In questo spazio “testimonianze” verranno raccolti racconti, ricordi autobiografici, tracce oramai perdute di vite che hanno conosciuto la deportazione dal manicomio per motivi “razziali”. I primi contributi saranno tratti da libri scritti da psichiatri a proposito di persecuzioni razziali e guerre vissute dall’interno dell’ospedale psichiatrico.

Iniziamo con Rosario Ruggeri che nel suo “Fra malati di mente” raccoglie, nel capitolo conclusivo, un’accorata testimonianza dell’orribile deportazione ai danni di pazienti ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Milano.

 

LINKS SPECIFICI:

Giornata della memoria

Convegno “Psichiatria e Nazismo” (organizz.dalla Fondaz.S.Servolo di Venezia)

“La scienza dello sterminio nazista.Antropologia,igiene della razza e psichiatria” di C.Marta

Articoli di G.Moriani apparsi su “Il Manifesto”

 

Da Rosario Ruggeri, "Fra malati di mente", Garzanti, Milano, 1949, cap.XXIV.          

 

 

L'ultimo viaggio.

 

Passarono i mesi freddi dell'ultimo inverno di guerra. Il febbraio fu mite. Si sentivano nell'aria i fermenti della primavera.

Le speranze che il rifiorire della vita alimentava in Alberto sembrava trovassero eco negli avvenimenti. La guerra era per finire e l'esito non era dubbio. Lo capivano tutti, anche quelli che avevano qualche ragione per non confessarlo.

Nel pensiero dei miseri, la fine della guerra significava qualcosa di più che una generica liberazione. Sarebbero venute per tutti la sicurezza del lavoro, la possibilità di esplicare la propria personalità, la gioia di sentirsi parte della collettività, uomini fra uomini.

Che senso avrebbe altrimenti avuto la liberazione? Perché erano caduti milioni di uomini, se non per liberare i loro fratelli dall'ingiustizia e dalla paura?

Non v'era alcuno fra questi diseredati, fra questi vinti dalla vita, molti senza alcuna colpa, che non fosse sicuro in quei giorni che un mondo nuovo, più giusto, stava per spuntare.

Alberto era forse il più convinto di tutti e questa convinzione alimentava ancora maggiormente le sue speranze.

Quella mattina Alberto si era svegliato alle quattro, e non gli era più riuscito di prender sonno. Si sentiva pieno di forza, di vita, di ottimismo, con un grande bisogno di muoversi e di agire.

La notte era passata tranquillamente, persino il ragazzo epilettico, che di solito svegliava tutti col grido lacerante con cui iniziava il suo accesso, aveva taciuto.

Anche il vecchio orefice insonne, che barbugliava continuamente, aveva, fatto strano, dormito quasi tutta la notte non si sa se per la stanchezza di una giornata agitata o per il bagno caldo della sera.

Verso le sei Alberto si alzò. Scese in giardino e incominciò a vangare le aiuole. In una, la più grande, aveva divisato di fare un vivaio di alberi da frutta, raccogliendo e trapiantando le piantine che spontanee crescevan qua e là. Voleva lasciare degli alberi, in suo ricordo, all'Ospedale.

Si era proposto di ritornare ogni anno in primavera ed in autunno a portare regali ai ricoverati e a rivedere i suoi alberi carichi di fiori e frutti.

Improvvisamente, sulla scala, che porta in reparto, comparvero quattro uomini, uno in borghese, tre nella divisa delle SS tedesche.

Alberto si sentì gelare, non per sé, che immaginava non aver nulla da temere, ma perché quella visita significava, con ogni probabilità, per qualcuno dei suoi compagni il principio di sciagure.

Pensò a Bianchi, agli ebrei, ai politici ricoverati nel reparto.

Il caposala Ruspi, che dalla finestra del primo piano, aveva visto venire i tedeschi, si preoccupò che gli ebrei e i politici si rifugiassero in cantina nel nascondiglio e per dare loro tempo, scese per andare incontro ai tedeschi fuori del reparto e, con la scusa di chiedere cosa volessero, fermarli per qualche minuto.

