I primi interessi commerciali

Fino al 1984, il settore della biolisciviazione era stato oggetto d'interesse solamente all'interno dei mondi accademici e scientifici. Gli esperimenti e l'esperienza raggiunta erano intesi in senso euristico, più che protratti verso fini commerciali. Nel 1985, a Vancouver (Canada) si svolse il 6° Simposio internazionale di Bioidrometallurgia. Fu il primo Simposio che potè vantare risultati concreti tanto da richiamare l'attenzione del mondo dell'industria mineraria. Per la prima volta, il numero dei partecipanti appartenenti al mondo scientifico e accademico fu nettamente superato da quello dei partecipanti provenienti dal mondo della produzione industriale. Ciò dimostrò il forte interesse del mondo economico a quella che i critici definirono "la rivoluzione biotecnologica"; vi era grande attesa sui risultati del mondo scientifico, per ricercare nuovi fonti di guadagno.

Impianti pilota e tentativi su scala industriale della biolisciviazione

Il sudafricano Miller [7-1-a] riportò di un esperimento di biolisciviazione in situ di un grezzo a solfuri complessi esplicitando utili indicazioni per procedere; purtoppo, la crisi che colpì il rame in quel periodo, impedì la completa riuscita dell'esperimento Ismay e collaboratori [7-1-b], presso il Centro Studi della Società Norada, presentarono uno studio di prefattibilità relativo alla coltivazione in situ di un grosso giacimento cuprifero, dimostrando che non sempre la biolisciviazione in situ poteva essere un processo economicamente conveniente se non si provvedeva inizialmente ad utilizzare un'adeguata tecnologia di abbattimento delle rocce con esplosivo; la fratturazione del giacimento si dimostrò essere condizione essenziale per il raggiungimento ottimale delle liscivie a tutte le rocce interessate. Livesey-Goldblatt [7-1-c] affrontarono il caso particolare del ricupero delle frazioni aurifere miste agli sterili di flottazione a base di pirite di una miniera sudafricana; furono fornite stime di costi preliminari la cui validità venne purtoppo limitata al caso particolare a cui essa si riferiva. Rossi e i suoi collaboratori [5-2-a] riportarono i risultati incoraggianti dell'esperimento pilota effettuato in Italia nella Minera di San Valentino.

Prove e indagini di laboratorio sulla biolisciviazione dei minerali

Groudev [7-2-a] condusse il primo esperimento condotto con cinque reattori in serie da 5 litri cadauno funzionanti in modo continuo su cui transitavano 6 differenti concentrati di solfuri cupriferi. I risultati comunicati confermarono che la calcopirite era un minerale notevolmente refrattario alla biolisciviazione, non essendo stato possibile conseguire tassi superiori a 370 milligrammi a litro all'ora con tassi di estrazione massimi intorno al 60%. Quando l'alimentazione conteneva in prevalenza covellite e calcocite, furono conseguiti risultati leggermente migliori (tassi di solubilizzazione del rame di 470 milligrammi a litro all'ora e recuperi superiori all'80%). Miller [7-2-b] affrontò il problema del recupero di nichel, cobalto e rame da concentrati misti di pentlandite, pirrotina e calcopirite; come reattori furono utilizzati in modo semicontinuo, piccole vasche pachuca da laboratorio. Il rame della calcopirite risultava il meno recuperabile, a confronto del cobalto e del nichel recuperabili all'80%. Ahomen [7-2-c] presentò una memoria nella quale veniva confermato l'effetto di rallentamento della solubilizzazione del rame sia per la presenza di pirrotina sia per gli effetti di accoppiamento galvanico presentati durante la biosolubilizzazione dalle miscele calcopirite-pirite. Boseckher [7-2-d] provò ad utilizzare i microorganismi del genus Penicillium per la solubilizzazione del nichel da lateriti; anche se i risultati promettevano recuperi di nichel intorno al 70%, vi furono delle limitazioni di tipo pratico che ne impedirono l'applicazione industriale. Norris e Parrott [7-2-e] utilizzarono, invece, organismi termofili del genus Sulfolobus per testare la biosolubilizzazione di concentrati di calcopirite, pentlandite, pirite e pirrotina nichilifera a 70°C; durante la sperimentazione non riuscirono a raggiungere tassi dell'ordine del grammo a litro all'ora, per cui il test presentò un interesse euristico. Il problema del disinquinamento e purificazione delle acque acide reflue di miniera o di impianti metallurgici venne affrontato da Imai [7-2-f] utlizzando microorganismi solfato-riduttori come il Desulfovibrio vulgaris in simbiosi con un batterio dell'acido lattico; tuttavia, le tradizionali tecniche bioidrometallurgiche di depurazione della acque si rivelarono più efficaci. Southwood e Southwood [7-2-g]cercarono di risolvere il problema della biolisciviazione di una pirite aurifera mediante un modello matematico di solubilizzazione dei granuli che tenesse conto sia della presenza di pori nel minerale sia della circostanza che il minerale fosse presente in corrispondenza delle dislocazioni della pirite alla quale era misto; pur non essendo la prima volta, si richiamò l'attenzione sulle implicazioni bioidrometallurgiche dei difetti dei materiali cristallini. Le considerazioni si rivelarono di carattere qualitativo, impedendo di quantificare in modo rigoroso l'influenza dei difetti dei materiali cristallini. Dalla scuola russa del prof. Pohl'kin Karavaiko [7-2-h] fu presentata una memoria sulla biolisciviazione dei metalli da concentrati contenenti arsenopirite.

