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La follia di Torquato Tasso.
di BEPPE GIANNONI

 

 

 

 

 

 

Sono due le forme di disagio psichico sofferte dal nostro poeta, l'una, la tristezza di fondo che fa da basso continuo alla canzone della sua vita, l'altra, più grave e dolorosa, classificabile come psicosi depressiva, che ad un certo momento compare trovando, ben si intende, nutrimento dalla prima della quale ha la medesima tonalità e nella quale si innesta e si sviluppa.

Di suo Torquato Tasso era quel che si può definire un uomo tendente alla tristezza indotto a tale inclinazione certamente da eventi significativi della sua vita.

Di natura sensibilissimo, intelligentissimo e precoce, studiosissimo (ad otto anni sapeva di latino e di greco, bambino scriveva già poesie) a circa dieci anni dovette lasciare Napoli e la madre per seguire il padre bandito dalla città per motivi politici e ne soffrì atrocemente; lo rammentò nella canzone al Metauro:

"Ma dal sen della madre empia fortuna

pargoletto divelse. Ah! di que' baci,

ch'ella bagnò di lacrime dolenti

con sospir mi rimembra, e degli ardenti

preghi che se 'n portar l'aure fugaci

che io non dovea giunger più volto a volto

fra quelle braccia accolto

con nodi così stretti e sì tenaci.

Lasso! e seguii con mal sicure piante,

qual Ascanio, o Camilla, il padre errante."

La madre gli morì senza poterla rivedere mentre era a Roma ed aveva dodici anni.

Influirono sulla sua personalità da un lato i difficili rapporti col padre che fu senz’altro premuroso ed affettuosissimo ma purtroppo autoritario cosiccome significativo fu per il Tasso il non poter fare a meno di deludere il padre che lo voleva giurista e l'aveva mandato a Padova a studiare ma a Padova lasciò le leggi e si rivolse alla poesia ed alla filosofia; proprio lì, a diciotto anni, scrisse il "Rinaldo" che pubblicò contro il volere del padre dedicandolo al cardinale Luigi d'Este:

"Così scherzando, io risonar già fea

di Rinaldo gli ardori e i dolci affanni,

allor che ad altri studi il dì togliea

nel quarto lustro ancor dei miei verd'anni.

Ad altri studi , onde poi speme avea

di ristorar d'avversa sorte i danni:

ingrati studi, dal cui pondo oppresso

giaccio ignoto ad altrui, grave a me stesso"

("Rinaldo" canto 12 stanza 90)

 

E' desiderio di ognuno essere accettati dal padre in ciò che desideriamo fare ed il non accondiscendere ai suoi desideri se da un lato ci fa sentire più autonomi e più liberi dall'altro incrina il vincolo filiale e magari nel tempo ci se ne può pentire ma Torquato non ne poteva fare a meno non sopportando gli studi di legge; è significativo però quel "onde poi speme avea - di ristorar d'avversa sorte i danni"; erano gli intenti ed i consigli del padre che sembra ricordare quando, in momenti tristissimi scriverà il "Dialogo di un padre di famiglia" nelle cui parole riecheggiano le parole del padre e quando, quasi alla fine della esistenza, penserà di non vivere più da cortigiano rientrando in possesso dei beni ereditati.

Aveva trentuno anni quando il padre gli morì. Ne fu colmo di dolore, lo ricordò nella canzone " o del grande Appennino":

 

"Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,

egro e morto ti piansi, e ben tu 'l sai,

e gemendo scaldai

la tomba e 'l letto; or che negli alti giri

tu godi, a te si deve onor, non lutto,

a me versato il mio dolor sia tutto."

Al Tasso fu motivo di sofferenza anche l'essere stato posposto da critici letterari all'Ariosto del quale si sentiva emulo e rivale cosiccome il vedere le sue opere sottratte e stampate e date in lettura prima di averle corrette , gli accadde con la "Gerusalemme liberata", oltre l'accorgersi di vedersele trafugate anche con l'aiuto di un fabbro ferraio che aveva aperto porte e casse chiuse a chiave.

