “doppi messaggi” indecidibili ed inspiegabili che gli provengono da
chi lo cura, medici e sopratutto infermieri con i quali ha costanti rapporti che
possono portare ad atti inconsulti e violenti, folli. Ma c’è dell’altro: “e
segniamo i nomi sulle liste segrete dell’elettrosciok e chiedono, per
evitarlo, sigarette”, lo spiegherà meglio in un’altra lettera.
L’essere sottoposto all’elettroshck deve essere atrocemente
terribile, Giacomo lo indica come “la scarica elettrica alle tempie” nella
breve lettera che segue del gennaio 1971:
Al Direttore del Sesto Reparto Uomini
Sono chiuso in questo Manicomio da anni, di salute sto bene.
Chiedo che in primavera finito l’inverno, mi venga concessa la
libera uscita, ossia il permesso di recarmi in città e nei viali.
Evitate qualsiasi trasferimento nel Terzo Reparto dove c’è il pericolo
di venire sottoposti per forza alla scarica elettrica alle tempie ossia al
micidiale elettrosciok che è tremendo come nelle cliniche chiuse, che è
mortale, che è da evitarsi assolutamente.
Ossequiandovi sono il recluso da anni
Giacomo Tarantini
figlio di Francesco, io di 49 anni di età
e questa lettera riguarda me stesso.
Una lettera che non abbisogna di
commenti e di spiegazioni.
Non sa proprio dove battere il capo. Chiede difatti al primario che
informi della sua situazione sia il Partito Repubblicano che il Partito
Monarchico come in un’altra lunga lettera anche questa al primario chiede che
gli faccia ottenere la tessera sia del Partito Comunista sia del Partito
Liberale; chiede nella stessa lettera che il primario telefoni alla sorellastra
perché gli mandi dei soldi per fare comprare un abito ed un trench:
“Dovete far capire a quella donna che è penosa situazione abitare in
Manicomio tutti questi anni e che farebbe bene a farmi uscire, a venirmi a
trovare e farmi uscire.
Telefonando a quel luogo io mi accorgo che esse rispondono sempre nel
medesimo modo; (ma mi accorgo che il loro grado sociale è pari al grado di
capitano mentre il mio grado è grado di generale d’armata) come potete
facilmente calcolare dall’etimologia del nome e del cognome”.
Chiede cose impossibili , chiede di far
comprendere alla sorellastra ed alla matrigna che la sua condizione è
miserevole, chiede loro i soldi ( che, lo vedremo in seguito, gli spettano); e
si sente diverso da loro che hanno tutt’al più il grado di capitano.
Una busta: conteneva un biglietto da diecimila lire. Il messaggio per
l’infermiere caporeparto è scritto sulla busta:
“Caporeparto, le do diecimila lire allo scopo che ella
in segreto mi lasci uscire dal manicomio da solo e recarmi a casa da
solo.
Poiché ora sono assolutamente sprovvisto di denaro, mi lasci 300 lire
allo scopo che io possa uscendo bere una birra e prendere il filobus.
Sono Giacomo Tarantini
di 38 anni di età
Il biglietto dovrebbe essere del 1969.
Risibile il tentativo di corruzione ma commovente il tono umano ed
ingenuo della richiesta.
Intorno al 1970 anche quando scriveva al Direttore del manicomio firmava
senza le “h” nobiliari e navali. Come in questa:
“Al Direttore del Manicomio di Firenze, Prof. Mario Nistri.
Io sottoscritto Giacomo Tarantini riflettendo alla
mia situazione generale trovo che sarebbe bene che mi concedesse il
permesso, sia pure orale, di libera uscita nei viali e che iscrivesse il mio
nome nella tabella delle libere uscite, essendo fortemente dannoso alla salute
ed alla propria amministrazione lo stare recluso ancora per anni in questo tetro
luogo.
Questa situazione di reclusione stretta, dico in genere, credo sia
cominciata dopo, come evento storico, dopo la caduta del Fascismo, ossia del
regime Fascista in Italia, ossia da circa trenta anni di tempo; tale situazione
reazionaria va superata dando la libertà agli oppressi come è nel costume
politico dei forti.
Io è circa dodici anni che sono rinchiuso nel manicomio di Firenze e mi
negano ancora l’iscrizione nella tabella di libera uscita che non à
privilegio finanziario ma la libertà.
Siccome per uscire in città mi occorre un abito decente e nuovo chiedo
che Voi telefoniate alla sedicente mia sorellastra (telefono 470047 e che le
diciate: La pessima situazione nella quale avete messo vostro fratello va
migliorata acquistando ad esso un abito o una divisa militare e venendolo a
trovare”.
Dice anche che quelle che abitano nella
casa che fu del padre dal loro comportamento corrispondono al grado di capitano “e
di conseguenza è vano attendersi da loro qualsiasi azione audace, compreso
l’azione lodevole di venirmi a farmi uscire”
“Il manicomio è un insieme di stupidi completi, essi delirano su
argomenti come l’elettrosciok che è vero sia nefando, è vero sia mortale, ma
stavano minacciando di volermelo applicare a forza, per respingerlo indietro
c’è voluto pacchetti di sigarette Philippe Morris. Direttore, disponete in
modo che l’elettrosciok (che è pessima cosa) non avvenga mai, dico
assolutamente mai.
Dovete pensare che tutte le derrate alimentari che acquisto al bar
interno del reparto le pago con i denari che provengono dalla mia abitazione.
Prof. Nistri, volete liberarmi o no da questa prigionia? Telefonate, io vi
prego, alla abitazione della mia sorellastra di portarmi denaro per acquistare
in Firenze un abito.
Sono Giacomo Tarantini.
Una lettera pacata a parte qualche
stramberia (il collegare la sua situazione alla caduta del fascismo, il
richiedere una divisa militare, l’affibbiare alle parenti solo il grado di
capitano, però spiega il perché). Ci sono altre stramberie apparenti che in
verità non sono stramberie; quella di ricordare al Direttore del manicomio che
restare per tanti anni segregato non fa bene alla salute, il dirgli papale
papale che il manicomio è un insieme di stupidi completi (del manicomio fa
parte anche il Direttore), l’ordinargli di disporre che
“l’elettroshock (che è pessima cosa )non avvenga mai, dico assolutamente
mai.
Giacomo però da notizia anche di un fatto che il Direttore, se avesse
letto lo scritto, avrebbe dovuto appurare per una eventuale punizione. Chi prese
i pacchetti di sigarette Philippe Morris? Chi minacciava Giacomo di sottoporlo
ad elettroshock? Giacomo accennava al fatto anche in un’altra lettera.
Ma leggiamo le lettere scritte al Direttore sette anni dopo. Balza
evidente che aveva ragione Giacomo nel dire che lo stare in manicomio fa male
alla salute. L’ospedale dovrebbe curare, le “cure” dovrebbero portare
qualche beneficio al ricoverato se no che ci stanno a fare tutti quei medici,
tutti quegli infermieri? Tutte quelle medicine a cosa servono?
Invece:
All’Illustrissimo Prof: Mario Nistri,
Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale “Vincenzio Chiarugi”
situato in
via San Salvi 12 Firenze
Egli abitante in via Masaccio n°47 in Firenze, (telefono n° 571571)
Con questa istanza io mi rivolgo alla Signoria Vostra Illustrissima e
dico che, essendo senza palazzo di abitazione e senza alcun edificio da abitare
io stesso da solo, la mia situazione strategica e politica è compromessa,
quindi procuratemene vari.
Di conseguenza le mie guerre non avvengono, le mie Società per Azioni
Navali da guerra non funzionano, le mie Società a Delitto Segrete non
funzionano; e da questo fatto, come io già vi dissi nelle istanze precedenti,
deriva il fatto che io sono nell’Ospedale Psichiatrico “Vincenzio Chiarugi”
da venti anni di tempo se si considera la durata del ricovero nei manicomi di
Roma detti Clinica Chiusa Parco delle Rose situato sulla via Aurelia che è
micidiale e Manicomio di Santa Maria della Pietà in Roma.
Vi incarico di ricostruire la mia Flotta Navale da Guerra
radiocomandata per navigare io stesso da solo, essendo io stesso Grande
Ammiraglio del Giappone, Stato del Continente Asia.
Vediamo come è composta la mia flotta:
1) Navi da Battaglia Super Corrazzate a turbina a Gas d’Uranio Acqua
Pesante Idrogeno.
2) Navi da Battaglia Super Porta- Aerei Pesantissimi da Bombardamento a
turbina a Gas d’Uranio-Acqua pesante Idrogeno che è il propellente del
Motore.
3) Incrociatori Pesantissimi
e Medi e Veloci.
4) Navi Super Petroliere da
Guerra per il rifornimento automatico del carburante alle mie Navi stesse
radiocomandate, necessarie da navigare da solo io stesso.
5) Cacciatorpediniere da Inseguimento e da Incameramento della
Torpediniera che viene distrutta a Cannonate e Missili e Siluri.
6) Torpediniere per silurare
nelle Guerre Private.
7) MAS per silurare nelle Guerre Private.
8) Sommergibili Ultra- Potenti e di grandissima autonomia, e Sommergibili
Atomici con Missili modello “Polaris” verticali.
9) Navi da Trasporto dei
Mezzi d’Assalto, come i Siluri Pilotati a Lento Corso
e come i siluri pilotati a Rapido Corso, e come le Torpedini e come i
Barchini
Esplosivi. Per la letteratura estesa leggere “X Flottiglia MAS” del
Principe Valerio Borghese.
10) Navi Dragamine per il
Dragamento dei Campi Minati.
11) Navi Posamine per l’istaurazione
dei Campi Minati propri contro il nemico.
12) Navi per il posamento dei Cavi Telefonici, ossia Navi Posa Cavi
Telefonici da Guerra.
13) Navi Draga-Cavi per
interrompere le comunicazioni telefoniche del
nemico.
14) Navi da Battaglia con a bordo le Grandi Macchine per ottenere la
terremotazione tellurica di sterminio totale di uno o più Stati, o di tutto
l’Universo, per propri motivi di guerra e di vendetta suprema (il progetto lo
troverete in Giappone in una Società per la Costruzione delle Navi da Guerra
Private e di Stato e lo realizzerete per mezzo di una centrale atomica a onde
elettromagnietiche detta “Discoide” da Ingegniere elettromagnetico.
Fornitemi inoltre i Palazzi di Abitazione, che sono a me urgentissimi
e necessari, e chiedo questo, come si suol dire nelle istanze, in nome di S.A.
il Presidente della Repubblica, in nome di S.E. il Primo Ministro. Dei
Palazzi di Abitazione chiedo che mi venga qui data la chiave a me stesso qui
stesso, senza che venga deviata verso altri, e così anche che mi venga dato, in
modo visibile, il Libro di Proprietà che contiene gli indirizzi dei Palazzi da
Abitare da solo.
E’ bene che io effettui il pagamento per evitare assolutamente
qualsiasi incidente. Essendo questo luogo il Sesto Reparto Uomini che negli
Scritti Danteschi è l’Inferno, è bene evitare assolutamente di lavorare io
stesso e di scopare all’interno, evitare di subire bastonate dopo aver
ricevuto il Libro dei Palazzi, evitare le gocce di Serenase, evitare le gocce di
faseina, evitare assolutamente le gocce di Largactil, evitare comparizioni di
serpenti (come dice nell’Inferno scritto dal Poeta e Condottiero Dante
Alighieri), evitare tutte le altre malefiche invenzioni parallele alle medicine
o prese per tali. Chiedo che facciate venire la valuta dal Ministro delle
Finanze e del Tesoro di Vari Stati e che mi portiate la chiave del portone di
una casa da abitare situata in Firenze.
Sono (11h) Giachomho Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh, Ingegniere Grande
Ammiraglio dello Stato del Giappone nella Storia Ultra Antica e nella cartella
clinica Giacomo Tarantini nato io stesso in a. 1931, figlio di Francesco (nelle
generalità) qui vestito come nel Manicomio.
Data attuale Giugno dell’anno 1978 in Firenze.
Così in una lettera. In un’altra
ancora indirizzata al Direttore dell’Ospedale Psichiatrico, sempre del giugno
1978, così si esprime:
“... Mi rivolgo alla Signoria Vostra Illustrissima con questa mia
pregiatissima Istanza per
incaricarvi della ricostruzione delle mie Industrie Metallurgiche Pesantissime
di Guerra che sono le più importanti dell’Universo in modo assoluto. Sono il
Grande Ammiraglio Ingegniere e Dittatore Militare Assoluto, che nellAraldica
Nobiliare Germanica e giapponese è scritto:
(11h) Giachomho Whohnh Taranthini Unhnhoh, scritto anche in Lingua
Orientale Sanscrito Cuneiforme Ultra-Antico (è bene non omettere le h,
altrimenti vengo predo per povero, mentre sono l’uomo più ricco
dell’Universo in modo assoluto)”.
Prosegue poi col ripetere
ancora la storia della sua vita , col domandare di nuovo un “Palazzo di
Abitazione” per lui stesso e continua:
“...Essendo io, nella Storia Antichissima, il Massimo Industriale
dell’Universo, e Condottiero dell’Artiglieria Pesantissima come
l’Imperatore Napoleon Buonaparte I, egli Imperatore
indiscusso di Francia, come affermano i Libri di Storia, io Vi
incarico di ricostruire le mie Industrie Chimiche di guerra dei Gas Tossici,
che vengono chiusi nei proiettili d’Artiglieria e delle bombe d’Aereoplano e
nelle bombe di Dirigibile da Guerra; allora Vi incarico di ricostruire le
Industrie di Gas Iprite e del Gas Fosgene, e dl Gas Arsine, e del Gas Holeum
Incendiario, e del Gas Nitrum Incendiario da Guerra Chimica, e gli Impianti, che
nei Libri di Ingegnieria sono detti Impianti Bijrkeland won Hejde, che sono
importanti Impianti Industriali Chimici di Guerra, e che siano di mia proprietà.
Industrie dell’Huranio e dell’Acqua Pesante e dell’Hidrogeno da Guerra;
Vi incarico a tal
proposito, in nome di S.A. il Presidente della Repubblica Federale di Germania,
e di S.E. il Primo Ministro, di ricostruire tutte, le mie Industrie di Guerra
del gruppo dell’Huranio e delle bombe d’Aereoplano Atomiche e dei proiettili
d’Artiglieria Atomica, situati nei territori negli Stati di Mongolia e negli
Stati del Manciunquò a nord della Grande Muraglia Cinese.
Tra gli impianti di Fisica Atomica che mi dovrebbero appartenere sono i
Ciclotroni, (Macchine Accelleratrici di Particelle ) situate in varie Città
dell’Impero Giapponese , del quale Stato io sono Dittatore Supremo.
Essendo nella Stria Antica Ingegniere Supremo, dovrebbero appartenermi
molte Centrali Termoelettriche situate in Estremo Oriente del Continente Asia,
ricostruitele e passatemele in proprietà a me stesso, portandomi la chiave del
Portone d’Ingresso e il Libro che le descrive e dandomelo qui stesso a me
stesso.
Per questa opera di ricostruzione industriale e per procurarmi e farmi
ottenere in proprietà molti Palazzi di Abitazione che mi occorre abitare io
stesso da solo, essendo attualmente privo di Palazzo, (che fu demolito in Roma
nell’anno 1953 e che era di altre persone) occorre far venire dal Ministero
delle Finanze dello Stato del Giappone (situato
nella Città Capitale Tokio) la valuta esponenziale anche a 10(dieci) o
12(dodici) righe di numeri per pagare Voi o i Vostri Impresari il costo di ciò
che ho chiesto, e che mi portiate qui a me stesso la chiave di alcuni Palazzi da
abitare io stesso da solo.
Mia firma in Lingua Tedesco e in Lingua Sanscrita
Io stesso mi firmo e sono
(11 h) Giachomho Taranthinhi Hunhnhoh del Giappone e degli Stati di
Manciuria e dello Stato di Mongolia io stesso detto nella Cartella Clinica
Giacomo Tarantini n. anno 1831
Firenze, Data: Giugno dell’Anno 1978, data attuale.
Questo scritto è sempre valido per infinito tempo.
Il risultato delle cure fra il 1971 ed il 1978 è strepitoso, le
“acca” sono diventate undici! La vita frustranea ed avvilente cui è
costretto lo spinge a sognare flotte impossibili, a vaneggiare infiniti palazzi
e case, a presumere di essere creditore di cifre enormi da tutti gli Stati del
mondo. Il delirio si è ancora più strutturato, si è ancor più ingigantito;
se un tempo presumeva di essere generale adesso è imperatore e padrone assoluto
di tutta la terra, dell’universo, è ammiraglio supremo, lo da per scontato.
Un tempo gli stipendi arretrati dei quali aveva la certezza di essere creditore
gli dovevano servire per uscire dal manicomio e per acquistare qualche
gingillino da portare con sé, adesso gli sono necessari per armare la sua
flotta da guerra radiocomandata che lui solo governerà non si fida che di sé
stesso, gli sono necessari per ricostruire le sue favolose industrie di guerra,
le fabbriche di gas tossici, le industrie atomiche. Prima gli bastava una casa
per abitare fuori del manicomio, ora ha bisogno di un numero immenso di palazzi,
di grattacieli, di fortezze, spanti dappertutto, anche negli spazi
estraterrestri, nelle galassie, sulle stelle lontanissime. E tutto deve essere
legalizzato affinché nessuno possa portargli via i suoi possessi, deve essere
messo nero su bianco, ci devono essere atti notarili, sono tanti i suoi possessi
che gli elenchi riempiranno interi
libri da consegnare a lui stesso nelle sue stesse mani, se no punto e a capo,
così come le cassette di chiavi per aprire tutti quei palazzi. L’efficacia
delle Cure! Eppure
l’aveva detto al Direttore del Manicomio che era: ”estremamente dannoso
alla salute ed alla propria amministrazione lo stare recluso ancora per anni in
questo tetro luogo.” Forse il Direttore non aveva letto lo scritto.
Ma pur nel turbinio delle fantasie deliranti Giacomo e da queste
obnubilato palesa il suo profondo desiderio di uscire da dove è rinchiuso, di
non essere sottoposto a cure disumane, manifeste la sua voglia di dirigere la
sua vita da sé stesso.
Ed è sempre presente sua maestà la chiave, oggetto magico potentissimo,
la chiave simbolo di schiavitù (la porta del manicomio che non si apre) o di
redenzione (la porta dei suoi palazzi).
Per pagare navi, fortezze, palazzi industrie belliche ci vuole moneta
suonante, moneta di grossissimo taglio, e tanta, se Giacomo non paga finirà di
nuovo in galera. Per un pagamento più semplice evitando l’inimmaginabile
quantità di carta moneta inventa e sogna la valuta esponenziale che in
un’altra lettera al direttore spiega cosa sia:
“....Che cosa si intende per valuta esponenziale, si intende la valuta
di grossissimo taglio che generalmente io adopero per acquistare, dagli Armatori
navali da Guerra, le Navi da Guerra Portaaerei di dimensione enorme, e le Navi
da Battaglia Corrazzate, il cui scafo e i cannoni sono di metallo Titanio,
metallo prezioso circa 8.000 volte più dell’oro, e che si adopera per le
costruzioni navali da Guerra.
Vediamo nella valuta esponenziale come è scritto il numero; supponiamo
che sia una banconota a cinque righe di numeri, col simbolo
, di infinito matematico.
Così:
Numero di Banconota esponenziale
x oo
esp. 1.000.000.000.000.000.
esp. 1.000.000.000.000.000.
esp. 1.000.000.000.000.000.
esp. 1.000.000.000.000000.
esp. 1.000.000.000.000.000.
