L'ora di Barabba: Domenico Giuliotti fra disperazione e utopia.

 

 

Di Domenico Giuliotti, delle sue pagine vomitanti furore religioso su di un mondo squassato dal peccato e travolto dagli idoli della modernità, non rimane, nelle storie della letteratura, che il cenno ad un grigio lavoro di gregario.

Lo si ricorda, nel biennio 1913-14, assieme a Federigo Tozzi, fondatore de "La Torre", oscura e sfortunata rivista, organo di propaganda di uno sparuto gruppetto di intellettuali che, dal fondo delle campagne toscane, si professarono «[...] a scandalo degli stolti, reazionari e cattolici [...]». Poi, assieme a Giovanni Papini, autore dell'incompiuto Dizionario dell'omo salvatico: il Sillabo dell'imminente (siamo nel 1923) reazione cattolica e rurale, l'abbecedario della fiammata strapaesana che, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, si sarebbe riversata dalla provincia Toscana sul mondo delle patrie lettere: controcanto tradizionalista e provinciale al volto industriale ed europeo del fascismo. Del libro che certo lo rappresenta meglio di ogni altro, fotografandolo sospeso fra disperazone e utopia, soltanto il nome: L'ora di Barabba:: «Dopo venti secoli, Gesù è ancora in agonia sulla Croce, solo. [...] Ma Barabba, illuminato dai suoi delitti, conquista il mondo. Queste pagine sono state scritte ed appaiono durante la sua marcia infernale.»

Il tono del libro, fin dalla Prefazione alla prima edizione, è profetico, apocalittico, perchè Giuliotti si vanta di odiare «le circonlocuzioni ovattate» e «gli spruzzi profumati sulle parole», inadeguati a chi voglia «far rimangiare il proprio vomito» alla «lercia società» che l'ha sputato fuori. Il suo linguaggio è plebeo, violento, apertamente provocatorio; il suo modello linguistico è additato nella violenza verbale del Dante dei canti di Malebolge. Lo stile di Giuliotti trasuda la rabbia di chi senta di avere «la bocca imbavagliata», costretto ad assistere a «spettacoli di menzogna quotidiana.» «Scrivevo per non scoppiare [...] L'ora di Barabba è stata scritta, quasi da cima a fondo, così.» La scrittura è sfogo ed atto di accusa verso un mondo che ha sputato su Dio, rantolante verso un «preludio d'apocalissi», in cui Giuliotti sente di essere chiamato ad additare la via della salvezza ai pochi uomini giusti. Così si spiega la sua esasperata tensione predicatoria, oracolare, stravolta in un'invettiva continua e il carattere assoluto delle sue Verità, perchè «L'Italia e il mondo non possono essere salvati che dalla Fede, la quale è una. Non ci sono le fedi, ma la Fede; cioè a dire la RELIGIONE CATTOLICA».

Pubblicato nel 1920, ripubblicato ampliato nel 1922, e destinato a successive ristampe, il libro (avrebbe dovuto intitolarsi Hora vestra) è sì, come gli rimproverava Papini, disorganico, composto di schegge e frammenti letterari di epoche diverse, ma segna una svolta nel percorso letterario del solitario di Greve: la decisione di sputare la propria violenta protesta in faccia ad un mondo in vorticoso mutamento, scosso dai fremiti liberali e laicistici dell'età giolittiana, dai primi vagiti dell'industrializzazione e dagli echi della rivoluzione bolscevica, rimbalzanti, fra entusiasmo e terrore, sulle piazze italiane; un mondo divorato dalle nuove e micidiali incarnazioni storiche di Barabba: «[...] la Libertà, l'Umanità, la Democrazia, la Civiltà, la Scienza. Per essi si muore come cani; con essi si vive come porci» si legge nella pagina d'inizio del libro.

Giuliotti, figlio di contadini ignoranti e timorati di Dio, cresciuto e formatosi nella provincia Toscana, fra S. Casciano, Greve e Siena, lasciatasi alle spalle la giovanile adesione al socialismo, conosce e crede in 'un solo' mondo, immutabile nel suo ordine e nelle sue gerarchie.

