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Ernesto Guevara de la Serna

1928 - 1967 in arte el CHE

LA RIVOLUZIONE DEI POPOLI OPPRESSI

Intervento per la Tricontinental (1967)


Sono passati ventun anni dalla fine dell'ultima guerra mondiale e molte
pubblicazioni, in lingue diverse, celebrano l'avvenimento, di cui è
simbolo la sconfitta del Giappone. Un clima di apparente ottimismo regna
in molti settori degli avversi campi in cui è diviso il mondo.
Ventun anni senza guerre mondiali, in questo tempo di grandi
contrapposizioni, di scontri violenti e di trasformazioni repentine,
sembrano molti. Ma, senza analizzare i risultati pratici (miseria,
degradazione, sfruttamento sempre più intenso di enormi settori del
mondo), di questa pace per la quale tutti noi ci dichiariamo disposti a
lottare, bisogna chiedersi se essa è reale.
Non è nostra intenzione, in queste note, fare la cronaca dei numerosi
conflitti locali che si sono susseguiti dopo la resa del Giappone; né è
nostro compito fare il resoconto delle lotte civili, numerose e sempre
più intense, succedutesi durante questi anni di pretesa pace. È
sufficiente portare come esempio, contro questo avventato ottimismo, la
guerra di Corea.
In essa, dopo anni di lotta feroce, la parte settentrionale del paese fu
sottoposta alla più terribile devastazione che appaia negli annali della
guerra moderna: crivellata di bombe, priva di fabbriche, scuole e
ospedali; priva di qualsiasi tipo di abitazione per ospitare dieci
milioni di persone.
In quella guerra sono intervenuti, sotto la ingannevole bandiera delle
Nazioni Unite, decine di Paesi guidati militarmente dagli Stati Uniti,
con la partecipazione in massa di soldati nordamericani e l'impiego
della popolazione sudcoreana, arruolata come carne da cannone.
Nell'altro campo, l'esercito e il popolo coreano e i volontari della
Repubblica popolare cinese contavano sulle forniture e sulla perversione
dell'apparato militare sovietico. I nordamericani, da parte loro,
sperimentarono ogni sorta di armi distruttive - eccetto le
termonucleari, ma comprese le batteriologiche e chimiche, sia pure in
scala ridotta. Nel Vietnam si sono susseguite azioni belliche
intraprese, quasi senza interruzione, dalle forze patriottiche di questo
Paese contro tre potenze imperialistiche: il Giappone, la cui potenza
subì una caduta verticale dopo l'esplosione delle bombe di Hiroshima e
Nagasaki; la Francia, che, recuperate dal Giappone sconfitto le sue
colonie indocinesi, ignorò le promesse fatte in momenti difficili;
infine gli Stati Uniti, nell'ultima fase della contesa.
Si verificarono scontri limitati in tutti i continenti, mentre in quello
americano, per molto tempo, non si ebbero che tentativi di lotta di
liberazione e pronunciamenti militari: cioè fino a che la rivoluzione
cubana non diede il segnale d'allarme sull'importanza di questo Paese,
scatenando le ire dell'imperialismo, che la costrinse a difendere le sue
coste a Playa Giron, prima, e durante la crisi d'ottobre, poi.
Quest'ultimo incidente avrebbe potuto provocare una guerra di
incalcolabili proporzioni se si fosse verificato, sul problema di Cuba,
uno scontro tra nordamericani e sovietici.
Tuttavia, oggi il nodo delle contraddizioni è nei territori della
penisola indocinese e nei Paesi vicini. Laos e Vietnam sono scossi da
guerre civili che cessano di essere tali non appena compare, con tutto
il peso della sua potenza, l'imperialismo nordamericano, cosicché tutta
la zona si trasforma in un detonatore pronto a esplodere.
Nel Vietnam lo scontro ha assunto caratteristiche di estrema acutezza.
Non è però nostra intenzione fare la storia di questa guerra, ci
limiteremo a segnalarne alcuni elementi fondamentali.
