Leggere attentamente
le avvertenze

di Peppe Celentano e Vincenzo de Falco

In scena

Dal 21 al 23  Febbraio 2003
 (Teatro Bellini, Napoli - Auditorium)

 

NOTE DI REGIA 

Qual è il confine tra la malattia e l’ipocondria, tra la preoccupazione e la paranoia? E quanto è larga la soglia che divide la giovinezza dalla maturità? C’è un meraviglioso proverbio napoletano che recita: “Dopp’’e quarant’anne nun s’addimanna chiù «Comme staie?», ma «Che te siente?»”, e cioè, “Dopo i quaranta non si domanda più «Come stai?», ma «Che ti senti?»”. Come a dire che è proprio della natura il declinare, è inevitabile che – superata la fatidica soglia degli “anta” – gli acciacchi tendano a prevalere sullo star bene. Il che può essere, come avviene nella maggioranza dei casi, o comodamente accettato o – grazie ai progressi della medicina – abilmente combattuto.  Ma il passaggio del confine può ingenerare un sentimento di rifiuto, che a sua volta può prendere due vie di manifestazione: una esasperata ricerca della gioventù (ed ecco i lifting, le palestre, le plastiche…) o una chiusura in se stessi, un’ipocondria spesso prodromica di apparentemente immotivate depressioni.  Entrambe le manifestazioni del rifiuto, tuttavia, conducono ad un medesimo effetto: l’isolamento.  E il viaggio verso l’isolamento rappresenta il tema portante di questa commedia che, pur partendo da una situazione realistica, si innesta in un più ampio discorso di solitudini proprie dei tempi che stiamo vivendo, tempi in cui, a dispetto dell’incremento di rapporti apparentemente relazionali (internet, chat, sms…) si tende a racchiudere le singole individualità in comodi bozzoli muniti sì di un’interfaccia verso l’esterno, ma privi di veri elementi fisicamente interpersonali.  Ed un cammino verso la solitudine è quello che percorre Giacomo De Santis, il protagonista di “Leggere attentamente le avvertenze”, anche se il suo è un percorso più metafisico che fisico.  Giacomo rappresenta uno standard comune: sui quarantacinque, niente figli, vita agiata, una dosata sregolatezza… Fino al giorno in cui gli viene diagnosticata una disfunzione ematica.  Nulla di grave, in realtà, un semplice eccesso di colesterolo nel sangue, eppure l’improvvisa consapevolezza della propria mortalità, la sensazione di dover soggiacere, per gli anni a venire, a controlli clinici e terapie farmacologiche, scatena in lui una reazione a catena che lo porterà pian piano verso un punto di non ritorno.  Complice anche il personaggio di Eduardo, uno strano compagno di viaggio, un ipocondriaco “doc”, un Lucignolo “au contraire” che, anziché nel Paese dei Balocchi, porterà il suo Giacomo/Pinocchio in un ancor più affascinante Paese degli Acciacchi. E Giacomo è un Pinocchio non solo perché si lascia docilmente condurre, ma anche perché vive, in fin dei conti, una Grande Bugia: l’amplificazione del suo male, che non è nemmeno un vero male, è per lui funzionale alla ricerca di una paradossale libertà/prigionia, di una cella d’isolamento nella quale possa godere appieno di se stesso, dopo essere riuscito ad allontanare dalla sua vita gli affetti, gli amici, i parenti.  Nel finale Giacomo, dopo aver raggiunto la meta prefissa, sarà costretto a mettersi a nudo, e a smascherarsi. Ma nemmeno la consapevolezza di ciò che ha fatto varrà a fargli cambiare idea. Trattare un tema tanto profondo ed immanente con spirito leggero, ai limiti del paradosso, è stata una scelta precisa degli autori, il cui intento è quello di offrire allo spettatore una “riflessione ad effetto ritardato”: finite le risate che accompagnano lo spettacolo, riaffiorerà – ci si augura – il messaggio latente, con la sua componente di dubbio e di angoscia.

