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PER UNA FENOMENOLOGIA DEL SENTIMENTO DI CATASTROFE E DI FINE DEL MONDO. Il contributo         teorico di Sergio Piro e di Mario Rossi Monti.

 

di Giuseppe  Leo

   

       Dopo aver incontrato Sergio Piro e Mario Rossi Monti ad Otranto, in occasione del convegno "La torre e l'arca" (3-4 ottobre 2003), fui stimolato dalle loro relazioni, che molto opportunamente erano state collocate à suivre nello stesso pomeriggio di venerdì 3 ottobre.

Acquerello di Willey Reveley (1760-1799), South View of the Castle of Otranto, ca. 1785.

 La relazione di Rossi Monti, intitolata 'Il senso della rivelazione', riprendeva e rielaborava una tematica che era stata già sviluppata in 'Fisiologia e patologia della scoperta'  (articolo pubblicato nella Rivista di Psicologia, 1,85-96, 1989)

 Nell'esposizione seguente farò riferimento essenzialmente a questo scritto che molto gentilmente l'autore mi ha inviato.

  Partendo dalla definizione oramai classica di Wahnstimmung (Jaspers, 1959), tale stato della mente che precede l'esordio del delirio  viene accostato, onde esplorarne le analogie sul piano fenomenologico, con quelle esperienze, descritte in ambito epistemologico, connesse con la scoperta scientifica, con l'emergenza in statu nascendi di un'idea nuova, rivelatrice di un nuovo ordine.

Jaspers (1959) così scrive a proposito della Wahnstimmung: «Per la strada tutto era cosi differente, diverso da prima, ci doveva essere qualche cosa. Un passante aveva uno sguardo cosi penetrante, forse era un detective. Poi passò un cane che pareva ipnotizzato, era come un cane di gomma, come se fosse mosso da un meccanismo. C'era tanta gente per la strada: forse c'era qualche macchinazione. Tutta la gente faceva rumore con gli ombrelli, come se ci fossero state dentro delle macchine [...] deve succedere qualcosa, il mondo si trasforma. Comincia una nuova era. Ci deve essere dietro qualcosa di non naturale. Gli uomini sono "mischiati", essi sono "comparse", hanno tutti un aspetto non naturale. Le insegne sulle case sono storte, le strade hanno un aspetto cosi poco rassicurante». 

    K. Jaspers

Lo stato d'animo delirante viene sentito come esperienza (Erlebnis) di trasformazione del mondo, vissuta con angosciosa impotenza e perplessità: il passaggio al delirio è quindi preceduto da un'intenzionalità volta a  conferire senso a questa incomprensibile e mostruosa attesa di qualcosa di catastrofico che sta per accadere. Il delirio conferirà ordine e comprensibilità, grazie alla intenzionalità appercettiva, a quei frammenti sparsi, a quelle tessere del mosaico che saranno organizzate secondo una Gestalt nuova ed originale, anche se  a prezzo di un 'riduzionismo' ontologico impermeabile all'esame di realtà.

Per Rossi Monti <<quelle esperienze tra  loro slegate che suscitavano perplessità possono ora essere ricondotte ad un unico denominatore, dietro di esse si può scorgere un unico disegno che le rende elementi coerenti di un sistema che tende a farsi sempre più logicamente serrato>>.

Utile, a tal fine, sembra il concetto di 'stato paranoico della mente', mutuato da Meissner (1978), intendendosi per esso <<l'organizzazione di un sistema di credenze coerenti che permette al soggetto di interpretare la realtà e di organizzarla in sintonia con i suoi bisogni di adattamento>>. Questo concetto-ponte fra la normalità e la follia, secondo Rossi Monti, sta ad indicare un processo cognitivo che << si colloca in un continuum di stati cognitivi che va dalla normalità alla follia e si caratterizza, sia nelle sue forme normali-adattive sia in quelle patologiche, per operare nel senso dell'integrazione, del mantenimento dell'integrità e del senso di coesione di sé. Il processo paranoico è in sostanza uno stile cognitivo che affonda le radici nella personalità di ogni essere umano e che partecipa a gran parte delle attività creative dell'uomo, dalla elaborazione di teorie in ambito scientifico, dalla edificazione di una fede o di un sistema di credenze mistico-religiose fino allo sviluppo di un delirio.Il processo paranoico non è quindi all'opera solo in situazioni di patologia psichiatrica ma anche in ogni situazione creativa, nel contesto del quale svolge una funzione integrativa e costruttiva>>. D'obbligo in tal senso è anche il riferimento a Nacht e Racamier (1958) che parlano di 'conoscenza delirante' e di 'effetto chiarificatore del delirio'. 