Nel 1954, dopo la decisiva sconfitta di Dien-Bien-Phu, furono firmati
gli accordi di Ginevra che dividevano il paese in due zone e impegnavano
ad indire elezioni nel giro di 18 mesi, per decidere chi avrebbe dovuto
governare il Vietnam e in che modo sarebbe stato riunificato il Paese. I
nordamericani non sottoscrissero quest'accordo e cominciarono a
manovrare per sostituire l'imperatore Bao-Dai, la cui tragica fine -
quella del limone spremuto dall'imperialismo - è ben nota.
Nei mesi successivi alla firma dell'accordo, regnò l'ottimismo tra le
forze popolari. Furono smantellate le fortificazioni della lotta
antifrancese nel sud del Paese e si attese l'applicazione del trattato.
Però i patrioti compresero subito che ciò non sarebbe avvenuto se gli
Stati Uniti non si fossero sentiti in grado di imporre la loro volontà
nelle urne: cosa impossibile, anche se avessero utilizzato tutti i loro
metodi fraudolenti.
Nel Sud riprese la lotta che acquistò sempre maggior intensità fino al
momento attuale, in cui l'esercito nordamericano è composto da quasi
mezzo milione di invasori, mentre diminuisce il numero e soprattutto la
combattività delle forze del governo fantoccio.
Da quasi due anni, i nordamericani hanno cominciato a bombardare
sistematicamente la Repubblica democratica del Vietnam nell'intento di
fiaccare la combattività del Sud e obbligarlo, da posizioni di forza, a
trattare. All'inizio, i bombardamenti erano più o meno isolati e
venivano giustificati con il pretesto di rappresaglie contro supposte
provocazioni del Nord. Poi sono aumentati in intensità e metodo, fino a
trasformarsi in una gigantesca battuta condotta dalle unità aeree degli
Stati Uniti, giorno per giorno, al fine di distruggere qualsiasi traccia
di civiltà nel Nord del Paese. È un episodio della tristemente celebre
escalation.
Gli obiettivi materiali degli yenkees sono stati in buona parte
raggiunti, nonostante l'intrepida difesa delle unità antiaeree
vietnamite, nonostante i millesettecento e oltre aerei abbattuti e
nonostante le forniture belliche del campo socialista.
Esiste una penosa realtà: il Vietnam, questa nazione che rappresenta le
aspirazioni, le speranze di vittoria di tutto un mondo arretrato, è
tragicamente solo. Questo popolo deve sopportare i colpi della tecnica
nord-americana quasi incontrastata nel Sud, con alcune possibilità di
difesa nel Nord, ma è sempre solo.
La solidarietà del mondo progressista con il popolo del Vietnam ha lo
stesso sapore di amara ironia che aveva per i gladiatori del circo
romano l'incitamento della plebe. Non si tratta di augurare la vittoria
all'aggredito, ma di condividere la sua sorte, andare con lui alla morte
o alla vittoria. Quando analizziamo la solitudine vietnamita, ci assale
l'angoscia per questo momento illogico dell'umanità.
L'imperialismo americano è colpevole di aggressione e i suoi crimini
sono immersi in tutto il mondo. Lo sappiamo, signori! Ma sono colpevoli
anche coloro che, al momento di decidere, hanno esitato a fare del
Vietnam parte inviolabile del territorio socialista: ciò avrebbe forse
comportato il rischio di una guerra mondiale, ma avrebbe anche costretto
gli imperialisti nordamericani a una decisione. E sono anche colpevoli
coloro che tengono in piedi una guerra di insulti e ripicche, cominciata
già da tempo dai rappresentanti delle due maggiori potenze del campo
socialista.
Chiediamo, per averne una risposta onesta: è o non è isolato il Vietnam,
costretto a pericolosi equilibri tra le due potenze in contrasto?
Che grandezza quella di questo popolo! Che stoicismo e che valore quelli
di questo popolo e che lezione per il mondo costituisce questa lotta.
Ancora per molto tempo non sapremo se il presidente Johnson avesse
veramente intenzione di iniziare alcune riforme necessarie al suo
popolo, per attenuare le punte delle contraddizioni di classe che
affiorano con forza esplosiva e sempre più spesso. Quello che è certo, è
che le, misure annunciate con il pomposo titolo di "lotta per la grande
società" sono cadute nel cimitero del Vietnam.
La più grande potenza imperialista sente nelle viscere l'emorragia
provocata da un Paese povero e arretrato e la sua favolosa economia
risente dello sforzo bellico. Uccidere non è più il migliore affare per
i monopoli.