RECENSIONI

Da "Cronache di Napoli", 23.02.2003

“Leggere attentamente le avvertenze” il breve testo scritto e diretto da Peppe Celentano e Vincenzo de Falco, in scena all’Auditorium del teatro Bellini potrebbe, prima di arrivare ai giorni nostri, tranquillamente appartenere ad un lontano passato drammaturgico e fiabesco. E così è anche per il suo protagonista Giacomo De Santis, capace di ricondurre alla memoria le antiche gesta dell’ipocondriaco e piagnucoloso “Tartaglia” figlio del “Re di Coppe” di Basile prima e del veneziano Gozzi poi, insieme a quelle del più famoso Argante, meglio conosciuto come “Il malato immaginario” che, prendendo vita da quel genio di Molière (che guarda caso proprio interpretandolo muore sul serio) diventa facile preda di medici e ciarlatani. Seguendo la stessa traccia lasciata dagli autori, la breve ma intensa e concitata commedia, potrebbe poi essere identificata come uno di quei psicodrammi tanto cari allo statunitense Orson Welles e di seguito, ancora, come una feroce satira contro le sofferenze di una civiltà malata e contorta che fagocita senza pietà i suoi stessi figli. Ebbene, la messinscena vista nello spazio di via Conte di Ruvo, propone in chiave estremamente attuale ed a tratti comica, quello stesso amaro e patologico stato d’animo che fu tristemente familiare, attraverso i secoli, a tanti personaggi del teatro e del cinema e che oggi viene comunemente definito: depressione. Con la buona interpretazione di Luciano Nozzolillo, spesso vittima del suo personaggio (troppe volte apparso più agitato e saltellante che depresso), e la bella prova dello stesso co-autore e co-regista Peppe Celentano che nei panni di Eduardo, una sorta di alter ego del protagonista s’insinua nella sua mente scompigliandone l’esistenza, la commedia risulta gradevolmente godibile. E ad essere piacevole è pure la buona interpretazione di Gabriella Cerino. Vittima delle turbe esistenziali del marito, il personaggio offerto dalla brava attrice, osserva con atteggiamento confuso le peripezie ed i travagli dell’uomo che, superata la soglia dei fatidici “anta” rimane preda di un grave attacco depressivo, inaspettata conseguenza di una non proprio desiderata disfunzione ematica. Vinto dall’angoscia e dalla paura della provata vulnerabilità, cercando un’apparente libertà, il quarantacinquenne, si rinchiude con le proprie mani in un’angusta gabbia popolata da bugie, mali finti (e non per questo meno gravi), incomprensioni e falsità. Eduardo, personaggio chiave della vicenda, ben impersonato da Celentano, intanto, stringe la sua micidiale presa fino a soggiogare irrimediabilmente la mente di colui che lo crede unico appiglio alla vita ed insostituibile amico. Dai brutti scherzi del suo “io” impazzito, alle manifestazioni psicotiche più disparate, Giacomo che assiste tra l’altro al disperato tradimento della moglie che cerca di trovare consolazione nell’amico e medico di famiglia, (approssimativamente interpretato da Bruno Minotti che certo stavolta meglio poteva fare) finisce col perdersi irrimediabilmente. Assistendo incredulo e frastornato alle stravaganti sortite giovanili del nipote Luigi ed alle faccende della giovane domestica Esterina, interpretati dagli ancora acerbi Gennaro Monti e Giuliana Sepe, l’uomo lancia il suo disperato urlo finale nel vuoto che inesorabile lo circonda privando chiunque di poterlo mai ascoltare ed aiutare. Alla fine il dilemma posto da Cementano e De Falco che chiedono: “Qual è il confine tra la malattia e l’ipocondria, tra la preoccupazione e la paranoia” e “quanto larga è la soglia che divide la giovinezza dalla maturità”, diventa quello degli spettatori che afferrato il celato messaggio applaudono soddisfatti e contenti.

Giuseppe Giorgio


Vincenzo de Falco