Tutto ciò, insieme ad altre circostanze, contribuì a farne un uomo triste. Tale tristezza però si può dire normale, chi nella vita è del tutto tranquillo e felice? in fondo dice Schneider non ci si deve meravigliare del fatto che uno sia triste bensì del contrario. Il Tasso ebbe anche momenti esaltanti di gioia, di notorietà, di gloria e di amore seppure l'intonazione del suo vissuto fosse tendente alla tristezza, tristezza di fondo frutto pure della modestia, dell'umiltà, del ritegno per paura di se stesso e di chi gli stava vicino. Tra l'altro l'umiltà e la modestia erano indispensabili al suo vivere da poeta di Corte che l’obbligava ad essere costantemente debitore al signore in tempi in cui non esistevano i diritti d'autore; il Tasso era ben cosciente di questa situazione e ne soffriva, tanto che alla fine della sua vita, dopo essere uscito dalla prigione dell'Ospedale di S.Anna, è stato già ricordato, tentò con l'aiuto di Giovan Battista Manso di rientrare in possesso dei beni già appartenuti alla madre e di essi vivere.

Temenza, ritegno, paura di perdere i favori del duca lo portarono a dissimulare il suo amore per una Leonora, forse la sorella del duca stesso, mimetizzandolo con altre due Leonore ugualmente amate quasi "che amandone una sola volesse dimostrare di amarle tutte e tre” come dice il Manso e lui stesso in un sonetto

"Lei sol vagheggio; e se pur l'altre miro,

guardo nel vago altrui quel ch'è in lei vago,

e negl'idoli suoi vien che l'adore.

Ma cotanto somiglia al ver l'imago,

ch'erro, e dolce è l'error; per cui sospiro

come d'ingiusta idolatria d'amore."

Ed anche questa non è una dolce e sottile follia?

Il Manso, suo biografo, mette l'amore del Tasso per Leonora in relazione con l'altra sua più grave manifestazione psicopatologica: trascrivendo un passo di una lettera scritta dal Tasso al duca di Urbino e stampata a Bergamo da Giovan Battista Licino, sostituisce i puntini alla fine della frase "acciò che io possa uscire da questa prigione di S. Anna senza ricever noia delle cose che per frenesia ho detto e fatto in materia ........" con la dizione "d'amore" riferendolo ad Eleonora (mentre con quei puntini lo stampatore sembra aver voluto censurare uno scritto piuttosto imbarazzante perché forse connesso alla supposta passione omoerotica verso Orazio Ariosto, come pensò il Solerti in " Anche Torquato Tasso?", sul Giornale storico della letteratura italiana, IX 1897; se ha ragione il Solerti forse anche questi tormentosi affetti contribuirono allo svilupparsi del sofferto sentire del poeta).

Orbene il Tasso aveva stretto amicizia con un cortigiano , Ercole Fucci, col quale si confidava. Non si sa bene perché, ( il Manso afferma che il Fucci aveva messo in giro confidenze del Tasso riguardanti Eleonora d'Este), nell'ottobre del 1576 il poeta ebbe a dare uno schiaffo all'amico che l'aggredì a sua volta , aiutato dal fratello e da amici; il Tasso ebbe "almeno una bastonata" come è scritto nel rapporto del Podestà. Il poeta rammentò quell'increscioso fatto in un sonetto:

"Più non potea stral di fortuna o dente

velenoso d'invidia ormai noiarmi,

che sprezzar cominciava i morsi o l'armi

assicurata alfin, l’alma innocente.

Quando tu, del mio core e de la mente

custode, a cui solea spesso ritrarmi,

quasi a un mio scampo, in me trovo che t'armi,

lasso, e ciò vede il cielo e lo consente?

 

Santa fede, amor santo, or sì schernite

son le tue leggi? ormai lo scudo io gitto,

vinca e vantisi pur d'egregia impresa.

 

Perfido, io t'amo ancor, benché trafitto,

e piango il feritor, non le ferite,

che l'error tuo più che il mio mal mi pesa."

