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CULTURA PSICHIATRICA E ISTITUZIONE ALL'INIZIO DEL SECOLO.

di Mario Scarcella

(tratto dal Capitolo primo di Scarcella, Macrì, Bisignani, Adamo, "Pericoloso a sé e agli altri.Cultura psichiatrica e istituzioni in Italia dall'inizio del secolo al dopo riforma", Bari, De Donato,1980)

     "Identità negata": disegno (matita) di Giuseppe  Leo (ARTGALLERY)

2. Condizioni di vita nei manicomi e legislazione prima e dopo l'Unità.

Se la psichiatria nella seconda metà dell'Ottocento si prospettava orizzonti ed obiettivi ambiziosi, le condizioni della 'assistenza ai folli e ai mentecatti' erano in Italia alquanto diversificate nelle varie realtà territoriali e complessivamente arretrate rispetto agli altri paesi europei. Alla fine del XVIII secolo e nel corso del XIX, infatti, dopo la cosiddetta <<rivoluzione psichiatrica>>, di cui Pinel e Chiarugi sono gli esponenti più rappresentativi, vengono costruiti o ristrutturati numerosi manicomi, a volte enormi, utilizzando per lo più conventi, fortezze, castelli. Più tardi andrà affermandosi il sistema a padiglioni con vaste aree adibite a lavori agricoli che, con gli altri tipi di 'lavoro forzato', consentivano la cosidetta ergoterapia, che  cominciava ad essere in voga.

In quegli anni si realizzava un riordinamento delle norme legislative, in sostituzione delle disposizioni arcaiche vigenti e di prassi spesso non codificate. La legge adottata in Francia nel 1838 rappresentava un modello di riferimento per molti paesi e soprattutto per il nostro. Come vedremo, tutto il dibattito che ha preceduto e seguito l'approvazione della legge Giolitti del 1904 (l'aggettivazione non deriva solo dal fatto che Giolitti era, allora, ministro dell'Interno, ma che ne fu il patrocinatore e il realizzatore) vi fa continui riferimenti, anche se non sempre espliciti.

In Italia, fino all'Unità, non erano state realizzate iniziative complessivamente significative, sia in campo legislativo che a livello di razionalizzazione assistenziale psichiatrica. Esistevano notevoli differenze nella prassi e negli standard dei manicomidei singoli Stati che si accentueranno dopo l'Unità. Mancano descrizioni obiettive e dettagliate degli orrori dei manicomi italiani dell'Ottocento4. D'altra parte è abbastanza ovvio che non sia facile rintracciare una documentazione per almeno due motivi principali.

1. La maggior parte dei pochi manicomi esistenti erano allora a conduzione privatistica, senza alcuna regolamentazione o controllo da parte di organi pubblici, neppure formalmente prescritte e, comunque, solo sporadicamente attuate. 

  Foto: la Certosa di Collegno

I privati (laici o congregazioni di enti religiosi) gestivano queste <<case di salute>> a scopo di lucro, anche se spesso camuffato da finalità 'benefiche'. Il profitto si realizzava essenzialmente - come d'altronde accade ancora oggi - sulla pelle dei ricoverati, risparmiando al massimo le spese per i servizi e il personale, tranne per padiglioni, reparti o singoli pensionati (anche questo è un termine allora diffuso, ma ancora non del tutto scomparso, per indicare nel gergo manicomiale i reparti per i <<paganti>> o <<dozzinanti>>) dove erano accolti i malati 'benestanti', spesso suddivisi in molteplici <<classi>> (fino alla quarta), secondo le rette di degenza. La gestione privatistica sfugge ad ogni controllo in un'epoca in cui mancavano interventi e sensibilità, anche in rapporto alle condizioni generali di miseria, di incultura, di egemonia delle classi privilegiate. Non essendovi obbligo di controlli né di relazioni le brutture dei manicomi venivano alla luce solo in occasione di rari episodi scaturiti da inchieste giudiziarie, come per il famoso processo che vide a Venezia condannati gli amministratori di quella provincia per una inchiesta promossa nel 1902 dall'autorità giudiziaria per le aberranti condizioni del manicomio di S. Servolo, denunciate dalla stampa5.

