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FRENIS  ZERO F m g m i s

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

 

 LA PAZZIA DI 

GUY DE MAUPASSANT           

  di Renato Bettica-Giovannini

 

(da  Rassegna di Studi Psichiatrici, vol. XXXIX, 1950)

 

Egli stesso disse d’essere entrato nella letteratura come una meteora; e, destino d’artista e d’uomo, come una meteora entrò nella vita, come una meteora ne uscì: quando, poco più che quarantenne e glorioso tanto da meritare il nome di Boccaccio moderno, aveva tentato perfino, spinto dalla sua follia, a togliersi la vita che, nei momenti della crudele lucidità di mente, gli appariva ormai insopportabile ed inutile d’essere continuata. Non ci sono più dubbi, ormai, sulla malattia che afflisse il De Maupassant, secondo gli studi  numerosi sulla sua personalità psichica, che, da quello del Lagriffe a quello del Lumbroso, da quello del Lacassagne a quello del Tasart, da quello del Bianchi a quelli del Giachetti e del Padovani, per citare i più importanti, hanno tentato di penetrare nell’anima di colui che, <<meraviglioso avventuriero e pellegrino>>, come disse lo Zini, <<esploratore moderno del reale e dell’irreale, di tutti i mondi del concreto e del sogno>>, dopo aver visitato e percorso, <<sotto il vigile occhio folgorante del sole, sullo specchio liscio dell’acqua, nuovo Re del mare della saga scandinava, tutto l’Oceano della vita, con infaticabile ardore, cercando e conquistando la sensazione, come i suoi avi cercarono e conquistarono le città e le navi da predare, i regni da dominare, finì col diventare il sovrano delle sue stesse fantasie e concluse il suo viaggio nel regno della follia e della morte>>.

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  Bazin, Ernest. Leçons theoriques et cliniques sur le syphilis et les syphilides. Paris: Delahaye, 1866.

Il problema che più ha interessato i curiosi della vita e della follia dello scrittore francese riguarda l’inizio del suo male, ed i rapporti che intercorrono tra esso e l’opera letteraria. Cipriano Giachetti, nel suo interessante volume su <<La fantasia>>, studia la paralisi progressiva in rapporto agli artisti, e si domanda: <<Il poeta, lo scrittore, il musicista che hanno impresso nell’opera propria orme speciali che restano ad affermare l’originalità in mezzo agli sforzi congeneri, daranno nella devastazione della paralisi progressiva sintomi del loro decadimento, oppure la fantasia si annullerà di colpo, si disperderà come nebbia e non ne resterà niente?>>.

In uno suo studio sopra le modificazioni dell’arte nella pazzia, Carlo Pariani aveva scritto che <<la paralisi progressiva può recar danno a tutti gli strumenti psichici e fisici del lavoro d’arte. E innanzi tutto, insieme con l’indebolimento generale dell’intelligenza, si avrà diminuzione o scomparsa dell’invenzione che è la facoltà più elevata ed una di quelle forme superiori dell’attività psichica che prima si dissolvono nel processo demenziale>>. Il perturbarsi della fantasia, nota di Giachetti, è breve e non facilmente avvertibile: l’annullamento è rapido. <<La fantasia ha bisogno di avere le altre facoltà integre per estrinsecarsi, essendo preordinata ad un fine e mantenendo sempre, anche nelle bizzarrie e nelle anomalie, un certo ordine, una coerenza sua propria  che è, come tutte le altre caratteristiche della fantasia, molto soggettiva e personale: quindi una distinzione tra normale e patologica, anche qui è impossibile: la fantasia o c’è o non c’è: se una malattia disturba i rapporti fra le funzioni psichiche, la fantasia si annulla e ne restano solo delle immagini isolate e senza costrutto>>. Accade, perciò, un fatto stranissimo, in qualche artista affetto da paralisi progressiva: <<la fantasia nel disastro invadente ed inesorabile delle altre facoltà (memoria, coordinazione) nel sopravvenire dei disturbi organici, conserva, almeno nei suoi primi stadi  i noti caratteri: ad una attenta osservazione vediamo che si fa più  monocorde, più limitata di soggetti d'invenzione, di un tono improntato più su una stessa nuance; rispecchia, alle volte, i perturbamenti anormali di un organismo già tocco del morbo, ma pur tuttavia, conserva le linee generali della sua primitiva condotta, a tal grado che - per quanto molti pretendano il contrario e si sforzino di mostrare i sintomi morbosi con l'opera di chi sanno malato - sarebbe in realtà impossibile per uno spassionato lettore che non conoscesse l'anamnesi e lo stato anormale dello scrivente, immaginare e tanto meno diagnosticare dalla sua prosa o dai suoi versi la malattia dalla quale egli fosse affetto. Non bisogna dimenticare che, necessariamente, le dimostrazioni del parallelismo fra l'opera di uno scrittore e la sua pretesa etiologia morbosa sono fatte quando non resta più niente a dimostrare sulle condizioni fisiche e mentali dello scrittore e non è quindi difficile, con la maggior buona fede del mondo, accomodare, per una specie di suggestione che porta a seguire un punto di partenza, i fatti alle pretese cause>>.