Nelle Scienze Finanziarie Segrete si studia anche i calcoli e l’impiego
della valuta altissima che occorre, a me per esempio, per comprare Navi da
Guerra; e incarico Voi di chiederle, a mio nome, al Ministero delle Finanze e
del Tesoro della Repubblica Federale di Germania, e della Repubblica Italiana,
allo scopo di farmi ottenere alcuni
Palazzi in Firenze, alcuni Palazzi in Berlino, alcuni Palazzi in Tokio, nel
Giappone, affinché io possa uscire dal Manicomio. Portatemene direttamente
la chiave a me stesso in mano ed il libro che ne dice gli indirizzi.
Mi firmo e sono:
(11 h) Giachomho Whonhnh
Taranthinhi Hunhnhoh, sulla cartella Clinica scritto Giacomo Tarantini, io
stesso nato il 14 Novembre 1931 in Montefiascone prov. di Viterbo, io stesso
sono qui internato e ricoverato dall’anno 1958. ora siamo nell’anno 1978.
Le cure, si vede bene, gli hanno fatto benissimo. Ma, seppure mescolato
fra tutte le idee sconclusionate e da loro sommerso e sopraffatto, emerge
l’impellente bisogno di non restare chiuso in manicomio, c’è l’idea
corretta che per uscire dal manicomio ci vuole un posto dove andare, sempre ha
avuto bisogno di avere una casa sua, tutta per sé, senza il pericolo e la
minaccia di essere scacciato e finire poi in manicomio. E’ tanto forte questo
desiderio da trasformarsi in una iperbolica smania di possedere un numero enorme
di case.
Ma perché solo? Lo spiega nel mezzo di una lettera inviata sempre al
Direttore del manicomio:
“....Evidentemente, assolutamente io non posso andare ad abitare con la
mia sorellastra per incompatibilità di carattere e per motivi politici essendo
la politica nostra assolutamente opposta, il fluido delle armi e le volontà
nostre darebbero ordine di morte reciprocamente, ossia essa contro di me e io
stesso contro essa.
Mia zia, creduta tale, che è micidiale di carattere, diede addirittura
l’ordine micidiale, contro di me, venticinque anni fa, di portarmi,
arrestandomi, nella terribile Clinica Manicomio Parco delle Rose, situato in
Roma sulla via Aurelia, che è il luogo più lurido e pessimo e micidiale
dell’Universo, e che è da sottoporsi a Scomunica Papale e Distruzione”.
E’ onesta e franca la
considerazione nei confronti della sorellastra , sarebbero sempre a farsi
guerra. E con la zia non se ne parli.
Dobbiamo ricordare che durante gli anni ‘70, nell’intento di svuotare
il manicomio, si pensò e si fece di tutto perché le persone ricoverate fossero
riprese dai loro parenti. Fatto augurabile che però troppe volte cozza contro
la realtà della situazione familiare che per le interne distorte relazioni portò
un tempo al ricovero in manicomio del portatore del sintomo e che nessuno nel
frattempo ha cercato di modificare; a volte, poi, la famiglia si può essere
ristrutturata in un modo nuovo, diverso, durante la degenza del parente. Giacomo
che annusa l’aria lo dice a chiare note a chi era preso dalla furia della
deistituzionalizzazione a tutti i costi (un parolone che quasi sempre non ha
detto assolutamente nulla), che è impossibile che lui torni a vivere in
famiglia, lui ha bisogno di vivere solo, non è stato possibile un tempo, non è
possibile ora; una sacrosanta verità detta in maniera stravagante ma sempre
verità. E saggezza.
Davvero stravagante e bislacca è la lettera che segue nella quale
manifesta il sogno di un viaggetto abbastanza lungo sia per durata che per
itinerario. E’ diretta “all’Illustrissimo prof. Mario Nistri, a lui
stesso in mano”, datata l’8 luglio 1978.
Dopo aver elencato le città dove lui desidera possedere i palazzi da
abitare lui stesso da solo, Firenze, Berlin,capitale della Repubblica federale
di Germania, Hessen città dalle grandi acciaierie, Amburgo che ha il più
celebre porto del Mare del Nord, così scrive:
“.... io non capisco bene di chi sia il progetto di farmi stare
trent’anni di tempo in Manicomio di Firenze o forse 50 anni nel Manicomio
stesso mentre per cultura politica e di Ingegnieria io dovrei essere in Berlin
Città Capitale della Germania e successivamente in Scyangay Città Capitale
della Cyna Stato Supremo dell’Oriente, e successivamente, dopo qualche anno di
permanenza in quella Città, recarmi a Tokyo nell’isola di Hondo nell’Impero
del Nyppon, e successivamente nel Pianeta Saturno, raggiungibile in Aereoplano e
successivamente recarmi nella Nebulosa di Handromeda (che dista dalla Terra 9000
bilioni di Anni Luce).
Io sono illustre trasvolatore e Condottiero Aereonautico o almeno lo fui
nella Storia Antichissima.
Lo stare in Roma e Firenze, città mediocri dell’Italia Centrale,
diminuisce le facoltà intellettive e fa diventare cretino, come io stesso ho
constatato che si verifichi frequentemente in Italia, In quei luoghi io mi
recherò da solo, ma mi occorre avere vari Volumi di Proprietà Private, io Vi
chiedo di portarmi l’atto di proprietà di un Palazzo di Abitazione in
Firenze, ossia situato in Firenze e quì stesso a me stesso la chiave necessaria
per entrare ad abitarvi io stesso da solo, che la chiave mi venga portata in
modo visibile qui nel Sesto Reparto Uomini a me stesso, che nella cartella
Clinica sono detto Giacomo Tarantini nato il 14 novembre 1931 in Montefiascone,
provincia di Viterbo, figlio del prof; Francesco Tarantini e della fu Sterpiggia
Paola.
Portatemi anche un libro di Indirizzi di Palazzi da abitare io stesso da
solo come è mio volere e di passarmeli in proprietà totale.
Auspicando che questa situazione mia di internamento finisca, vi incarico
anche di dire a mia Sorella di portarmi una chiave di una casa o Palazzo o
Appartamento, da abitare io stesso da solo e un libro di Indirizzi di Palazzi da
Abitare io stesso da solo e di passarmeli in mia proprietà.
Mia firma:l a firma navale contiene 16 h Nobiliari e Navali da Guerra, io
stesso sono Giachomo Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh (in Lingua Orientale Antica
Sanscrito Cuneiforme) ossia 11 h, e 5 nella parola Primo scritto in tedesco, e
sono Ingegniere, Grande Ammiraglio, Dittatore Militare non d’Italia che è
Stato di Poveri ma dei ricchissimi Stati del Continente Asia. Nella Cartella
Clinica il nome è italianizzato e scritto Giacomo Tarantini.
Mio Stemma Navale da Guerra
con Spada Incrociata e Motto
E’ la prima volta che si firma con 16
h, oltre alle solite ancora cinque h nella parola “Primo” scritto in tedesco
che non sa come si scrive ma immagina che ci stiano cinque h in quella parola.
Una mia ipotesi, certamente troppo fantasiosa ed irreale: si usa dire no
vale un’acca di una persona che conta poco, Giacomo involontariamente ci fa
capire quanto nullo sia il suo potere.
Un lungo poscritto ad una lettera , ad una istanza urgente, chiede i
soliti palazzi e di uscire dal manicomio, è tra gli scritti più strambi, e
sorprendenti. Eccolo:
“....Chiedo pertanto che mi portiate Armadi con Abiti e con Divise
Militari e Scarpe relative.
A elenchi e istanze precedenti io unii l’elenco dei famosi Palazzi ai
quali elenchi possono essere aggiunti i Templi Mitologici
della Religione Pagana situati nei pressi di Atene, di forma in ansi,
doppio in ansi, prostilo, antiprostilo, periptero, menoptero-periptero, come la
copia in marmo del partenone di Atene, del Tempio di Zeus in Olimpia, del Tempio
di Hefesto, del Tempio di Poseidone, del Tempio di Hera, del Tempio di Ares,
dell’Eretteo, dei Propilei, ed infine di tutta l’Acropoli, ossia la copia
fedele in marmo di tutti gli Edifici, anche Fortezze di Atene, di Sparta, di
Micene, di Tirinto e di tutte le località della Grecia Antica e dell’Isola di
Creta e di Cipro.
Vediamo il motivo: io sono senza Polveriere e senza Fortezze e quei
Templi mi servirebbero per deposito di Armi per fare le Guerre.
Senza le Guerre io sono perduto....
...Inoltre essendo io stesso Grande Ammiraglio, nella Geografia Militare
Comparata dell’Universo dovrei possedere io stesso dei Continenti da solo, di
forma uguale al Continente Africa ma di maggiore superficie e più grande dove
nel centro dovrebbero essere situate le Officine Metallurgiche Navali da Guerra
con le torri degli Altoforni di circa 300 Kilometri di Altezza ciascuno come
quelle delle Officine Navali da Guerra “Won Krupp” di Germania e come quelle
delle Officine Navali da Guerra “J.V.W Stalin di Russia, supreme Industrie
d’Armi Altiforni, Acciaierie, Cannoni, Crogioli per colare il metallo Titanio,
Fortezze, Ferrovie per Treni Blindati con Cannoni, occorrono per sparare
contro le organizzazioni che mi tengono prigioniero.
E per essere vittorioso le Acciaierie dovrebbero avere milioni, anzi
miliardi di Kilometri quadrati di superficie ed io stesso avere la centrale
atomica in forma di orologio e di rivolver in tasca dell’abito borghese (=
civile) e della divisa da Gr. Ammiraglio o Generale Aereonautico.
Quindi non basta telefonare, bisogna sparare, non basta scrivere ma è
necessario impostare i plichi di valuta esponenziale altissima, ho detto
altissima, altrimenti come quantità ce ne vuole miliardi di tonnellate di
valuta. Quì il Parlatorio, ossia la Parente seguita a non venire mentre
chiedo che venga assolutamente dovendo dire ad essa varie argomentazioni
d’affari. Dico di prendere a cannonate, con i miei ultraterribili ciclotroni a
palle di cannone (del diametro di Kilometri ciascuna) quelli che si oppongono al
venire della parente e ridurli in poltiglia con i terremoti e le cannonate;
ossia ridurre, io ordino. in poltiglia tutto il Manicomio e tutto il personale
che è pestifero in modo totale.”
Se ci si ferma al contenuto lo scritto è decisamente spassoso. tutto è
iperbolico, le officine metallurgiche che occupano miliardi di chilometri
quadri, gli Altiforni di 300 chilometri di altezza (se no che altiforni sono?),
i ciclotroni a palle di cannone del diametro di chilometri ciascuna. Ed i templi
antichi non per ripetere antichi riti bensì per farne depositi di armi e di
esplosivi, come barzelletta è più ardita di quella dell’elastico. Ma,
scavando più dentro, ritroviamo l’estrema amarezza di essere lasciato solo,
ritroviamo l’inadeguatezza dei suoi sforzi per comprendere le regole di quel
gioco terribile ed incomprensibile che lo segrega dal vivere civile;
ossessivamente ripete che tanto enorme è la sua impotenza quanto immensi
dovrebbero essere i mezzi per raggiungere la libertà. Ciò che fa usualmente
non è sufficiente, il telefonare e lo scrivere, ed allora bisogna sparare,
devono arrivare i plichi con la valuta esponenziale altissima.
E c’è dell’altro, c’è lo smanioso desiderio, c’è
l’assillante bisogno di parlare con la sorellastra per avere da lei un aiuto
economico, il conforto di una visita anche se la disposizione d’animo è
ambigua e contraddittoria. Ma solo Giacomo è contraddittorio oppure è la
relazione familiare che è contraddittoria? Nella stessa lettera parlando delle
telefonate alla sorellastra Giacomo ricorda che “la risposta è incerta,
quando posso o potrò,verrò”. La situazione è ambigua da sempre, lo si
è fatto notare lui che si sente un intruso e bisognoso di essere rassicurato ma
che viene messo in manicomio e derubato, lo vedremo in seguito, gli si manifesta
talora gentilezza con le diecimila lire che diventano raramente ventimila al
mese, e vedremo che non è gentilezza, ed è stato messo lì per il suo
“bene”. Così coinvolto Giacomo talvolta accusa veementemente la sorellastra
talaltra, come in questa lettera, la scusa pensando a strane macchinazioni
manicomiali impediscano le sue visite, a persone a lui ostili, persone che
regolano la vita del “lagher”, persone da ridurre in poltiglia.
Però anche se macchinazioni strane gli impediscono di parlare con la
sorellastra non si da per vinto. In una letterea fa una pressante richiesta:
“...Ed ora veniamo all’argomento dei colloqui con la parente,
telefonando io non sono riuscito a
indurla a venirmi a trovare, con trecentosessanta telefonate all’anno, quindi
richiedo che facciate funzionare le macchine segrete /radio) per farla apparire,
in modo che io possa parlare all’ora dei colloqui”.
Ancora, in un’altra lettera al
direttore scrive:
“....Ho notato che la sorellastra non viene a trovarmi da quattro
anni di tempo, essa è Maria Rosa Forbiti oppure Maria Rosa Tarantini e abita in
Piazza della Posta Centrale di Firenze n°110 tel.470047.
Come si riattiva la periodicità dei colloqui? io dico con Macchina da
Avvocato da Relazione con Persone, ma credo devono essere di potenza
ultra-ultra-ultra enorme.”
A parte l’idea fissa della
“macchina, (ma non gli si può dar torto se ha più fiducia nelle macchine che
negli uomini) Giacomo offre un consiglio adeguato e corretto; uscendo dalla
forma singolare e strana afferma che per risolvere la sua situazione non erano e
non sono gli elettroshock gli shock insulinici, non gli psicofarmaci ed il
ricovero in manicomio bensì professionisti preparati per riassettare relazioni
distorte o spezzate, purché molto abili e validi..
Gli è rimasto sempre l’amor proprio di vestire decentemente, di vivere
decorosamente; nella stessa lettera scrive:
“....Ho notato che è enormemente difficile ottenere dalla calzoleria
interna dell’Ospedale Psichiatrico un paio di scarpe comuni da uomo n° 45.
Urge che me ne venga dato un paio da indossare io stesso perché le mie sono
rotte. Inoltre non ricevo lettere da anni.”
Come si vede dopo le scarpe rotte c’è il suo patire per aver perso
ogni legame con i familiari. Tale motivo è presente in tante lettere di
Giacomo, un desiderio costante che anni di abbandono hanno rinfocolato anziché
spento ché implora in una lettera
al Direttore:
“....Vi do una lettera da me scritta oltre questa Istanza a voi
diretta, una lettera a mia sorellastra, impostatela per favore, in città, spero
così, che dopo un certo numero di lettere, essa venga a trovarmi all’ora dei
colloqui con i parenti, quì stesso.”
Ed ecco la lettera alla sorellastra:
Data: Firenze, 6-8 luglio dell’anno 1978, Data Attuale.
Pregiatissima Sorella,
ti scrivo dall’Ospedale Psichiatrico di Firenze, dove sono ricoverato
da venti anni di tempo. Di salute sto benissimo, ma sono privo di Appartamento
di Abitazione fino dall’epoca della guerra. Vieni a farmi visita. Vieni a
portarmi un piatto di paste dolci alla crema, e un paio di scarpe da uomo n°45
o 45 e 1/2 che le indosserò io stesso. Sono al Sesto Reparto Uomini.
Speravo che gli accordi presi per telefono bastassero, mentre invece non
sono bastati, vieni a trovarmi, ci vedremo volentieri.
Portami la chiave di una Dimora da abitare io stesso da solo. Portami
anche le sigarette e un accendino per accenderle.
Augurandovi molte belle cose concludo queste mie righe.
Sono Giacomo Tarantini degli Unni (del Nippon)
Attendo la vostra venuta all’ora dei Colloqui, ossia all’ora del
Parlatorio.
Sono Giacomo, figlio di Francesco Tarantini, io nato il 14
novembre dell’anno 1931 in Montefiascone.”
Lettera eloquente anche nei sottintesi;
inizia la lettera con un “Pregiatissima” per subito dopo darle
del “tu” ma termina col darle del “voi” che rende palese la sua
perplessità sulla loro relazione. Giacomo desidererebbe molto stabilire un
rapporto affettuoso “ Vieni a farmi visita”, “vieni a trovarmi, ci
vedremo volentieri” dice e soffre che la sorella non accetti i suoi inviti
“Speravo che gli accordi presi per telefono bastassero” ma
è incerto sulla possibile intimità fra loro due ed usa il “voi” alla fine,
un tono distaccato quasi si pentisse del trasporto affettuoso cui si è
abbandonato. Fa tenerezza la sua infantile golosità che gli fa chiedere le
paste dolci alla crema e quel dolce è allusivo a ben altre faccende; anche il
chiedere le scarpe è patetico ed il chiedere le sigarette e l’accendino, e la
chiave di un appartamento per vivere da solo senza dar noia ad altri. Si firma,
è vero, dicendo che è “degli Unni (del Nippon)” che appare fuori
luogo, ma così può comunicare senza comunicare il suo sentirsi lontano,
estraneo, abbandonato; è tristissima questa firma senza la prosopopea
altisonante, non ci sono le solite “acca”. Le ricorda poi che hanno un padre
in comune,”sono figlio di Francesco Tarantini”
Una settimana dopo scrive un’altra lettera che intesta alla matrigna ed
alla sorellastra; la lettera precedente non è arrivata e con la nuova lettera
chiede le stesse cose ma con un tono molto diverso, un tono eroicomico, roboante
che in verità fa più piangere che ridere. Non sa che la lettera precedente non
è stata inviata ( il Direttore che conosceva il mio interesse per le lettere
dei ricoverati l’aveva passata a me insieme a quella a lui indirizzata senza
leggerle) e che pertanto non poteva avere risposta. L’effetto della
frustrazione per la mancata risposta è evidente:
“ Alla Signora TOSCANA FORBITI
Alla Signora Maria Rosa TARANTINI
Alla Signora Maria Rosa FORBITI
Vi scrivo questa mia Lettera, per dirvi di vari argomenti.
Io sono da anni 30 in Manicomio, non perché malato di mente, poiché di
salute sto benissimo, ma perché io sono privo di Palazzo di Abitazione
che fu demolito in Roma nell’anno 1953.
Attualmente io sono con le scarpe assolutamente rotte, e la calzoleria
interna non le da, vi chiedo di procurarmene.
URGENTE:
Vi incarico di comprarne un paio in città e di mandarmele.
Il prezzo se si comprassero qui dentro è di L.35.000, oppure di
L.38.000.
E nei libri di studi segreti. è di L.40.000, e di tali scienze io sono
Super Professore.
Vi incarico di farmi ottenere, comprandole in città, un paio di scarpe
da uomo n°45,1/2 di color marrone o di color nero con la suola di gomma para
(così è soffice) oppure di cuoio.
Urgente
Le scarpe che io vi chiedo sono assai urgenti, quindi mandatemele per
uno del personale, io le indosserò subito.
Sono il Grande Ammiraglio Navale da Guerra Ingegniere (in lingua
Orientale Sanscrita), io stesso Giachomho Whonh Taranthihni Hunhnhoh 1° non
omettere le h nelle diciture nobiliari.
Qui sono internato col nome:
io stesso Giacomo Tarantini, figlio di Francesco, n. Anno 1931
Poscritto-
Essendo senza Palazzi di Abitazione perché la Casa ( che era di un
Parente di parte politica opposta) fu demolita nell’anno 1953 in ROMA io non
riesco ad uscire dal Manicomio come è ovvio.
Io sono privo di centrale bancaria e di conseguenza da qui non
riesco a spedirvi nulla di denaro.
Se fossi fuori con una sola carta bollata farei venire la valuta e i
lingotti d’oro del Ministero delle Finanze e del Tesoro della Repubblica
Italiana (che è pessima) e degli Stati di Germania, di Russia, di Cyna, del
Giappone (unità monetaria lo yen) e pagherei subito tutti i conti.
