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CULTURA PSICHIATRICA E ISTITUZIONE ALL'INIZIO DEL SECOLO.

di Mario Scarcella

(tratto dal Capitolo primo di Scarcella, Macrì, Bisignani, Adamo, "Pericoloso a sé e agli altri.Cultura psichiatrica e istituzioni in Italia dall'inizio del secolo al dopo riforma", Bari, De Donato,1980)

Foto: la Certosa di Collegno

 

1. La classificazione delle malattie mentali.

Prima di affrontare i termini attuali della 'questione psichiatrica', ci sembra utile premettere qualche breve riferimento agli orientamenti prevalenti nella psichiatria agli inizi dell'Ottocento, anche se non intendiamo certo approfondire qui una tematica altrove già sufficientemente sviluppata (1). Basterà solo ricordare come ancora all'inizio del secolo scorso i disturbi psichici erano ritenuti alterazioni della 'moralità' e della 'volontà'. Solo più tardi il modello medico della malattia mentale si andava strutturando e, con esso, al tempo  stesso, l'ideologia ispirata al positivismo di un trattamento non più morale e pedagogico, ma prevalentemente biologico e quindi ospedaliero, con la specificità inerente all'esigenza della difesa sociale e con una apposita delega da parte del potere politico. Da ciò deriva la peculiarità che assume l'ospedale per i matti: nasce, appunto, il manicomio.

In quella stessa epoca si sviluppa una delle illusioni più funeste della psicopatologia, tuttora non del tutto superata: quella di potere individuare, descrivere e classificare le singole malattie mentali. In realtà il tentativo della nomenclatura e della classificazione è ancora precedente. L'utilità di un'ordinata e unitaria classificazione dei fenomeni scientifici e naturali è evidente. Il progresso della scienza è, infatti, legato al rilevamento delle affinità e delle diversità tra i vari fenomeni in funzione di una categorizzazione il più possibile oggettiva e uniforme.

 

 

 

 

Questa esigenza trova conferma nella storia della medicina i cui progressi sono stati realizzati contemporaneamente alla chiarificazione etio-patogenetica (e cioé alla scoperta delle cause) che ha permesso di smembrare le entità sintomatologiche e sindromiche in entità clinico-nosografiche tassonomicamente ordinate.

In ambito psichiatrico lo stesso tentativo iniziava verso la fine dell'Ottocento soprattutto da parte di Kraepelin.

Dopo la definizione etio-patogenetica e anatomo-clinica della sifilide cerebrale (la <<paralisi progressiva>>), si spettava di pervenire a un sistema naturale di classificazione delle malattie mentali, analogamente a quanto andava verificandosi per altre discipline mediche. L'evoluzione delle conoscenze psichiatriche, tuttavia, pur avendo frattanto conseguito indubbi progressi, non riusciva ad attuare l'ambizioso progetto kraepeliniano. Varie circostanze, anzi, ponevano ben presto in crisi le acquisizioni iniziali, rimettendo in discussione la possibilità e la utilità stessa di una classificazione nosografica in psichiatria.

Da una parte, infatti, nuovi orientamenti dottrinari (la psicanalisi prima, la fenomenologia, l'esistenzialismo, la etologia, il comportamentismo poi e, più di recente, la socio-psichiatria) hanno introdotto una visione più dinamica e soggettiva del disturbo mentale, dall'altra le numerosissime ricerche eseguite (non considerando taluni risultati entusiasticamente accolti ma ben presto smentiti) non hanno permesso di avere come riferimento di massima, almeno finora, precisi punti di repere per la differenziazione delle forme morbose.

Eziologia, patogenesi, sintomatologia, decorso, prognosi e terapia non presentano, secondo molti studiosi, caratteristiche definite; le stesse sindromi e i quadri clinici meglio noti non rivestono ben spesso caratteri specifici, sfumando in un continuum che impedisce ogni chiara discriminante.

Come rilevato da Ellenberger (2), di fronte alla classificazione delle malattie mentali si contrappongono, in sostanza, due teorie da cui derivano atteggiamenti ben diversi: la teoria della continuità e quella della discontinuità. Secondo la prima esiste uno spettro di ogni singola dimensione - o disfunzione - che va dall'estremo della salute integrale a quello della malattia irreversibile. Tutti i punti di questo continuum sono occupati o potenzialmente occupabili. In base a questa ipotesi le etichette delle malattie vengono assegnate arbitrariamente o convenzionalmente sulla base della frequenza di certi modelli o schemi di comportamento nella popolazione: i fenomeni osservati nel malato possono riscontrarsi in minor misura nel sano.

La teoria della discontinuità presuppone, invece, transizioni qualitative tra stato di salute e stato di malattia. Quest'ultimo deriva da fattori che non sarebbero presenti nel sano, o che lo sono in misura molto meno rilevante. Conseguenza di questa teoria è che le malattie variano tra di loro in modo sostanziale, così come differisce la salute dalla malattia. Ellenberger osserva giustamente che la storia della medicina dimostra che i progressi realizzati sono stati fondati sulla ipotesi della discontinuità. Gli avversari di ogni classificazione (e, tra questi, in primo luogo gli antipsichiatri) sostengono, più o meno estremisticamente, che ogni malato mentale (e lo stesso malato nel corso della sua malattia) è il prodotto della interazione di fattori complessi e imprecisabili e, pertanto, egli è unico, diverso da tutti gli altri.

Etichettare, essi sostengono, significa, in sostanza, violentare la realtà; per lo psichiatra ciò che conta è comprendere il malato per curarlo. Le diagnosi di uso corrente sarebbero, più che un sistema di classificazione, un catalogo di termini adottati per descrivere osservazioni, raggruppate in base a collegamenti opinabili.

Un rinnovato interesse per la classificazione è scaturito negli ultimi tempi dai progressi della psicofarmacologia: solo con riferimento a un criterio omogeneo è possibile accertare l'efficacia del farmaco e stabilirne indicazioni e controindicazioni.

Senza soffermarci ulteriormente sui limiti, sui rischi e sui vantaggi che ogni classificazione comporta e rigettando ogni aprioristico nihilismo anosografico o antinosografico, basterà ricordare che la nosografia esprime il livello delle nostre conoscenze e che, pertanto, in psichiatria ogni classificazione non può fondarsi sul radicale biologico (anatomia patologica, neurofisiologia, neurochimica ecc.), mentre lo stesso criterio clinico non sempre consente sistematizzazioni precise, univoche, da tutti accettabili o accettate. 

 

 

(1) Si rinvia, in particolare, al secondo e quarto capitolo di G. Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1973.

(2) H. Ellenberger, Les illusions de la classification psychiatrique, in <<L'Evolution psychiatrique>>, 28, 221, 1963.

 

2. Condizioni di vita nei manicomi e legislazione prima e dopo l'Unità.