 

 

Si badi bene però che non fu il tradimento dell'amico, e quel danno subito che ne seguì, a scatenare le gravi sofferenze psichiche che susseguentemente manifestò il poeta anche se la follia cominciò di lì.

Fu invece il comportamento del principe il quale , con l'intento di proteggerlo da eventuali ritorsioni lo rinchiuse dapprima nelle stanze a terreno del castello di Ferrara, poi nella villa di Belriguardo, ed infine nel convento di S.Francesco, guardato a vista come un carcerato, un vero paradosso capace di scombussolare la mente di chiunque: come si può accettare che una persona cara ed importante per la propria sopravvivenza ci faccia del male convinto e con l'intento di farci del bene? Questa fu la situazione che sconvolse la mente del Tasso, il quale si disperava, ne ricercava il perché che non poteva trovare e nel cercarlo, come capita sempre in situazioni analoghe, cominciò a delirare. Era convinto che ciò che gli accadeva fosse a cagione di quello schiaffo dato al Fucci, era convinto che il Fucci fosse più ben visto dal principe che lui stesso, era convinto che il suo gesto avesse fatto inquietare il duca che però non avrebbe dovuto risentirsi ricordandosi delle prove d'affetto che gli aveva sempre dimostrato.

Disperato, scappò da quella prigione dorata e la sua fuga fu vista da tanti e dal duca come la prima manifestazione della sua follia, era fuggito da un luogo dove viveva meravigliosamente, rifiutando la paterna custodia del suo signore.

Si era nel 1578 e quello, insieme al gennaio ed al febbraio del 1579 ,fu un anno di continue fughe, rattristato, impaurito , ossessionato dall'aver perduto la benevolenza del duca e parimenti follemente bramoso di riacquistare i favori. Non smise di stare male anche se lontano da Ferrara, la malinconia l'avvolgeva. Il Tasso, come capita spesso in quella particolare situazione entrava pesticciando in quei viottoli della mente, tracciati dall'eredità che la filogenesi tramanda come schemi di comportamento e che tutti possediamo, e non seppe uscire da quel viottolo imboccato e consolidato dal pesticciare nella convinzione assurda che non esistessero altre strade per andare avanti; parlo del viottolo della depressione.

Andò dapprima a Sorrento dalla sorella che desiderava di rivedere dopo tanti anni pur temendo che non gli volesse bene e non passò però da Napoli per paura che i magistrati volessero sempre arrestarlo per essere fuggito a suo tempo col padre ; giunse da lei travestito da pastore, non si fece riconoscere subito, le porse alcune sue lettere con le quali annunziava che il Tasso stava malissimo, la sorella si disperò, la sua disperazione lo fece stare ancora più male finché la sorella svenne; alla fine con tanta prudenza svelò chi egli fosse, ormai convinto dell'amore della sorella. Restò a Sorrento tre mesi circa, migliorato, ma l'assalì lo spasimo di tornare a Ferrara, ebbe una corrispondenza con gli Estensi, partì per Roma lì ospitato dall'ambasciatore del duca Alfonso, si ammalò a Roma di terzana, guarito ma non ancora ristabilito tornò a Ferrara. Ma lì si ripresentarono di nuovo le incomprensioni per il comunicare fra lui ed il principe su due livelli, di nuovo subì la disconferma che sconvolge e da questa la sconforto del Tasso il quale scriverà, con lucida analisi quel che gli stava capitando al duca di Urbino:

 

" Acceso dunque di carità di signore, più che mai fosse alcuno d'amor di donna e divenuto, non me ne accorgendo, quasi idolatro, continuai in Roma ed in Ferrara (ove mi condusse il signor Gualengo, salvo benché stanco) per molti giorni e mesi in questa divozione e in questa fede, e con mille affetti di affezione, d’osservanza e di riverenza, e quasi di adorazione, passai tant'oltre che a me avvenne quello che si dice: che il corsiero è tardo per troppo spronare; che col volere la sua benevolenza verso di me troppo intensa venni a rallentarla."