Mandatemi un paio di scarpe. Mi occorre che mi mandiate a me stesso in
mano la chiave di una casa da abitare io stesso da solo , altrimenti non è
possibile mai uscire dal Manicomio non avendo un tetto sotto il quale andare a
dormire.
Nella pratica da Armatore i Palazzi hanno gli indirizzi, vie, ecc.
elencati in Libri stampati e rilegati, chiedo che di tali libri me ne mandiate
(o meglio venite a portare in mano in modo visibile a me stessi e NON ad
altri), uno di tali Libri.
(NOTA: il sottolineare è
rafforzativo del senso dello Scritto).
Continua poi ripetendo che è
ricchissimo, che gli servono tanti palazzi, si firma affibbiandosi i più
altisonanti e strampalati titoli che così riassume in un altro poscritto:
“....Io vi ho telefonato un numero grandissimo di volte e vi ho
chiesto:
1) Di venirmi a trovare nel
Sesto Reparto del luogo dove sono internato da venti-trenta anni
(complessivamente)
2) Di mandarmi con urgenza un paio di scarpe n°45 e ½ da UOMO che io
indosserò subito e che sono urgentissime.
3) Di procurarmi e farmi ottenere a me stesso la chiave di un Palazzo di
Abitazione da abitare io stesso da solo e il Libro degli indirizzi.
Molti saluti, sono
Giachomho Whohnh Taranhinhi Huhnhnhoh
detto nella cartella
Giacomo Tarantini
nato il 14 novembre dell’anno 1931 in Montefiascone, Provincia di
Viterbo, roccaforte dell’Etruria.
Data: 15 Luglio dell’anno 1978 Firenze
Questa mia lettera è
valida per infinito tempo.
Ricordiamoci che siamo nel 1978 e che dal maggio è operante la legge 180
che decreta la fine del ricovero coatto negli Ospedali Psichiatrici; Giacomo ha
sentore che
non dovrebbero tenerlo più rinchiuso con la forza, c’è una legge in
suo favore. Difatti il suo ricovero viene trasformato in volontario, cioè
Giacomo accetta di rimanere lì perché non c’è dove farlo andare; è vero
che continuano il sopruso e l’ingiustizia però gli sono riconosciuti diritti
prima impensabili, le porte devono restare aperte (ma che lotte all’interno
dell’istituzione con quegli
infermieri abituati a tenerle chiuse!), potrà
finalmente uscire a prendere un po’ d’aria.
Allo stesso tempo viene avvertito dalla matrigna e dalla sorellastra il
pericolo che Giacomo in virtù della nuova legge si faccia avanti ad esigere i
propri diritti anche nei loro confronti.
Difatti da parte della Sorellastra giunge alla Direzione dell’Ospedale
Psichiatrico il ricorso contro la legge per ottenere l’interdizione di
Giacomo. in esso si legge:
“....Recentemente la Questura di Firenze ha comunicato alla
ricorrente che, per effetto della legge del 13/5/78 n°180 doveva tenersi
cessata dall’ufficio di tutrice.
L’infermità che ha colpito da tanti anni Giacomo Tarantini è tale,
tuttavia, da non consentire allo stesso di attendere con consapevolezza e
discernimento alla amministrazione del suo modesto patrimonio. Egli è infatti
comproprietario di un quartiere posto in Roma in via dello Scandaglio n°16 ed
è destinatario del 20/100 dell’importo di una pensione ENPAM e di una
pensione INPS intestata alla signora Toscana Forbiti matrigna, seconda moglie di
Francesco Tarantini padre di Giacomo.
Poiché Giacomo Tarantini si trova in condizioni di infermità che lo
rendono incapace a provvedere ai propri interessi dovrà essere interdetto a
norma degli articoli 414 e seg. C.C.”
Dopo aver fatto la lista dei parenti entro il quarto grado così
conclude:
“....Ciò premesso la sottoscritta chiede come sopra rappresentata e
difesa
chiede
che sia pronunciata
l’interdizione del sig. Giacomo Tarantini nato a Montefiascone il 15.11.1931,
con ogni conseguenziale provvedimento di legge.
Fa presente, altresì, che necessita provvedere alla nomina di un tutore
provvisorio a norma dell’art. 419, 3° comma C.C. che curi l’Amministrazione
dei beni dell’interdicendo.”
Ma allora la casa c’è!!, non è vero che sia stata distrutta nel
1953, allora le pensioni esistono davvero!! e quanto era la rendita della
casa?, a quanto ammontavano le pensioni? quanto denaro è stato sottratto a
Giacomo (e si vuol continuare a sottrarre), perché nessuno ha difeso e difende
Giacomo? Già, dimenticavo lui non possiede valuta.
Ed è sempre la stessa musica! Per il “bene” di Giacomo deve
continuare ad essere interdetto, complici psichiatri ed avvocati, così da non
dilapidare “il proprio modesto patrimonio, per il suo “bene” deve
continuare a non avere personalità giuridica se no finisce per gli altri la
pacchia,. Che importa se vive un’esistenza tristissima, se è segregato dal
mondo? E’ per il suo “bene” e basta. E la sorellastra deve continuare ad
essere la tutrice di Giacomo altrimenti come può campare alle sue spalle? come
può sottrargli quel che gli à dovuto?
Sarebbe bastevole questo evento per rendersi conto di quanto le leggi in
materia possano essere utilizzate per angariare il debole a favore di chi è più
potente, di quanto siano inadeguate le “cure del caso”.
C’era un disagio in famiglia, soprattutto per Giacomo, ma anziché
risolvere il disagio, anziché modificare la situazione difficile portando ad
una relazione corretta e chiara, si pensò di “curare” lui, lui a metà fra
il colpevole e l’indemoniato, si pensò di “cambiare” Giacomo mentre gli
altri avevano il diritto di restare gli stessi, così si cambiava tutto per non
cambiare nulla, si faceva “sempre di più” per fare sempre di peggio. E gli
psichiatri, forse e magari in buona fede, vittime della loro incapacità di
comprendere, sono stati al gioco anzi ne tenevano il banco, chi guadagnandoci
molto e chi pochino. Insieme ad essi gli avvocati.
La psichiatria del IXX e del XX secolo, benemerita senza dubbio per aver
strappato alla magia ed alla superstizione i “mentecatti” come un tempo si
chiamavano, di averli sottratti alle fumigazioni di solfo, si è preoccupata di
proteggere e difendere i “sani”, i “normali” dal contegno dei
“malati” escludendoli dal vivere civile, rinchiudendoli in luoghi
“chiamati ipocritamente Ospedali Psichiatrici”, ed in quel luogo
anormale, fuori dal contesto usuale, studiarli “scientificamente”, ed è un
controsenso assoluto, e “curarli” con bagni gelati, la contenzione
fisica, le terapie di shock e così via. Anche gli psicofarmaci, che pure
rappresentano un’espressione più umana e scientifica dell’approccio col
disturbato psichico e tali, non sempre, da far superare, magari solo
temporaneamente, momenti di gravissimo turbamento psichico sono per loro natura
farmaci sintomatici, se non riservati a questo scopo specifico rientrano
anch’essi nell’ottica tradizionale di controllo e di contenzione annullando
coscienza e volontà, annichilendo la personalità ma non portando però alla
risoluzione del problema.
Lo schema solito in occasione di una situazione di disagio psichico è
sempre lo stesso: la persona che presenta il sintomo psicopatologico dopo un
primo tentativo di dissuasione o di convincimento in famiglia viene portato da
chi se ne dovrebbe intendere, di solito dal medico di famiglia il quale oltre
che a bonari ansiolitici prescrive una cosiddetta cura ricostituente; si arriva
così a prescrivere cure
“ricostituenti” a persone floridamente in salute. Se il paziente rifiuta di
curarsi perché fisicamente sta bene la sua opposizione viene paradossalmente
connotata come un altro sintomo di insania;
“Se tu non fossi malato, accetteresti di curarti” gli si replica non
rendendosi conto della natura del messaggio che gli si manda; per dimostrare di
essere sano lui deve accettare di essere malato ed in conseguenza di curarsi. Le
cure, come prevedibile, non ottengono l’effetto sperato anzi la situazione
peggiora pertanto ci si rivolge a chi se ne intende di più, dallo psichiatra,
trascinando con la forza o con sotterfugi ”dobbiamo da un professore che ti
visita il cuore” o il fegato, od i reni ma il cuore lui ce l’ha sanissimo
come il fegato e i reni. Il “professore”, grande scrivania, grande poltrona,
immensa coscienza di sé, grande sussiego domanda, interroga, visita, fa la
diagnosi ”purtroppo si tratta di schizofrenia” prescrive psicofarmaci
assicurando che tutto si sistemerà. E “fra un mese ci rivedremo”.
E dopo un mese si ritorna, e così ogni mese successivo, per mesi, per
anni, con alti e bassi, quando va bene; i familiari si rammaricano magari che è
ancora un po’ inquieto, è ansioso, (come potrebbe non esserlo) oppure che è
apatico, quando l’apatia è l’unico risultato possibile con gli psicofarmaci
usati. Si cambiano le dosi, si cambiano gli psicofarmaci, si cambia talvolta il
professore.
I casi sono due: o gli psicofarmaci riescono ad intontire il paziente e
farlo diventare veramente “paziente”, salvo riacutizzazioni della
sintomatologia, in una completa progressiva dipendenza dai familiari che
decidono per lui sempre più designato come
malato di mente, oppure gli psicofarmaci non ottengono questo risultato,
si scatenano continue crisi acute e lo psichiatra decide allora che è
indilazionabile il ricovero in luogo adatto, in un reparto psichiatrico “ma
forse sarebbe meglio in una Casa di Cura, lì posso seguirlo personalmente io,
se siete d’accordo” “ma le pare, professore, certamente, noi abbiamo
fiducia in lei”. Poi dalla Casa di Cura quelli la cui famiglia non poteva
permettersi di pagare finivano in manicomio. Questa era la trafila e presso a
poco è analoga anche oggi.
Ed eccoci all’acqua. Emarginato, rinchiuso, guardato a vista.
Una volta i ricoverati erano considerati tutti, per legge, “pericolosi
a sé ed agli altri” pertanto veniva consentito di usare soltanto il cucchiaio
per mangiare e di solito si mangiava con le mani, provate a mangiare col
cucchiaio gli spaghetti che normalmente venivano serviti , i piatti ed i
bicchieri erano di alluminio ( in qualche reparto del manicomio di Firenze
soltanto verso il ‘70 si cominciò ad usare piatti di ceramica, bicchieri di
vetro, forchette e coltelli ma con grandissima resistenza da una
parte del personale dell’ospedale) alte mura circondavano spazi
ristretti dove era permesso prendere un po’ d’aria, i gabinetti non potevano
essere chiusi dall’interno, tutte le porte errano sbarrate da enormi
chiavistelli, i più inquieti erano legati al letto o rinchiusi in particolari
celle con tanto di spioncino alla porta, inferriate alle finestre, senza letto,
si potevano ferire, in terra una materassa ripiena di alghe secche se non il
materasso ma un cumulo di alghe secche, il cosiddetto “vegetale” ; nel
reparto dei “sudici”, nel manicomio di Firenze c’era quando vi entrai, la
pasta asciutta veniva scolata sul pavimenti i “sudici” la mangiavano con le
mani, tanto erano “sudici” e come non potevano essere?, li ho visti io con i
miei occhi e non c’era verso di fare smettere quella usanza.
La differenza fra tale luogo ed una prigione vera e propria stava
soltanto che in manicomio bazzicavano gli psichiatri ed i secondini erano
chiamati infermieri il cui compito essenziale era quello di non far scappare
nessuno, di badare che nessuno si suicidasse, di impedire gli inevitabili
disordini e di sedare in qualsiasi modo le intemperanze.
E non basta; oltre alla esclusione dal mondo
e la reclusione in un luogo siffatto non si dimentichi che i “malati”
erano criminalizzati, iscritti nel casellario giudiziario senza diritti civili.
Senza parlare delle “cure” denunziate anche da Giacomo, la
contenzione a letto o con la camicia di forza, la strozzina.
Questa è stata l’esperienza di Giacomo e di quelli che come lui sono
stati rinchiusi in manicomio. Per tanti malauguratamente un progressivo
adattamento all’ambiente, era così che si producevano i cosiddetti
“istituzionalizzati”. D’altra parte “istituzionalizzati” diventavano a
lungo andare anche gli infermieri manicomiali.
E’ da domandarsi se proprio questo è il modo di risolvere i problemi
dei pazienti e delle loro famiglie. Perché nel più dei casi anche la famiglia
incolpevolmente soffre in questa situazione; oltretutto tante volte da fondo a
tutte le proprie sostanze.
Per tornare doverosamente sul problema degli psicofarmaci, già in
precedenza accennato si deve riconoscere che negli ultimi cinquanta anni sono
stati un grande progresso in psichiatria, si cominciò nei primi anni ‘50 del
secolo scorso col Fargan, poi col Largactil che ne seguì e tutti gli altri fino
ad arrivare agli psicofarmaci depot, una iniezione aveva effetto per 15-30
giorni. Hanno permesso di acquietare gli agitati senza legarli al letto, hanno
potuto offrire un po’ di tranquillità a tanti stemperando la loro angoscia,
ammansendo le chimere dei loro deliri, annebbiando la percezione delle loro
allucinazioni senza tuttavia portare al rinsavimento sperato essendo la loro
azione, come già detto, puramente sintomatica, come l’aspirina che può
calmare il mal di denti ma che non cura la carie o la periodontite o gli ascessi
dentari.
Però tralasciando gli effetti secondari alle forti dosi, il camminare
come un burattino, come un ebete dallo sguardo assente, dal volto inespressivo,
dai movimenti rigidi e lenti, la parola inceppata perché la lingua non si
articola bene, la saliva che smoderatamente secreta fuoriesce dalla bocca che
non la può contenere né può essere inghiottita per la mancata coordinazione
della muscolatura del cavo orale, si deve anche tener presente che nell’uso
degli psicofarmaci vi è un’altra implicazione di fondo: è che rinforzano
giocoforza la designazione di “malato” di chi manifesta il “sintomo”, la
designazione di “diverso dagli altri”, lui solo da curare, le medicine le
prendono i malati; così i parenti, gli amici i curanti stessi si confermano
nella loro convinzione che è nel cervello malato del paziente la causa della
malattia, sono le sue degenerazioni cerebrali che devono essere guarite tramite
gli psicofarmaci.
Il disturbo psichico, che in realtà è la manifestazione di un disagio
relazionale retto da modificazioni funzionali dell’attività cerebrale e non
da alterazioni anatomo patologiche del cervello, viene visto col paraocchi della
“malattia mentale”, le relazioni distorte vengono scotomizzate, nessun altro
è chiamato in causa all’infuori di chi è “curato”; i parenti devono
convincerlo a “curarsi”, devono portarlo dallo specialista, devono
acquistare gli psicofarmaci e farglieli prendere, alle ore ed alle dosi
prescritte oppure se le cure a casa non danno un buon risultato devono
portarlo in Casa di Cura o all’Ospedale. Tutto questo senza sentirsi
direttamente implicati anzi, in buona fede, con l’avere la coscienza
tranquilla, “abbiamo fatto tutto il possibile, tutto quello che ci è stato
detto di fare, ma purtroppo la Scienza non ha ancora trovato il rimedio
giusto”.
Per quel che riguarda il nostro Giacomo sono state tentate su di lui
tutte le terapie farmacologiche possibili col risultato che alla fine stava
meglio senza tanti psicofarmaci, senza le terapie di shock, la contenzione e
l’internamento coatto. Ciò appare chiaro leggendo la cartella clinica dalla
quale si trascrivono le note salienti in proposito:
“26/10/60 Un
ciclo di Faseina non ha migliorato le condizioni del paziente”
“24/1/61 Ha
compiuto terapia con cocktail (sic)
litico senza alcuna modificazione
delle condizioni psichiche”
“17/7/61 Attualmente
non fa cure anche a causa del sistematico rifiuto;
mentalmente è assolutamente invariato”
“1/9/62 Sta
facendo Liranol 100+ 5o mg. intramuscolo da 15 giorni .
Da oggi
Talofen 100mg. + Faseina 1mg. al giorno”.
“1/10/62 Il
paziente si è procurato due ferite alla mano destra rompendo un
vetro per protestare
contro la terapia, è eccitato, delirante, a tratti incoerente.
Viene fermato”.
“3/10/62 Eccitato,
clamoroso, deve esser contenuto. Largactil 1 fiala”.
“17/10/62 Si
scioglie, è però sempre eccitato. Prosegue Nozinan 1 fiala, 2
volte al dì + Cortiplex. Delirantissimo”.
“11/1/63 Invariato
nonostante l’assunzione di 300 mg. di Melleril. Chiede e
deve essere contenuto perché rompe, se libero, vetri. Sospende Melleril
retard ed inizia Serenase 2 fiale”.
“25/1/63 Immodificato”.
“30/1/63 Si
passa a Liver Atox (un epatoprotettore).
Cessa Serenase”.
“6/4/63
Sta assai bene dopo terapia con Liver Atox. Supplica
continuamente che non gli facciano cure neuroplegiche.
“30/4/65 Da
molto tempo non prende nessun neuroplegico, con notevole
vantaggio, è più sereno, meno inquieto, meno aggressivo”.
“12/2/67 Dopo
4 giorni di terapia con Faseina 2,5 mg. al dì appare in
terribile stato di ansia”.
“20/12/73 Il
paziente rifiuta ogni tipo di terapia, si tenta a sua insaputa, la
somministrazione di Serenase,
10 gocce 2 volte al dì”.
“15/1/74 Ha
saputo che gli viene somministrato il Serenase, è diventato subito ansioso,
inquieto, scrive lettere chiedendo che gli venga tolto
ogni farmaco”.
“1/2/74 Nuovamente
tranquillo da quando siamo stati costretti a togliere il
Serenase”.
“20/5/78 Condizioni
invariate. Rifiuta ogni terapia.
Illuminante una delle ultime note in
cartella, siamo alla fine del 78, nella quale si indica la vera terapia,
l’unica terapia che giova a Giacomo, quella che tante volte aveva consigliato
e richiesto; egli chiede sì carta da scrivere e palazzi da abitare ma con la
nuova terapia ha raggiunto un comportamento sociale tranquillo ed accettabile:
“27/12/78 Condizioni
psichiche invariate, fisicamente in buone condizioni, Da quando il reparto è
aperto esce regolarmente per i viali ma non si allontana dall’ospedale. Chiede
carta da scrivere e palazzi da abitare”.
L’imbeccata finale dello psichiatra del reparto che ricorda come ancora
Giaoomo sia pazzo fa capire che per dimostrare di essere sano di mente dovrebbe
essere contento di vivere nel manicomio e non desiderare una casa propria.
Ma torniamo a bomba, torniamo a Giacomo comproprietario di una casa a
Roma e destinatario del 20 % di due pensioni. In cartella ho trovato la
relazione di una assistente sociale del maggio 1976 in cui si legge:
“Il Tarantini è ricoverato in Ospedale Psichiatrico da vari anni,
proveniente dall’Ospedale Psichiatrico di S.Maria della Pietà di Roma con
diagnosi di schizofrenia,
La sorella Bianca Rosa Tarantini, residente in P.zza della Posta Centrale
n°110,Firenze è l’unica dei familiari che mantiene rapporti con il paziente
in oggetto.
Risulta che fino ad un anno fa inviava al reparto dove è ricoverato il
fratello L.15.000 mensili più due vestiti e due paia di scarpe l’anno.
Da vario tempo effettua telefonate al caporeparto dicendo di non poter
fornire al fratello più di L.10000 mensili che direttamente vengono versate
all’Economato dell’Ospedale.
La sorella viene a trovarlo due volte l’anno.