Armi di difesa, e in numero insufficiente, è tutto ciò che hanno questi
soldati meravigliosi, oltre all'amore per la loro patria, la loro
società e un valore a tutta prova. L'imperialismo è impantanato nel
Vietnam; non ha via di scampo e cerca disperatamente un modo che gli
permetta di uscire con dignità da questo pericoloso frangente. Ma i
"quattro punti" del Nord e i "cinque" del Sud lo attanagliano rendendo
più duro lo scontro.
Tutto sembra indicare che la pace - questa pace precaria, cui si è dato
questo nome solo perché non si è verificata nessuna conflagrazione di
portata mondiale - sia ancora in pericolo, per qualche passo
irreversibile e inaccettabile dei nordamericani.
E a noi, sfruttati del mondo, quale compito spetta? I popoli dei tre
continenti osservano e imparano la loro lezione nel Vietnam.
Poiché con la minaccia della guerra gli imperialisti esercitano il loro
ricatto sull'umanità, non temere la guerra è la risposta giusta:
attaccare duramente e ininterrottamente in ogni punto di scontro, deve
essere la tattica generale dei popoli.
Ma nei luoghi in cui la misera pace che sopportiamo è stata rotta, quale
sarà il nostro compito? Liberarci a qualsiasi costo!
La situazione mondiale è molto, complessa. Il compito della liberazione
tocca anche ai Paesi della vecchia Europa, sviluppati quanto basta per
sentire tutte le contraddizioni del capitalismo, ma così deboli da non
poter né seguire il ritmo dell'imperialismo né intraprendere questa
strada.
Lì le contraddizioni assumeranno nei prossimi anni carattere esplosivo;
ma i loro problemi, e di conseguenza le loro soluzioni, sono diversi da
quelli dei nostri popoli assoggettati ed economicamente arretrati. Lo
sfruttamento imperialista si esercita soprattutto sui tre continenti
arretrati: America latina, Asia e Africa. Ogni Paese ha proprie
caratteristiche, ma che anche i continenti hanno, nel loro insieme,
caratteristiche, proprie.
L'America latina costituisce un complesso più o meno omogeneo; in quasi
tutto il suo territorio i capitalisti monopolisti nordamericani
detengono il predominio assoluto. I governi fantoccio o, nel migliore
dei casi, deboli e timorosi, non sono in grado di opporsi agli ordini
del padrone yankee. I nordamericani sono giunti all'apice della loro
dominazione politica ed economica e non potrebbero andare molto più in
là. Qualsiasi mutamento potrebbe trasformarsi in un regresso del loro
predominio. La loro politica, quindi, è mantenere lo status quo. La loro
linea d'azione si riduce, oggi, all'uso brutale della forza per impedire
movimenti di liberazione di qualsiasi tipo.
Con lo slogan "non permetteremo un'altra Cuba", si giustifica la
possibilità di aggressioni a man salva come quella perpetrata contro
Santo Domingo, o, prima, il massacro di Panama. Suona chiaro
l'ammonimento che le truppe yankee sono pronte a intervenire dovunque,
in America, venga alterato l'ordine stabilito e dovunque siano posti in
pericolo gli interessi nordamericani. Questa politica conta su una
impunità quasi assoluta: l'OSA è una maschera comoda, per screditata che
sia. E l'ONU è di una inefficienza che rasenta il ridicolo o il tragico.
Gli eserciti di tutti i Paesi dell'America latina sono pronti a
intervenire per schiacciare i loro popoli. Si è costituita di fatto
l'internazionale del delitto e del tradimento.
D'altra parte, le borghesie autoctone hanno perso - se mai l'hanno avuta
- ogni capacità di opporsi all'imperialismo di cui vanno a rimorchio.
Non c'è scelta: o rivoluzione socialista, o caricatura di rivoluzione.
L'Asia è un continente con caratteristiche differenti. Le lotte di
liberazione contro le potenze coloniali europee hanno portato
all'instaurazione di governi più o meno progressisti, la cui evoluzione
posteriore si è risolta, in alcuni casi, in un approfondimento degli
obiettivi primari della liberazione nazionale; in altri, in un ritorno a
posizioni filo imperialistiche.