L'autore affida ad una recensione di Adriano Tilgher, apparsa su "La Stampa" il 12 dicembre 1920, e aggiunta alla seconda edizione de L'ora di Barabba, la più compiuta formulazione della propria 'dottrina', un ibrido che combina il pensiero politico dantesco con De Maistre e Bonald: «In basso una plebe contadina, contenta del poco, lieta di attendere alle opere della terra, trovante sollievo nell'aspra fatica [...]; in alto, alla punta della piramide, il Re che amministra paternamente giustizia ai sudditi, e la Chiesa che li guida con amore per le aspre vie dell'esilio terreno, Chiesa e Re prestandosi mutuamente l'appoggio della spada temporale e spirituale [...]; niente libertà, della quale i popoli non sanno nè hanno mai saputo che farsi [...], ma Giustizia, chiara, aperta, inflessibile e Amore, che perdona, sì, [...] ma anche, contro chi persevera nell'errore, infuria e taglia [...]; base della società il Cristianesimo, ma il Cristianesimo della Chiesa Cattolica, unica depositaria della rivelazione divina, che inquadra l'uomo in un saldo organismo di norme e discipline etiche. [...]»

Giustamente Giuliotti riconosce a Tilgher di aver fatto emergere «dall'apparente frammentarietà di questo libro, ciò che ne forma, a un tempo, l'ossatura e l'anima». Infatti, in queste poche righe, la teoria dantesca 'dei due soli' si combina con l'esaltazione dell'ordine divino ed eterno delle nazioni, e dei loro pilastri immutabili, Dio, Re e Popolo, teorizzato dai numi tutelari della Restaurazione ottocentesca, per salvare l'uomo dalla perdizione democratica e libertaria.

Il rancore antimoderno di Giuliotti, lo porta ad indossare i panni sgualciti, ma a loro modo tragici, dell'apostolo di periferia ed ha il sapore sconsolato di una lucida consapevolezza storica: emblematica proprio perchè vissuta all'estremo, senza le divagazioni avanguardistiche di molti suoi compagni di strada, da Papini a Soffici a molti altri ancora. Giuliotti, nel suo eremitaggio di provincia, vede distintamente i raggi del tramonto di quel mondo contadino, patriarcale, santamente ignorante ed analfabeta su cui, ai suoi occhi, si era incardinata per millenni l'alleanza fra l'uomo e Dio.

La gonfia retorica e la truce oratoria del libro non sono altro che l'addio urlato ad un mondo intriso d'Assoluto e di Sacro, devastato dalle Macchine, «anime d'unto» che riducono l'uomo moderno a «macchina fra le macchine»; dai Giornali, «ovvero la peste, il recipiente della peste e il veicolo della peste»; dalla Libertà, «un'oscena demente»; dalla Democrazia, «membra in rivolta fra loro e tutte insieme contro il cervello» non meno che dal Socialismo, suprema affermazione dell'Anticristo, di cui Giuliotti riuscirà almeno ad apprezzare la «logica demolente» e sovvertitrice.

L'Ora di Barabba è la cronaca straziata, il de profundis di un'epoca ed un ultimo, patetico tentativo, di serrare i ranghi e saldare i cocci di un mondo in frantumi a suon di parole e letteratura.

Del resto Giuliotti, come l'apocalittico De Maistre e il granitico Bonald, «[...] irremovibili arcieri, dinanzi al Trono e all'Altare [...]», si legge nella prefazione all'Antologia di cattolici francesi del secolo XIX, credeva nel carattere divino, rivelato, del linguaggio, per cui la letteratura non ha che un unico scopo: la ri-creazione del mondo attraverso il Verbo. «Poeta è Dante, è colui che quando ha compreso la dipendenza armoniosa del visibile dall'invisibile [...] fra i suoi contemporanei, rachidinosi e blesi, che non lo curano o lo dileggiano, con la Parola, a somiglianza dello Spirito che lo investe, crea.» E Giuliotti, deriso flagellatore del «peccato che si gloria di se stesso», banditore inascoltato della «Verità Crocifissa», emarginato ed offeso dalla storia vede, in un'Italia deferente al culto di Pascoli, D'Annunzio e Carducci, la sua Parola perdersi nel vento; ma con la superiore certezza che la vittoria dell'Anticristo, l'Anarchia, sia «l'ultima punizione e l'avanguardia dell'Ordine», che precede la restaurazione del Regno di Dio. La lotta del Bene contro il Male è giunta allo scontro definitivo: si sta col sì o col no, col bianco o col nero: «Bisogna dunque purificare le coscienze o incatenarle: la via di mezzo è impossibile», recita De Maistre nell'Antologia curata da Giuliotti.

