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 Chronology

 

LA  "MAMMA"  DI TUTTI
di Giuseppe Messina
    Foto di Stéphane Malysse

 

 

Come facciamo a trasmettere agli italiani queste piccole e semplici cose; come facciamo a vincere il pregiudizio, lo stigma che grava sulla malattia mentale, che è un problema di tutto il mondo, perché la malattia mentale fa paura, perché si ritiene che sia inguaribile, perché se capita in famiglia fa vergogna, ci si sente colpevoli.

 

Ancora oggi se cerco di ricordarne il nome non ci riesco, ma che si chiami Carmela, Giovanna, Francesca, ha poca importanza, perchè tutti la conoscono come “mammà”.

A tutti dice " tu sei mio figlio " ed accompagna le parole con un sorriso e una carezza.

La conobbi al reparto D'Antona e quasi subito mi fece tenerezza: seppi che, giovane donna, sposata, con figli, era stata ricoverata in ospedale perchè affetta da una patologia che oggi potremmo definire di tipo paranoide. La sua famiglia di origine era di un paese della provincia di Reggio, ma lei aveva vissuto gran parte della sua vita in manicomio.

La “mamma” era una donna operosa e molto attiva, spesso aiutava le altre malate, le consigliava, dava loro una mano quando avevano bisogno.

Non chiedeva mai nulla in cambio, ma anzi si sentiva offesa quando qualcuno le impediva di svolgere le sue faccende. Mi parlò molto della sua famiglia e soprattutto dei suoi due figli (quelli veri), che evidentemente amava molto, intervallando il suo racconto con costruzioni fantastiche e deliranti.

La ricordo sempre allegra e contenta: una sola volta, qualche anno fa, quando era già chiuso il manicomio, ho visto il suo volto rabbuiarsi e rattristarsi.

Aveva ricevuto una lettera dalla sua figlia maggiore, che le annunciava il suo prossimo matrimonio e la sua disponibilità a far sì che la mamma (stavolta veramente), partecipasse alla cerimonia.

Ad un primo momento di smarrimento, seguì una grande commozione, ma soprattutto un enorme entusiasmo che condivise sia con gli altri ammalati, che con il personale.

Si preparò con grande cura, cercò un vestito adeguato, si recò dal parrucchiere.

Il giorno prima del sabato stabilito, un “già visto” che credevamo sepolto dal tempo e dalla legge: una telefonata, poche parole, ancor meno spiegazioni " mamma, mi dispiace, non posso venire a prenderti ".

Il fatto non ci meravigliò poi tanto, di queste storie ne avevamo vissute a centinaia in quel manicomio che credevamo chiuso, ma la mamma pianse, per la prima volta il suo sorriso fatuo, divenne dolore sincero, poche lacrime, poche parole e, come sempre, nessuna invettiva, nè rancore.

Oggi forse ha dimenticato, la vita in comunità, la salute instabile, il tempo…...

La mamma ancora oggi mi saluta ogni mattina con la solita frase “figlio bello, come stai?”