Elaborazioni relative ai fondamenti ingegneristici della bioidrometallurgia

Tra i lavori presentati al 6° Simposio, spiccò per la sua importanza quello dei rappresentanti della Università Cattolica di Valparaiso (Cile). Ecevedo ed Aroca [7-3-a] affrontarono lo spinoso argomento del comportamento reologico delle torbide all'interno di un processo di biolisciviazione. Fino ad allora, veramente poco materiale era stato pubblicato sull'argomento. Gli autori del lavoro fornirono utili indicazioni sul fabbisogno specifico di potenza dei reattori operanti con sospensioni minerali aerate caratterizzate da granuli inferiori a 100 maglie e da densità di torbida compresa tra il 15 e il 60%. Furono forniti i valori dei fabbisogni specifici di potenza per vari tipi di agitatore e varie condizioni operative ; inoltre venne proposta una scala di caratterizzazione quantitativa dell'agitazione articolata in sei livelli.

Approfondimento delle conoscenze di carattere genetico e di biologia molecolare dei microorganismi utilizzati nei processi bioidrometallurgici

All'epoca era ben noto che le microflore degli impianti di biolisciviazione in situ, da discarica e da cumulo sono notevolmente complesse, essendo costituite da quantità talvolta molto grandi di genere e specie diverse, e che la loro composizione all'interno degli ammassi rocciosi può fornire indicazioni preziose per l'esercizio industriale. In questa ottica, Yates e Holmes [7-4-a], cercarono di introdurre tecniche di riconoscimento e di individuazione rapida dei microorganismi sia di genere diversi sia di specie diversa all'interno dello stesso genus. Da molti anni, in vari paesi, erano stati avviati esperimenti di semina di cumuli o di discariche con ceppi di microorganismi, modificati con vere tecniche di laboratorio, in modo da conferire ad essi caratteristiche biologiche più idonee alla biosolubilizzazione dei minerali a cui erano destinati. Questi ceppi furono definiti "addomesticati" in contrapposizione con quelli naturali, definiti "selvaggi", per cui risultava evidente il grande interesse nel riuscire a riconoscere i microorganismi addomesticati da quelli selvaggi. Yates e Holmes risolsero il problema del riconoscimento sviluppando una tecnica che utilizzava sonde molecolari costituite da sequenze di DNA clonato. Come è noto, la sequenza dei nucleotidi del DNA varia da specie a specie: per esempio due specie possono condividere gli stessi geni o regioni che regolano l'espressione di questi geni. Anche geni affini possono variare per inserzione di una porzione di diversi amminoacidi all'interno di una proteina, a causa della ridondanza del codice genetico. In generale, quanto più due specie sono separate in termini di distanza evolutiva tanto maggiore è lo scostamento delle loro sequenza nucleotidiche. Due microorganismi di specie diverse o due varianti all'interno della stessa specie sono quindi caratterizzati dallo scostamento delle sequenze nucleotidiche e sarà possibile distinguerli proprio in base a questo scostamento. La tecnica proposta da Yates e Holmes sfruttava la circostanza che quanto maggiore è la rassomiglianza tra le sequenze messe a confronto, tanto maggiore è l'entità della ibridizzazione per cui la rassomiglianza fra DNA analoghi di specie differenti è caratterizzata dalla loro capacità di ibridizzazione per accoppiamento di basi. Il metodo era molto sensibile in quanto consentiva di rilevare la presenza di 10-4 microgrammi di DNA di una data specie, vale a dire di sol 105 cellule di Thiobacillus ferrooxidans. Il metodo messo a punto da Jerez [7-4-b] era basato su una tecnica sierologia ed elettroforetica che consentiva sia l'individuzione rapida del Thiobacillus ferrooxidans sia il riconoscimento di ceppi diversi all'interno della stessa specie. Il metodo appariva fortemente specifico e non subiva influenze quando nella microflora erano presenti altri microorganismi ferro-ossidatori come il Leptospirillum ferrooxidans o microorganismi eterotrofi. Era pertanto possibile con questo metodo non solo individuare il Thiobacillus ferrooxidans ma anche identificare il tipo di batterio presente in un dato campione di minerale prelevato da un cumulo in corso di biolisciviazione. In quegli anni le indagini di ingegneria genetica miranti alla costruzione di ceppi di Thiobacillus ferroxidans dotati di caratteristiche tali da renderli più efficaci dei ceppi originari per l'utlizzazione industriale proseguirono attivamente in vari laboratori, tra cui quelli delle Università di Città del Capo e di Roma. Tra i vari risultati si ricorda la costruzione di un plasmide denominato pDER425 che contiene i germi della resistenza all'arsenico; furono inoltre individuati su di un altro plasmide, i geni relativi alla resistenza al mercurio e all'argento [7-4-c]. Vian [7-4-d] propose una metodica di selezione di mutanti della specie Thiobacillus ferrooxidans in grado di ossidare gli ioni ferrosi a pH abbastanza bassi (1,5) in modo da attenuare in misura notevole gli effetti dannosi della precipitazione degli idrossidi e della jarosite. Era ben noto, infatti, che la formazione dei precipitati dei grani è una della cause principali dell'incompletezza dell'attacco dei solfuri metallici in reattore.