Il suo affetto verso il duca e la sua dipendenza erano pari alle sue aspettative forse proprio per questo andò incontro alla profezia che si autodetermina come lucidamente scrive; il Tasso stava facendo di tutto, senza accorgersene, ché ciò che temeva si avverasse, è quello che espresse con sagace intuizione nel sonetto a Leonora damigella:

" Ben folle a se stesso empio è colui

che spera, e teme, ed aspettando il male

gli si fa incontro e sua miseria affretta ."

 

Per rispetto del duca aveva anche accettato di essere considerato folle:

" Percioché sapendo io che nell'animo suo s'erano impressi altamente due altri concetti di me, l'uno di malizia, l'altro di follia, quello non rifiutava ma con tanta dissimulazione sopportava i morsi della altrui maldicenza e questa liberamente confessava: né tanto faceva per viltà d'animo quanto per soverchio desiderio di renderlomi grazioso. Oltre che stimava che l'esser terzo fra Bruto e Solone non fosse cosa d'esempio vergognoso, sperando massimamente con questa confessione di pazzia di aprirmi così larga strada alla benevolenza del duca, che non mi mancarebbe col tempo occasione di sgamar Sua Altezza e gli altri." (lettera al duca di Urbino)

Acuta osservazione di analisi psicopatologica. E' destino infatti di chi soffre psichicamente l'essere trattato o come cattivo o come malato di mente e, siccome è sempre sbagliato accettare sia l'uno che l'altro giudizio, lo sventurato non sa come uscire da quel tranello di altalenanti designazioni che scotomizzano il contesto relazionale distorto che cagiona il suo comportamento.

In verità non era possibile una corretta comunicazione fra il duca ed il Tasso, l'uno il signore, l'altro il servo anche se particolarissimo e ben ricompensato ed amato dal duca il quale, visto dalla parte del Tasso, era di per sé importante e per di più di grandissima importanza per la propria sopravvivenza sia fisica che psichica. E' in questo contesto che già erano sorte ed in questo momento successivo si stavano riacutizzando e peggiorando le sofferenze del poeta.

Dai colloqui col duca ricavava perspicaci annotazioni sulla loro relazione e sulle proprie reazioni interiori magari improntate da immotivati timori conseguenti alla situazione paradossale in cui si trovava a vivere ma il suo ragionare era purtroppo un soliloquio anche se i suoi pensieri li mandava a leggere al duca di Urbino:

" Dico adunque ch'essendosi il duca accorto che s'era molto ingannato nell'opinione che aveva della mia pazzia e della mia malvagità e avvedutosi insieme che in quella parte che appartiene alla sufficienza avea fatto concetto inferiore ai meriti, penso che si convenisse alla sua grandezza riconoscere largamente quello che tardi avea conosciuto e contrappesando la tardanza del riconoscimento e ricompensando con favori e con commodi tutti i disprezzi e i disagi, che per sua mala informazione o per altrui pessima natura avea sopportati. Della quale sua deliberazione io avvedutomi, se ben molto mi compiacqui della buona volontà non mi compiaceva però dell'effetto; e andava rivolgendo fra me stesso che se 'n mediocre stato, che pendea all'umiltà, io ero stato così fieramente soggetto agli strali dell'invidia corteggiana, maggiormente sarei sottoposto a' medesimi, se dopo così gran caduta con subito e inaspettato rivolgimento di fortuna io passassi dall'uno all'altro estremo di favore e di condizione. E oltre che 'l desiderio di quiete e l'amor degli studi mi ritiravano dalle grandezze cortigiane, mi ci faceva anche restio una mia naturale non punto finta né affettata modestia, e la conoscenza che ho di alcune mie imperfezioni; per le quali io non mi credeva essere interamente capace di quei favori che vedeva il duca versare in me con sì grande liberalità. E desiderava io più tosto che egli con quella giustizia che comparte i premi secondo i meriti di ciascuno, onorasse me di quei favori dicevoli alle mie qualità; i quali fossero da me ricevuti , non come ricompensa dei miei affanni sofferti, né come guiderdone dei miei meriti; ma come dono della sua liberalità; e quella medesima azione che da lui fosse proceduta come giusta e come grata, da me fosse gradita come cortese e liberale."