Il paziente è ricoverato coatto, non esce mai dal reparto e da vari anni
non è rientrato in famiglia neppure per brevi periodi”
Incredibile ma questa era la prassi consueta dei familiari dei ricoverati, se questi
avevano dei beni ed una pensione il tutto veniva gestito dai familiari i quali
portavano in manicomio qualche pacchetto di sigarette e qualche migliaio di lire
ed il resto se lo tenevano per sé. Nessun giudice tutelare si interessava se al
ricoverato venisse dato ciò che gli spettava legalmente né si faceva
diversamente da chi lo “curava”.
Giacomo aveva una casa dove andare, la chiave di un edificio di
abitazione intestata a lui sui libri notarili vi è indicata, l’ha ereditata
dal padre insieme alla matrigna ed all sorellastra ma il fatto gli è stato
nascosto, gli si è fatto credere che sia stata demolita, Giacomo è “malato,
è “incapace di intendere e di volere”, anzi “è pericoloso a sé ed agli
altri, perché dirglielo? gli si potrebbe recare un dispiacere, potrebbe
peggiorare chissà quali guai avrebbe combinato “a causa dell’infermità
che l’ha colpito da tanti anni e che è tale, tuttavia, da non consentire allo
stesso di attendere con consapevolezza e discernimento alla amministrazione del
suo modesto patrimonio”, avrebbe potuto malauguratamente esigere che fosse
venduto l’appartamento per avere la sua parte spettante, avrebbe potuto
controllare l’importo delle due pensioni. Che premura! Quanto riguardo! quanta preoccupazione per il suo
modesto patrimonio che permette alla sorellastra ed alla matrigna di vivere alle
sue spalle!
Ma perché quando si è letto a chiare note come fosse veramente la
situazione economica di Giacomo non si è intervenuto denunziando la sorellastra
tutrice di furto continuato, perché non si è nominato un tutore onesto, se
davvero Giacomo aveva bisogno di un tutore?
Giacomo resta a passeggiare nei viali del manicomio in compagnia della
sua amarezza e delle sue strampalate fantasticherie. Pensa sempre di andar via
da quel luogo, andare da qualsiasi parte ma non restare lì.
Scrive ancora, su fogli di vecchi encefalogrammi che qualcuno gli
procura, scrive sempre per chiedere aiuto a non rimanere in manicomio. Una delle
sue ultime lettere che mi è stata passata è diretta ad una Carmen Catalano
Todisco alla quale ha scritto altre volte che, a quanto scrive Giacomo, ha
diretto una casa di cura psichiatrica e per tale ragione sarebbe
“Professoressa del modo di uscire da situazioni” come la sua ed alla quale
nell’indirizzo attribuisce il titolo di marchesa.
“Illustrissima Signora,
“io le scrivo da Firenze affinché Lei faccia il progetto di farmi
uscire dal Manicomio di Firenze (dove mi chiuse una mia zia maligna e pessima).
Come io le scrissi nelle lettere precedenti, io sono con libertà limitata in
Firenze, e sono nel Manicomio come ricoverato da anni ventidue e da anni
trentadue in modo complessivo.
Mi rivolgo a lei che è Professoressa del modo di uscire da situazioni
come quella che descriverò nelle righe seguenti. Scritto questa lettera io esco
ad impostarla essendo il luogo ora fortunatamente a “porte aperte”.
Io sono nel Sesto Reparto Uomini Misto del Manicomio “Vincenzio
Chiarugi” il cui cancello complessivo è in via San Salvi n°12 in Firenze, in
Italia, in fondo a via Lucrezia Mazzanti, io sono (mi trovo) in tale luogo con
le seguenti circostanze avverse:
1) Mi trovo assolutamente senza Edificio di Abitazione e senza valuta in
mano per comprarlo da un Ingegniere dell’Edilizia.
2) Mi trovo assolutamente senza Biglietti di Banca nel seguente senso che
stando nel luogo dove io mi trovo non mi giungono né lettere, né plichi
contenenti denaro, e neppure comunicazioni postali, ossia Lettere di solo
scritto, esse vengono fermate in portineria e in Direzione e non mi vengono
date.
In questo modo non posso uscire dal Manicomio, purtroppo, nemmeno tra
mille anni, quindi incarico Voi, Signora, di venirmi a trovare, ed esaminata la
mia situazione di fornirmi un Libro Notarile di Edifici e le chiavi del portone
degli Edifici elencati nel Libro, che chiedo mi venga dato in mano a me stesso
in modo visibile.
Non deviare assolutamente questa ordinazione di Edifici e di Armi verso
altre persone perché mi occorrono assolutamente a me e non ad altri.
Ho notato che ci sono Macchine Deviatrici degli Affari, che purtroppo
provocano la mia rovina.
Inoltre che il Libro Notarile di Edifici e le Chiavi, a me, occorrerebbe
in mano e non in ripiani diversi e invisibili del luogo.
Pregiatissima Signora mi venga a trovare nel luogo che le ho indicato e
mi estragga fuori del Manicomio con tutta la Valigia e se non fosse possibile
fuggire all’Estero in Aereoplano, mi ricoveri in “Villa Santa Rita” per un
anno, evitandomi, come è ovvio, l’elettrosciok, ed evitandomi il “Parco
delle Rose (che è sulla via Aurelia che è micidiale) come lei sa benissimo. Io
successivamente Le scriverò in Carta Bollata affinché lei possa prelevare dal
mio Stipendio Nobiliare di Stato i biglietti di Banca necessari a pagare quello
che ho chiesto; lo chiederò al Ministero del Tesoro degli Stati di Germania e degli Stati
del Continente Asia (dai quali io araldicamente derivo).
Si legga tutte le mie lettere e mi venga a trovare; io ho scritto sette
volte fino adesso alla “Villa Santa Rita che è in via Cilento N°5 oppure in
via Cilento N° 3 in Roma, alla Direzione di quel luogo della quale Lei, credo,
fosse Dirigente del Tempo.
Molti saluti con migliore stima mi firmo con il nome come sono iscritto
nel manicomio
io stesso Giacomo Tarantini, nato anno 1931 figlio di Francesco, ed
essendo Dittatore e Grande Ammiraglio nella Storia Antica con il nome vero
ignorato (forse) nel Manicomio che è in Lingua Tedesca e in Lingua
Orientale Antichissima
io stesso Giachomho Whohnh Taranthinhi Hunhnhoh 1°, con sedici h e in
Lingua orientale Sanscrito Tre volte Ultra-Antica.
Non può smentirsi. Deve sempre parlare
di cose ovvie con parole altisonanti che danno corpo a pensieri stravaganti che
mascherano i suoi umani bisogni come la sua altisonante e bislacca firma
maschera la sua impotenza. E scrive, scrive; una volta la settimana al Direttore
e gli consegna a mano la lettera in occasione della visita settimanale al
reparto.
Lettere meno roboanti di quelle di una volta, meno complicate, firmate
sempre con le sedici h, le armi restano un suo impellente bisogno ma non vuol più
fare la guerra, la relativa libertà
raggiunta gliene ha tolto la voglia e
la necessità; al guerriero in disarmo semmai gli servirebbero solo per
difendersi se qualcuno decidesse di costringerlo a soffrire di nuovo il calvario
già esperimentato. In una di queste, spassosa come involontariamente sa essere
Giacomo nel suo malinconico strascicarsi la vita, così scrive:
“...Sono in Manicomio perché privo di edificio di abitazione. Mi
occorre un palazzo in Cemento Armato e Armi.
La “specie” di mia sorella che risponde al telefono è di tirchieria
enorme, io non ho bisogno di conservare Capitali ma di
spenderli in Armi assolutamente, quindi fatela sostituire.
Importante: ho notato che nei dintorni non c’è neppure un negozio d’Armi,
e siccome io sono Armatore, Ingegnere, e oltre, ne sono preoccupato assai
Io sono un uomo di studi di Guerra e di affari e di Armi. E mi occorre un
Edificio con Cassaforte, e molti fucili lungo le pareti, e garage con Carro
Armato. Non deviare da me ciò che è Armi, Macchine, Edilizia, Fortezze.
La sorella che risponde per Telefono è negativa e non procura Libri
Notarili di Edifici neppure a spararla. Come debbo fare a ottenere tutti gli
armamenti e uscire dal Manicomio?
Letterale assolutamente e nello stesso senso. Sono l’Ingegnere Assoluto
d’Armi Artiglieria Imperatore e Condottiero
mia firma: in Lingua
Orientale e non Italiano
Giachomho Whohnh Taranthinhi Huhnhnhoh 1° (con 16 h)
detto ing. Giacomo
Tarantini (io circa Attila, nella
politica)
Pure se rattristati per la tragedia del suo destino ed addolorati
rendendoci conto del suo costante vivere nella paura di essere nuovamente
imprigonato non ci si può reprimere dal ridere leggendo di quel suo cercare
armerie nei dintorni del manicomio e del suo rammarico di non trovarne, del suo
desiderio di avere una casa in cemento armato (sic)
con i fucili appoggiati alle pareti e col carrarmato in garage!
Alla fine Giacomo esce dal manicomio per essere accolto in un ricovero a
Firenze,in via Orcagna. Da lì scrive una lettera al ProF. Nistri che per
Giacomo resta il mandatario ufficiale del suo destino.
“In queste mie righe dico che di salute sto bene. Attualmente io
abito nel Ricovero di via Orcagna N°”4 Firenze che è adiacente al Lungarno
del Tempio in Città.
Purtroppo mi sono accorto che non vengo rifornito di denaro e di
questo io sono assai preoccupato. Chiedo che facciate un piano finanziario
per farmi rifornire di Denaro (telefonando a mia Sorellastra essa era di umore
impossibile e con le macchine purtroppo voltate a fare spendere milioni in
Telefonate, e inoltre ho capito c’è ottica di segnalazione che ostacola
purtroppo il giungermi del Denaro. Levare quindi i segnali sfavorevoli.)
Chiedo quindi che venga
attivata la situazione finanziaria. Distinti ossequi
MIA FIRMA: io stesso Giacomo Tarantini
MIA FIRMA: io stesso Giachomho Taranthinhi mio nome da scriversi
in Tedesco e in Lingua Orientale.
Biglietto ben comprensibile
pur in quella forma particolare e personale di Giacomo. Non chiede più armi,
non ne ha più bisogno, per uscire dal manicomio; non chiede più Palazzi di
Abitazione con relativi Libri Notarili perché bene o male ha trovato dove
vivere fuori del manicomio: gli manca soltanto un po’ di soldi e non milioni,
non miliardi, non assegni esponenziali, solo un po’ di denaro. Avverte che la
sorellastra non ha intenzione neanche di ascoltarlo perché è “con le
macchine purtroppo voltate a fare spendere milioni in Telefonate”, si
accorge che la sorellastra non vuole dargli ciò che lui chiede, “ho capito
che c’è ottica di segnalazione che ostacola purtroppo il giungermi del
Denaro” . Ma nessuno ha fatto niente perché a Giacomo fosse detto come
stavano le cose e che gli fosse dato quel che gli spettava, si poteva esigere
che la casa in Roma fosse venduta e dargli la
parte che gli spettava per legge, si poteva togliere alla sorellastra la
gestione di quel 20% delle due pensioni( e di più se la matrigna fosse morta),
si poteva ben dirgli che era meglio farla finita di cercare aiuto nella
sorellastra.Nella ambiguità del “doppio legame” in cui è rimasto
giocoforza, uscendo dal solco, pensa a macchinazioni strane ed a particolari
ottiche di segnalazione.
Giacomo sa comunque che per avere il suo dalla sorellastra è necessario
un intervento di qualcuno che abbia più potere di lui, quel “piano
finanziario” cui accenna.
Ha perduto tutta la sua falsa boria, ha dimenticato qel suo sognare di
essere il Consul, l’Imperator, l’Ammiraglio, il Dittatore dellUniverso, si
è adeguato ad una vita di umile pensionato; nella firma sono scomparse le
sedici h nobiliari, è
ritornato alle lontane
quattro. Forse ne ha ancora bisogno per sopravvivere, lasciamogliele.
Povero Giacomo!
“ma per tuguri ancora e per fenili
spesso si trovan gli uomini gentili.”
(Orlando Furioso, canto quartodecimo, stanza LXII)
“....L’eticità è il compimento delle spirito oggettivo, la verità
dello stesso spirito soggettivo ed oggettivo. L’unilateralità dello spirito
oggettivo è nell’avere la sua libertà, da una parte, immediatamente nella
realtà e quindi nell’esterno, nella cosa; dall’altra parte, nel bene in
quanto universale astratto. Anche l’unilateralità dello spirito soggettivo
consiste in ciò che esso, di fronte all’universale, è astrattamente auto
determinante nella sua individualità interna. Soppresse queste unilateralità,
la libertà soggettiva diventa il volere razionale universale in sé e per sé,
il quale ha il suo sapere di sé e la sua disposizione d’animo nella coscienza
della soggettività individuale, ma la sua attenzione e la sua realtà immediata
ed universale nel costume dell’ethos; onde è la libertà consapevole di sé,
diventata natura.
La sostanza che si sa liberamente, in cui il dover essere assoluto è
altresì essere, ha la sua realtà come spirito di un popolo, la scissione
astratta di questo spirito è l’isolamento in persone, della cui indipendenza
esso costituisce l’intima potenza dominatrice e la necessità. Ma la persona,
come intelligenza pensante, sa la sostanza come sua essenza propria; cessa tale
disposizione d’animo di essere un accidente di essa; da una parte, la
contempla quale suo scopo finale assoluto nella realtà come un di là
raggiunto; e, dall’altra, mediante la sua attività lo produce, ma lo produce
come qualcosa che semplicemente è. Così compie, senza la selezione selettiva,
il suo dovere come il suo e come tale che è; e, in questa necessità, la
persona ha sé stessa e la sua libertà reale.”
“.....Il rapporto della ragione colla realtà umana è un’esperienza
di una profonda ragione, che parte ed ha inizio da una convinzione della vita
genuinamente umana ed interiore in cui si rispecchia, l’amore, e la
convinzione della propria condizione rispetto agli altri e rispetto alla dignità
e la libertà altrui nel rapporto interiore e personale, in cui la propria
personalità si evolve e si matura obbiettivamente ed organicamente rispetto
alla propria volontà nei riguardi anche della dignità altrui nel rispetto
della condizione umana come espressione della propria filosofia, in cui le
attività umane si trovano a confronto, nella profonda armonia del mondo in cui
si realizza e si armonizza armoniosamente il piano della ragione che è il bene
più prezioso, oltre alla libertà, che possa compensare nell’uomo il suo
bisogno di vivere e di trovare sempre nuovi impulsi vitali per affrontare da
uomo ciò che nel mondo fa parte dell’uomo con tutti i benefici che la vita può
offrire, ché nel suo mondo l’uomo racchiude la sua anima e la sua ragione
redenta, rendendo il terreno fertile perché la vita sia propizia e da questo
che attraverso una scelta l’uomo si può imporre coi soli propri mezzi
rispetto alla vita affrontando gli eventi con obbiettività e ottimismo e
costanza, pieno di volontà di esistere per il mondo, in cui nella sua anima è
racchiuso il segreto e il seme, che germogliando darà frutti in abbondanza e
nella buona volontà racchiusa nel cuore della terra, e nel mondo in cui
l’uomo deve vivere insieme agli altri per il bene di ognuno, specialmente nel
caso in cui ai poeti manchi la pace, cioè in un mondo in cui l’iniquità
trascenda il bene.”
Due scritti densi e contorti, e per seguire il bandolo bisogna fare
sforzi e violenza a sé stessi. letta la prima frase viene la voglia di mettere
tutto da parte e rinunziare alla lettura. Non appartengono alla stessa persona
anche se, a prima vista, si rassomigliano nella esteriorità della forma ma un
lettore, coltissimo e scrupoloso e specializzato, che abbia buona memoria e sia
esperto in filosofia si può accorgere che uno scritto è di Hegel, il primo, ed
il secondo no. Perché il secondo è del nostro amico filosofo, e non solo
filosofo, il Conti Supremo, il cui amore per la filosofia, almeno così sembra,
purtroppo l’ha portato come si usa dire “alla nostra osservazione”.
“(dal padre) Un cugino del padre è da tempo in ospedale
psichiatrico. Figlio unico, nato col forcipe, primo sviluppo regolare. Scuole
tecniche. “Capiva, ma si applicava poco, sempre mesto, isolatissimo,
appartato”. Vari traumi nel corso della fanciullezza-adolescenza., sembra non
cranici. A 14 anni tossicosi con stato confusionale.
Dal dicembre 64 i parenti si accorsero di inquietudine e di incongruenze
psicomotorie del paziente; interrompeva a metà gli atti; non voleva vedere i
quadri dipinti da lui e li rompeva; era del tutto taciturno; voleva stare al
buio. “Aiutami” disse alla madre, “sono un uomo finito”. Gli ultimi
tempi non si lavava né si pettinava, tendeva a stare a letto. Spesso si
guardava di continuo allo specchio.
Nel febbraio fu ricoverato a Poggio Sereno per pochi giorni. A casa ebbe
aggressività contro il padre; era ansiosissimo.”
Questo discorso, scritto nella sua cartella clinica dell’ospedale
psichiatrico di Firenze in cui fu ricoverato all’età di ventun anni è un
accozzo di verità e di abbagli, di speciosità (il cugino del padre da tempo in
manicomio, il nascere col forcipe, i vari traumi “sembra non cranici”, la
tossicosi, le incongruenze) che il padre, poveromo, porta allo psichiatra col
desiderio di offrire una ragione del disturbo psichico del figlio ed, allo
stesso tempo, parlando soltanto del figlio, dimostrare che soltanto il figlio è
matto, solo lui, e così il padre si tira fuori dal gioco. E ci riesce, lo
psichiatra che la pensa come il padre accetta, segna tutto ciò che il padre
dice rispondendo alle sue domande, di tutto ne tiene conto nella convinzione che
siano fatti importanti senza volerne sapere di più, senza volersi rendere
ragione di cosa avvenga in casa di Supremo, delle relazioni all’interno della
sua famiglia. Il matto è Supremo e questo basta. Con tali e gravi limiti la
psichiatria tradizionale si è strascicata nella “cura” del disturbo
psichico.
Ma c’è di più. Lo psichiatra che redige la cartella non si accorge
che involontariamente il padre gli fornisce la possibilità di capire come sia
insorta e maturata la sofferenza psichica di Supremo, involontariamente gli sono
stati offerti esempi veramente indicativi di un rapporto relazionale distorto
fra Supremo ed i suoi genitori, non si accorge che nella frase “capiva ma
si applicava poco” è racchiuso un modo distorto di comunicare fra i
genitori e Supremo, un’espressione abituale nei suoi riguardi, infinite volte
gli si saranno rivolti a quel modo, direttamente od indirettamente, quella frase
è un preciso “doppio legame” che afferma mentre nega, che mentre nella
prima parte asserisce che Supremo è intelligente nella seconda parte sconfessa
ciò che prima è stato detto affermando che Supremo dovrebbe stare molto sui
libri come deve fare chi non è intelligente. Un ragazzo che comprende alla
prima gli basta applicarsi poco, si dice di solito che gli è sufficiente
ascoltare la lezione in classe e pertanto non ha bisogno di sgobbare tanto sui
libri; un ragazzo poco dotato intellettivamente sopperisce a quella deficienza
con un maggiore impegno sui libri. Dunque, se Supremo capiva, se era
intelligente, gli sarebbe bastato poco tempo per lo studio ma se avesse dovuto
applicarsi molto voleva dire che non era intelligente.