 

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Respinta la diagnosi del Lacassagne, (che si trattasse di un delirio sistematizzato progressivo), è accertata oggi da tutti la diagnosi del Lagriffe: paralisi progressiva in soggetto con grave ereditarietà morbosa, anche similare, fortemente nevropatico, sifilitico e alcoolista. Franco Sabelli, alla sua ricostruzione e traduzione dei due romanzi, <<L'anima estranea>> e <<L'angelus>>, lasciati incompiuti dal de Maupassant, ha premesso un breve scritto sulla follia e sulla morte del novelliere: scritto lineare, senza domande scientifiche, cronologiche. Nel 1878, a ventotto anni, il Maupassant, già stanco della vita della città, degli esercizi sportivi intensamente praticati, dalle aspirazioni artistiche non soddisfatte secondo il suo ambizioso desiderio, dei piaceri sensuali ai quali già, sin da allora, si abbandonava, scriveva all'autore di <<Madame Bovary>>: <<Il me vient par moments des perceptions si nettes de l'inutilité  de tout, de la méchanceté inconsciente de la création, du vide de l'avenir (quel qu'il soit), que je me sens venir une indifférence triste pour toute chose>>. Eppure, aggiungeva: <<Vivo, ancora nel mio disgusto, nello scoraggiamento e nella tristezza; assaporo l'amara voluttà della delusione>>. E', in fondo, lo stesso grido che echeggia in non pochi dei suoi scritti. In <<Forte come la morte>>, scrive: <<Io mi chiedo se non sono malato,  tanto m'assale il disgusto di ciò che un giorno facevo con un certo piacere o con una rassegnazione indifferente. Non ho più nulla nello spirito, nulla nell'occhio, nulla nella mano. Questo sforzo inutile verso il lavoro è esasperante. Che cosa accade? Stanchezza dell'occhio o del cervello, esaurimento della facoltà artistica o debolezza del nervo ottico?>>. Il mal d'occhi del Maupassant incomincia nel 1880: cinque anni dopo, per questo disturbo che va sempre più aggravandosi, è costretto a tratti ad interrompere il suo lavoro. Gli occhiali non servono più, quando alla debolezza visiva si aggiungano i disturbi più gravi del sistema nervoso: lo scrittore non può scrivere, ha bisogno di un segretario. Il suo sguardo, ch'era vivo, chiaro e sincero, diventa, come testimonierà più tardi un suo amico, il De Heredia, fosco, inquieto e vuoto. Lo scrittore sente che la vita va sfuggendogli. S'abbandona, scrive il Sabelli, ad ogni accesso di vita, obbedisce senza misura alle esigenze imperiose dei sensi, si dà, più intensamente che può, al lavoro ed ai viaggi, ricorre a tutti i mezzi, all'etere, alla cocaina, alla morfina, all'haschisch, pur di rimediare all'esaurimento cerebrale del quale incomincia ad impensierirsi, cerca ogni genere di nuove sensazioni, perfino quelle dei profumi, le sue sinfonie di odori. E le novelle, meravigliose d'arte e di stile, si susseguono ininterrottamente alle novelle. In qualcuna di esse è il rimpianto della sua vita che corre a nulla. <<Quante volte >>, scrive egli, <<una veste di donna gli aveva lasciato sul passaggio, col soffio vanente d'un'essenza, tutto un richiamo di eventi scomparsi! E quante volte aveva ritrovato in fondo alle vecchie bottiglie da toilette i brani della sua esistenza. Tutti gli odori erranti, quelli delle strade, dei campi, delle case, dei mobili, i soavi e i cattivi, gli odori caldi delle sere d'inverno, facevano rivivere in lui i ricordi lontani, come se i sentori custodissero nelle bottiglie le cose morte imbalsamate>>. Il male avanza. <<Più tardi scrive>>  il Gabelli, <<lo tormentò il desiderio della solitudine, la solitudine popolata di fantasmi. Dalla solitudine salì alla sua anima il silenzio desolato. Poi un appello intimo, profondo, come una voce crudele, una voce conosciuta, attesa, esasperante, salì nel silenzio. E la voce gli rimproverò senza fine quello che aveva fatto.

