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IL MIO "AMICO" E. | ||
di Giuseppe Messina | ||
Foto di Stéphane Malysse |
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restano che il fatto di esistere, il peso della contingenza e la corporea
cenestesia
Al
Reparto Miraglia vi era un solo ammalato problematico, E., spesso legato al
letto perchè autolesionista, era un ragazzone macrosomico dalla voce tonica e
cupa.
Aveva
tentato più volte il suicidio soprattutto soffocandosi con le dita in gola,
spesso vomitava sangue per questo suo “vizio”, talvolta era aggressivo.
Lo
conobbi legato a letto, con una flebo inserita, perchè non voleva alimentarsi.
Mi colpì la sua voce, il saluto spontaneo, il sorriso ebetoide. Lo feci
sciogliere e lo portai un po' a spasso. Fu molto contento e mi chiese di potermi
venire a trovare durante i pomeriggi di guardia.
Così
ogni volta che ero di turno, alle 18,00 in punto, E. era in Direzione ad
aspettarmi: nelle molte ore che trascorrevamo insieme, gli piaceva molto parlare
della sua vita, anche se io, ancora giovane ed inesperto, pensavo che i suoi
racconti fossero solo frutto della patologia mentale che lo affliggeva!
Una
sera gli proposi di rimanere a cena nel mio alloggio: non mangiava da molti
giorni e si reggeva a stento. Ne fu entusiasta e così cucinammo insieme un
barbecue con la “solita” brace che il “Papa” aveva preparato in un
secchio.
Da
allora il rito si ripetè ogni sera: E. portava in cucina la brace, io cucinavo
la carne, mentre lui apparecchiava.
Non
riuscivo a capire, ma E. si comportava “normalmente”, mangiava regolarmente,
forchetta e coltello e neppure una volta, che fosse una, si mostrava agitato o
nervoso.
Anche
quando improvvisamente dovevo spostare il turno e non potevo avvisarlo, se ne
tornava in reparto, digiuno, senza protestare.
Una
sera mi chiese di accompagnarlo a conoscere i suoi parenti in una cittadina
della Piana di Gioia Tauro, dove era nato e, siccome in quel periodo lavoravo
anche per l'INAM di quelle zone, una mattina andammo insieme a trovare i suoi
parenti: ore ed ore di ricerche, vaghe risposte, indirizzi inesistenti, “forse
sono emigrati”, ma della sua famiglia nulla.
Non
capivo, ma avrei capito.
Il
30 Aprile del 1979 il mio primo periodo in Ospedale si chiuse, dovevo
presentarmi a Firenze il giorno dopo per il servizio militare: E. a suo modo capì,
mi portò un grosso mazzo di fiori di campo che aveva raccolto e senza una
lacrima, ma con un'espressione di tristezza mista a rabbia, si allontanò verso
il reparto.
Dopo
alcuni mesi a Firenze, vengo chiamato a prendere servizio “di ruolo” in
ospedale e mi si chiede di presentarmi con urgenza.
Al
mio arrivo chiedo di E. e mi si dice che è legato a letto da tempo perchè ha
dato fuoco alle cartelle dell'archivio ed ha “lapidato” la macchina del
Direttore, per lui, responsabile della mi partenza.
A
letto il suo sguardo è sereno, dolce, per nulla rivendicativo, non mi chiede di
scioglierlo.
Trascorro
minuti a spiegargli il motivo della mia partenza, gli mostro la divisa che
indosso, mi sembra che capisca: una lunga passeggiata e la reciproca promessa di
riprendere i nostri barbecue…..
Al
ritorno dal militare sembra che nulla sia cambiato, ma non è così: la legge
180, ha determinato una fuga dall'ospedale di medici e personale, restiamo solo
in tre o quattro e io vengo destinato ai due reparti femminili dove avevo
cominciato.
E.,
adesso capisco, non avrebbe potuto mantenere la promessa fatta, morì qualche
giorno dopo il mio rientro.
Ma
anche la morte in quel luogo acquistava un diverso significato, faceva parte del
gioco, intrisa delle stesse dinamiche e delle identiche contraddizioni.
Assistetti
in silenzio all'autopsia, un boccone in gola, forse nemmeno un suicidio, aveva
soffocato E.: pochi minuti, un ultimo saluto ed un'auto dove mi sembrò di
riconoscere una delle persone che avevo incontrato durante la nostra uscita ai
piani di Gioia Tauro e che aveva depistato le nostre ricerche!
Il
feretro si mosse veloce con al seguito una famiglia che si era vergognata di
lui.
Cominciavo
a capire!