Dal punto di vista economico, gli Stati Uniti avevano poco da perdere e
molto da guadagnare in Asia. I cambiamenti li favoriscono. Lottano per
sostituirsi ad altre potenze neocoloniali, per crearsi nuove sfere
d'azione in campo economico, a volte direttamente, altre attraverso il
Giappone. Esistono, però, condizioni politiche speciali, soprattutto
nella penisola indocinese, che conferiscono all'Asia caratteristiche di
capitale importanza e svolgono un ruolo importante nella strategia
militare globale dell'imperialismo nordamericano.
Esso accerchia la Cina attraverso la Corea del Sud, il Giappone,
Formosa, il Vietnam del Sud e la Tailandia.
Questa duplice situazione, un interesse strategico importante quanto
l'accerchiamento militare della Repubblica popolare cinese, e
l'aspirazione dei capitali nordamericani a penetrare questi grandi
mercati che ancora non dominano, fanno dell'Asia una delle zone più
esplosive del mondo, nonostante l'apparente stabilità al di fuori
dell'area vietnamita.
Pur con contraddizioni proprie, il medio oriente appartiene
geograficamente a questo continente ed è in piena effervescenza, senza
che si possa prevedere fin dove arriverà la guerra fredda tra Israele -
appoggiato dagli imperialisti - e i Paesi progressisti della zona. È un
altro vulcano minaccioso per il mondo.
L'Africa ha la caratteristica di essere un campo quasi vergine per
l'invasione coloniale. Sono avvenute trasformazioni che, in un certo
modo, hanno costretto le potenze neocoloniali a rinunciare alle loro
prerogative assolutistiche. Ma quando i processi si succedono senza
interruzione, al colonialismo si sostituisce, senza violenza, il
neocolonialismo che - per quanto concerne la dominazione economica ne è
l'equivalente.
Gli Stati Uniti non avevano colonie in questo continente: ora lottano
per penetrare nelle riserve dei loro soci. Si può essere certi che,
nella strategia dell'imperialismo americano, l'Africa costituisce la
riserva a lunga scadenza. I suoi investimenti attuali sono considerevoli
solo nell'Unione sudafricana; ora inizia la sua penetrazione nel Congo,
Nigeria e altri Paesi, e ciò provoca una violenta concorrenza (per ora
pacifica) con altre potenze imperialiste.
Non ha, comunque, grandi interessi da difendere, salvo il suo preteso
diritto a intervenire dovunque i suoi monopoli fiutino buoni profitti o
grandi riserve di materie prime.
Tutto ciò rende lecito porsi l'interrogativo sulle possibilità di
liberazione dei popoli, a corta o media scadenza.
Analizzando l'Africa, vediamo che si lotta con una certa intensità nelle
colonie portoghesi della Guinea, Mozambico e Angola: con notevoli
successi nella prima, e con risultati alterni nelle altre. Vediamo che
continua la lotta tra i successori di Lumumba e i vecchi complici di
Ciombe nel Congo, lotta che attualmente sembra volgere a favore di
questi ultimi che hanno "pacificato" a loro vantaggio gran parte del
Paese; ma la guerra è sempre latente.
In Rodesia il problema è diverso: l'imperialismo britannico si è servito
di tutti i meccanismi di cui disponeva per consegnare il potere alla
minoranza bianca che oggi lo detiene. Il conflitto - secondo
l'Inghilterra - non è certo ufficiale. Ma questa potenza, con la sua
abituale abilità diplomatica - chiamata anche "ipocrisia", in buona
lingua - ostenta disgusto di fronte alle misure prese dal governo di Jan
Smith. Il suo ambiguo atteggiamento è appoggiato da alcuni Paesi del
Commonwealth e attaccato, invece, da buona parte dei Paesi dell'Africa
negra, siano o non siano docili vassalli dell'imperialismo inglese.
La situazione potrebbe diventare esplosiva se prendessero corpo gli
sforzi dei patrioti negri per prendere le armi e se il movimento fosse
concretamente appoggiato dalle nazioni africane vicine. Ma, per ora,
tutti i problemi vengono ventilati in organismi innocui come I'ONU, il
Commonwealth o I'OUA.