Lo vinse la tristezza dei vaghi rimorsi, dei rimpianti senza ritorno, dei giorni finiti, delle donne incontrate che forse lo avrebbero amato, delle cose scomparse, delle gioie vane, delle speranza morte; la tristezza di ciò che passa, di ciò che fugge, di ciò che illude, di ciò che scompare, di ciò che non aveva atteso, di ciò che non attenderebbe mai, la tristezza della sottile piccola voce che grida l'aborto della vita, l'inutilità dello sforzo, l'impotenza dello spirito e la debolezza della carne. Alla tristezza della solitudine s'aggiunse il sentimento della paura. La paura lo possedé, lo dominò, lo attrasse in una specie d'incanto perverso. Fu come un'ebrezza nuova, alla quale s'abbandonò voluttuosamente, come s'era dato all'estasi, al veleno degli eccitanti e alle carezze dei profumi rari>>. E' facile, a questo punto, il passaggio alla follia: l'incoscienza della sua personalità. Una sera, rincasando, (la giornata gli era stata solitaria e nervosa), trova  l'uscio aperto: nella sua camera, seduto sulla poltrona, accanto al fuoco, c'è un uomo. Lo scrittore gli si avvicina, fa l'atto di toccarlo sulla spalla: la poltrona è vuota. Si tratta di un'allucinazione.