Può sembrare sia uggioso e che cerchi rogne; in verità il Tasso non voleva essere considerato malato di mente e per tale invalidità avere i favori ma desiderava solamente che il duca gli volesse bene e gli concedesse la sua liberalità pur se, per sua natura, temeva "l'invidia corteggiana". Si accorse invece che il duca aveva in animo ben altro; considerandolo malato voleva togliergli ogni fatica di studio ed ogni incomodo di mente offrendogli una vita piena di agi, altra gravissima disconferma ed infausto paradosso giacché il signore gli voleva imporre di vivere bene facendolo diventare un essere insulso. Allora, tentando di darsi una spiegazione sul perché dell'atteggiamento del duca, pensò che disprezzasse le sue composizioni e che lo volesse umiliare per far piacere al suo ministro pertanto il Tasso reagì in maniera considerata inappropriata dal duca.

" Onde avvenne che tutte le mie composizioni, quanto migliori le giudicava, tanto più gli cominciavano a spiacere, e avrebbe voluto ch'io non avessi aspirato ad alcuna laude d'ingegno, e a niuna fama di lettere e che tra gli agi e i commodi e i piaceri menassi una vita molle, delicata e oziosa, trapassando quasi fuggitivo, dall'onore del Parnaso, dal Liceo, e dall'Accademia agli alloggiamenti di Epicuro, e in quella parte di essi ove né Virgilio, né Catullo, né Orazio, né Lucrezio stesso abitarono giammai. Il qual pensiero suo o più tosto d'altri (percioché così era suo, come a' corpi gentili sono l'infermità non nate per malignità d'umori, ma per contagioni appigliate) fu non dubbiamente conosciuto da me; e mi mossi a tanto e giusto sdegno, che dissi più volte con viso aperto e con lingua sciolta, che avrei meglio amato esser servitore di alcun principe nemico suo, s'alcuno ve n'ha che gli sia nemico, che consentire a tanta indegnità; e in somma odia verbis aspera movi. " (lettera al duca di Urbino)

Appare chiaro che prima di arrivare all’odio, sempre per l’affetto che gli portava, aveva pensato che l’operato del duca fosse indotto dal malanimo dei cortigiani che l’avevano contagiato. Pensò pensò pure che il duca avesse consentito a che gli fossero trafugate certe sue composizioni a lui dedicate, ma non ancora corrette, e date alle stampe affinché i soliti sofisti lo potessero denigrare; era vero? non vero? chissà, però in passato era successo che qualcuno gli avesse trafugato le sue opere, chissà forse qualcuno gli aveva sottratto quei denari che ad ogni modo il proprietario, mentecatto, non poteva spendere; in ogni delirio c'è un fondamento di verità. In seguito quasi a scusare il duca, e lo noteremo, darà la colpa delle ruberie e del metter a soqquadro le stanze dove viveva ad un “folletto, un essenza magica, che lo perseguita.

Nella stessa lettera troviamo una perla degna di meraviglia: il Tasso introduce il discorso sui due modi del linguaggio, quello verbale, numerico, e quello non verbale, analogico, anticipando di secoli gli studi su tale problema che hanno evidenziato come il linguaggio non verbale sia sempre non ben definito e comprensibile perché ambiguo (si può piangere sia di gioia che di dolore) e come sia impossibile con il linguaggio non verbale comunicare il non voler fare una certa azione:

" Ma (per tornare onde mi sono allontanato) conoscendo il signor duca che questo suo non era giusto desiderio, e volendo che fosse posto ad effetto da me, né potendo essere posto se non inteso; e vergognandosi di significarlomi con parole, procurò di farlomi conoscere con cenni. Né, come prima poteva verisimilmente infingermi di non intendere, così avea troppo desiderato di ubidire a' cenni ancora dei suoi comandamenti e, se bene io mi sforzai di ridur il negozio da' cenni alle parole, non potei: perché alle parole non era risposto se non con parole vane e fatti cattivi." (Lettera al duca di Urbino.)