L'evoluzione politica e sociale dell'Africa non lascia, però, prevedere
una situazione rivoluzionaria a livello continentale. Le lotte di
liberazione contro i portoghesi finiranno certo con la vittoria, ma il
Portogallo non ha alcun peso come potenza imperialista. Gli scontri di
importanza rivoluzionaria sono quelli che mettono in scacco tutto
l'apparato imperialista, anche se ciò non significa che si debba cessare
di lottare per la liberazione delle tre colonie portoghesi e per la
radicalizzazione delle loro rivoluzioni.
Comincerà una nuova epoca in Africa solo quando le masse negre del Sud
Africa o della Rodesia intraprenderanno la loro autentica lotta
rivoluzionaria, o quando le masse depauperate di un Paese si leveranno
per riscattare, dalle mani dell'oligarchia al governo, il loro diritto a
una vita degna.
Finora si succedono colpi di mano militari con i quali un gruppo di
ufficiali sostituisce un altro gruppo o un governante che non serve più
gli interessi di casta o quelli delle potenze che occultamente lo
manovrano. Non ci sono, però, sussulti popolari.
Nel Congo, queste tendeze hanno avuto un fugace impulso dal ricordo di
Lumumba, ma si sono indebolite negli ultimi mesi.
In Asia, come abbiamo visto, la situazione è esplosiva. E i punti di
frizione non sono costituiti soltanto dal Vietnam e dal Laos, dove è in
corso la lotta. C'è anche la Cambogia, dove in qualsiasi momento può
cominciare l'aggressione diretta nordamericana; ci sono la Tailandia, la
Malesia e, probabilmente, l'Indonesia, dove non possiamo pensare sia
stata detta l'ultima parola, nonostante la distruzione del partito
comunista quando i reazionari hanno preso il potere; c'è, probabilmente,
il medio oriente.
In America latina si lotta, armi alla mano, in Guatemala, Colombia,
Venezuela e Bolivia, mentre le prime avvisaglie si avvertono in Brasile.
Ci sono altri focolai di resistenza che nascono e si estinguono. Ma in
quasi tutti i Paesi di questo continente sono mature le condizioni per
una lotta che, per essere vittoriosa, non può non prevedere almeno
l'instaurazione di un governo di tipo socialista.
In questo continente si parla praticamente una sola lingua, salvo che in
Brasile, con il quale i popoli di lingua spagnola possono, però,
capirsi, data l'analogia tra i due idiomi. Esiste una identità tanto
profonda tra le classi di questi Paesi, che si raggiunge una
identificazione di tipo "internazionale americano" molto più completa
che in altri continenti. Lingua, costumi, religione, uno stesso padrone
unisce questi popoli. Il grado e le forme di sfruttamento sono simili
nei loro effetti per sfruttatori e sfruttati di una buona parte dei
Paesi della nostra America. E la ribellione sta maturando in fretta.
Possiamo chiederci: questa ribellione, che frutti darà? Di che tipo
sarà? Sosteniamo da tempo che, per le sue caratteristiche similari, la
lotta in America acquisterà - al momento giusto - dimensioni
continentali. L'America latina sarà teatro di molte grandi battaglie
condotte dall'umanità per la sua liberazione.
Nella prospettiva di questa lotta a livello continentale, le battaglie
di oggi sono solo episodi: e tuttavia hanno già dato martiri che sono
entrati nella storia americana per aver versato il contributo di sangue
necessario in questa ultima fase della lotta per la piena libertà
dell'uomo.
Tra loro vi sono il comandante Turcios Lima, il prete Camillo Torres, il
Comandante Fabricio Ojeda, i comandanti Lobaton e Luis de la Puente
Uceda, figure di primo piano nei movimenti rivoluzionari del Guatemala,
della Colombia, del Venezuela e del Perù.
Ma la mobilitazione attiva del popolo crea i nuovi dirigenti. Cesar
Montes e Yon Sosa tengono alta la bandiera del Guatemala; Fabio Vasquez
e Marulanda quella della Colombia; Bouglas Bravo a occidente e Américo
Martin dirigono i rispettivi fronti in Venezuela.