Alla fine del 1891, i parenti del Maupassant devono rendere pubblica la pazzia dello scrittore. Si è aggiunta l'insonnia terribile, della quale egli parla nell'<<Angelus>>, troncato dalla follia e dalla morte. Si unisce pure un'agitazione di tutto l'essere, un'irrequietezza, una grande febbre fisica e morale. Egli sa: e scrive ad un amico d'aver preso la sua risoluzione, di non potersi più trascinare a lungo. <<Non voglio sopravvivermi. Sono entrato nella vita letteraria come una meteora e ne uscirò come una folgore>>: è la traccia dell'esaltazione, del delirio di grandezza che già, da tempo, l'occupava, dice il Sabelli: ma è anche il grido della disperazione che riconosce se stessa, che ha terrore. Lo scettico, colui che mai si è fatto una domanda a proposito della religione, si avvicina alla fede, ed il materialista si sazia della lettura dell'<<Imitazione di Cristo>>. L'<<Angelus>> vibra di questa fede. Nella notte dal primo al due gennaio del 18921, il de Maupassant, tenta di spararsi. Ma la rivoltella è vuota, perché, qualche giorno prima, il servitore fedele, avendo sorpreso il padrone a sparare all'impazzata dalla finestra (credeva che qualcuno desse la scalata al muro del giardino), ne aveva tolto le palle. Lo scrittore, vedendo fallito il suo tentativo, afferra un tagliacarte e tenta di tagliarsi la carotide. Lo stiletto scivola dal collo sulla faccia, vi fa un taglio profondo: sgorga il sangue. Alle urla del Maupassant, accorrono il servo e due marinai del <<Bel-Ami>>, il yacht dello scrittore: lo riducono all'impotenza, lo portano sul letto. La ferita guarisce in fretta, ma lo stato di sovraeccitazione va sempre più crescendo. Un ultimo tentativo: si cerca di risvegliare nella sua memoria ormai morta l'immagine del yacht diletto. <<Lo condussero>>, scrive il Sabelli, <<sulla riva. Il Bel-Ami si cullava dolcemente sul mare. Il cielo azzurro, l'aria limpida, la linea elegante del yacht parvero calmarlo. Contemplò lungamente il bel naviglio con l'occhio malinconico e tenero. Mosse le labbra, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Lo ricondussero via. Maupassant si volse parecchie volte indietro a rimirare il Bel Ami. Era l'addio supremo che gli dava. E forse un amaro rimprovero voleva anche muovere alla nave che aveva portato il suo desiderio potente e selvaggio per il mare della vita e lo abbatteva sulle rive desolate della follia e della morte quando avrebbe dovuto ricondurlo nel porto della sua maturità tranquilla>>.

  Un invito autografo di Guy de Maupassant

Ben presto, invece, bisognò servirsi della camicia di forza. Poi, la casa di cura. Il silenzio. L'attesa desolata ed angosciata della  fine vera. 

La clinique du Dr. Blanche (<<(...)dove, contrariamente alla leggenda, non soggiornò mai Maupassant>>, dal libro 'La Maison du Dr. Blanche' di Laure Murat, ed. Lattés)

Pochissimi poterono vederlo ancora. La madre adorata, quella creatura soave ed intelligente che aveva avuto per lui le cure più affettuose e disperate, era lontana. Nella notte, oscura e senza speranza del manicomio,  <<egli passava lunghe ore nel giardino>>, racconta Diego Angeli, citato dal Lumbroso, <<a guardare i fiori e le piante. Tutti i fenomeni della vegetazione lo attraevano in modo speciale: vedeva una vita oscura nei fiori e nelle piante ed esprimeva la sua visione con frasi puerili, d'una tristezza infinita. Il medico che lo curava ha raccolto molte di queste frasi su un piccolo carnet che io ebbi la buona ventura di vedere presso il conte Giuseppe Primoli. Spessissimo egli si mostrava preoccupato della profondità della terra e dei pregiudizii  che ne avevano gli ingegneri>>. Questa idea si ripete spesso, come un ritornello, nelle brevi note: <<ecco gli ingegneri; gli ingegneri rovistano la terra; gli ingegneri scavano...>>.  Ed in questo giardino, lo vide Axel Munthe, ch'era stato suo amico nei giorni felici del lavoro e del piacere, e che, con lui, andava alle lezioni di Charcot alla Salpetriére. Era al braccio del servitore più che fedele. Gettava dei sassolini sopra le aiuole, e diceva: <<Guarda, guarda, in primavera verranno tutti su, come tanti piccoli Maupassant, basta che piova>>. Nell'estate, invece, e, precisamente il 6 luglio 1893, Guy de Maupassant, dimentico di sé e degli altri, moriva. Era la seconda volta: essendo già morto, da qualche tempo, in quello spirito fantasioso, che, a fianco del vero mondo terrestre, aveva creato un nuovo mondo di immagini, di creature e di episodi, che vivranno per tutta l'eternità. Le sue ultime parole, dice l'Angeli, furono come una confessione e un voto. <<Des tènébres! oh! des tènébres>>.