Esemplare pagina su come si possa sviluppare il disagio psichico, il più grave.

Aveva anche cercato di parlare con Leonora e con la duchessa, aveva cercato di parlare col duca

" ma compresi ch'egli aborriva d'udirmi i questa materia, ne parlai col suo confessore ma indarno." (lettera al duca di Urbino)

 

In tali condizioni fuggì nell'estate a Mantova e, dopo una sosta a Pesaro, a Padova e poi a Venezia, nell'agosto arrivò ad Urbino dove il duca lo consigliò di tornare a Ferrara; da lì in fuga di nuovo verso Mantova. Poi, a fine vendemmia, si trovava per strada verso Torino ospitato da un signore presso Borgo Vercelli, lo narrò nel suo "Dialogo di un padre di famiglia", nel quale scrive che, essendo impaurito e sospettoso e desiderando di non essere riconosciuto, non aveva esaudito la domanda di chi lo ospitava su chi fosse e da dove venisse: "Il nome ed il cognome mio vi taccio, ch'è sì oscuro che, perché pur io vi dicessi, né più né meno sapreste delle mie condizioni: fuggo sdegno di principe e di fortuna e mi riparo negli stati di Savoia." A Torino passò quasi tutto l'inverno sotto falso nome finché fu riconosciuto da Filippo d'Este, genero de Emanuele Filiberto che ne dette notizia al duca di Ferrara il quale gli fece giungere l'invito di tornare da lui. Il Tasso vi arrivò il 21 Febbraio 1579 .

Ma, sempre un ma, "giunto a Ferrara, non fui raccolto da alcuno che dipendesse da Sua Altezza Serenissima, ma dai dipendenti del Cardinale d'Este"; in realtà il duca era impegnato nei preparativi per le sue nuove nozze ma il Tasso se ne adontò ugualmente, si vide nuovamente disconfermato, aveva continuamente ricevuto durante le sue fughe inviti a tornare ed ora, come le altre volte che era tornato, la realtà era ben diversa da come se l'era immaginata e da come gliela avevano fatta immaginare, specie ora che tornava dopo un periodo sufficientemente tranquillo a Torino e dopo avere rifiutato l'offerta di casa Savoia di restare lassù con tutti i benefici che gli avrebbe concesso il duca di Ferrara, lui, che sempre aveva agognato la benevolenza e l'affetto del duca e che da tempo era convinto di non avere, si sdegnò tanto che l'11 di marzo inveì con parole ingiuriose verso il duca, verso la sposa, verso i principi estensi, verso tutti ; fu allora che

 

".....persuaso il duca che Torquato ogni giorno maggiormente fosse gravato dall'infermità e dalla fiera malinconia (il che tanto poteva esser più vero, quanto egli men lontano stava alle medesime cagioni onde i suoi mali ebbero origine) pensò di fare opera degna della sua umanità in procurando con l'aiuto de' medicamenti di poterlo all'intiera sanità restituire".

 

"......ma non forse egli, che mal volentieri soleva ai remedi sottoporsi, di nuovo tacitamente si dipartisse, gli fu per ordine del duca vietato quindi di uscire, e imposto alle guardie che non glielo consentissero."

"......Nondimeno quello che l'amorevolezza del duca aveva ordinato a sollevamento della salute di Torquato, a lui fu cagione di notabile peggioramento nell'infermità; percioché prendendo esso ad altro fine questo così stretto ritegno, gli crebbero a molti doppi la malinconia, e' sospetti, onde si diede primeramente per mezzo della sua penna e in prosa e in versi e poscia per interposite persone a supplicare al duca per la sua liberazione; e talvolta impaziente di quello che stimava suo carcere, a dolersene aspramente e quindi a pentirsi d'essersene doluto, e a dubitare che 'l duca non fosse dalle parole di questi rimasto offeso." (Manso, Vita di Torquato Tasso, cap. XIII) .