Implicazioni ed applicazioni ecologiche della bioidrometallurgia

Brierly [7-5-a] introdusse una tecnica di trattamento delle acque reflue e di recupero dei metalli, messa a punto dal suo staff e brevettata sotto la denominazione << AMT-Bioclaim >>. Il nucleo del processo era costituito da una colonna che veniva riempita con un prodotto granulare ottenuto per trattamento di biomasse non meglio specificate (per interessi economici). Il nome di questo materiale è MRA (metal recovery agent). L' MRA poteva essere impiegato sia in colonna a letto statico sia in reattore a letto fluidizzato. I risultati ottenuti furono sorprendenti, in quanto da soluzioni contenenti circa 10 milligrammi a litro di rame venne recuperato il 99% del metallo con un effluente che titolava intorno a 0,1 mg a litro di rame. Anche per piombo, argento, oro e cadmio furono raggiunti analoghi risultati. Il processo poteva essere utilizzato sia per la depurazione di acque reflue sia per il recupero di metalli da effluenti di processo. I costi di esercizio del processo sarebbero dovuti essere addirittura inferiori a quelli delle altre tecniche di depurazione. L'unico inconveniente era quello di essere particolarmente efficiente per le basse concentrazioni dei metalli inquinanti (minori di 50 p.p.m.) e quindi esso trovava una migliore utilizzazione come unità di finalizzazione della depurazione delle acque. Townsley [7-5-b]et alii descrissero una tecnica di biorecupero dei metalli mediante ifomiceti, con costi di esercizio maggiori rispetto alla tecnica appena descritta. Whitlock e Mudder [7-5-c] idearono un metodo per il trattamento delle acque reflue di un impianto con l'utilizzo di ceppi mutanti di batteri capaci di degradare cianuro, fiocinato ed ammoniaca, attraverso un biofilm in grado di realizzare il bioassorbimento di metalli pesanti e di solidi sospesi. Anche in campo legislativo, a livello mondiale si cercò di tutelare l'ambiente, poiché i processi di solubilizzazione catalizzati da microorganismi davano luogo ad una produzione continua e poco controllata di sostanze inquinanti. Di questo problema si interessarono, ad esempio, vari organismi governativi australiani adottando dei provvedimenti per ridurre l'inquinamento prodotto dalla degradazione dei residui di solfuri metallici contenuti in alcune discariche della miniera di Rum Jungle in Australia.

Desolforazione dei carboni

Il problema della desolforazione dei carboni è duplice: nei carboni, infatti, lo zolfo è di solito presente o sotto forma inorganica (solfuri di ferro e solfati) o sotto forma organica (in cui lo zolfo è legato ai componenti macerali del carbone). E' proprio lo zolfo organico ad essere particolarmente refrattario all'azione dei microorganismi del genus Thiobacillus. In quegli anni, i processi ideati furono volti alla dissoluzione per via microbica delle piriti contenute in questo combustibile fossile. Beyer [7-6-a] dimostrò che in condizioni ottime di esercizio (vale a dire operando su carboni macinati a 0,5 mm), era possibile eliminare in otto giorni da torbide contenenti il 20% di solido, il 95% della pirite con tassi di ossidazione di quest'ultima di 600 mg a litro a giorno.