Senza contare che si interessava anche di Filosofia, materia non compresa
nelle materie di studio per la scuola che frequentava, leggeva Nietzche ed altri
autori dell’Ottocento, interesse che a sua volta diventava, per chi gli stava
vicino, un sintomo di follia ed invece indicava il suo non sentirsi appagato dal
tipo di scuola che frequentava, il suo mirare più in alto.
Ma non è il solo “doppio legame” che affiora nelle parole del padre;
anche per il dire “non voleva vedere i quadri dipinti da lui e li
rompeva”, sarebbe stato necessario un approfondimento, non è un banale
atto strambo bensì una risposta adeguata ad una situazione paradossale. Se si
fosse indagato a fondo si sarebbe saputo che i genitori assecondavano, anche col
fornirgli i mezzi, gli intenti artistici del ragazzo mentre costantemente
definivano orrendi i quadri che il figlio dipingeva, per questo l’atto
apparentemente incongruo di Supremo era una risposta congrua. Ricordo che una
cara persona, grandissimo e disgraziatissimo pittore, finito un quadro, ed era
stato continuamente importunato durante l’esecuzione dal committente che lo
subissava di consigli, cancellò totalmente il quadro con rabbiose pennellate di
vernice nera; povero Patrizio, anche questo atto contribuì a portarlo sotto gli
elettroshoks. “Eppure”, si rammaricava il committente, “era un quadro
meraviglioso chissà perché ha fatto a quel modo!” .
Ma tant’è, il matto era Supremo, solo lui. Ci si può immaginare la
scena del commiato fra il padre e lo psichiatra, infatti era sempre la stessa in
analoghe situazioni, il padre avrà domandato”, ( gli psichiatri sono
sempre professori) “allora cosa ha mio figlio?” e
gli si sarà risposto con voce grave e preoccupata, gli occhi un po’
socchiusi, le sopracciglia stirate in alto, dondolando lentamente e lievemente
il capo avanti e indietro il capo “caro signor Conti, si tratta di
schizofrenia”. “E’ una malattia grave?” “Gravissima, purtroppo” e
lo psichiatra avrà stretto la mano al povero signor Conti, gli avrà magari
poggiato l’altra mano sulla spalla per fargli coraggio, con sul volto una
stereotipata espressione di un mesto sorriso.
Di solito, quando va
bene, sono questi i dialoghi al termine delle formalità del ricovero nel luogo
di cura di disturbati di mente.
L’osservazione inizia subito e si annota in cartella: “Lucido,
orientato, logorroico, subeccitato su base ansiosa con gravi e continue
esperienze di depersonalizzazione autopsichica, con incongruenze ideative ed
abnormi rapporti di significato”. Parole difficili per dire che sapeva
bene di essere dove era (lucido ed orientato), che parlava molto (logorroico),
che era ansiosamente inquieto (subeccitato su base ansiosa) che non si
raccapezzava gran che del come era stato portato con la forza in quel luogo
schifoso (le continue esperienze di depersonalizzazione autopsichica),
che tentava invano di potersi rendere conto del perché con fantasiose
interpretazioni (con incongruenze ideative ed abnormi rapporti di significato).
Quattro giorni dopo si è più chiari: “Molto ansioso, batte la
testa nel muro”.
Iniziano gli accertamenti e le cure, subito un esame radiografico del
torace, subito un elettrocardiogramma e gli esami del sangue per poterlo
sottoporre quanto prima ad una serie di shok insulinici (a Spremo se ne faranno
trenta di tali shok ed in seguito, nei successivi ricoveri, non verrà più
sottoposto al trattamento insulinico bensì, diverse volte, all’elettroshok).
l’isolamento dal mondo è completo. Non può uscire dal reparto, non può
esercitare una qualsiasi attività personale, deve sopportare passivamente a
tutto ciò che gli viene fatto.
Ma lui, Supremo, come vive l’esperienza del manicomio, quali sono i
suoi pensieri, i suoi sentimenti?
Ce lo dice lui stesso in una lettera indirizzata allo psichiatra che
l’ha tenuto in cura ed intitolata “storia della mia vita in manicomio”.
“18.2.1965. Ore 1,30. Aspetto mio padre in preda ad una crisi
depressiva collo scopo di ucciderlo.
Ore 2. Appena tornato, subito preso da raptus omicida tento di
aggredirlo, senza peraltro essere privo o totalmente privo di coscienza, la
tragedia si svolge in pochi minuti, subito avvertita l’autoambulanza vengono a
prendermi due infermieri vestiti di bianco.
Ore 2,30. Mi trovo all’ospedale di S. Maria Nova per essere portato nel
reparto osservazione, per esservi trattenuto, in attesa di decidere della
situazione, mi rendo conto della gravità del caso, ed in un momento di
drammatica lucidità penso dentro al mio pensiero, già consapevole del destino
che mi attende. L’unione fra l’anima ed il corpo e la verità, come se
intuissi improvvisamente la ragione della mia follia.
19.2.1965. Ore 10. Vengo trasferito ancora mezzo intontito alla clinica
dell’ospedale psichiatrico di S.Salvi di Firenze.
Ore 11. Dopo aver ripreso parzialmente conoscenza mi trovo
all’improvviso nella clinica, dentro il manicomio, i miei genitori dopo avermi
accompagnato, scoraggiato io li guardo e mi salutano, e rimango solo e mi
attengo a studiare la situazione, e mi viene da pensare cosa fossero i matti
credendo in buona fede che quello fosse tutto il manicomio, ,perché per me lo
era, e che lì ci fossero tutti i pazzi del mondo, e che fossero riuniti in
quell’ambiente fatto come una casa, senza mobili, scambiandolo in apparenza
per un padiglione in cui fossero rinchiuse delle persone, come si chiude dei
cani in gabbia, era questo che mi opprimeva.
Il giorno dopo, dopo aver dormito nel primo letto che mi avevano dato,
cominciai ad essere pervaso da un senso di intollerabile oppressione, data la
persecuzione degli infermieri, che per renderti il soggiorno più piacevole ti
inzuppano di medicinali, allo scopo di disfarti l’equilibrio psichico ed umano
di sopportabilità, anzi oltre la condizione psichica in cui mi trovavo e
l’ambiente stesso mi causavano questa oppressione, finirono per degenerare, io
che ero assolutamente sano di mente, in una vera psicosi, con mania di
persecuzione, era l’inizio della schizofrenia, che dai sintomi, di agitazione
psicomotoria, preannunziavano il crollo, la completa rottura della mente, anche
in relazione al fatto ch’io non ero molto influenzabile, e anche in relazione
all’insopportabile senso di claustrofobia, peggiorato dalla situazione di
lager nazista od anche peggio, almeno essi avevano il diritto a morire, che mi
opprimevano inesorabilmente, da quel momento mi resi conto di cosa voleva dire
il manicomio e la repressione organizzata per fare perdere l’equilibrio e la
rispettiva coscienza e dei limiti delle inibizioni che tu conosci, da quel
momento ero diventato soltanto un pazzo, e forse anche peggio trattandosi della
mia persona presa di mira dall’odio di tutti che vedevano in me il capro
espiatorio e si organizzavano come belve per trarne vantaggio essi stessi, colla
mia vita. Io mi ero creato in me, oltre il senso di colpa, della vigliaccheria
umana, che non ha confini, in questo mondo di merde, al fatto di essere
rinchiuso io un’anima tanto libera, un’indicibile forza manicomiale di mania
di persecuzione.
xxxxxxxxxxxxxxxxxx
Dal 20.2. al 17.3 65.
I giorni che seguirono furono tutti a questa maniera, non
potevo vedere nessuno, e in preda a forti disturbi psichici e nel dramma
profondo ed interiore non facevo niente per darmi pace. anzi soffrivo il mio
dramma con profonda coscienza, perché io intuivo che non c’era altra
speranza, o in quanto io non tolleravo assolutamente gli altri malati, e spesso
quando la mattina dovevamo alzarci, alle 5 ancora nel sonno e ne eravamo
costretti e ancora congestionati dagli psicofarmaci che spezzavano la mente
privandone il più breve attimo di suspense emotiva, fatto di cui non ho saputo
il perché, mi esento di fare credere alla bestia braccata, per motivi umani, e
religiosi, mi fermavo alla finestra a guardare nel buio della notte, mentre
un’aria gelida mi soffiava sul volto infreddolito e stanco, una nausea forte
mi cresceva dal di dentro, io sapevo di non essere pazzo, ma non lo potevo dire
a nessuno di questo mondo che mi aveva condannato senza pietà, mettendomi in
mano a carnefici senza pietà e
giustizia e che voleva la mia vita in riscatto della loro.
Come per Gesù Cristo nostro Signore che a causa di ciò che non abbiamo
finito dopo secoli di odiarlo, io lo posso dire giacché grazie a Dio sono
ancora vivo. Non possiamo dire male di nostro Signore se non a cagione dei
nostri peccati. A metter fine alla religione ci penso io perché c’è il fatto
che io sono l’Anticristo.
Eppoi arrivato al centrale,
vengo destinato al terzo reparto uomini in cui subitamente vengo rinchiuso
dentro, senza peraltro essere o non essere, messo al corrente degli sviluppi
della situazione. La notte stessa, per una crisi nervosa, dopo aver richiesto di
essere trasferito nel luogo peggiore del manicomio, come facessi a sapere questo
non lo so, e come fossi arrivato a conoscerlo non so, so però che era un
appuntamento col destino, io non conoscevo ancora l’ambiente e le strutture
interne, ma come fossi arrivato a conoscerlo questo fatto mi meraviglia ancor
oggi, nella vita ci sono fatti del genere di cui ignoro la vera natura, vengo
preso quindi dopo la mia vocale richiesta e trasportato da due infermieri nella
piena notte al sesto reparto uomini, come sapessi queste cose nella loro vera
natura è un fatto inspiegabile, forse era soltanto intuizione o forse qualcosa
di più. Allora il sesto reparto ere considerato il reparto peggiore, dove vi
erano i pazzi incurabili e furiosi, come erano ritenuti, ma a me non sembrò,
forse chissà perché quello era il mio ambiente naturale, congeniale alla mia
natura, avventurosa e senza scrupoli di sorta e senza moralismi, a dire il vero
l’ambiente era poco rassicurante, ma gli stessi internati quando mi videro mi
fecero una calda accoglienza, sapevo chi fossero ma subito si familiarizzò
affettuosamente.
A causa della mia forte cultura intuitiva , io seppi subito intuire il
rapporto che esisteva fra me e loro. ciò che in seguito hanno capito anche gli
psichiatri, loro malgrado, e a causa della mia disonestà morale, che ha finito
di coinvolgere anch’essi, nei miei panni. togliendo loro forse la giusta
obbiettività che in questi casi è necessaria sopra qualsiasi altra cosa, che
perfino gli internati dopo la prima infatuazione ne avranno trovato del danno,
fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura. Perché nei casi
della follia bisogna essere necessariamente anzitutto obbiettivi, come un
orologio elettrico, e lasciare che la pazzia abbia il suo sviluppo, come anche
io penso, e come essi stessi onestamente hanno ammesso e messo in pratica,
questo devo dirlo, in tutta onestà, nelle mie piene facoltà mentali ed
intellettive.
Dunque appena mi videro subito mi corsero incontro, affettuosi e
comprensivi. Poi il resto è noto a tutti nell’ospedale chi io fossi, ma
questo lo devo dire in onore ai medici che sono stati sempre molto buoni e
tolleranti, specialmente nel manicomio di Firenze, che io penso si distingua fra
tutti i manicomi d’Italia per innovazioni che vi sono state apportate a
vantaggio dei ricoverati, che l’arte medica in questi casi pietosa e umana
deve ottemperare, in favore di chi non si può difendere dalla vita, e in questo
senso io forse li ho traditi, ma sento che è mio preciso dovere
dire questo, anche se non verrò creduto sulla parola, E in onore dei
medici va tutto il merito perché a parer mio, hanno saputo capire a fondo
queste anime sciagurate. Dio onnipossente abbia misericordia di noi tutti.
Distintamente la saluto.
Conti Supremo
P.S. Però una cosa è certa in tutto questo discorso, nel
mio caso non furono capiti i misteri segreti di Dio.
Dato che oggi l’arte è a scopo politico, le opere d’arte
le terrò per me. Per beneficenza e per amore del prossimo non si fa nulla,
aggiornatevi, oggi è tutto fatto in due”.
Pagine quanto mai
sconvolgenti e crude. E vere. Non dobbiamo farci distogliere da quel “a
mettere fine alla religione ci penso io perché c’è il fatto che sono
l’Anticristo” e dalle a
prima vista fumose espressioni finali circa il rapporto fra lui e gli altri
ricoverati che in altre lettere chiarisce. Il resto è orridamente coerente ed
adeguato, è terribile testimonianza della violenza subita coscientemente senza
poter fare nulla per opporsi, poteva solo battere la testa nel muro, non un modo
di dire ma reale ed adeguata reazione all’esperienza che gli toccava subire.
Precisa è la testimonianza dell’effetto degli psicofarmaci, acute le
osservazioni del modo di fare degli infermieri, penetrante il ricordo dei locali
“quell’ambiente fatto come una casa senza mobili”. Come non pensare
di non essere perseguitato se uno è costretto a subire quelle violenze, in
quella “situazione da lager nazista o forse peggio”? Resta impressa
l’immagine di lui, immobile alla finestra, a guardare il nulla nel buio della
notte gelida, le cinque del mattino, senza poter dire a nessuno, nessuno
l’avrebbe creduto, che lui non era pazzo, che lui era condannato senza colpa,
che era in mano di carnefici senza pietà, come Gesù Cristo messo in croce
dall’odio e dai peccati degli uomini. E le sofferenze continuano anche dopo la
dimissione a causa dei malvagi giudizi e pregiudizi della gente, “io lo
posso dire giacché grazie a Dio sono ancora vivo”. Ed è commovente
l’incontro con i disgraziati rinchiusi nel sesto reparto che gli vanno
incontro affettuosi e comprensivi, il reparto di punizione, il reparto dei
furiosi e degli irrecuperabili, il reparto dei sudici, dove la pasta asciutta
non si serviva nei piatti ma si buttava per terra in mezzo allo stanzone ed i
sudici, tanto erano sudici, la mangiavano con le mani, proni sul pavimento come
animali.
Di quella esperienza tristissima ha un buon ricordo degli psichiatri dei
quali tutto sommato ha stima e rispetto. Supremo non è stato un lungodegente
nel manicomio, viene e va; i suoi scritti non sono “dal” manicomio, ma “al
Manicomio, gli scritti li manda a psichiatri che ha incontrato nel manicomio,
sono dal manicomio del mondo alla cittadella del manicomio.
Ad un altro psichiatra scrive la lettera seguente, sullo stesso
argomento, e ritorna a paragonare Cristo a sé stesso ed a tutti coloro che
soffrono ingiustizie, una lettera breve nel cui finale, nel firmarsi,
riaffiorano le sue letture filosofiche:
“Il mio passato appartiene alla morte. Ed è solo il ricordo che non
riesco a cancellare perché io ho pagato con la mia stessa vita ciò che ero, mi
si chiede, mi si chiede, per il riscatto della mia stessa esistenza è il prezzo
dell’assassinio. Giuda vendé Cristo ai suoi carnefici per 30 denari, è la
solita vicenda ma i veri colpevoli furono chi in silenzio parlò e ne godette,
della morte dell’uomo. Oggi è la medesima zuppa cambia musica ma i suonatori
sono i medesimi. La vita è così. E’ la storia umana di Cristo che rivive nel
figlio dell’uomo.
Così parlò Zaratustra”
Da un’altra lettera emergono acute osservazioni sui manicomio, unico
luogo dove paradossalmente i folli possono vivere ed i veri folli sono quelli
che per viltà si adattano a vivere lì dentro, lettera inviata al Direttore del
manicomio, dura ed aspra nei confronti degli psichiatri i quali, se in qualche
modo si interessano dei pazienti fra le mura manicomiali, se ne disinteressano
quando li abbiano dimessi:
“Illustrissimo Professore,
Lei manda fuori gente clinicamente guarita ma dopo aver subito il
martirio nel manicomio ne subiscono un altro assai peggiore fuori nel mondo
esterno alle mura manicomiali.
Le dirò in buona fede, Lei mi conosce, e sa, io credo che io sia, o sia
sempre stato, una persona integerrima moralmente, e ne conosce le ragioni,
quindi in tutta coscienza, comprende le motivazioni che mi hanno fatto passare
anche giorni piacevoli in cui in qualche modo ero ben visto, perché non deve
essere più a quel modo.
Non mi sono spiegato ma fa lo stesso.
Un caso come un altro, ma quanti sono questi casi, Lei è uno psichiatra
e se ne sta comodamente nascosto dentro le sue mura e la sua omertà, anche se
in buona fede ed in armonia, ma pur sempre carnefice della società che le mette
in mano i mezzi della repressione e gli strumenti di tortura per gli errori
commessi e per la merda che va tenuta sotto banco perché se no se ne sente il
fetore.
No, non è patologico tutto questo,
Lei mi comprende.
Lei in tutta coscienza accetta questa società che si serve dei manicomi
per imporre la paura e come strumenti di repressione organizzata come un
esorcista al tempo delle streghe.
Io credo di NO!
Ammetto però che ne permetta la sussistenza e la sopravvivenza ed è
anche appagato per questo servizio, per tenere in piedi i manicomi che sono nel
complesso uno stato di membra umane distorte dai sofismi di molti, fatti pagare
da pochi che la scontano per tutti.
Io capisco che si viva in un sistema di cose, in cui anche lei
personalmente, io penso, non possiate fare fronte alla mania di persecuzione
della società.
Ne convengo è un giro chiuso.
Gente che viene mandata fuori dopo essere servita da cavia a farsi
mangiare vivo sotto il nome di pazzo, nonostante che sia stato riabilitato è
una vergogna ancora peggiore di coloro che ne sono gli esecutori.
Ma i più, i più furbi sono come i lupi braccati, stanno chiusi in
manicomio a vegetare ed a subire ogni umiliazione alla loro dignità, pur di non
sortire all’aperto, accettando il loro destino passivamente e rinunziando alla
vita come ultima speranza di sopravvivere a sé ed agli altri, trattati con vari
sistemi e vari metodi che sono pagliativi e buffonate per non far scoprire la
truffa come una caramella ad un bambino; che rispetto alla vera libertà i
manicomi non dovrebbero esistere o per lo meno dovrebbero andarci chi manda gli
altri per dare il buon esempio perché questa è pazzia, di coloro che dicono di
non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te stesso, e predicano
bene e razzolano peggio, la vera libertà che dovrebbe essere uguale per tutti
gli uomini, e non cogito cartesiano della masturbazione cerebrale.
Lei ora conosce il mio pensiero si tenga bene in mente che glielo ho
detto.
In fede
Conti Supremo
P.S. Ammesso che non manchi l’acqua alla fontana. Se no
l’eterna giovinezza andrebbe a farsi fottere, come la pietra filosofale e
tutta quanta la filosofia. Uomo avvisato mezzo salvato. Questo vale per me.
Comunque il presagio è di questa natura.
Conti Supremo, Anticristo.
Voi fate la vostra politica io faccio la mia anche se sono solo e
disperato. Ma cosa vorrebbero la gente che i pazzi li curano peggio per
mangiarli meglio, giacché io capisco i vostri problemi.
Il manicomio serve
alla società , è servitore del potere, il manicomio “uno stato di membra
umane, distorte dai sofismi e dagli errori di molti, fatti pagare da pochi che
la scontano per tutti”, lapidaria definizione dei manicomi, di tutti i
manicomi, anche di quelli aperti, anche di quelli che sono venuti e che verranno
magari sotto altro nome dopo che burocraticamente, solo burocraticamente, siano stati aboliti. Ma anche felice intuizione clinica,
frutto della propria esperienza, circa la follia intesa come esito dell’essere
un “capro espiatorio”.