Nuovi fronti si apriranno in questi e in altri Paesi americani, come già
è avvenuto in Bolivia; cresceranno, con tutte le difficoltà che comporta
il pericoloso compito del rivoluzionario moderno. Molti moriranno
vittime dei loro errori, altri cadranno nella dura battaglia che si
approssima. Nuovi dirigenti e nuovi combattenti sorgeranno nel fuoco
della lotta rivoluzionaria. La guerra stessa selezionerà i suoi
combattenti e i suoi dirigenti, mentre gli agenti yankees di repressione
aumenteranno. Oggi vi sono consiglieri militari in tutti i Paesi dove
esiste lotta armata. L'esercito peruviano, a quanto sembra, ha condotto
una vittoriosa battuta contro i rivoluzionari di questo Paese, anche
perché consigliato e addestrato dagli yankees. Ma se i focolai di
guerriglia si formeranno con sufficiente abilità politica e militare,
diventeranno praticamente imbattibili e costringeranno gli yankees a
inviare altri uomini. Nello stesso Perù, figure ancora sconosciute
stanno riorganizzando con tenacia e fermezza la lotta di guerriglia.
A poco a poco, le armi antiquate, sufficienti a reprimere piccole bande
armate, si trasformeranno in armi moderne; i gruppi di consiglieri
militari si trasformeranno in combattenti nordamericani: finché, a un
certo punto, saranno costretti a inviare crescenti quantitativi di
truppe regolari per assicurare la relativa stabilità di governi i cui
eserciti fantoccio si disintegreranno di fronte agli attacchi dei gruppi
di guerriglia. Questa è la strada del Vietnam. Questa è la strada che
devono seguire i popoli. Questa è la strada che seguirà l'America, dove
i gruppi in armi potranno caratterizzarsi formando giunte di
coordinamento per rendere più difficile il compito repressivo
dell'imperialismo yankee e più facile la vittoria della propria causa.
L'America, questo continente dimenticato dalle ultime lotte politiche di
liberazione, che comincia a farsi sentire nella Tricontinentale con la
voce dell'avanguardia dei suoi popoli, la rivoluzione cubana, avrà un
compito ben più importante: creare il secondo o terzo Vietnam.
In definitiva, bisogna rendersi conto che l'imperialismo è un sistema
mondiale, fase suprema del capitalismo, e che bisogna batterlo in un
grande scontro mondiale. La finalità strategica di questa lotta deve
essere la distruzione dell'imperialismo. Tocca a noi, sfruttati e
"arretrati" del mondo, eliminare le basi di sostentamento
dell'imperialismo; tocca ai nostri Paesi oppressi, da cui rapinano
capitali, materie prime, tecnici e operai a basso costo - e dove
esportano nuovi capitali, strumenti di dominio, armi eccetera -
riducendoci a una dipendenza assoluta.
L'elemento fondamentale di questa strategia sarà, dunque, la liberazione
reale dei popoli che avverrà, nella maggioranza dei casi, attraverso la
lotta armata e che in America, quasi ineluttabilmente, si trasformerà in
rivoluzione socialista. Se si vuol distruggere l'imperialismo bisogna
identificarne la testa: gli Stati Uniti d'America.
La finalità tattica della nostra lotta, a livello generale, è
costringere il nemico a uscire dal suo ambiente e a lottare in luoghi
dove le sue abitudini di vita si scontrino con la realtà imperante. Non
si deve sottovalutare l'avversario. Il soldato nordamericano è
tecnicamente capace e appoggiato da mezzi di tale ampiezza che lo
rendono terribile. Gli manca quello stimolo ideologico che, al
contrario, possiedono in sommo grado i suoi più accaniti avversari di
oggi: i vietnamiti. Potremo vincere questo esercito soltanto nella
misura in cui sapremo minare il suo morale: ciò avverrà se sapremo
infliggergli sconfitte senza lasciargli tregua.
Ma questo piccolo schema per la vittoria presuppone enormi sacrifici dei
popoli; sacrifici che bisogna esigere già oggi, alla luce del giorno, e
che forse saranno meno dolorosi di quelli che dovremmo sopportare
rifiutando costantemente la lotta nella speranza che altri ci tolgano le
castagne dal fuoco.
L'ultimo Paese che si libererà, lo farà probabilmente senza lotta armata
e gli saranno risparmiare le sofferenze di una guerra lunga e crudele
come sono le guerre dell'imperialismo. Vi è, tuttavia, la possibilità di
uno scontro a livello mondiale, e allora sarà impossibile evitare questa
lotta e le sue conseguenze: si soffrirà tutti e anche di più.