L'interprete spiegò che il comando tedesco di Milano desiderava avere alcune informazioni da un certo C. Castelbolognesi e da Alberto M.

Alberto lasciò la vanga e si avvicinò per dire che, se avevano bisogno di sapere qualcosa da lui, avrebbero potuto domandargliela subito.

Fu invitato a fare subito le valigie, e a seguirli.

Davanti alla Direzione v'erano altri soldati tedeschi e un gruppo di ricoverati e ricoverate, con le loro valigette o con pacchi.

Il personale degli uffici guardava, da dietro i vetri delle finestre, con terrore e pietà e con quello stato d'animo che si prova quando una disgrazia grande, che poteva colpire anche noi, si è abbattuta su gente vicina, risparmiandoci.

Può sembrare strano: Alberto ricordò solo ora, e con vera meraviglia, che per certi riguardi, anch'egli poteva cadere sotto le sanzioni razzistiche. La sua famiglia, per quanto trasferita da molte generazioni in un paese del meridione, di cui aveva assunto abitudini e religione sino a perder ogni legame cogli ebrei, era pur di origine ebraica. Più che ingiusto, trovò ridicolo lo si volesse condannare.

Capì che gli si preparava qualcosa di terribile, ma non protestò. Il senso di colpa che l'aveva accompagnato sin dall'infanzia, gli faceva accettare con rassegnazione ogni male e dolore, da qualunque parte venissero, per quanto grandi fossero.

Dei ricoverati chiusi nel cerchio dei soldati tedeschi, egli non conosceva che un ragazzetto, certo Nissim, dal viso bruno carico e dall'aspetto spaurito.

Dall'età di tre anni, Nissim, figlio di un negoziante di Bagdad, era ricoverato in Ospedale. Non si sa come fosse capitato a Milano.

Di tanto in tanto il padre mandava un certo numero di sterline per pagare la retta e poi, per mesi o anni, nessuno si faceva vivo. Una volta sola qualche anno prima della guerra, un signore, che si era presentato come suo zio, venne a trovarlo. Appena ebbe innanzi il ragazzo, lo baciò rumorosamente e gli rivolse la parola in quattro o cinque lingue, mentre gli porgeva strani dolci, confezionati chissà in quale parte del mondo. Ma quando vide che il nipote non rispondeva affatto, né prendeva i dolci e continuava a fissarlo con quegli occhi sbarrati di terrore, che incutevano veramente un senso di malessere, se ne andò, senza neppure voltarsi indietro.

Ora Nissim, tremando di paura, si aggrappava ad una ricoverata con un vestito a maglia grigio cenere. Questa era evidentemente in istato demenziale; non capiva assolutamente ciò che stava accadendo attorno a lei e guardava con espressione inebetita quel ragazzetto che le si era attaccato alle vesti. Un'altra ricoverata, con le guance eccessivamente coperte di cipria rossastra, si avvicinò al ragazzino per tranquillizzarlo e gli porse la mano, ma egli cominciò ad emettere alte grida e si attaccò alla veste più forte che mai.

Arrivò in quel momento, accompagnata da un tedesco, una donna zoppa. Avrà avuto una trentina di anni, vestiva in abito borghese ed aveva sul bavero del soprabito una strana farfalla di metallo bianco.

Teneva in mano una elegante valigia, apparentemente di cuoio.

L'ufficiale tedesco gridava intanto con il Direttore dell'Ospedale e minacciava con il suo solito gesto.

L'interprete, un uomo alto e magro, dagli occhi chiari, dalla pronuncia lievemente esotica, forse un altoatesino, faceva evidenti sforzi per tenergli dietro con la traduzione, cercando di attenuare nello stesso tempo la crudezza delle frasi.

La discussione verteva su di una donna che i tedeschi avrebbero voluto portare via e che il Direttore diceva non trasportabile. Si trattava di una vecchia demente, diabetica e con una gamba in cancrena, che morì poi nella notte.