Penetrante poi e sofferta è la disamina della situazione di quelli che “dopo
aver subito il martirio nel manicomio ne subiscono successivamente un altro,
assai peggiore, fuori, nel mondo esterno alle mura manicomiali”, dopo
essere stati dimessi. Resta il marchio d’infamia anche se gli psichiatri
hanno certificato il diritto dei pazienti di tornare nella vita civile.
Cosa si fa per loro? domanda Supremo,
addirittura è inutile darsi da fare per aiutare una persona a ristabilirsi ed a
superare le sue difficoltà se con irresponsabile
faciloneria si rimanda in quell’ambiente ostile che gran rilievo ha
avuto nel disporre il ricovero. Supremo ha chiara l’intuizione che il disturbo
psichico è un evento relazionale, che chi ne soffre non può essere avulso dal
contesto in cui vive.
Ma il vero malato di mente dice Supremo, il malato d.o.c. , è chi
accetta di continuare a vivere in manicomio senza pensare di uscirne, ma anche
scaltro ché, lupo braccato, ha trovato una tana per nascondersi agli occhi di
tutti e sta lì a vegetare pur subendo umiliazioni, pur di non uscire
all’aperto, pur di sopravvivere; la vera pazzia è di non affrontare la vita
sociale; e ne hanno diritto. Aveva accennato a tale problema in una lettera
precedente e ne riparlerà in altri scritti, lui ha lottato contro quella
pazzia, la vera pazzia, avendo contro tutto quel mondo che della pazzia non ne
può fare a meno. Cercò infatti di far cambiare idea ai ricoverati del sesto
reparto; ma il tentativo di toglierli dalla apatica assuefazione del proprio
destino ed all’ambiente manicomiale, lo sforzo di fare loro comprendere che
avrebbero dovuto reagire e tornare a vivere insieme agli altri fallì, anzi fu
per essi soltanto di turbamento e
ne soffrirono, “dopo una prima infatuazione ne avranno trovato del danno,
fra le loro cose intime a loro e alla loro particolare natura”. Nel suo tentare di far cambiare loro idea sente di averli
traditi “perché nei casi della follia bisogna essere necessariamente
innanzitutto obbiettivi, come un
orologio elettronico, e lasciare che la pazzia abbia il suo sviluppo, come anche
io penso, e come essi stessi onestamente hanno ammesso e messo in pratica”. Certamente
ebbe scontri anche con i medici di reparto a questo riguardo ma alla fine “in
onore dei medici va tutto il merito, perché a parer mio, hanno saputo capire a
fondo queste anime sciagurate”. Lui infatti faceva una violenza sulla
violenza tentando di rimediare alla violenza precedente, pensiero quanto mai
saggio tenendo presente tanti maldestri tentativi datti in nome di una
demagogica, illusoria, mistificante deistituzionalizzazione.
Dice in un altro scritto:
“.....allora sapete che vi dico, i pazzi hanno ragione; e perché
non ragionano solo per il fatto che non pensano se pensassero vorrebbero essere
diversi come è successo a me, se pensassero sarebbero di sesso diverso.
E quindi la mia ricerca finisce; il resto ai posteri l’ardua sentenza.
Il futuro ci attende rinnovato grazie a questo fesso non senza un destino.
Lo sapete questo aneddoto: Ci sono i pazzi ! Io sono il più pazzo.
Allora torna fuori?”
A voler tornare fuori bisogna essere più pazzi dei pazzi. In fondo,
sembra concludere, il manicomio è brutto finché non ci si adatta, è luogo di
incomprensione e di violenza per chi voglia ed abbia bisogno di essere compreso
e capito nelle proprie difficoltà esistenziali, è invivibile finché non ci si
è arresi alle regole dell’istituzione ma chi accetta di considerarsi ed
essere considerato pazzo lì ci può
vivere tranquillamente, anzi non può fare a meno di vivere lì dentro; del
resto è analogo a ciò che avviene nel mondo “normale”, è anch’esso un
manicomio, è anch’esso violento e crudele al quale ci si deve adattare.
Supremo è il pazzo fra i pazzi, non si adatta né a questo né a quello, pur se
il manicomio, quello vero, paradossalmente può essere per qualcuno un’ancora
di salvezza o di sopravvivenza.
Del resto Supremo l’ha sperimentato ché nella sua carriera manicomiale
è andato più e più volte a farsi ricoverare spontaneamente, spesso senza
neanche avvertire i genitori, senza che alcuno lo accompagnasse, dicendosi
peggiorato; rientrava in manicomio perché la vita in famiglia ed in paese gli
era diventata impossibile. Una volta che, sentendosi meglio dopo un periodo di
degenza, provò a tornare a casa senza dirlo a nessuno del manicomio vi ritornò
subito la mattina seguente. “Nella notte” si annota in cartella “ha
un ripensamento”.
In occasione di uno
di tali ricoveri, “perché in paese non si trovava a suo agio, i ragazzini
gli dicevano tu sei pazzo” così è annotato in cartella, deve subito
tornare a casa perché la madre si precipita in manicomio e lo rivuole a forza
con sé; lo psichiatra del reparto annota in cartella: “stamani la madre
piomba in reparto, con strida e lacrime convince il paziente a lasciare il
reparto perché è brutto e rivuole il ragazzo a casa. Il paziente evidentemente
più in sesto della madre (sic) la accontenta e si scusa con lo scrivente
per la dimissione”.
Con ciò non si può dire che il manicomio sia o sia stato o possa essere
un luogo di cura, non lo dice neanche Supremo. Supremo afferma che il manicomio
è l’unico luogo dove i matti possono fare i matti e non possiamo dargli
torto. Difatti, sono solito raccontarlo, una sera che ero di guardia venne a
trovarmi in manicomio il carissimo Carlo Coccioli; passeggiavamo per i viali,
era d’estate, non c’era anima viva, al dilà delle muraglie i padiglioni,
qualche finestra illuminata, molte buie, molte dalla luce azzurrastra, i pavoni,
nel manicomio di Firenze c’erano anche i pavoni, che urlavano le loro grida
paurose ed allucinanti, solo chi le ha sentite sa quanto siano allucinanti; la
prima notte che fui di guardia sentendo quelle terribili urla telefonai al
portiere per sapere se qualcuno fosse torturato, “stia tranquillo” mi
rispose, ”sono i pavoni”. Carlo, ad un tratto, pensieroso, mi disse:
“Giuseppe, ma come fai a stare qui dentro?” “Guarda Carlo” e feci
sull’erba una capriola. “Falla anche tu”. “No, sei pazzo? io non la
fo”. “Allora ne fo un’altra io” E feci un’altra capriola. “Vedi
Carlo” gli dissi” se io avessi fatto queste capriole in piazza del Duomo mi
avrebbero portato quì dove posso fare le capriole”. Paradossalmente anche
questo era il manicomio.
Per i folli troppe volte la vita è ancora più dura fuori del manicomio,
può diventare impossibile. lo ripete in una lettera all’amico psichiatra:
“Pensate che c’è gente che mi considera ancora pazzo, perché non
gli avete spiegato come stanno le cose, perché non avete detto loro che c’è
gente che è diversa e possiede un altro cervello, e che la mente dell’uomo
non è uguale per tutti gli ambienti. Quì al paese mi prendono ogni giorno più
pazzo, ogni volta che procedo per il mio cammino. Allora aveva ragione il N.
sulla vita e sulla violenza. Pensare che ogni giorno che passa e che mi rendo
conto cosa sia veramente questa gente, e che prima non conoscevo pur restandone
in buona fede, ogni giorno che passa mi preparano sempre più la fossa, negando
nei loro cervelli marci ogni ragione ad uso umano. Date retta a me, ammazzato mi
avete già una volta, due sarebbe troppo, date retta è l’ora di tirare meno
la corda.
Una richiesta precisa.
La fa agli psichiatri che dovrebbero curare più i sani che i “malati”.
Continua comunque ad aver fede nella vita anche se deluso. lo scrive al
Direttore del manicomio:
“Egregio Signor Direttore,
Siccome io ho fede nella vita e penso che essa sia fatta a fin di bene,
nonostante ci sia chi la odia, ma in questo credo fermamente di non aver torto.
Anche se dalla ragione si può aver torto. In questo mondo c’è da spettersi
di tutto, specialmente in questo mondo concepito a questo modo. Con esseri di
diversa natura. Il che equivarrebe a dire che la pazzoa vada a riba, ed è
l’unica cosa a cui nessuno sappia rinunziare, sia nel bene che nel male.
Questa pazzia del cervello di chi se ne serve come strumento di oppressione.
Ma da quale parte sta la ragione. Io non ci voglio pensare, pensare
troppo fa male alla salute, e come diceva il filosofo è meglio prendere il
nutrimento a filo d’onda e pensare più a sé stesso.
Distinti saluti
Conti Supremo”.
Lettera umanissima e malinconica, Supremo sembra darsi per vinto, beati
quelli che non pensano, pensare fa male alla salute.
Insieme alla lettera che è del ‘76 invia al Direttore anche uno
scritto di dieci anni prima, ad un anno dal perimo ricovero, un foglio di carta
ingiallita dal tempo, l’inchiostro violaceo, scolorito, una confessione che
parla del suo bisogno di certezze e di conoscenza fin da quando era un bambino e
che lo portò a cercare invano nella filosofia le risposte,del ribollire dentro
di sé aneliti generosi di darsi agli altri perché si sentiva ricco, più ricco
di chi gli stava dintorno, fino a divenire consapevole di essersi ingannato:
“penso che la mia vita negli ultimi anni è stata tutto un inganno
cioè mi sono illuso di essere diverso, quello che riscontro ora è una mancanza
di significato che trovo nelle parole, fin da bambino ero un carattere un po’
tragico e sono finito nella filosofia che ha portato non poca confusione nel mio
carattere, mi posso portare a dire che colpa ce ne ho io se ho trovato nella
folosofia quello che poi doveva essere tutto il corso della mia vita il
carattere intellettuale e una vera pace per me che ho sempre donato quello che
avevo dentro riscattando così una
tranquillità ed una serenità e da questo fatto ho risolto di base la mia vita.
E ora mi trovo un disgraziato, insomma, per la maggior parte del tempo che ho
trascorso mi è parso sempre di dover dare qualcosa ad ognuno per quello che in
precedenza rispetto al valore noto io avevo ad aver che in analisi era la mia
realtà psichica.
Quello che ho appreso dagli altri è stato per me sempre un fattore
noto”.
Si è sentito diverso dagli altri. Nato in un paesotto pur importante ma
lontano da Firenze nel quale è difficile essere accetto se non si sa adeguare
alla mentalità comune, si dimostrò intelligente alle elementari tanto che i
genitori lo fecero continuare negli studi iscrivendolo alle scuole tecniche,
avrebbe dovuto diventare un perito industriale. I suoi interessi veri erano
altri, anche se andava avanti negli
studi, era arrivato all’ultimo anno del corso, gli piaceva dipingere, aveva
sete di verità, leggeva libri di filosofia il che agli altri, specie ai
genitori, sembrava un’atto di pura pazzia ma Supremo sentiva il bisogno di
cercare i perché, di frugare per scoprire le verità del mondo, per trovare il
movente delle sue spinte interiori. Si infervorò così nella lettura degli
autori tedeschi dell’ 800, Kant, Hegel, Shopenauer, sopratutto shopenauer; nel
“Così parlò Xaratustra” Supremotrovò esposti i suoi aneliti le sue
esigenze come delresto è capitato a tanti che in gioventù abbiano letto il
libro, trovò la spiegazione del suo sentirsi diverso, sentì affermato il suo
diritto di considerarsi migliore di chi gli stava intorno. Nel Superuomo si
rispecchiò e si riconobbe. E cominciarono i guai. Disconfermato dai genitori
infastiditi dal manifestarsi della
personalità del figlio, era preso in giro dalla gente del paese e dai compagni
di scuola e dai paesani appagati dal quieto vivere e dalla proria ignoranza che
schernivano quel ragazzo che con i suoi discorsi li metteva in crisi. Il non
essere compreso ed accettato diventò per Supremo un tormento indicibile che si
trasformò in ribellione anche violenta, sognò
di essere l’anticristo che avrebbe dovuto distruggere quel mondo di insulsi e
di meschini. Fu così che perse il senno, fu così che arrivò al rapsus subito
represso di uccidere il padre. “Pensare troppo fa male alla salute”.
Agli psichiatri amici
talvolta ha voluto far conoscere il suo pensiero inviando loro i suoi appunti
filosofici. Eccone un esempio:
“Il principio selettivo della metafisica è la ragione empirica dei
pensieri intellettivi, se la mano sostituirà la passera del domani allora io
sono l’anticristo in ragione del mondo da cui traggo questa ragione la verità
ah come potrei dimenticare o credere alla fede se non potessi credere che io
sono me stesso come potrei capire o follia del povero viandante ristorato dalla
fede ardente di infinito che in esso trova rifugio ardente delle sue speranze e
dei suoi pensieri che nome non hanno da sé stessi a sé stessi
nell’ineffabile mistero che copre il velo della mente trovar rifugio e
consolazione della speranza che si perde nel vuoto e nei pebnsieri ritrova l’antica consolazione di perdersi in essi ancora
una volta prima ancor di esistere, nella comprensione del prossimo e della
coscienza a cui la ragione nell’oblio dimentica il passato che in sé rivive
le dolci rimembranzedel tempo perduto della ragione che finì nel dolce oblio
del sogno fugace che la rapì nella realtà dell’ultima speranza che sempre si
rinnovò per l’eternità ancora una volta”.
Un periodo senza
punteggiatura che non finisce mai, imparato da Hegel. Un buglione di frasi in
cui ci si sperde non trovando il bandolo del discorso, e viene proprio da ridere
pensando a quella mano che in avvenire sostituirà la passera, pensando a quel
suo essere l’anticristo in relazione al tipo di mondo che esige quella
sostituzione. Ma leggiamo attentamente la scritto di Supremo, andiamogli più
vicino cercando di affacciarci al suo dentro, forse capiremo di più, capiremo
quel che ci vuol dire: che alla base della metafisica, cioè della scienza che
studia l’essenza ultima delle cose e che cerca di spiegare il mondo e la vita
al dilà delle conoscenze fisiche, sta l’esperienza intellettiva del pensiero (“la
ragione empirica dei pensieri intellettivi”). Usando questa facoltà ci si
rende conto che il mondo è lercio e ripugnante (“la mano sostituirà la
passera del domani”) e che l’unica cosa giusta sarebbe che lui
diventasse l’anticristo distruggitore. Detto ciò si ribella a questo
pensiero, sente che può credere di essere ancora sé stesso, e perciò può
dimenticare , può avere ancora fede, può capire . Solo la fede di uinfinito può
ristorare il povero viandante che lui sente di essere, nella sete d’infinito
trovano rifugio le sue speranze ed i suoi pensieri ineffabili che nome non
hanno, misteriosi come la mente che li produce nel susseguirsi di oblio e di
rimembranze che si mescolano al fluire di speranze deluse e di sogni inappagati
che continuamente rinascono e si spengono ancora prima di rinascere; la sola
realtà è la speranza, l’ultima speranza, che sempre si rinnova,
all’infinito. Lo scritto è da essere riletto attentamente perché a parte il
contenuto è splendida la forma, il lunghissimo periodare, personalissimo, senza
soste, senza pause, un rincorrersi galoppante, un frangersi di pensieri, uno
dietro l’altro incessantemente come onde marine sulla riva che mozzano il
fiato per significarci la sua angosciosa solitudine. Ma chi l’avrebbe potuto
capire se chi, aduso a leggere di filosofia, appena lo percepisce?
Spiega meglio gli stessi concetti in un altro scritto che invia al solito
amico psichiatra che intitola “l’anticristo. Il mondo è in disfacimento,
sono tanti i grandi eroi che si sono dimostrati buffoni ed il mondo si va
riducendo in una commedia falsa e vana; per questo è tempo di anticristo e lui
è l’anticristo, segno dei tempi:
“L’anticristo
Se è vero che si vive in un’epoca di contrasti in cui i valori della
vcita vengono diffamati se è vero che la pazzia è uma situazione che si
rinnova attraverso simbiosi caratteriale sottoposta implacabilmente al giudizio
della gente come col marchio d’infamia. Allora ciò non è giusto: Se la gente
ha paura della coscienza e di un modo di vita in cui non capisce il significato
in alternanza di un modo o di un altro, così non puòandare avanti.
E’ inutile diore che la gente capisce, non è vero, la
gente generalmente non capisce niente , fra il capire e il non capire finisce
sempre che qualcuno cimette lo zampino. E poi c’è una persecuzione
particolare per questo tipo di conoscenza. Il mondo è ingiusto bisogna saper
rendere al mondo quel che il mondo crede di non rendere conto, il mondo della
Pazzia e il mondo dell’Ipocrisia. Oggi è il mondo dell’ipocrisia, è una
vergogna perché a questo mondo un fatto è sicuro si muore prima del tempo, la
società, si dice che comprende, ioo invece ho esperimentato che la gente non
capisce niente, non c’è più cultura non c’è più genialità aq parte
qualche caso, il mondo si va riducwendo ad una commedia fgalsa e vana. Molte
sono le caratteristiche sociali ma di sostanzioso ci sta poco. Tutti
chiaccherano ma pochi sanno intendere: insomma il Nazismo folle, il comunismo
non esiste, il fascismo è ritenuto come il Diavolo, allora che rimane?
L’anarchia, sì l’Anarchia, il mondo stenta a vivere perché sa che la fine
è prossima ma non è detto che debba essere domani. Gli interessi egoistici
dominano gli animi della gente che non ha saputo perdonare neanche a me la colpa
di essere stato in manicomio, hanno preferito condannare per cause di egoismo
una persona piuttosto di dover ammettere una disquisizione. La situazione è
grave sono tanti i grandi eroi che si sono sdimostrati buffoni che la gente non
crede più a niente ma volevano il Padre Eterno quello sta in cielo e non può
accontentarli. Tempo di anticristo e di aspettative ma comunque esiste il
paradosso fra le forze politiche e la realtà umana. Capisco la diffidenza della
gente è ovvio ma più che paura è male
ed egoismo.
Il mondo strutturalizzato non va più di moda allora perché non vibrarsi
e tendersi come archi, tesi verso l’infinito, una cosa è certa tutto questo
l’ha voluto il Padre Eterno.”
E più sotto
continua:
“....La pazzia per me è sempre un bene io ricordo proprio bene il
periodo della Pazzioa e non ne ho ricordi sconmcertanti anzi di un peeriodo di
benessere. Ma comunque molti sono gli scettici, troppi sono i pesci che non
vogliono abboccare all’amo e non essere pescati. Ho in braccio un bambino
mentre scrivo, l’ingenuità fatta persona eppure non trovo niente di buono in
questo mondo strumentalizzato, le persone sono restie, confuse dal comunismo e
dalla plebaglia, gli istinti nobili sono stati adeguatamente soppressi tutto ciò
è alla mercé dei poveri di spirito, non c’è più una ricerca ed una
evoluzione in senso romantico, i rapporti umani sono condizionati dall’uso del
pensiero organizzato, la morale è questa. Però è inutile, qualcosa deve
succedere, lo so la gente cerca di trovare un rimedio all’ Inferno, al
Diavolo, all’Anticristo, certo è chiaro se la gente pone dei limiti questi
limiti verranno rispettati se la gente rende la vita dura illudendosi di
passarla liscia allora significa che saranno tempi duri, non passeranno 40 mesi
che ne riparleremo se sarò ancora vivo”.