  L'isola si San Servolo

2. Questi manicomi sorgevano per lo più in località isolate con il pretesto, avallato dalla scienza del tempo, della terapeuticità del silenzio, della tranquillità e della salubrità del clima. Il personale di assistenza era ridotto al minimo e costretto ad orari e prestazioni incredibili: turni di sette giorni ininterrotti di servizio, giorno e notte, per compensi irrisori; impossibilità (e a volte proibizione) per le donne adibite all''assistenza' dei degenti di contrarre matrimonio. I <<guardiani>> (così venivano realisticamente definiti i custodi 

 

Vincenzo Chiarugi "Regolamento dei Regi Spedali di Santa Maria Nuova e di Bonifazio",1789

dei ricoverati che solo nei primi decenni dell'Ottocento diventeranno, almeno nella dizione corrente, <<infermieri>>) venivano reclutati tra i contadini e i braccianti e preparati con corsi di 'qualificazione' risibili e deformanti. La forza fisica era, coerentemente, considerata il requisito essenziale. Anche nei reparti femminili erano preferiti gli uomini perché più idonei a fronteggiare le convulsioni isteriche o le crisi di agitazione delle donne - ritenute allora potenzialmente più <<furiose>> e pericolose degli uomini - con una strumentale tolleranza nei confronti di una promiscuità a quei tempi insolita.

I ricatti del 'padrone' e il bisogno di un modesto compenso contribuivano a rafforzare quella congiura del silenzio che, del resto, ancora oggi, in condizioni culturali e socio-politiche diverse, in molte realtà manicomiali ( e non solo manicomiali) permane.

L'omertà era tanto più facile e inviolabile in quanto il padrone era spesso lo stesso psichiatra che dirigeva la casa di salute o l'ospizio. 

   

Telemaco Signorini, "La sala delle agitate al S. Bonifazio di Firenze".

Solo alla fine dell'Ottocento la psichiatria sul piano accademico universitario otteneva in Italia un primo riconoscimento e una parziale autonomia. Dalla Clinica medica (che allora si occupava di tutti gli ambiti della medicina, ad eccezione della chirurgia e dell'ostetricia) provenivano i primi docenti di psichiatria. E' rilevante, ci sembra, per la futura evoluzione della psichiatria la circostanza che tra questi vi furono alcuni notabili come il prof. Leonardo Bianchi, per lunghi anni deputato e poi ministro e senatore.

I primi cultori della psichiatria erano, in sostanza, dei medici che si fregiavano di un titolo universitario utilizzandolo, non di rado, a fini di lucro mediante la gestione di <<cliniche per malati nervosi>> o prestando consulenza in quelle di cui non erano  proprietari. Questo accadeva specialmente nelle regioni meridionali dove ancor oggi i nomi usati per indicare alcuni vecchi manicomi sono quelli stessi dei loro antichi fondatori e proprietari, attribuiti dagli eredi o entrati nell'uso comune e rimasti in vigore anche dopo la pubblicizzazione ed il passaggio alle province o agli IPAB6.

Nessuno, quindi, dei pochissimi che erano a conoscenza delle realtà allucinanti esistenti all'interno dei manicomi aveva possibilità o interesse a riferirne.

All'epoca della costituzione del Regno (1860) non esisteva un corpus di norme codificate per regolamentare la ospedalizzazione dei malati e anche per questo non disponiamo di dati statistici né di elementi di valutazione sulla epidemiologia della istituzionalizzazione, tranne per i pochi dati desumibili dalla letteratura del tempo (pubblicistica, trattati, riviste specializzate, dibattiti alla Camera e al Senato del Regno dopo l'Unità ecc.).