Il duca ripeteva lo sbaglio fatto nel '576, anzi lo aggravava, e non se ne accorse. Quanti psichiatri dovrebbero meditare su questa testimonianza del Manso! Il Tasso veniva rinchiuso e recluso nell'ospedale di S.Anna come si è fatto e si continua a fare negli ospedali psichiatrici per chi soffre di disturbi psichici; incapace di capire i veri motivi del grave disagio psichico del Tasso, ai quali motivi il principe era paradossalmente ed inconsapevolmente legato e complementare, il duca fece ciò che tanti, quasi tutti, gli psichiatri insieme ai parenti del cosidetto "paziente" hanno fatto e fanno , il suo ricovero cioè in ospedale, inutile quanto dannoso.

Restò rinchiuso in quell'ospedale divenuto la sua prigione , punito per colpe non commesse, fino al 1586. Scrisse a tanti ,ad Abati, a Monsignori, a Cardinali ed a letterati, denunziando la propria misera condizione e pregando che intercedessero per lui, al duca di Savoia, al Granduca di Toscana, all'Imperatore, al Papa. Così scrisse al Cataneo. "o signor Maurizio, quando sarà quel giorno ch'io possa respirare sotto il cielo aperto, e ch'io non mi veda sempre un uscio serrato davanti, quando mi pare di aver men bisogno del medico che del confessore." Non aveva fiducia dei medici, ed era nel vero, anche se richiedeva il loro intervento e le loro pozioni, di questo scriveva ad Ascanio Mori: "ai Medici credo poco, e le ragioni senza le esperienze alcuna volta non mi appagano. Faccia qualche prova questo uomo mirabile, o medico, astrologo ch'egli sia, perché in me può farla, percioché io son simile a coloro che sono dannati a morte, ne' quali è lecito far tutte le esperienze."

 

Scrive nel sonetto al cardinale Scipione Gonzaga.

" Scipio, o pietade è morta, od è bandita

da' regi petti, e nel celeste regno

tra' divi alberga e prende il mondo a sdegno,

o fia la voce del mio pianto udita.

Dunque la nobil fe' sarà schernita,

ch'è di mia nobiltà sì nobil pegno,

né fine avrà mai questo strazio indegno

che m'inforsa così tra morte e vita?

Questa è tomba de' vivi, ov'io son chiuso,

cadavero spirante, e si disserra

solo il carcer de' morti. Oh Divi, o Cielo!

 

S'opre d'arte e d'ingegno,amor e zelo

d'onore han premio, ovver perdono in terra,

deh, non sia, prego, il mio pregar deluso."

 

Non temeva tanto la morte quanto l'eventualità di passare tanto tempo fra quelle mura "e temo il morir, no, ma lungo scempio", (in un sonetto alla duchessa Margherita ); gridò la sua disperazione in un altro sonetto dedicato alla medesima:

Suonano i gran palagi, e i tetti adorni

di canto; io sol di pianto il carcer tetro

fo risonar. Quest’è la data fede?

 

Son questi i miei bramati alti ritorni?

Lasso! dunque prigion, dunque feretro

chiamate voi pietà, Donna, e mercede?"

Mandò poesie al duca, scrisse poesie anche all'anima del padre del duca che suggerisse un atto di pietà, di perdono; arrivò ad autoaccusarsi nella canzone alle principesse di Ferrara:

" Merto le pene, errai,

errai, confuso; e pure

rea fu la lingua, il cor si scusa e nega."

 

Chiedeva perdono, chiedeva pietà , nella medesima canzone a

"quel signor per cui spiace

più la mia colpa a me che i miei tormenti."

A tratti si riconosceva sofferente di "frenesia" a tratti si sentiva sconvolto e tormentato da deliri ed allucinazioni e non sapendo spiegarsi il perchè di quello stato, come capita tuttora a tanti che siano in quelle condizioni e che, a causa dell’umano bisogno di trovare una ragione a certe stuazioni inspiegabili, la vanno a trovare nel delirio, pensava a fatti di magia o di stregoneria diabolica, lo confidò a Maurizio Cataneo: “Vostra Signoria dee sapere ch’io fui ammaliato, ne’ fui risanato, o forse ho maggior bisogno dell’essorcista che del medico perché il mio male è d’arte magica”. Ciò che confermava nel sonetto al duca Alfonso:

 

Lasso! chi questa al mio pensier figura,

ora torbide e meste, or liete e chiare

larve, colle quali spesso ( o che mi pare)

inerme ho pugna perigliosa e dura?