E
conclude:
“Se l’Anticristo fosse stato un fatto storico cioè una realtà si
avrebbe potuto dire che sarebbe stato un mondo normale, almeno io credo. Il
dubbio mi viene pensando a tutte le occasioni perdute ed al contesto sociale. Ci
sono delle responsabilità la Chiesa per esempio ha tradito la sua funzione
originaria quella di essere di guida e di conforto spirituale invece di rendere
il peccato necessario. A me per esempio è stata proprio la religione che mi ha
messo in cattiva luce con gli altri ponendo il male come necessario e quindi in
conseguenza la cattiva coscienza. Fate voi un po’ i conti se il mondo è veramente questo od
è un imbroglio. La responsabilità della Chiesa è certa essi hanno mentito
sull’origine della vita per trarre l’uomo in inganno considerato il fatto
che per l’uomo si apriva una nuova vita ed essa per sopravvivere ha agito così.
Non sentite il battito di questo cuore, di questa vita rinnegata, la nostra
cattiva coscienza. Certo i preti sono oggi come pur sempre, benché una volta
fossero necessari, i nemici più antichi dell’uomo. I preti con le tonache
nere. essi odiano la buona coscienza dell’uomo. Quantunque essa volesse
mostrare le sue buone ragioni e chi glielo impedirebbe. Questo per me è
L’Anticristo. I Farisei, Caifa, i Giudei, i Preti, Cristo criocifisso.
P.S. Questi preti sfruttano la civiltà perché non hanno
nulla da temere.
Conti Supremo, frenastenico”.
Provocatoriamente si
firma “frenastenico”.
In un altro foglio appunta una breve massima parafrasando un detto
evangelico: “molti saranno i chiamati, pochi gli eletti ma tanti i figli di
puttana!” ed altrove: “il mondo è proprio una stalla di pecore in
cui lo spirito si è confuso col lezzo degli escrementi. Purtuttavia si deve reagire e l’unico modo è vibrarsi e
tendersi come archi protesi verso l’infinito.” Al centro di tutto il suo
dire sta sempre la grande sofferenza di vivere fra gente che non lo comprende, “sottoposto
implacabilmente al giudizio della gente come col marchio d’infamia”, che
non gli perdona la “colpa” di essere stato in manicomio, che non accetta di
discutere con lui ma lo condanna pregiudizialmente e senza appello tanto che
vorrebbe essere l’Anticristo per scardinare questa società, si è sentito
tradito anche dai preti,”i preti con le tonache nere”, che tolgono la
tranquillità della “buona coscienza”.
Tralascia a volte
l’uso dei lunghissimi periodiper scrivere sinteticamente ciò che pensa in
frasi compendiose e spesso difficili a capire che invia per lettera sempre
all’amico psichiatra:
“Filosofia esistenzialistica
Oggetto: verità
La coscienza non può finire in questa realtà. Perché la realtà è
eterna in questo sogno fugace che è la vita.
Sentimento mistico o irrazionale:
La conoscenza della propria ragione entro le condizioni dell’esistenza,
che deriva dalla coscienza di sé
A=Appercezione metafisica:
Questa coscienza del corpo (sentimento razionale)
Sentimento mistico.
La coscienza deriva dal fatto delle ragioni delle realtà. Es.
Sentimento metafisico.
In cui..... Il corpo ha coscienza di sé nella conoscenza della ragione
nbelle condizioni d’esistenza.
Processo naturale
Considerazioni:
1° La realtà è assoluta ed imperitura.
2°La realtà che il mondo chiama umana non esiste: non c’è
niente d’umano nella realtà solo la coscienza di sé è la realtà umana.
3°La ragione che fa parte della propria coscienza
di sé è solo derivata dal fatto che è esistita una tale realtà.
4°Il processo naturale della coscienza di sé è un fatto
naturale.
Ultima considerazione filosofica sull’ambiente come
condizione naturale dell’uomo e della propria esistenza.
Ma la ragione è dunque esistita anch’essa esistita questo è il
problema filosofico.
Ricapitolare:
Ma la ragione (essenza da dimostrare=nulla dimostrabile) è dunque
esistita. questo è il problema filosofico che fga parte della ragione
dell’esistenza, che la filosofia trae dalle conclusioni che io stesso pongo
che la ragione dell’esistenza non sartà mai in alcun modo la sua stessa
ragione che il dubbio filosofico è senza confini e non si è filosofi se non
dubitando infinitamente senza accettare altro che la certezza di se dubitare,
eternamante dubitare per credere eternamente peché la ragione non è mai
ragione.
FINE
Tute queste considerazionifino al tempo finora acquisito siano giuste od
ingiuste non fanno parte di quel che di umano si considere ma di una vera
intelligenza di natura -dono?
Grazie
Conti Supremo”
Il nostro Brogiotti
esclamerebbe: ” mi sperdo dinanzi all’esame che mi trova digiuno di
latino”. Vuole certamente stupire lo psichiatra cui manda lo scritto, vuol
forse strabiliarlo, vuole certamente diomostrargli la propria intelligenza, lo
afferma chiaramente , le sue considerazioni filosofiche, giuste od ingiuste che
siano,sono sempre scaturite da una vera intelligenza di natura-dono.
Talora ironicamente indossa la veste dello psichiatra e fa una disamina,
quasi una diagnosi,
circa la propria
pazzia alla maniera degli addetti ai lavori:
“Il parere dello psichiatra.
Il Conti nel tentativo di definire certi suoi aspetti sembra presentare
contenuti masochistici passivi che d’altronde in una personalità dotata come
la sua hanno creato una rivalsa pseudo filosofica, per cui il delitto viene
concepito come estrema azione di rottura fra il mediocre uomo che subisce tutto
dalla vita e viceversa il superuomo nietzchiano, il quale diviene così il
simbolo del dissacramentodi tutti i valori normali ed etici dell’uomo normale.
Distinti saluti
Conti Supremo”
Supremo è cosciente
dei pericoli e dei danni cui va incontro, tanto da parere un masochista, a causa
della sua ribellione al costume di vita del cosidetto uomo normale ma non può
farne a meno, in un quaderno annota “dire la verità quando domina la non
verità procura un tal diletto che l’uomo sceglie l’esilio e anche peggio
per amor suo”; anche il suo interesse per la filosofia, la sua “rivalsa
pseudo filosofica”, fa parte della scelta culturale in reazione ai luoghi
comuni della mentalità corrente. Ammette comunque che la sua filosofia in realtà
è una pseudo filosofia.
In un suo scritto parla della mania di persecuzione che, si badi bene,
non è del paziente bensì della societàche teme gli uomini liberi:
“Il punto è la mania di persecuzione della società, che non può
sopportare la smania che qualcuno può avere di decidere per proprio conto in
piena coscienza quando proprio per
causa della coscienza non si è badato ad uccidere ignobilmente gente che
volevano la libertà e la dignità dell’uomo al disopra di ogni repressione e
di ogni sfruttamento che invece sono alla base del sistema e della vita ridotta
dalla coscienza stessa senza più difese ad un servilismo ignobile e degradante
in cui tutti i valori umani sono capovolti ed il resto ognun sa”.
Di fronte ai
vigliacchi che accettano passivamente le leggi di chi comanda Supremo si erge
come superuomo. Lo scrive al solito amico psichiatra:
“Il superuomo è un fatto naturale, la natura non ha sesso, si può
solo dimostrare attraverso la ragione le capacità intrinseche all’essere che
contraddistinguono le ragioni umane, la regola conferma la ragione, ma se io
portassi le ragioni degli altri non sarei un superuomo e non lo sono forse
stato, se l’eccezione conferma la regola, sì io sono un superuomo, perché la
natura è fatta così ilpeccato lo inventò dio, accusando l’uomo di iniquità,
lo creò ma se l’uomo è un superuomo al dilà del bene e del male. è il solo
padrone di sé stesso, io sono il creatore del mio bene e del mio male ma è
solo un’illusione, anche Nietzche lo diceva non si può andare contro
l’uomo, dio lo creò per peccare, ma si sbagliava pure lui, dio dice io sono
dio, e io dico io solo sono il padrone di me stesso servo solo me, ebbene questo
è un superuomo, nella visione paradisiaca del paradiso terrestre, è nel modo
che avvengono i mali perché l’uomo è una bestia non bastante a sé stesso
sempre in agitaziione per recare il male all’altro per ragione del proprio,
meschino, traditore, ipiocrita e fallace, non nuomo, come Adamo, ma uomo contro
uomo, bestia nell’istinto e nei propositi, che col nome di morale si nasconde
dietro alle sue debolezze, che dissimila, per nascondersi vigliaccamente, allo
scopo di sopravvivere, l’eccezione che conferma la regola il superuomo è
l’eccezione, la natura è il suo bene, la ragione la sua vita,perché
dimostrarla. Quando il mondo si macchia di ingiustizie assai, peggiori, come la
menzogna, chi tradisce il prossimo, rinnega Dio e come Giuda si vende al mondo
boia, il resto è di comune conoscenza. Che sono proprio i più meschini che
fanno le bestie per tradimento, venderebbero anche suo fratello, eppoi dicono
che fa la puttana, e’ lo credo, zotico, ma se t’avessero domato,
l’alzeresti meno le tue pretese, che l’invidia della tua meschinità mi
riempie di disgusto al solo vederti, cafone, che la tua cafonaggine è voluta
dall’inferno, come potresti rendermi giustzia? pure voi siete degli zimbelli.
Io ve lo dico per l’ultima volta.
Conti Supremo”.
Alla fine della
lettera l’amico psichiatra si trasforma in nemico, insiema agli altri
psichiatri zimbello di quel mondo di ingiusti, di traditori, di rinnegatori di
Dio, di bugiardi.
In un’altra lettera testimonia, con acuto intuito e illuminante
introspezione, il cambiare di
natura della follia dopo che il folle è stato esaminato, osservato, studiato in
manicomio dagli psichiatri:
“Egregio dottore,
certo una psicosi è una cosa normale ma conveniente per studiare
e analizzare le situazioni, una vera pappa reale per i competenti e
l’intenditore.
Ho capito che una psicosi è una cosa normale se rimane nei limiti della
psiche, facoltà di ragionamento, facoltà connettive ecc.ecc.; però ho anche
notato che se questa è conosciuta viene studiata ed analizzata diviene una
psicosi strana per la gente che non è pratica ma per chi la conosce rimane
sempre una psicosi normale rispetto alla psiche, ed una vera grazia.
Distintamente i miei più sentiti rispetti.
Conti Supremo”.
Una breve lettera che
fa intravedere tanta verità, le varie sfaccettature della follia, la follia che
non è malattia bensì una modalità della attività psichica, la follia che
rappresenta anche una difesa per il folle, “una vera grazia”, la
follia che solo dagli intenditori può essere capita, che la
“scienza” psichiatrica fa diventare un oggetto il folle mentre lo studia e
lo esamina, gli toglie l’umanità e la normalità facendolo diventare altro,
un oggetto.
Supremo è anche burlone, la follia può servire per sfidare gli addetti
al lavoro, Supremo è anche ironico; e manda un biglietto al Direttore del
manicomio dal titolo “L’agonia del filosofo”:
“C’era una volta un pazzo furioso che in preda a convulsioni girava
velocemente sui piedi intorno a sé stesso. Un infermiere guardandolo stupito
gli domanda come mai girasse così velocemente. A qual modo tutto preso
com’era dal turbine delle sue evoluzioni risponde il pazzo: vedi, dice, voglio
vedere chi ha più paura.
Conti Supremo”
Ad un altro
psichiatra che gli è amico e comprensivo verso di lui, uomo benigno e gentile
quanto mastodontico e massiccio così scrive;
“(Scrivo all’Anticristo cioè a me stesso)
Caro Culettone,
Sai è passato molto tempo da allora quando ci conoscemmo, caro amico. Ma
se Dio fa i mali e gli uomini li rimediano, io non so come facciano gli uomini a
rimediarne così tanti.
Ma con la grazia....
Egregi saluti.
Conti Supremo”
Ma non scrive soltanto agli psichiatri, scrive anche ai compagni di
sventura. Ci sono tre lettere inviate al Brogiotti Tonino, l’altro personaggio
di questo lavoro; tre lettere, l’una più gustosa dell’altra.
Supremo, è stato già detto, aveva tentato di togliere i ricoverati, che
aveva trovato al sesto reparto, dallo stato di acquiescenza e di abiezione in
cui si trovavano cercando di far loro comprendere che la loro vita non era vita,
che avrebbero dovuto lottare per affermare ed esigere il riconoscimento dei loro
diritti di fronte a tutto il mondo, che avrebbero dovuto tornare a vivere fuori
del manicomio superando ogni ostacolo. Trovò, com’era prevedibile,
l’indifferenza e l’ostilità di quei compagni di sventura, i veri pazzi come
li chiama in una lettera, che accettavano e spportavano la vita in quelle
condizioni; e qualcuno fu messo in crisi tanto che Supremo se ne dispiace pur
non potendo farne a meno “ne avranno trovato del danno fra le loro cose
intime a loro e alla loro particolare natura”.
Conobbe il Brogiotti
Tonino al decimo reparto uomini; Supremo aveva ravvisato di portarlo alle sue
idee ma quanto più si affannava quanto più Tonino restava impassibile e fermo
nelle proprie convinzioni. Supremo cercava di impressionarlo con i suoi discorsi
filosofici, strabuzzando talora gli occhi per fargli magari paura ed
impressionarlo esaltandosi da Anticristo ma Tonino restava imperturbabile.
Supremo urlava e Tonino rispondeva quasi sottovoce, educatamente. Perché tra
l’altro Tonino lo stava ad ascoltare. Ma con Tonino Supremo non l’aveva mai
vinta. Per ciò i suoi sentimenti verso Tonino sono contraddittori: lo disprezza
ma gli vuole bene, losberleffa ma comprende umanamente la sua situazione. “Al
distinto Signore “ così gli si rivolge in indirizzo il che è insieme e
una presa di giro ed un atto di rispetto. Una lettera in particolare esprime i
contraddittori stati d’animo, una lettera di auguri di Natale, la terza della
serie:
“Caro amico Brogiotti ora ti spiego tutta quanta la faccenda, per
chiudere una volta per sempre i conti con te. La pazzia è come guardarsi allo
specchio riflette sempre la stessa immagine che si riflette, così io vedevo
sempre me stesso e nonostante che mi sarebbe bastato un consenso mi accontentavo
di quel che avevo mentre voi da ciò ne potevate trarre vantaggio perché
potevate vedere in voi stessi, io dapprima lo ignoravopoi da ultimo me ne son
reso conto appieno che i pazzi non sono tutti eguali, e che non erano come io
avevo voluto essere, ed è per questo che vi sono andato nel culo.
Distintissimi saluti al santo della
combriccola e spero che questo
ti chiarisca le idee una volta per tutte.
P.S. Se vuoi falla leggere anche al becco di tuo padre, quel
povero uomo che faticò tanto a metter al mondo uno stronzo come te, sarebbe
meglio se si fosse fatto una seghe.
Conti Supremo
Rispettosamente
Ed ora parliamo di noi ne ho una voglia matta perché sono sicuro che
questa la porti dallo Psichiatra, per ridere della tua pazzia e della mia
dissennatezza ma tu sai che ero già dissennato prima della tua nascita e che la
mia pazzia era già voluta e destinata, brutto frocio, e che quando ho capito
tutta quanta la combriccola ho penato poco a mettere giudizio, mi è bastato
capire che fra tutti i pazzi come te ce ne sarebbe voluto uno in più, e non
sarebbe bastato, per farne uno solo come me. Contento!
E ora ti auguro col cuore in mano ed umanamente, in quanto tu sai e lo
credo, che io nel profondo sia fondamentalmente buono, e so perdonare i torti
subiti. Buon Natale a te e a tutta quanta la combriccola di matti.E un’altra
volta fai meno lo spiritoso altrimenti ti mangio il naso”.
E Tonino il naso l’aveva davvero grosso. Un continuo tornare a capo,
fra postscripum e riprese, lo tratta male, poi si pente, gli dà del pazzo ma
poi afferma che è più pazzo di Tonino, lo insulta e poi gli chiede scusa
nell’intento di sopraffarlo, compreso il bonario
“altrimenti ti mangio il naso”.
Una vera perla è quel “Risperttosamente” dopo
gli insuti a Tonino ed a suo padre.
Tonino come previsto passò la lettera allo psichiatra senza accennare la
minima sorpresa,la minima reazione, erano problemi che non lo toccavano né lo
riguardavano. Supremo ne era certo, lo sapeva.
Supremo aveva già scritto una lettera a Tonino, indirizzata come al
solito “al distinto Signore Brogiotti Tonino”, lapidaria, una riga di parole
e la firma in cima al foglio, il rimanente della pagina bianco, un silenzio per
meditare:
“Grandissimo figlio di puttana, vai all’inferno.
Conti Supremo”
No comment.
Inimmaginabile la lettra lasciata per ultima ma che è la prima in ordine
di tempo. Il nostro Supremo dopo la morte del padre aveva costretto la madre a
vendere una casa lascita in eredità ed intascati i soldi che gli spettavano era
partito di casa per finirli. Venne a Firenze e prese dimpora al Savoy Hotel,
hotel digran lusso. Da lì scrive al Brogiotti su carta intestata
dell’albergo:
“Carissimo compagno,
sono a Firenze al piccolo Hotel Savoy, pensa che con me ho, ho solo
5.000.000 tutti per me. Anche la pazzia ha il suo pregio, non credi?
Conti Supremo”.
Come dargli torto? Solo a pochi è dato di permettersi ciò che si è
permesso Supremo. C’è una bella differenza fra il manicomio ed il Savoy
Hotel, “il piccolo Hotel Savoy”
come lo chiama e lui è potuto andarci forte dell’esser pazzo diverso
da tutti gli altri pazzi che gli ha pemesso di evadere da ogni regola del
cosiddetto buon senso. Come dargli torto al suo affermare che la pazzia ha il
suo pregio? ma una pazzia diversa da quella di Tonino i cui pregi consistono
soltanto nel fargli sopportare la grama esistenza nel manicomio.
Supremo è un pazzo diverso, troppo
diverso, e lo tiene a precisare. In pochi giorni dette fine ai cinque milioni;
poi tornò al paese dove nessuno era mai potuto essere cliente del Savoy Hotel.
Fra le lettere ce n’è una scritta ad una donna già sua amica che gli
aveva fatto un torto. La lettera comincia con una lunga lista di libri letti e
studiati, libri filosofici, libri di morale, romanzi, libri di storia, gli
autori vanno da Nietzeche a Sartre, da Poe a Baudelaire, poi la lettera:
“Cara amica Sandra;
ciò che è stato commesso ci ha divisi per sempre non potevo immaginare
che tu mi avresti trattato nella maniera che poi mi facesti ma con chi credevi
di trattare con il tuo schiavo, il dottor Zivago.
Comunque è il minimo che tu possa fare per me è rendermi perlomeno i
miei dischi. Perlomeno questo potresti fare e
ricorda quando avrai una cultura come la mia allora potresti anche essere
al mio pari.
Conti Supremo.
P.S.Chi sale ad Eze non pratica più i sentieri sassosi in cui vi accede
il filosofo nel 1882. Oggi vi si arriva praticamente in auto, a destra Polvere
di stelle, a sinistra un folto rosaio di rose rosse americane. Avrebbe detto il
filosofo: amate la vita anche se non sapete il perché solamente perché
essa è bella.
Federico Nietzche in Italy
Se nella parte
centrale parla direttamente al contrario nel preambolo e nell postscriptum dice
con metafore che, poverina, lei è nulla nei suoi confronti, l’uomo è ciò
che legge e lui ha letto molto, e la vita è bella anche senza di lei. “Guarda
cosa hai perso” é il succo della lettera.