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Ritornando, ora, al lavoro del Giachetti, del quale, più sopra, ci siamo occupati, notiamo quanto sia difficile stabilire il periodo in cui la malattia cominciò a svilupparsi, e , soprattutto, come sia impossibile stabilirlo basandosi unicamente sulla produzione letteraria  dell'infelice grande scrittore. Persino il Lagriffe, il quale, nota il Giachetti, è pur sempre tormentato dal desiderio di mettere continuamente in relazione la malattia mentale e l'opera del Maupassant, scrive come sia difficile <<nonostante tutto quello che conosciamo in seguito sulla vita di Maupassant dire il momento preciso durante il quale egli passò dallo stato di salute mentale a quello di malattia. La follia è spesso solo l'esagerazione e lo sviluppo delle tendenze naturali anteriori soprattutto negli individui assai fortemente degenerati; questo si è prodotto in Maupassant; egli s'incamminò a poco a poco verso la demenza paralitica senza che sia possibile precisare l'epoca esatta dell'insorgere della sua follia>>. Infatti, avverte il Giachetti, i racconti che, come <<Le Horla>>, che vengono generalmente presi e studiati come sintomi della sua pazzia, <<hanno dei precedenti giovanili>> che non bisogna dimenticare: la <<Main d'écorché>>, ad esempio, del 1872, quando ancora lo scrittore firmava collo pseudonimo Giuseppe Prunier. <<O allora? che cosa diventano i cambiamenti nel modo di scrivere, le esaltazioni, i difetti e le lacune di buon gusto senza i relativi disturbi organici e mutamenti del carattere?>>: così si domanda il Giachetti, ritenendo azzardata l'opinione del Lagriffe che vuole dimostrare come il Maupassant sia diventato pazzo nel 1883, perché <<la sua produzione cresce (è un sintomo di decadenza?), egli non distingue più il vero dall'inverosimile, ciò che è pubblicabile da quello che non lo è, il suo naturalismo impallidisce correlativamente alle modificazioni del fondo del suo umore: comincia a idealizzarsi>>. Il Padovani critica l'opinione del Lagriffe: secondo il quale la malattia dello scrittore sarebbe durata dieci anni. <<Il fatto non sarebbe raro>>, scrisse il Padovani, <<benché non vi sieno state quelle vere remissioni o intermissioni che così spesso prolungano la durata del male: credo però che, ad una più sottile analisi, taluni dei fatti creduti prodromici della malattia, possano invece riattaccarsi alla diatesi nevropatica e alla nevrastenia di cui già soffriva il Maupassant: è noto quanto spesso la  nevrastenia abbia manifestazioni perfettamente somiglianti a quelle della paralisi progressiva. Il vero periodo preparalitico si inizierebbe, secondo me, verso il 1887, con le sue classiche crisi allucinatorie, le errate interpretazioni, le tendenze al delirio d'enormità, le idee di negazione e di immortalità. E l'anno in cui esce "Le Horla">>.

