LA PREFAZIONE A GERMINIE LACERTEUX: UN MANIFESTO DEL
NATURALISMO
La
Prefazione, datata ottobre 1864, è uno dei primi e più
significativi”manifesti”del Naturalismo francese. Il romanzo, uscito
nel 1865, è la storia di una serva, malata di isteria, che si degrada
progressivamente, fino alla morte, per una passione amorosa. Fu ispirato
ad un caso vero, quello di una domestica dei due fratelli. Nel
ricostruire la vicenda, essi si fondano su una rigorosa documentazione:
si tratta dunque di un ”documento umano”, una formula che avrà poi
molta fortuna nel Naturalismo.
Dobbiamo
chiedere scusa al pubblico per questo libro che gli offriamo e
avvertirlo di quanto vi troverà. Il pubblico ama i romanzi falsi: questo
è un romanzo vero.
Ama
i romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo:
questo libro viene dalla strada.
Ama
le operette maliziose, le memorie di fanciulle, le confessioni
d’alcova, le sudicerie erotiche, lo scandalo racchiuso in
un’illustrazione nelle vetrine di librai: il libro che sta per leggere
è severo e puro. Che il pubblico non si aspetti la fotografia
licenziosa del Piacere: lo studio che segue è la clinica dell’Amore.
Il
pubblico apprezza ancora le letture anodine e consolanti, le avventure
che finiscono bene, le fantasie che non sconvolgono la sua digestione né
la sua serenità: questo libro, con la sua triste e violenta novità, è
fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua
igiene.
Perché
mai dunque l’abbiamo scritto? Proprio solo per offendere il lettore e
scandalizzare i suoi gusti? No.
Vivendo
nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale, di
democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «
classi
inferiori » non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo sotto un
mondo, il popolo, debba restare sotto il peso del « vietato »
letterario e del disdegno degli autori che sino ad ora non hanno mai
parlato dell’anima e del cuore che il popolo può avere. Ci siamo
chiesti se possano ancora esistere, per lo scrittore e per il lettore,
in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi indegne, infelicità
troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi d’un terrore
troppo poco nobile. Ci ha presi la curiosità di sapere se questa forma
convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società
scomparsa, la Tragedia, sia definitivamente morta; se, in un paese senza
caste e senza aristocrazia legale, le miserie degli umili e dei poveri
possano parlare all’interesse, all’emozione, alla pietà, tanto
quanto le miserie dei grandi e dei ricchi; se, in una parola, le lacrime
che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si
piangono in alto.
Queste
meditazioni ci hanno indotto a tentare l’umile romanzo di Suor
Filomena, nel 1861; e adesso ci inducono a pubblicare Le
due vite di Germinia Lacerteux.
Ed
ora, questo libro venga pure calunniato: poco c’importa. Oggi che il
Romanzo si allarga e ingrandisce, e comincia ad essere la grande forma
seria, appassionata, viva, dello studio letterario e della ricerca
sociale, oggi che esso diventa, attraverso l’analisi e la ricerca
psicologica, la Storia morale contemporanea, oggi che il Romanzo s’è
imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà
e l’indipendenza. Ricerchi dunque l’Arte e la Verità; mostri
miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi;
faccia vedere alla gente della buona società quello che le dame di
carità hanno il coraggio di vedere, quello che una volta le regine
facevano sfiorare appena con gli occhi, negli ospizi, ai loro figli: la
sofferenza umana, presente e viva, che insegna la carità; il Romanzo
abbia quella religione, che il secolo scorso chiamava con il nome largo
e vasto di Umanità; basterà questa coscienza: ecco il suo
diritto.
(E.
e J.de Goncourt, prefazione a Germinie Lacerteux,1865, trad.
it. di O. Del Buono, Rizzoli, Milano 1951)