Il tedesco gridava di pietismo, di ostruzionismo, di sabotaggio, minacciava di portare via, invece di quella ricoverata, due, quattro, dieci persone.

Sembrava che tutto il destino del terzo Reich dipendesse da questa vecchia ebrea, dalla gamba in cangrena. Volle andare in reparto a vederla lui stesso, chiese telefonicamente ordini al suo comando, e finalmente si decise a lasciarla in Ospedale.

 

Intanto suor Brigida era venuta dalla cucina, accompagnata da un ricoverato che portava un gran vassoio, dove ella aveva messo ogni ben di Dio. Quando questa suora si presenterà in Paradiso, il buon Gesù non mancherà di posare un bacio su gli occhi che tanto hanno pianto quel giorno.

Andò essa stessa a pigliare una sedia per un vecchio che mal si reggeva sulle gambe, e fece portare un tavolino dove collocò il vassoio e con parole e gesti, invitava quei poveretti a prendere qualcosa. Quasi tutti accettarono. Soltanto un ebreo polacco - un ometto corto, segaligno, dalle guance incavate, dagli occhi vivi mobilissimi - si rifiutò per paura d'essere avvelenato.

Arrivò anche la suora guardarobiera con due infermiere cariche di paltò neri. Codesta suora si sarebbe fatta tagliare a pezzi per difendere i suoi paltò neri, quelli confezionati con lana autentica di prima della guerra. Li amava come proprie creature. Sapeva che per molti anni non se ne sarebbero potuti avere di così belli, e difendeva quei pochi che le rimanevano.

Ora essa scelse i più belli e i più lunghi e venne di persona a provarli a quei poveretti, che sarebbero andati là dove c'era tanto freddo.

I tedeschi erano impazienti. Sono sempre impazienti costoro, è questa una delle cause delle loro tragedie. Borbottavano contro questi italiani che hanno pietà per tutti, anche per gli ebrei e per questo non vinceranno mai le guerre.

Nissim, invece di salire sull'autocarro, scappò verso il reparto fanciulli, non preoccupandosi naturalmente di due tedeschi, che gli avevano puntato il fucile mitragliatore e gridavano minacciando di fare fuoco. I due gli corsero dietro e lo portarono di peso sulla macchina. Nello stesso momento, la ricoverata dalle guance coperte di cipria rossastra emise un grido e cadde pesantemente al suolo, battendo la fronte. Gli arti, dapprima rigidi, cominciarono ad agitarsi in preda ad intensi movimenti convulsivi, mentre schiuma colorata di sangue le usciva di bocca.

I tedeschi, già irritati dalle lungaggini dei preparativi e dalla fuga del ragazzo, credettero a una manovra della ricoverata per sottrarsi alla partenza. Un soldato dallo sguardo duro, con un'ampia cicatrice sulla guancia sinistra, impugnò dalla canna il fucile mitragliatore e si avventò per colpire la donna che si dibatteva, ma prima che egli la raggiungesse si erano precipitati su di lei le due suore, il Direttore, un'infermiera.

Il soldato ebbe l'impressione di trovarsi solo, non uomo, fra uomini forti della loro umanità, e si allontanò furioso.

Cessate le convulsioni, due soldati presero di peso la donna ancora incosciente, e la collocarono sull'autocarro.

Alberto aiutò a salire tutti, aiutò a portare sulla macchina valigie e pacchi. Quando stava per salire, arrivò Bianchi. Aveva una scatola di cartone piena di sigarette e una bottiglia di cognac.  Trasse di tasca due biglietti da mille e altri di piccolo taglio e glieli consegnò.

<<Scusami se non posso darti altro per questi infelici. Cerca di far di tutto perché abbiano a soffrire il meno possibile. Può darsi che ci rivedremo qui o in qualche altro luogo >>.

Alberto non è più ritornato. Sappiamo che fino alla sua morte fece quanto poté per alleviare ai compagni le sofferenze.

 

 

 

F I N E