Ed il Giachetti, a proposito della stessa opinione del Lagriffe, si domanda quale relazione, ammesso anche che sia vero ciò che ha scritto il Lagriffe, possa avere con la paralisi progressiva. Perché, già nella <<Main d'écorchè>>, <<il misterioso vi è trattato con grande maestria>>, anche se è meno sentito e meno vissuto che nell'<<Horla>>, poiché <<nessuno può negare che certe allucinazioni, certe sofferenze, specialmente morali, dello scrittore non siano passate nell'opera d'arte. Ma il quantum>>, domanda il Giachetti, <<è pure controllabile? E quello che è sovrattutto mutato non è forse il tono emozionale? Inoltre nell'opera di Maupassant queste esperienze del soprannaturale e del misterioso, queste crudeli torture di ansietà alla Poe, rappresentano, anche nella sua opera ultima, un'eccezione>>: e queste ultime opere, studiate specialmente da chi studia il Maupassant come un ammalato e non come uno scrittore, sono <<Sur l'eau>>, del 1880, dove sono descritte allucinazioni alcooliche, <<Fou>>,  del 1882, dov'è descritta la paura della pazzia, <<Lui>>, del 1884, e <<Le Horla>>, del 1887. E, proprio nel 1890, Victor Havard, editore del novelliere, leggendo il manoscritto del <<Champ d'Oliviers>>, scriveva al Maupassant il suo entusiasmo per il nuovo <<puro capolavoro>> che gli aveva dato perché lo stampasse: <<c'est du Maupassant>>, gli scriveva, <<dans toute la plénitude de son prodigeux talent>>. E, proprio parlando di questo periodo dell'attività dello scritore, il Lagriffe trova <<irritabilità crescente, idee vaghe di persecuzione; perdita del senso critico, elaborazione difficile, disturbi caratteristici della scrittura e dell'espressione; diminuzione dei sentimenti affettivi, stato generale sempre peggiore, dimagrimento, dromomania>>. Ma il Giachetti, a ragione, non trova nessun rapporto collo stato organico e mentale del Maupassant, notando come <<è evidente che in tanta decadenza le qualità immaginative dell'artista si sono ancora conservate intatte, e che le sue uniche alterazioni si possono ritrovare, con un pò di buon volere, solo nell'affettività>>. E nota come siano più dimostrative, per quanto riguarda lo stato d'animo e la malattia dello scrittore, le sue lettere private, le quali, secondo il Lagriffe, presentano tutti i caratteri delle lettere dei paralitici generali sul principio della malattia: elaborazione difficile, ripetizioni, sovrabbondanze, cancellature, frasi mal costruite, difetti di sintassi, sbagli d'ortografia, oscurità di espressione. Una sua lettera del giugno 1891, (quando la malattia è già in stato avanzato), alla madre, è interessante, perché <<la scrittura è incerta, atassica, la composizione faticosa, con non poche ripetizioni e dimenticanze>>.

E' il periodo delle idee di grandezza: dei banditi armati messi in fuga, dei trecento ombrelli dell'entourage della principessa Matilde, delle sinfonie di odori con delle boccette di profumo, delle liti e dei processi, delle sue idee di persecuzione (abbiamo già accennato agli spari nel giardino). Il Giachetti studia, poi, qualcuna delle famose novelle comunemente citate come esempio della pazzia dell'autore, per persuadere che, <<all'infuori di una stranezza di concezione di cui è difficile indagare la causa, esse non contengono niente che possa farci dire: questo scrittore è matto>>. Del resto, lo stesso Maupassant, scrivendo ad Augusto Dorchain, eliminava il sospetto che tali racconti fossero la descrizione di un suo stato d'animo personale. Osservazione, conclude il Giachetti, inutile, <<perché uno scrittore è padronissimo di descrivere quante allucinazioni vuole, senza dover passare per questo per un allucinato. Tanto più poi quando ciò rappresenta una eccezione nelle sue opere di fantasia. la quale appunto nella sua immensa libertà sfugge alle indagini troppo precise sulle sue origini per questo è probabilmente uno sforzo sterile di attribuire a una narrazione di questo genere un valore patognomico qualsiasi... Certe deviazioni degli elementi fantastici normali possono tutto al più essere un preavviso del turbamento delle facoltà mentali: ma è impossibile avvertirle, ed anche a considerarle dopo, quando abbiamo completo il quadro della psicopatia dell'autore, ci resta sempre il dubbio che l'etiologia morbosa non abbia niente o ben poco a che fare con le manifestazioni fantastiche. Così è solo possibile constatare un turbamento delle facoltà immaginative più semplici, o più precisamente dello svolgersi delle rappresentazioni mentali nelle ossessioni, nella paranoia, nella melanconia.

 

Responsabile Editoriale: Giuseppe Leo

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