L'intervento delle autorità per il controllo della devianza  mentale era globalmente modesto. Esso variava da Stato a Stato, ma anche all'interno dello stesso Stato in rapporto a molteplici fattori: sviluppo socio-culturale, periodi di più acute crisi economiche ecc.E' evidente che lo sviluppo industriale - con l'urbanesimo, l'obbligo della frequenza scolastica, la competitività ecc. - introduceva, più  o meno rapidamente, innovazioni anche in questo ambito, determinando un progressivo incremento, nel ricorso all'internamento manicomiale. In Italia vi è stato infatti, in misura più acuta che negli altri paesi europei, un brusco incremento dei ricoveri in manicomio in concomitanza con le trasformazioni sociali avviate alla fine del secolo, in modo difforme al Nord e al Sud.

Non è casuale che fino all'Unità, a quanto è dato sapere, i ricoverati in rapporto alla popolazione erano in numero più o meno elevato nei diversi Stati pre-unitari. Solo dopo il 1860, con la divaricazione graduale tra Nord e Sud, si verificava un complessivo incremento di ricoveri, molto più netto nelle aree più evolute. Nelle province che appartenevano al Regno delle due Sicilie, ma anche nell'ex Stato pontificio, la cultura popolare patriarcale e contadina manteneva una più ampia soglia di tolleranza nei confronti del deviante, rispetto alle regioni settentrionali e se si accetta la tesi, ormai ampiamente documentata, che il sottosviluppo meridionale ha avuto inizio, o comunque un netto incremento, dopo l'Unità, si comprenderà perché nel Sud fino a pochi decenni addietro i manicomi erano più rari che al Nord7. Il primo sviluppo industriale aumentava il rischio di marginalizzazione e, quindi, la necessità della esclusione. Da una parte, quindi, più <<mentecatti e folli>>, dall'altra più ospizi per accoglierli sottraendoli al 'ludibrio'. In realtà ciò che importava era difendere la società dal fastidio, e anche dallo 'scandalo', di persone non  integrate né integrabili, pericolose, dunque, più spesso al sistema che a sé o agli altri.

Sui motivi  dell'incremento del numero dei ricoveri si soffermano varie relazioni di direttori di manicomi. Si veda, ad esempio, quanto scriveva il Cascella (direttore del manicomio di Aversa) nel 1913: 

    O.P.G. di Aversa

La società odierna presenta sempre nuovi scogli, contro i quali vanno ad infrangersi molte menti, che per il passato raggiungevano facilmente la riva: la nostra vita sempre più agitata fra innumeri passioni, in continuo movimento, suppone infiniti bisogni, immensi doveri, e i dolori, gli affanni e la miseria ne sono il retaggio. Oggi che la lotta per l'esistenza si va rendendo sempre più vasta e forte, non si tollera più nel seno della famiglia un elemento improduttivo e passivo, alla cui assistenza occorre adibire altre forze vive, le quali saranno egualmente infruttuose. Oggi quindi più facilmente che non per il passato si sospinge un alienato nel manicomio.

E'  anche logico che un tessuto sociale che crea devianza debba porsi l'obiettivo di gestirla e segregarla. Pertanto, man mano che cresceva la massa dei marginali, sia pure con ritardi e difformità, si susseguivano interventi, leggi, finanziamenti per la costruzione di appositi stabilimenti. I finanziamenti, però, venivano erogati più facilmente, anche se in misura sempre minima, laddove il tenore di vita era più elevato. Ciò spiega la prevalenza di aree privilegiate per l'apertura o l'ampliamento di ospizi.

Al Nord vecchi conventi, monasteri, castelli abbandonati, edifici già adibiti a carceri venivano riconvertiti. Ancora durante il fascismo la distribuzione dei manicomi nelle diverse aree del paese risentiva di questa difformità. Alcune regioni (ad esempio la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, e in misura ridotta l'Emilia e la Toscana) erano, per così dire, ben dotate. Quelle centro-meridionali (con le eccezioni di Aversa e Palermo, legate alle iniziative, rispettivamente, del Miraglia e del barone Pisani) ne erano fortemente carenti, fornendo più tardi al regime fascista l'opportunità per intervenire con impegni di spesa rilevanti.