Sempre il bisogno di dimostrarsi superiore cela sempre una grande
insicurezza. E specie nei confronti della donna Supremo si sente insicuro e
pertanto vorrebbe esserle superiore. Non è quel che si può dire, fisicamente,
un bel ragazzo il che, messo insieme al titolo di pazzo che gli si è affibbiato
ma del quale si è anche compiaciuto, non ha contribuito a renderlo
appetibile alle donne; la sua naturale scontrosità , il suo essere di natura
solitario e diverso ha rifinito l’opera. La donna lo impaurisce; risulta
chiaro nelle sue considerazioni di uno scritto che invia all’amico psichiatra:
Il serpente
La donna è l’essere più strano che viva sulla terra e che esiste
contro l’uomo nella battaglia alla vita perché fra l’uomo e la donna c’è
il serpente (invidia,rancori, gelosie, tradimenti) di cui la donna è causa di
queste: Per ragione sua nel mondo si genera la discordia; il disprezzo che ha
per la naturae la malvagità di cui si serve per raggiungere i suoi scopi per la
vita che giustifica tutte le sue azioni malvagie permettendole iniquità che
dietro il suo nome vengono commesse.
La sua battaglia per sopravvivere le impone di lottare con ogni mezzo, e
per non essere sopraffatta si serve di ogni strumento, giustificando le sue
azioni nel nome dell’amore, non è forse ciò più crudele della stessa vita,
essa si redime solo nell’amore non per diletto ma per piacere anche se c’è
la vita di mezzo, è come una foglia che si piega al vento, così fa la donna,
in quanto essa avvicina l’inferno al paradiso e impone di forza la ragione
della vita che l’uomo nel dominio della sua volontà che la donna non sa fare
di meglio, o meglio finge di non sapere, dissimula ecco perché l’uomo le è
superiore, è il dramma che sempre si rinnova, il Peccato.
Conti Supremo”
La donna alla radice del dramma del Peccato, l’essenza del peccato
originale, segno di contraddizione, “fra l’uomo e la donna c’è il
serpente”, lei longa manus del serpente, inferno e paradiso, lei insegue
il piacere pur essendoci di mezzo la Vita, lei che sta al disopra di tutto.
Oggetto attivo che d’altronde fa parte della modernità
e del progresso secondo una propria supremazia. Lo scrive in un
biglietto: “La donna a livello pubblicitario informativo e sessuale collo
scopo di trasmettere la società ed il progresso di cui la realtà è a sua
immagine e su cui si conforma la realtà umana secondo l’etica metafisica
della donna e della sua realtà. In cui la donna si cela sul peccato originale
che sta alla base di ogni rapporto esistenziale in quanto la donna è al disopra
della ragione umana e al di sopra di tutto”.
E nel rapporto
sessuale si sente indifeso e fragile tanto che su un quaderno annota: “Ci
si può credere, chi fa da sé fa per tre. Della moralità me ne importa un
tubo” che con altre parole l’ha già detto nel ”se la mano
sostituirà la passera del domani”.
Non è che Supremo
liquidi il problema in un modo così superficiale; allo stesso medico amico
invia un pensiero sull’amore, un pensiero sul rapporto sessuale,
“l’elogio al sesso, sentimento profondo” come lo intitola:
“per chi capisce l’amore,
l’amore è solo un attimo e più nulla, un sogno, una conseguenza senza
esistenza; il cuore del mondo è molto debole a cagione dei molti mali”.
Supremo era un “diverso” ed il “diverso” è un pazzo
perché non sta alle regole specie in quel paesotto dove viveva.Gli stessi
interessi culturali erano diversi, si era entusiasmato nel leggere Nietzche, e
quale giovane non si entuasiasma leggendolo, si era immedesimato nel superuomo,
e rispetto ai suoi concittadini lo era veramente e proprio per questo non era né
compreso né accettato, specie dopo essere stato ricoverato in manicomio, dopo,
era davvero inconfutabilmente un pazzo d.o.c. per tutti.
Altresì era, apparentemente, incoerente; sotto la scorza ruvida del suo
carattere esplosivo contro l’idiozia di chi gli stava intorno si celava un
animo sensibilissimo e delicato. Il problema religioso,di Dio, lo tormentava.
Talora sull’onda degli scritti di Nietzche si scaglia contro Dio, afferma che
Dio è morto, come in questo scritto, complesso, complicato, contrastato:
“E se del superuomo si vuol fare quistione ebbene venga la
portatrice d’acqua al pozzo e mettiamoci a discutere umanamente i pro e i
contro questa miserabile commedia si fa finta di nulla e tutto ricomincia ma se
la pazzia non è più d’ostacolo c’è chi per essa ha lottato per un ideale
non certo da cani, per una dignità, per un senso di omertà, di una giustizia
che non riguardasse solo lui come uomo ma anche dio, una giustizia
trascendentale e non solo il suo misero egoismo d’uomo attaccato ai beni
terreni come il mondo d’oggi che non reagisce né in male né in bene. Bisogna
pur scegliere ma il mondo non ha più posto per questo, oggi questi problemi non
se li pone più, basta l’uomo e dio può benissimo andare al diavolo che tanto
l’ha creato lui e non è certo la mia una considerazione pazzesca nulla mi
vieta di tacere ma se una ragione è filtrata nel mondo questa basta per tutte.
E tutto questo ha finito di uccidere dio, noi l’abbiamo ucciso, io per primo
per amor del proprio smisurato egoismo. Nietzche 100 anni fa aveva ragione Dio
è veramente morto e la capacità di ragionare non è più una capacità umana e
quando mai lo è stata se questa ragione non è più, ben poco rimane da fare.
Anch’io sono l’assassino di dio e sfrutto abilmente questa veritiera
intuizione. E’ vero, sono un assassino perfetto un vero genio della natura e
se non ammazzerete anche me finirete per diventare dementi e i pazzi come sempre
avranno ragione, ma il mondo che fine farebbe. Se la ragione fosse la stessa
allora ci sarebbe una soluzione potrei diventare pazzo completamente per essere
l’anticristo perché lo si sa i pazzi sono i guardiani dei morti e per i morti
tutti i vivi sono pazzi finché nel sepolcro un altro corpo occupa il posto che
gli hanno preparato, credetemi diceva bene Eschilo: i morti sono coscienti di
tutto quello che accade giorno per giorno ai vivi e spesso li influenzano in
modo determinante in modo tale che non si sa più chi sia vivo o chi sia morto.
Io, così disse Iddio, sono Iddio dei vivi e non dei morti, ecc.
Quindi questa realtà spirituale io la conosco molto bene perché io devo
essere stato un Vampiro e vivo la mia vita col solo scopo di evitare che ciò
succeda anche agli altri, la mia è una missione di stregoneria è per questo
che non conosco la realtà umana e sono sempre in cerca della verità finché
non mi avviluppi a un nuovo corpo (Cebete dal Fedone di Platone) il destino del
mondo dovrà essere intellettivo
non occulto in attesa della venuta dell’anticristo.
E’ per questo che sono sano di mente, la natura con i suoi misteri ha
voluto così. Il resto me lo spiegherà il mago.
Conti Supremo”.
Un dialogo più con sé
stesso che con lo psichiatra cui scrive. Nella sua pazzia ha lottato per un
ideale di giustizia soprannaturale; si vanta di avere ucciso dio per poter fare
meglio il proprio comodo, come tutti del resto, ma rammaricandosene. Si esalta,
parla con foga, si contraddice anche,nel susseguirsi incalzante di situazioni
oniriche, il suo potere di far diventare tutti dementi (“ma il mondo che
fine farebbe”)il diventare completamente pazzo ed essere così
l’anticristo, ma anche guardiano dei morti i quali influenzano i vivi tanto
che non si sa chi agisca se il vivo od il morto, un mescolarsi di pazzia, di
morte, di vita. Ma Iddio è Iddio dei vivi, non dei morti. Lui uomo stregato,
forse un Vampiro in una vita precedente vive
la sua vita per fare evitare agli altri i guai che lui ha sofferto; ma non si sa
rendere conto del perché anche se è continuamente in cerca della verità, per
questo è sano di mente.
Resta però un uomo religioso, conserva nell’intimo una fede profonda;
in un breve scritto che intitola “Il peccatore filosofo” così si
confessa:
“anche il peccatore filosofo ha in sé il perdono e la misericordia di
Dio se per peccatore significa aver perduto il proprio senno e seguire il
proprio intelletto giacché è buona cosa l’amor di Dio riposto al bene
dell’anima ed alla gioia di tutto ciò che di buono Iddio ha creato nel mondo;
il misconoscere ciò non sarebbe rendere grazie a Dio”.
Spinto da tali
sentimenti scrive una preghiera, nello stile di una preghiera rituale:
“Il Signore Iddio nostro Dio ci aiuti nel debellare il male di
questa nostra umanità in Gesù Cristo nstro Signore il quale nella sua
misericordia vuole ricondurre il suogregge alla Pace Perduta nelle iniquità di
cui la mente dell’uomo si è colpevolmente macchiata e fra i mali infiniti di
cui è causa per sua colpa che altres’ sarebbero i suoi profondi beni.
Preghiamo.
Signre Iddio, abbi misericordia per i tuoi fratelli in Cristo.
Conti Supremo.
Se siamo fratelli di Gesu Cristo, e Gesù è Dio, siamo fratelli di Dio.
Con eguale partecipazione emotiva comunica in versi analoghi contenurti:
“Canti di Gloria al Signore
Pace a te o Signore
Pace a te o Dio
Volgi a me il tuo sguardo
volgi a me la tua mano
non lasciare che io muoia senza di Te.
Piaccia a te mio Signore
dare a ciò la tua
misericordia,
delle opere tue lo splendore,
che la tua onnipossenza a ciascuno sa dare,
grande prova della tua bontà,
della tua grandezza e dei tuoi prodigi
sulla terra dei simili tuoi immagine
e somiglianza del tuo creato.
Supremo invia anche le sue poesie a leggere ai suoi amici psichiatri,
“io sono anche questo” sembra dire loro, “e
lo mostro a voi che mi avete giudicato mentecatto”.
A Friedrich Nietzche scrive una poesia intitolata “ Il dominio
dell’intelletto”:
Del mio modo di vivere
......forse.....
nella tua anima!
la coscienza non avrai.
Della tua delicata ombra,
luce splendente per chi sa
riconoscere
in te
uno spazio
di luce nel mondo e di luce
nel fare tuo,
creatura
creata
dal cielo, in terra.
Angelo, dalle ali di ombra,
del tuo paradiso pensiero
per chi ti conosce,
e sogno fuggitivo
dichi dalle tue ali,
al vento
agitate, si perde
nell’ombra che risplende come fiammella
nel cimitero in compagnia dei morti,
Tu sei la Dea della vita, dallo sguardo triste e profondo:
Della rimembranza dei miei ricordi sei l’anima mia”.
Tutt’intorno alla
poesia scrive: “io vorrei vivere questa breve estate senza alcuna
intenzione profana”.
E scrive in versi anche a sé stesso, al dolce Superuomo:
“O dolce superuomo
isrione dalle anguste
vedute e dal tuo
consueto fare
nel lubrido tuo sepolcro
te ne stai,
cerca cerca
qual’è tu lo sai
non c’è posto per te
solo la tomba
accoglierà
i tuoi bianchi resti.
Nel pensiero dell’illusioni
cerchi la tua speranza
in un mondo non fatto
per te
cerchi l’unica speranza
che ragione non trova.
e che lui commenta:
“La vita dell’uomo è come la verità, un rincorrere la verità,
un rincorrere sé stesso nel tempo di ciò che si è e di ciò che si fu?
L’uomo è mosso da un forte vento che si chiama esistenza.
La vita dell’uomo non è che un buffo giuoco fatto in società per
sopportare l’uomo con l’altro e perdonare con le lacrime agli altri le
altrui debolezze nella realtà della finzione da cui ognuno cambia la ragione
del proprio essere, ma quando all’orizzonte della vita il cavallo nero della
morte appare all’orizzonte col suo maestoso cavaliere nessuno ride più. Perché
l’uomo pensa più alla vita che alla verità”.
Non ci è dato commentare le sue poesie anche perché non hanno bisogno
di spiegazioni tanto sono chiare tanto più se abbiamo, per quanto ci è
possibile, capito Supremo. Sarebbe poi sciuparle da quanto sono delicate e
fragili, si passerebbe da superficiali e da presuntuosi. E’ doveroso semmai
tener presente, per una migliore comprensione, come Supremo usi la parola
“ragione” tante volte, la usi per i vari significati che ha, nel significato
di causa, motivo primo, nel significato di prova,di argomentazione, nel
significato di facoltà intellettiva, nel significato di diritto, l’avere
ragione.
Come in questo componimento nel quale ricorda i giorni passati in
manicomio:
“La bella vita nell’ambiente
Qualunque sia la ragione, non ha colpa la pazzia
dal suo disprezzo genera disprezzo.
E’ come un sasso che rotola giù dal monte
tutto travolgerà.
O solo il ricordo sembrerà ch’esso sia esistito.
L’amore non si potrà dimenticare,
quest’ultima ragione della realtà.
Su, fatti da parte uomo, e la verità, che tu hai calpestato,
ti tenga il passo.
Che io debba passare ove sei caduto perché la ragione rimanga, e la fede
non sia vana,
inn verità, la verità di questo mondo, non ha colpa la verità,
né ha colpa la colpa, che tutto travolgerà insieme a lui.
Potrà esso dire basta. A torto o Ragione, o è la stessa cosa.
Che la ragion non trova.....
Sempre sulla follia
compone altre due poesie che invia, scritte sullo stesso foglio insieme alla
precedente, allo psichiatra cui è affezionato:
“La sola ragione della follia.
La verità non fa male a nessuno
solo la cattiveria fa scudo alle mie parole,
e qualunquecosa faccia è sempre fatta male.
Nel desio del ricordo dell’ebrezza del passato
il vago pensiero va e passa oltre il tempo!
Solo questo so non essere, per dover essere;
Pazzo, pazzo io son soltanto?
“La speranza perduta.
Ov’è il buiop della ragione di sé
negli occhi solo lacrime,
bisognerà fare l’amore sotto terra
frai Morti perché questo mondo non ce lo permetterà,
nella realtà perenne far solo un giuramento solenne.
Di profonda
intuizione secondo la psicopatologia relazionale
sono i versi “e qualunque cosa faccia faccio male”, “solo questo
so non essere, non essere, per dover essere” e “pazzo, pazzo io son
soltanto?” nei quali balza lampante la situazione di “doppio legame”.
Si duole della sua ingenuità e della altrui malvagità:
“Chi lo poteva pensare che nella
felicità ci fosse il verme
roditore che ti rodeva la carne
per farti morire.
Chi poteva pensare che nel
mondo dell’anima senza perché
ci fosse in un altro mondo
sconosciuto che ti preparava
la fossa per metterti sotto
terra; chi poteva pensare
che c’era degli esseri che
di nascosto pensavano
nelle loro menti di vendicarsi
per farti morire, chi poteva credere
in questo mondo, in un altro
mondo che di sotto terra
ti preparava la bara
per sotterrarvici vivo.
Chi poteva pensare oltre
agli uomini bestie primordiali
fatte uomini ancora prima del
tempo nate per uccidere l’uomo.
E protesta in:
“Contro di te.
Tu uomo non hai diritto di togliemi la vita,
perché Giuda l’hai inventato tu, e sei tu,
l’Anticristo dici che è il mio nome mentre la bestia che dici tu sei
tu.
Il figlio dell’uomo è ciò che sei, e ciò che vorresti essere.
Io sono Adamo, colui che non fu.
Tu dici io sono niente. Mentre tu sei tutto. Dici il vero. Ma solo
metà.
L’altra metà sono io”.
E continua dopo la
poesia:
“E’ meglio tradire la legge piuttosto che negarla e opporsi alla
volontà di Dio che non permette che si usino simili sistemi che sono contrari
alla sua Santità e al suo Nome, che la legge può essere anche violata ma non
contraffatta e usata a modo proprio per i propri fini. E a questo scopo che la
sua malizia nel vedermi si è riferito a questo dato di fatto per mettere la mia
fede alla prova. E perché superassi il limite della realtà in cui voleva
attrarmi per farmi cadere in errore.
I componenti di un’operetta sono 837 escluse le donne. E tornerebbe lo
stesso numero. Compreso il primo attore che sei tu”.
“Conti Supremo”
Solo conforto è il
pensare:
“Come il cane gli animali
di laggiù dal profondo
della notte,
agli occhi spenti, il sole i suoi raggi
raccoglie il pensiero
allo sguardo la mente
i suoi fulgidi bagliori
rapprende,
che risplendono e rifulgono
accecanti di luce,
la vita illuminano,
il tardo pensare; in loro riposto
l’anima sua di bestia una carezza
rallegra.
Ed interessante ed originale è la poesia che segue con quel mettere in
mezzo alla poesia un brano di prosa:
“La vita si sconta con la morte.
Col sangue si uccide,
col sangue si vive,
colla notte si sopravvive
alla vita, coll’uomo, si spera, con sé stessi si muore.
Se l’uomo uccide sé stesso con le proprie mani quanto mai
dovrà temere di uccidere col pensiero le sue mani assassine ed essere così il
suo carnefice e vittima del proprio inganno, l’uccidere colle proprie mani e
col proprio sangue.
Coll’amore si pensa
si pensa coll’amore,
sperando si ama
amando si muore.
In due composizioni
che sembrano frammenti così canta:
“Sole spento senza più calore
né luce nel cuore
fu un meriggio a portarlo in alto.
Piangerà solo chi ha creduto nelle favole.
E il mondo è fatto così.
Ma è anche pieno di sarcasmo; ricordando il manicomio così scrive:
“Mutande e merda
canzoni e poesie”.
Od ironico e, nella seconda, umoristico citando una vecchia barzelletta:
“Dio salvi la Regina
ed a San Salvi si salvi chi può”.
“E’ andata tanto in là l’onda
che la si è sentita pure di quà”
“Gesù Cristo”.
Supremo, di fondo, angosciato sempre dal dolore cui sovrasta
sovrana la morte; la sua vita è intrisa di morte, la sua dimora terrena è un
sepolcro in cui attende l’ora ultima:
“Ultimatum senza pretese”
“Abbassa o muro le tue ali
e spezze le tue ossa
nel tuo sepolcro deserto
e muto
di un morto vivo
che aspetta di risuscitare colla sua schiera
o promesso sposo con la morte
congiunto nella sua ora fatale”.
Ma anche con un
grande desiderio d’amore che gli viene negato, amore che è vivere e morire
all’un tempo:
“Quando l’amor si struggerà
in una dolce passione
dimentica il sogno
per morir senza mano e senza follia”.
Un poeta, un vero
poeta, così l’ho conosciuto ed apprezzato, che ha sofferto nelle sue carni e
nel suo spirito la cattiveria del non essere compreso, voce soffocata in gola,
speranza schiacciata nel sorgere; ma cche contrinua a pensare, continua a
scrivere anche poesie, solo per sé, solo per gli psichiatri amici che da parte
loro poco le comprendono e le apprezzano. Ne sono venuto in possesso di poche,
molte altre ne avrà scritte che non mi è dato conscere, molto probabilmente più
belle di queste che sono però bastevoli a farci gioire nell’avere trovato un
poeta, un poeta nascosto come tanti, infiniti altri, ce ne sono al mondo.
Per ultimo questo anelito, pregno di delusione:
“Cieli chiusi in una stanza
pensieri al dilà del tempo;
nel mondo iniquo
il riflesso della perduta speranza.
Ma in chi e per chi canzone mia
canti
questa poesia della perduta gente?”
Con tutto il cuore vorerei che il desiderio di Supremo, di far sentire il
proprio canto, non fosse una perduta speranza bensì una speranza avverata,
vorrei che fosse soddisfatto di aver cantato almeno per noi la sua canzone.
Un ciottolo raccattato per un viottolo, che magari una pedata l’aveva
buttato ai margini. Ma carezzandolo per levargli di dosso la polvere ci si
accorge di aver davanti una pietra preziosa. Mi è capitato con Supremo.