Non possiamo predire il futuro, ma non dobbiamo mai cedere all'infame
tentazione di farci portabandiera di un popolo che anela alla sua
libertà, rinnegando la lotta che per la libertà e aspettando che ci
venga elargita dalla vittoria degli altri. È giustissimo evitare ogni
sacrificio inutile: perciò è molto importante appurare le effettive
possibilità che ha l'Americaassoggettata di liberarsi in forma pacifica.
Per noi, la risposta è chiara. Sia o meno questo il momento indicato per
iniziare la lotta, non possiamo farci nessuna illusione - né ne abbiamo
il diritto - di ottenere la libertà senza combattere. E le lotte non
saranno semplici manifestazioni di piazza contro i gas lacrimogeni, né
scioperi generali pacifici; e neppure la lotta di un popolo infuriato
che distrugga in due o tre giorni l'apparato repressivo delle oligarchie
al governo. Sarà una lotta lunga e cruenta, il cui fronte sarà nei
rifugi guerriglieri, nelle città, nelle case dei combattenti (dove la
repressione cercherà facili vittime tra i familiari), nella popolazione
contadina massacrata, nei villaggi e nelle città distrutte dal
bombardamento nemico. Ci costringono a questa lotta: non c'è altra
alternativa che prepararla e decidersi a farla. Gli inizi non saranno
facili: saranno difficilissimi. Tutta la capacità di repressione, tutta
la brutalità e la demagogia delle oligarchie si porranno al servizio del
nemico. Il nostro compito, all'inizio, è sopravvivere. Poi agirà
l'esempio perenne della guerriglia con la propaganda armata
nell'accezione vietnamita del termine: vale a dire, la propaganda degli
attacchi, dei combattimenti, che si possono vincere o perdere: ma si
fanno. Il grande insegnamento della invincibilità della Guerriglia farà
presa sulle masse dei diseredati. La galvanizzazione dello spirito
nazionale, la preparazione a compiti più duri, per opporsi a repressioni
più violente. L'odio come fattore di lotta - l'odio intransigente contro
il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell'essere umano e lo
trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per
uccidere. I nostri soldati devono essere così, Un popolo senza odio non
può vincere un nemico brutale.
Bisogna portare la guerra nei luoghi del nemico: a casa sua, dove si
diverte. Renderla totale. Bisogna impedirgli di avere un solo istante di
respiro, un minuto di sosta, fuori e persino dentro le sue caserme:
attaccarlo dovunque sia. Farlo sentire una bestia braccata dovunque
vada.
Allora il suo morale cadrà. Si farà ancora più bestiale, certo, ma si
noteranno i primi segni della inevitabile decadenza.
Bisogna che si formi un vero internazionalismo proletario. Con eserciti
proletari internazionali, per i quali la bandiera sotto la quale si
lotta sia la causa sacra della redenzione dell'umanità, in modo che
morire sotto le insegne del Vietnam, del Venezuela, del Guatemala, del
Laos, della Guinea, della Colombia, della Bolivia, del Brasile - per
citare solo i Paesi dove oggi si combatte in armi - costituisce una
gloria e una aspirazione per un americano, un asiatico, un africano e
anche per un europeo. Ogni goccia di sangue versata in una patria che
non è la propria è una esperienza che chi sopravvive può poi applicare
nella lotta per la liberazione della sua terra. Ogni popolo che si
libera è una parte di battaglia vinta per la liberazione del proprio
popolo. È tempo di attenuare le nostre divergenze e di porci tutti al
servizio della lotta.
Tutti sappiamo - e non ce la possiamo nascondere - che grandi
controversie agitano il mondo in lotta per la libertà. Controversie che
hanno assunto un carattere e una violenza tali da rendere molto
difficili, se non impossibili, il dialogo e la conciliazione. Cercare il
modo di iniziare un dialogo che i contendenti rifiutano, è inutile. Ma
il nemico è là, colpisce tutti i giorni e minaccia nuovi colpi. Questi
colpi ci uniranno oggi, domani e dopo. Chi lo capisce e si prepara a
questa unione necessaria, avrà la riconoscenza dei popoli.