Ricchissimi sono poi i riferimenti a testimonianze di scienziati e filosofi della scienza che Rossi Monti adduce nel suo lavoro a sostegno del fatto che <<il cosiddetto vissuto della scoperta verrebbe quindi a costituire un'esperienza ubiquitaria rintracciabile sia in ambito psicopatologico, sia in ambito scientifico>>.

Dalle testimonianze  autobiografiche di Mach (1896) e di Poincaré (1913), agli studi di Bartlett (1958), di Abrams (1953), di Hutten (1976), di Kuhn (1962), di Hadamard (1945), di Wertheimer (1945), di Gruber (1984), di Grmek (1981), di Ceruti (1989), di Somenzi (1981), di Lakatos (1970), di Popper (1975) e degli altri citati in bibliografia, risultano stringenti le analogie tra inventiva delirante ed inventiva scientifica.

Ma allora sorge naturale una domanda cruciale: dove sta il limite tra le due forme di creatività, in cosa sta il 'discrimine'?

Il delirio, per definizione, a differenza delle 'costruzioni scientifiche', ha le caratteristiche della segretezza, dell'iperdogmatismo, dell'<<impossibilità di riorientare la propria visione del mondo>>, del <<blocco della progettazione>>, dell'<<orientamento verso il passato>>, della <<preclusione all'ambiguità e al caso>>, della <<totale corrispondenza tra teorie e realtà>>, dell'<<impossibilità a funzionare come un sistema aperto>>. La scienza ha, al contario, il carattere della 'pubblicità', per cui senza il consenso degli appartenenti alla comunità scientifica alcuna teoria può essere mai accettata.

Inoltre, uno scienziato nel corso della sua vita può 'sopportare' e accettare revisioni della teoria che ha costruito, può risperimentare il vissuto di un rimaneggiamento della 'sua' teoria oltre che di una nuova scoperta; mentre il delirante si 'aggrappa' tenacemente alla sua costruzione opponendosi ad ogni verifica esterna e ad ogni conferma di essa sul piano intersoggettivo.

   S. Dalì

 La relazione di Sergio Piro ad Otranto si intitolava 'Antropologia della catastrofe: l'Erlebnis di fine del mondo'. In realtà l'autore in quell'occasione ha subito esordito dicendo che avrebbe  modificato il testo del suo intervento sulla base della relazione di Francesco Tornesello (che in mattinata aveva aperto i lavori), intitolata 'Osservazione sui movimenti di rotazione e rivoluzione del pianeta Schizofrenia', nonchè di quella immediatamente precedente di Rossi Monti. Con il suo stile colloquiale e sapientemente comunicativo  il Prof. Piro ha affrontato alcuni temi che già  aveva esposto in occasione di un altro convegno, svoltosi a Roma nel dicembre 2002 ('Il linguaggio della sofferenza. Ripensando Ernesto De Martino'). Quella relazione è stata poi pubblicata nel 2003, in formato ridotto, sulla rivista L'Ippogrifo. La Terra vista dalla Luna, con il titolo 'Il mutamento pauroso del mondo'. Farò riferimento essenzialmente a questo lavoro, il cui testo l'autore gentilmente mi ha inviato, per illustrarne gli aspetti teorici più originali.

Per Piro l'esperienza (Erlebnis) di fine del mondo non è un fenomeno dato e reificato dalla descrizione psichiatrica ed antropologica, ma è un fenomeno che va storicizzato. Infatti, le descrizioni degli psichiatri della 'parte centrale' del secolo XX, con la loro variegata terminologia (     la sospesa apprensione, Wahnstimmung di Hagen , riportata da Callieri & Semerari, 1959;      l’attesa immobile che non finisce mai;      la spersonalizzazione e la derealizzazione  secondo Callieri e Felici ,1968;      l’esperienza di stato di assedio;      l'Erleben della catastrofe imminente Katastrophale Stimmungstönung des Erlebens di Müller-Suur;       la grande crisi del mutamento, della trasformazione e della catastrofe: Prozess-symptom di Mauz; mutamento pauroso di Coppola;      il sentimento di sprofondamento dinamico del mondo Weltuntergangserlebnis di Wetzel: cfr. Callieri 1955), facevano riferimento a pazienti schizofrenici che, in quel determinato periodo storico, esperirono e pre-sentirono << il sentimento di catastrofe cosmica e antropica che percorre il grande inespresso collettivo1 in questo momento della storia>>.

 Tuttavia,  Piro  suggerisce il senso metastorico della fenomenologia schizofrenica quando aggiunge che << se è vero che certi aspetti della psicopatologia rivelano strati profondi e sedimenti antichi di una comunità e di una tradizione, la superstizione metafisica, il pensiero magico e rituale, la logolatria e l’aritmolatria dei pazienti psichiatrici contengono tutti – in compresenza – l’intuizione della fine del mondo: il Weltuntergangserlebnis degli schizofrenici sembra, insieme, il ricordo di eventi storici antichissimi e la profezia di un futuro vicinissimo>>.