Gli stessi manicomi di Pergine (Trento) e di Trieste, all'epoca dell'annesione del Trentino e della Venezia Giulia nel 1918, erano stati aperti da qualche decennio e risentivano di una gestione apparentemente diversa da quella degli altri manicomi preesistenti nel Regno.

Mette conto di rammentare che prima dell'Unità la situazione dell'assistenza psichiatrica esistente nel Gran Ducato di Toscana era di gran lunga migliore rispetto a quella degli altri stati. Il regolamento del manicomio fiorentino, 

del 1789, le innovazioni introdotte dal Chiarugi, il motu proprio granducale del 1838 (coevo e conforme alla legge introdotta in Francia) rappresentavano l'unica eccezione alla diffusa arretratezza esistente altrove.

Merita qui una citazione la legge dell'11 marzo 1813, promulgata da Gioacchino Murat nel Regno di Napoli, che risente del clima politico del periodo post-napoleonico. Questa legge (molto breve, un proemio e sette articoli) ebbe scarsa efficacia e limitata applicazione anche per mancanza di interventi finanziari. Essa, tuttavia, va ricordata per la sua relativa e generica portata innovativa e per l'impostazione terapeutica più che custodialistica che viene espressa nella sua stessa premessa:

Considerando che l'umanità esige portarsi una utile riforma al regime sanitario de' matti, onde ottenersene, con misure efficaci, il ristabilimento...

Nessun riferimento la legge muratiana contiene a quei concetti di inguaribilità, di pericolosità e di difesa sociale che novanta anni dopo avrebbero ispirato la legge del Regno d'Italia. I suoi principi informatori, ispirati ad una generica semplicità dell'impianto e a un paternalismo di fondo, risentono del clima del Primo Ottocento (dai fermenti residuati dalla rivoluzione francese, al ruolo di Pinel e di Chiarugi), ma anche della restaurazione borbonica in fase di consolidamento e rispondono essenzialmente alle esigenze di alleviare disagi derivanti dall'insostenibile concentramento degli alienati di tutto il reame negli asili della città di Napoli, decentrandoli anche ad Aversa, e definendo gli aspetti amministrativi con il contributo alla spesa di tutte le province.

Il relativo regolamento, emanato da Francesco I di Borbone il 2 novembre 1825, in un diverso clima politico dopo la restaurazione e la repressione borbonica, si caratterizza per la mancanza di adempimenti burocratici e amministrativi. Esso si configura, infatti, con un regolamento che rispetta sostanzialmente le premesse della legge da cui deriva, anche se, di fatto, riguarda unicamente la <<casa de' matti>> di Aversa, al momento ancora l'unico stabilimento per mentecatti del reame di Napoli. Non è privo di interesse, anche per meglio comprenderne i principi ispiratori e la logica che lo informava, riportarne qualche brano riguardante i principi che devono regolarne <<gli esercizi e le applicazioni>>:

La cura dei pazzi essendo fisico-morale, perciò i medici prescriveranno quali esercizi ed applicazioni possono convenire per riordinare le funzioni della mente. Secondo le norme prescritte dai medici e giusta le diverse stagioni dell'anno, e lo stato del cielo, alcuni matti vanno a passeggiare nelle campagne vicine, accompagnati dai rispettivi Prefetti. Alcuni altri vanno ai lavori della campagna nei giardini delle Case, altri esercitano l'arte loro, purché sia compatibile con l'abberrazione della mente, sempre però agiatamente, senza violenza (...) Altri, che amano la musica, vanno a trattenersi con il maestro di Cappella, esercitandosi nei diversi strumenti a fiato o a corda, e benanche nel canto. I medici ordineranno al maestro di Cappella le diverse melodie da praticarsi nei diversi giorni, ed ore, adattandole alle diverse specie di follia, ed alle circostanze de' matti, non potendo una sola servire a tutti. Il medico consulente deciderà quali matti possono recitare qualche commedia nel teatro delle Case; come pure ordinerà gli altri esercizi, divertimenti, ed occupazioni.