Data la violenza e l'intransigenza con cui ogni parte difende la propria
causa, noi, i diseredati, non possiamo prender partito per l'una o
l'altra forma di manifestare le divergenze, anche se - a volte -
possiamo condividere alcune posizioni dell'una o dell'altra parte, o in
maggior misura le posizioni di una parte che quelle dell'altra. Nel
momento della lotta, il mondo in cui si manifestano i contrasti attuali,
è una debolezza. Tuttavia, nelia situazione in cui siamo, volerli
comporre a parole, è un'illusione. La storia li cancellerà o darà loro
la vera spiegazione.
Nel nostro mondo in lotta, tutte le divergenze sulla tattica, sui metodi
di azione per il conseguimento di obiettivi militati, devono essere
analizzate con il rispetto dovuto alle opinioni altrui. Ma sul grande
obiettivo strategico, la distruzione totale dell'imperialismo con la
lotta, dobbiamo essere intransigenti. Queste le nostre aspirazioni:
distruzione dell'imperialismo con l'eliminazione del suo principale
baluardo, il dominio imperialista degli Stati Uniti d'America, assumendo
come tattica la liberazione graduale dei popoli, a uno a uno o a gruppi,
trascinando il nemico a una difficile lotta fuori dal suo terreno
liquidando le sue basi di sostentamento, cioè i territori che gli sono
soggetti.
È una guerra lunga e, lo ripetiamo una volta di più, una guerra crudele.
Che nessuno si illuda al momento di iniziarla, e che nessuno esiti a
iniziarla per paura delle conseguenze che potrebbe portare al suo
popolo. È quasi l'unica speranza di vittoria. Non possiamo eludere
l'appello di quest'ora. Ce lo insegna il Vietnam con la sua continua
lezione d'eroismo, con la sua tragica e quotidiana lezione di lotta e di
morte per la vittoria finale. Lì, i soldati dell'imperialismo sentono il
disagio di chi - abituato al livello di vita ostentato dalla nazione
nordamericana - deve scontrarsi con una terra ostile, l'insicurezza di
chi non può muoversi senza sentire che calpesta suolo nemico, la morte
per chi esce dalle fortezze, l'ostilità di tutto un popolo. Ciò si
ripercuote sulla situazione interna degli Stati Uniti e provoca il
sorgere di un fattore che l'imperialismo, nel suo pieno vigore, riesce
ad attenuare: la lotta di classe anche all'interno.
Come possiamo non guardare a un futuro luminoso e vicino, se due, tre,
molti Vietnam fioriranno sulla superficie della terra, con il loro
prezzo di morte, con le loro immense tragedie, con il loro eroismo
quotidiano, con i reiterati colpi all'imperialismo, costretto così a
disperdere le sue forze sotto l'urto dell'odio crescente dei popoli del
mondo?
Se tutti fossimo capaci di unirci per fare i nostri colpi più forti e
sicuri, perché gli aiuti di ogni genere ai popoli in lotta fossero più
efficaci, quanto grande sarebbe il futuro e quanto vicino! Se a noi -
che in un piccolo punto del mondo adempiamo il dovere che proclamiamo,
mettendo al servizio della lotta il poco che ci è consentito dare: il
nostro sangue, il nostro sacrificio toccherà un giorno di questi morire
in una terra qualsiasi, ma nostra, perché bagnata dal nostro sangue, si
sappia che abbiamo misurato la portata delle nostre azioni e che ci
consideriamo soltanto unità del grande esercito del proletariato. E ci
sentiamo orgogliosi di aver imparato dalla rivoluzione cubana e dal suo
capo la grande lezione che proviene dalla sua posizione in questa parte
del mondo: "che importano i pericoli o i sacrifici di un uomo o di un
popolo, quando è in gioco il destino dell'umanità".
La nostra azione è tutta un grido di guerra contro l'imperialismo e un
appello all'unità dei popoli contro il grande nemico del genere umano:
gli Stati Uniti d'America.
E dovunque ci sorprenda la morte, sia benvenuta, purché il nostro grido
di guerra raggiunga chi è pronto a raccoglierlo e un'altra mano si tenda
ad impugnare le nostre armi e altri uomini si preparino a intonare canti
di lutto con il tambureggiare delle mitragliatrici e nuovi gridi di
guerra e di vittoria.

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Ultimo aggiornamento: 17-08-03.

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