E' vero che le angoscie collettive di fine del mondo hanno attraversato a più riprese la storia dell'uomo (basti pensare all'attesa escatologica dell'Anno Mille), ma certi avvenimenti 'epocali' rappresentano dei punti di svolta, di non ritorno, un segno indelebile del potenziale distruttivo della specie umana. Segnatamente, le tragedie di Hiroshima e Nagasaki hanno cambiato la 'storia delle visioni della fine del mondo':<<l’angoscia di fine del mondo, da sempre presente in diverse aree antropiche del pianeta e in tempi diversi della storia, s’è fatta unitaria ed estesa sincronicamente quanto lo è la specie, dopo il delitto atomico di Hiroshima e Nagasaki: la fine del mondo si  costituisce dunque come tema protensionale (cioè intenzionale) unitario di un inespresso cosmico continuamente fluente1>>

Gli schizofrenici, con una metafora efficacissima, vengono considerati da Piro i 'rabdomanti del grande inespresso continuamente fluente1'. Dopo Hiroshima e Nagasaki, l'altro evento-limite della storia recente è l'11 settembre 2001, con la spettrale apparizione del Ground Zero. 

Quanti schizofrenici, che noi abbiamo curato o continuiamo a curare negli ultimi tre anni, non ci hanno testimoniato con le loro parole, o anche senza di esse, la terribilità del Male, sì proprio quello con la M maiuscola, quello che minaccia il continuum 'progressista' della Storia, che scardina i valori rassicuranti della Civiltà occidentale?

Per Piro, ciò che si pone in antitesi all'esperienza della catastrofe è il desiderio, nella duplice declinazione possibile del desiderio di un altro mondo e del desiderio di un mondo diverso.  La differenza tra queste due tipologie fenomenologiche del desiderio consiste in ciò: <<il desiderio di un altro mondo è generica speranza di salvezza, mentre, poco più avanti, nel farsi riflessione e protensione il desiderio di un mondo diverso è progetto politico generale, sforzo di attuarlo o di adoperarsi acché si realizzi, passaggio alla prassi>>. In altri termini, << il desiderio di un altro mondo è: ipotetico e desiderativo; generico e retrospettivo; sognante; metafisico; agganciato alla singolarità, etc. Non si fa progetto, non provoca ondate nella storia. Per contro, pur rappresentando sovente la conseguenza del desiderio di un altro mondo, il desiderio di un mondo diverso si presenta subito come prassi, come gettatezza al di là. Il desiderio di un mondo diverso sembra essere: concreto, perché – in modo non eludibile – prevede operazioni di salvezza della specie; trasformazionale, perché intuisce o prevede la necessità di trasformazione dell’esistente; antropologico o antropologico-sociale, perché implica – sine qua non – un mutamento di mentalità, di ideologie, di progettualità, di organizzazioni, di ordinamenti; politico nel suo tragitto protensivo da desiderio a prassi; molteplice, perché numerose intenzioni (o, meglio, protensioni per il loro gettarsi nel futuro), si intrecciano, si sovrappongono e si mescolano in una molteplicità di progetti differenti, talora perfino contaminatori e/o paradossali nel senso tarskiano, del termine per la presenza appunto di protensioni  contraddittorie>>.

Ed allora il desiderio di un mondo diverso costituisce quel background esperenziale che permette al terapeuta di assolvere il suo compito operando delle proposte concrete di cambiamento a tutti i livelli, cominciando dalla qualità di vita del singolo schizofrenico per arrivare alla umanizzazione e de-burocratizzazione di servizi e strutture, di spazi e contesti in grado di promuovere salute mentale e cultura dei diritti. Questo desiderio di un mondo diverso è sicuramente lo sfondo vitale e produttivo che faceva dire a Piro, nel febbraio del 1978, che <<trasformare i manicomi significa infatti in Italia iniziare in essi una lotta liberatrice che sarà volta a ridare ai ricoverati la coscienza della loro condizione: questo è dare voce all’emarginazione, organizzare l’emarginazione. Ma ciò significa iniziare contemporaneamente sul territorio una lotta contro i fattori emarginanti, significa collegarsi a tutte le lotte per una trasformazione positiva dell’intera società.>>2

1 Corsivo dell'autore.

2.     Sergio Piro, "STATO, DECENTRAMENTO E PSICHIATRIA: PROSPETTIVE ATTUALI.".  Relazione presentata al Convegno “Una moderna assistenza psichiatrica in rapporto alla riforma sanitaria”, organizzato dalla provincia di Potenza nei giorni 23 e 24 febbraio 1978. Pagg. 41-45 degli Atti del Convegno.

 

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 [NOTA: Per l’espressione grande inespresso continuamente fluente si vedano: Piro 1997, 2001].

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