  Totò ne "Il medico dei pazzi"

 I matti a pagamento, ed anche i poveri, possono occuparsi a leggere e scrivere ed alcuni benanche al disegno, alla pittura ed alla scultura; ed il medico consulente dovrà prescrivere ai pazzi a pagamento, anche il viaggetto da Aversa a Napoli e la distrazione del teatro purché le famiglie a cui appartengono possono sostenere questa spesa8.

Del resto proprio in quegli anni (1839) molto più concretamente il grande psichiatra inglese John Connolly9 iniziava la sua pionieristica esperienza non repressiva a Hanwell. L'opera di Connolly, più e meglio di ogni altra, ha anticipato di oltre un secolo le iniziative più significative di sperimentazione e di denuncia. Come ricorda Pirella nella sua prefazione al testo fondamentale che illustra <<l'esperimento rivoluzionario>>, le intuizioni, le riflessioni, la pratica di Connolly hanno caratteri di novità e modernità stupefacenti. A differenza di Pinel, Connolly si oppone alla repressione del malato e attua con lui un confronto per <<decifrarne la sua apparente incomprensibilità, per la comprensione della sua apparente violenza>>. La sua pratica è fondata sulla critica della repressione manicomiale e sulla esigenza di socializzare col malato (rapporto con l'ambiente esterno, partecipazione comunitaria, ristoricizzazione) per prevenire quella che sarà definita, dopo un secolo, <<patologia da istituzionalizzazione>>. Questo movimento rimase in voga solo pochi decenni venendo riassorbito nel filone storico dello sviluppo della società borghese che, ben presto, vanificò una posizione che si era posta contraddittoriamente al suo interno.

Sul piano legislativo l'unica proposta discussa nel Regno del Piemonte è quella del Bertini, esaminata dal parlamento subalpino il 23 agosto 1849, ripresentata nel 1850 e poi abbandonata.

 

3 Il termine manicomio viene adottato nel linguaggio comune ben prima del 1904; esso corrisponde al francese asile, all'inglese asylum, allo spagnolo manicomio, anche se con qualche differenza di significazione.

4 Una panoramica sulle condizioni dei manicomi italiani nel secolo scorso è contenuta nelle due pregevoli pubblicazioni di F. Stock, finora ciclostilate con il titolo Dibattito parlamentare e attività legislativa sulla questione dei manicomi in Italia tra il 1860 e il 1904 e La Società freniatrica italiana fra '800 e '900. In entrambe è riportata un'ampia bibliografia, ad essa faremo riferimento in questo capitolo, rimandando per ogni altra indicazione all'opera di R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità a oggi, Feltrinelli, Milano, 1979.

5 Su questo episodio una cronistoria è riportata nel secondo capitolo (Note storiche e critiche sulla nascita dei manicomi e delle istituzioni psichiatriche nel Veneto di G.P. Martina) da Follia come crimine. I manicomi nel Veneto, in <<Materiali Veneti>>, n.7, 1977.

6 Ad esempio il <<Mandalari>> di Messina fu dapprima una clinica psichiatrica privata aperta nel secolo scorso da un medico reggino, tra i primi docenti italiani di psichiatria. Gli eredi, all'inizio del '900, la rilevarono cedendola alla Provincia di Messina che la acquistò nel 1909 pagando lautamente un complesso di edifici malconci e deteriorati.

7 Nella relazione dell'ottobre 1899 il direttore capo dell'Ufficio sanitario del ministero dell'Interno, Santoliquido, scriveva: <<Può ritenersi con fondamento che la piccola proporzione dei pazzi rinchiusi nell'Italia meridionale in confronto a quella del resto d'Italia, sia, anzitutto, da attribuirsi al minor numero degli istituti manicomiali che funzionano in quel vasto territorio e in parte dipenda dalla mancanza della pellagra ed alla scarsa diffusione dell'alcolismo>>.

8 V. D. Catapano, Movimenti psichiatrici in Campania, Napoli, 1977.

9 J. Connolly, Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, Einaudi,  Torino, 1976.