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come si lavorava...

La creta inizialmente si raccoglieva a mano nella campagna  circostante: dopo aver levato con la pala il primo strato che era pieno di erbe e radici, , si riempivano di creta i bigonzi (contenitori di legno di circa 60 litri) che venivano poi caricati sul basto del somaro. In seguito la portarono  i contadini delle Crete con un carretto trainato dai buoi.

Una volta trasportata alla bottega i bigonzi pieni venivano vuotati nel terraio della cantina e poi la creta si mescolava con acqua. Dopo un periodo di decantazione  si batteva con un utensile di ferro detto maglio, allo scopo di renderla omogenea. Infine si lavorava a mano con una tecnica simile a quella usata per impastare il pane e si preparavano delle “palle” di creta che finalmente erano usate dai tornitori per tornire i vari pezzi. Solo negli anni ’70 si è cominciato a comprare i pani di creta filtrata imballata.

 

I torni erano dei telai di legno piantati per terra, con una grossa ruota di legno, chiamata carro, che veniva spinta con un piede, il piatto dove si lavorava era di legno semplice o rivestito di ferro. Il piatto e il carro erano sorretti da un albero, sotto il quale c’era una pietra con un buco pieno d’olio allo scopo di diminuire l’attrito dell’albero che, sotto la spinta dei piedi sul carro faceva girare il piatto; sopra, tra il piatto e l’albero c’era una cotica che faceva da cuscinetto e si consumava man mano che si lavorava.

 Tutto il lavoro seguiva, come segue ancora oggi, dei ritmi e dei tempi ben precisi. I cocci, dopo essere stati torniti e rifiniti con manici, becchi, ecc…, venivano messi ad asciugare su tavole di legno fuori al sole la mattina e ritirati dentro la bottega la sera, fino a che non erano asciutti e quindi pronti per la cottura. Per attaccare i manici c’era un momento ben preciso, altrimenti i cocci si sarebbero deformati o addirittura, se il pezzo avesse tirato troppo, non sarebbe più stato possibile attaccarli, e questo era un lavoro non molto amato dai più giovani e impazienti. A durezza cuoio, cioè quando non erano ancora  completamente asciutti, venivano ingobbiati con il bianchetto. Da asciutti venivano verniciati con il piombo, cioè ricoperti di uno strato superficiale che vetrifica, e schizzettati di verde ramina e marrone manganese, i due colori tradizionali di Ficulle.

Il bianchetto, terra bianca per ingobbio che si usa per schiarire il colore naturale dei cocci, si raccoglieva nella zona di Trequanda. Si andava con il carretto fino alla ferrovia e lì si prendeva il treno fino a Sinalunga, poi si chiedeva un passaggio ad un contadino col carretto e si arrivava fino a Tequanda, dove si cercava una vena. Trovata la creta bianca si riempivano dei sacchi. Finito il lavoro si ritornava indietro nello stesso modo. Ci volevano due o tre giorni.

L'ossido di piombo che si usava per la verniciatura si faceva nel fornacetto, piccolo forno costruito appositamente per cuocere il piombo. Si rimediavano degli oggetti di piombo e si scaldavano fino a quando diventavano incandescenti, si aggiungeva poi l’antimonio e si girava  finché non era ossidato ( 300°C). Ci volevano cinque ore ed era un lavoro molto faticoso e pericoloso. Dopo gli anni ‘50 si comprava già pronto; ora invece si usano cristalline industriali meno tossiche per chi le usa.

Il manganese, cioè il colore marrone, lo facevano triturando dei sassi, raccolti nei fossi qui vicino.

La ramina, cioè il colore verde, si faceva scaldando del rame in un pignatto e quando era diventato incandescente ci si aggiungeva dello zolfo per farlo ossidare. Successivamente veniva macinato nel “macinello”, una piccola macina a pietra.

Una volta verniciati, i pezzi erano pronti per essere cotti. Il forno di cottura era costruito con mattoni refrattari e terra, ed alimentato a legna.

Il primo forno a legna della attuale bottega era di 6 mc. con fornaciotto, una seconda camera di cottura per cuocere il biscotto  (cioè i pezzi grezzi non verniciati) di terra rossa pirofila che doveva essere ricotta per la smaltatura, e la cottura durava ventiquattro ore. L’aveva costruito Osvaldo insieme ad un suo operaio dopo il crollo della vecchia bottega. Quando poi la bottega venne ampliata Osvaldo, Costantino e il muratore Franco Fucili costruirono un nuovo forno inaugurato nel 1973, poiché il vecchio cadeva a pezzi.

 Il nuovo forno era di 9 mc., la cottura durava trenta ore e ci volevano 50 quintali di legna.  La legna veniva messa nel fuoco che alimentava il forno a poco a poco secondo regole ben precise per avere una cottura perfetta e non ci si poteva allontanare mai; era un lavoro molto impegnativo e lungo.

Ci volevano due giorni interi per infornare (cioè riempire il forno di cocci crudi ) ed anche questo era un lavoro che richiedeva molta esperienza e veniva svolto generalmente dal più anziano o dal più bravo della bottega. Infatti la disposizione dei pezzi all’interno del forno è fondamentale per la buona riuscita della cottura. Infornare e cuocere è sempre stato considerato il momento più delicato e critico di tutte le fasi di lavorazione: un errore avrebbe compromesso il risultato di tanti giorni di lavoro.

Questo era il lungo lavoro di preparazione dei materiali e di lavorazione all’interno della bottega, ma rimaneva ancora una parte di lavoro importante: la vendita.

    A Ficulle c’erano le fiere del 1 Giugno, 1 Luglio, 1 agosto e del 25 Ottobre. Ma la concorrenza era molta, e il mercato di Ficulle non bastava a saturare l’offerta. Nasceva così l’esigenza di fare il mercato del giovedì e del sabato ad Orvieto. Si partiva a mezzanotte con il somaro carico di cocci sul basto. Solo intorno alla fine degli anni ’50 venne comprato un camioncino, usato anche per andare a caricare la creta.

Da allora Antonia accompagnava il marito Osvaldo; si vendevano soprattutto panate (famoso boccale ficullese per l’acqua ed il vino),  pignatti (caratteristica pentola per cuocere i fagioli nel camino), vasi da fiori e ziri (contenitori per l’olio di oliva).

Oltre al mercato si faceva il così detto “giro del cacio”, cioè si andava con il somaro di casa in casa nella campagna circostante e i contadini come pagamento davano delle forme di formaggio.