E lo scrittore, con la spada di questa logica violentemente manichea sventra, nelle pagine delle Lettere scandalose, il mondo della letteratura e della cultura, fedele alla propria missione di scrittore e 'predicatore': lui, pochi amici, i padri della Restaurazione, «i più grandi scrittori cattolici attuali della mia Francia», cioè Bloy, Hello, Veuillot, Baumann ecc., accolti dallo scrittore nell'Antologia, e vero cemento ideologico delle membra sparse de L'ora di Barabba, hanno scelto Cristo; gli altri, con vigore o rassegnazione, da Papini a Cecchi, da Soffici a D'Annunzio, da Gobetti a Tilgher, hanno scelto Barabba, nelle sue multiformi incarnazioni. Di alcuni di essi spera che si convertano, di altri dispera, altri ancora detesta, e per essi invoca la giusta punizione.

Ma la singolarità di Giuliotti risiede appunto nella sua radicale estraneità alla modernità, che gli consente alle volte di vedere, con le lenti delle proprie «fisime reazionarie», ben più lontano di molti dei suoi «mondani» contemporanei. Arroccato su posizioni di reazione assoluta, guarderà con assai maggior sospetto di tanti intellettuali del tempo al nascente fascismo, in cui vedeva l'ultima e più luccicante incarnazione dello spirito avventuriero e sbandato dei tempi. Scrive infatti nel capitolo-confessione iniziale, Qui parla il Reo, traboccante di disprezzo per ogni forma di cattolicesimo dolciastro e umanitario: «Devi essere (ti riconosco dal profumo), come la letteratura moderna, una prostituta onorata; una di quelle bell'anime che leggono Guido da Verona e scherzano col padre Semeria, e sono zelatrici del Sacro Cuore e gittan fiori ai fascisti.» In molte delle grottesche caricature che affollano soprattutto le due sezioni di Fatterelli e Schegge, senz'altro le più vive e narrative del libro, nelle figurine avvelenate del tipo Il borghese che s'è ritirato dal commercio, nell'uomo che «Acciambellato su se stesso, la bocca aperta ghiottonescamente sotto le natiche, defeca, trangugia, digerisce e rievacua. Così, di giorno in giorno, finchè non giunge la morte e guasta la conduttura», ritrae con efficace violenza espressionistica la passività, l'inerzia e l'irresponsabilità storica della borghesia al crepuscolo dell'età giolittiana.

Nelle pagine di violenta polemica de Il Giornale vede con chiarezza che «i governi hanno bisogno dei giornali, come i giornali dei governi [...].» «Ora governo e giornale sono schiavi l'uno dell'altro, e la moltitudine di tutti e due»; e il giornalista, «servitore vestito da padrone», «seppellisce nel silenzio chi non paga, chi non gli è amico e complice, chi non è amico di chi lo paga.» E rimane certo, nei giorni in cui infuriava la grancassa interventista, la sua dura condanna della guerra:«La civiltà è diventata barbarie; peggio che barbarie, bestialità inamidata. E, infine, quando l'inferno, senza più dighe, traboccava da ogni parte, è scoppiata la guerra europea che sarà mondiale, accompagnata, fra poco, dalle sue macabre ancelle, la Peste e la Fame. Chi è dunque il responsabile di questo flagello inaudito?» Anche la sua utopia politica, così rivolta verso il passato remoto, porta in sè una sete di giustizia che non lascia spazio a despoti e a demagoghi dell'ultim'ora, mentre la fede in un Dio veterotestamentario, padre violento e vendicativo che condanna l'uomo, schiacciato dal peccato, ad una condizione di sudicia bestialità, gli ispira una tragica visione della vita e della storia, che lo avvicina all'amico Tozzi.

Resta, certo, di Giuliotti, il paradossale equivoco di chi, nella foga di brandire la spada della giustizia divina, avrebbe poi risparmiato soltanto Barabba, che marciava su Roma proprio in quel 1922; di chi, credutosi profeta inascoltato ed offeso, col passare degli anni si sarebbe piegato a recitare i propri stanchi omaggi ad un regime che, con la propria politica di espansione imperiale e col Concordato del 1929, nuovo patto di mutuo sostegno fra stato fascista e chiesa cattolica, avrebbe dato triste attuazione alla sua disperata utopia di romanità e di fraterno sostegno fra potere politico e papato.

Sempre più solitario e deluso, consegnerà alle ultime righe di Penne, Pennelli e Scalpelli (1942), triste rassegna della mediocrità artistica e letteraria degli anni del regime, un amaro interrogativo, rivolto a se stesso e al proprio tempo:«Disse Mussolini: "libro e moschetto". Il moschetto c'è; ci sono i libri, e purtroppo innumerevoli, ma "il libro", quello che "rifà la gente", ancora non si vede. Perchè?»

Enio Bruschi

 

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