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 Chronology

 

UNO SGUARDO OLTRE LE SBARRE.
di Giuseppe Messina
Foto di Stéphane Malysse

UNO SGUARDO OLTRE LE SBARRE

 

Parlare oggi, a così tanto tempo di distanza da quando per la prima volta ho messo piede in quell'ospedale, potrebbe sembrare un'impresa ardua, difficile, ma l'esperienza fu talmente scioccante che i ricordi rimangono ancora nella mia memoria con una tale freschezza, che io stesso mi meraviglio.

Oggi, peraltro, quella struttura non c'è più, il ricordo non è sostenuto visivamente, se non da un dipinto “naif” appeso al muro di un Centro di Salute Mentale e realizzato da un paziente, in molte copie tutte uguali, quando si trovava “ricoverato” in OPG: oggi una legge, non so quanto giusta, ma certamente necessaria, lo ha cancellato, facendo sorgere una Scuola per Allievi Carabinieri.

Oggi del manicomio di Reggio Calabria è rimasta, quasi un controsenso o una scelta divina, solo la piccola chiesetta, lassù in cima al colle, circondata dalle grandi costruzioni in cemento, moderne, che la nascondono alla vista di tutti.

In quel 27 dicembre del 1977 attraversavo assieme a mio cugino (medico dello stesso ospedale e mio maestro) il lungo viale che portava alla piazzetta principale, dove tutti si imbattevano nell'ammalato più conosciuto che si faceva chiamare "Papa Rocco".

Anch'io lo incontrai, sdraiato nella sua carriola, abbronzato, con in mano la falce, unica vera amica delle lunghe giornate di lavoro.

Posteggiai la mia 500 di fronte ad una statua del Sacro Cuore di Gesù: il Cristo portava al collo dei drappi rossi ed ai piedi aveva applicato un lungo tubo a mo' di cannone.

In quel momento non capivo, ma in seguito tutto sembrò chiaro.

Tutto era vecchio: il portone d'ingresso, i vetri delle finestre, i mobili, persino le cose acquistate di fresco si conformavano col vecchio fin dal primo giorno.

Non c'era nè buio nè luce quando attraversai il corridoio che portava alla Direzione. Dopo un fugace, quanto istruttivo giro per alcuni reparti, mio cugino mi presentò al Direttore: era un medico molto conosciuto che aveva cominciato da qualche tempo un progetto di apertura dell'ospedale all'esterno, assieme a 4/5 giovani medici che ne condividevano le idee.

Mi parlò in maniera forbita, ma amorevole, non sapeva che avevo già visitato i padiglioni e mi diede una descrizione dell'ospedale estremamente tecnica, ma del tutto diversa da quella che io avevo potuto constatare.

Avevo solo 24 anni, oggi ne ho quasi 50, posso dire che metà della mia vita l'ho trascorsa tra quelle mura e, dopo la chiusura, in quelle che oggi chiamiamo strutture territoriali.

Allora per apprendere non c'era tempo, studiare avrei potuto farlo sempre, ma dal primo giorno quel luogo così inusuale, mi aveva affascinato e sapevo che la mia scelta sarebbe stata quella della vita.

Conobbi nei primi giorni tanta di quella gente come non mi era mai successo, mi spiegarono le leggi quelle iscritte e quelle non scritte, che disciplinavano la vita dell'ospedale.

Le norme erano facili da apprendere, ma le leggi non scritte, quelle che realmente governavano il manicomio, mi fu veramente difficile capirle e, soprattutto, accettarle in poco tempo.

Mi chiedevo perchè un gregge pascolasse indisturbato nei cortili e nei giardini dell'ospedale, perchè alcuni ammalati attraverso le sbarre distribuivano da grandi lattoni un liquido scuro che chiamavano caffè, perchè alcune persone vagavano per i viali ed altre erano sempre chiuse all'interno dei recinti, alcune delle quali urlavano “ammanettate” alle ringhiere.

I primi giorni non capivo, in seguito tutto sarebbe stato più chiaro.