 

Opra è questa d'incanto, o mia paura

è la mia maga, e 'ncontro a quel che appare."

Ecco il delirio, ecco le allucinazioni quelle "ora torbide e meste, or liete e chiare larve " ma è singolare e stupefacente l’attimo in cui affiora il dubbio, barbaglio di salute mentale, di quel “o che mi pare” messo fra parentesi, ecco il "folletto", sia nel dialogo "il Messaggero" sia nella stessa lettera al Cataneo :

" Del folletto voglio scrivere alcune cose ancora: il ladroncello mi ha rubato molti scudi di moneta, né so quanti siano, perché non ne tengo conto come gli avari, ma forse arrivano a venti; mi mette tutti i libri sossopra, apre le casse, ruba le chiavi, ch'io non me ne posso guardare, sono infelice d'ogni tempo, ma più la notte, né so se il mio male sia di frenesia o d'altro."

Il Tasso sperò nella liberazione dopo che don Giovan Battista Licino, ecclesiastico di Bergamo, inviato dagli Anziani di quella città, venne a chiedere al duca di Ferrara la libertà per il poeta, ancora si attendeva che riuscisse nell'intento don Angelo Grillo , abate prima di S.Paolo a Roma e poi abate in Mantova ma invano. Solo ai primi del 1586 poté lasciare definitivamente l'ospedale di S.Anna dopo un breve periodo durante il quale era potuto uscire di giorno, sempre accompagnato, per ritornarvi la sera; come si vede il night hospital non è stato inventato ai nostri giorni e neanche la libertà vigilata. Il duca di Ferrara accettò alla fine che il principe di Mantova Vincenzo Gonzaga, grande ammiratore del Tasso, venuto a Ferrara per le nozze di Cesare d'Este, lo potesse portare con sé promettendo di tenerlo sotto la medesima custodia così il Tasso andò a Mantova non completamente libero. Scrisse a monsignor Licino: "Della mia libertà non posso scrivervi altro di quel che sapete; io posso andar per tutta Mantova." Gli scrisse anche che " vivo se le pare può supplicare il serenissimo duca di Ferrara, che si contenti ch'io viva in libertà, perché meno infelice, benché non sia più sano."

Ma non si sentiva più di fare il poeta di corte, ospite sì, magari, ma come amico e quando il principe Francesco, dopo la morte del duca Guglielmo, dovette stare dietro agli affari di stato e non poté dedicare il suo tempo nell'intrattenersi col Tasso questi pensò di lasciare Mantova il cui clima non gli si confaceva. Andò dapprima a Bergamo poi a Roma ed a Napoli per riappropriarsi di quei beni che avrebbero potuto permettergli di vivere senza un padrone.

Negli anni seguenti ,sempre accompagnato dal suo folletto, col quale a tratti colloquiava come riferiva il Manso, sempre accompagnato dalla sua tormentosa malinconia, andrà a Roma, a Napoli, a Firenze, a Montecassino, a Loreto; a Roma ancora per l'ultima volta, nel 1595, dove avrebbe dovuto essere incoronato poeta e dove morirà il 25 aprile, nel convento di S.Onofrio, fra le braccia misericordiose della sua Fede che mai l'aveva abbandonato, disdegnando gli onori ed i principi di questa terra, desiderando che fossero date alle fiamme tutte le sue opere.

Le sue ultime parole: "in manus tuas, Domine.....". E non poté andare oltre.

 

La sua dolorosissima e terribile sofferenza psichica resta un esempio di come falsi e bugiardi atti di cura e di pietà barattati per amore possono portare a tormentosa follia.