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I DIMENTICATI. | ||
di Giuseppe Messina | ||
Fotografia di Stéphane Malysse |
I DIMENTICATI Quando
la Chiesa “scoprì” il “lager dei piani di Modena” non pochi pensarono
che dietro le denunce, le buone intenzioni e i buoni propositi, si nascondesse
l’interesse ad accaparrarsi un business di qualche decina di miliardi di lire. All’inizio
qualche fugace visita di rappresentanza di gruppi di giovani e poi, via via con
maggiore insistenza, pressioni, denunce, televisioni e mass media. L’ospedale
si era trasformato in un teatro di avanspettacolo dove ognuno recitava una
parte: gli ammalati divennero solo comparse di una scena che si rappresentava
lontano dal loro mondo, da quella che per anni era stata la loro casa. Si
girava nelle Procure, nei Ministeri, nelle stanze dei bottoni, nelle assemblee
sindacali, quasi che si parlasse di materiali da spostare da un magazzino ad un
altro. Tutti
si mossero ai massimi livelli: Ministero della difesa, Ministero della sanità,
vertici militari, testate giornalistiche e televisive nazionali: quei piani di
Modena, ai più sconosciuti, divennero improvvisamente famosi. Fotografia di Stéphane Malysse Durante
una trasmissione televisiva conobbi un Direttore di redazione del TG1 che aveva
approntato un servizio per una famosa trasmissione della sera: “I
Dimenticati” era il titolo del servizio. Il giornalista mi si rivolse con fare
affabile e cordiale, mi disse che avrebbe riportato solo la “verità”, ma il
risultato fu quasi mezz’ora di primi piani su piedi nudi, ciotole di latte,
mosche che vi si posavano, cornicioni scrostati, e quant’altro, Il tutto
intervallato da interviste con medici, infermieri ed anche qualche ammalato. Un
commento da catastrofe naturale e un sottofondo musicale dai toni tetri ed
angosciosi, realizzavano un’atmosfera da inferno dantesco. Subimmo
questa inverosimile situazione senza realmente opporre alcuna resistenza:
evidentemente i sensi di colpa erano più forti della rabbia e della nostra
stessa aggressività. Umiliati
e colpiti nell’orgoglio, difendevamo posizioni indifendibili, arroccandoci ad
un ignobile scarica barile, sperando tutti, chi più chi meno, che tutta quella
messinscena sarebbe finita, come spesso avviene nel nostro paese, in una bolla
di sapone. “Giù
le mani da Girifalco” tuonavano intanto sulle pagine dei giornali i poteri
forti di un manicomio, che, a poche centinaia di chilometri, ancora oggi aperto
(seppure sotto mentite spoglie), era invece riuscito a riconquistare quello che,
solo in punta di stivale, era stato sottratto e saccheggiato. Anche
adesso il reggino mostrava invece i suoi limiti: parolaio, vittimista,
scarsamente produttivo, carico di riserve mentali, dimentico erede di una civiltà
(quella greca) maestra di operosità e di democrazia, si faceva sopraffare dal
potere e dalle promesse mai mantenute: evidentemente la folle rivolta degli anni
’70 non aveva insegnato nulla! E
così, nonostante le riunioni assembleari quasi quotidiane, ognuno ebbe la sua
fetta, solo il manicomio riuscì a perdere tutto: un’area tra le più belle
della città, un patrimonio di oltre sette ettari regalato, senza nulla in
cambio, per la realizzazione di una caserma! Molto
si sarebbe potuto fare utilizzando bene quel patrimonio, ma invece si spesero
altri soldi, miliardi a fondo perduto per finanziare strutture poi rivelatesi
inagibili, gestite part-time da un pubblico lentamente divenuto succube del
privato cosiddetto “non profit” e degli imprenditori. Dopo
molti anni, una “legge finanziaria” stabilì che (da allora in poi) i beni
ceduti dagli ex-ospedali psichiatrici avrebbero dovuto essere pagati alle
amministrazioni, se utilizzati da altri enti, ma, paradossalmente il primo ed
unico manicomio veramente distrutto, non potè godere di alcun beneficio, perché
la legge non era retroattiva ed anche il “bonus” previsto da una successiva
“finanziaria” per quelle Regioni che avevano provveduto per tempo a chiudere
i manicomi, non venne applicato alla Calabria, per la presenza nel territorio
dell’Ospedale di Girifalco, ancora aperto! |