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Ernesto Guevara de la Serna

1928 - 1967 in arte el CHE

Umanismo Rivoluzionario del Che

 

L' Umanismo Rivoluzionario del Che, la figura storica di Che Guevara abbraccia una grande vastità di campi: dalla teoria alla pratica, dal privato al pubblico, dall'immaginazione alla scienza. Sotto questo profilo egli ha incarnato certamente uno degli aspetti più ricchi e più belli dell'uomo del nostro ventesimo secolo.

Una ragione sufficiente quindi - anche se non l'unica - per anticipare le conclusioni e affermare fin d'ora che l'umanismo del Che è qualcosa di organico alla sua personalità; non è una qualità espressa soltanto negli scritti o un attributo che gli viene assegnato a posteriori da alcuni studiosi, ma si manifesta in forma naturale e spontanea nell'intero arco della sua vita.

Un arco di vita molto breve, non lo si deve dimenticare: 39 anni.

Un'analisi realmente approfondita dell'umanismo rivoluzionario del Che non può quindi prescindere da un discorso sulla sua esperienza e dagli orientamenti del suo pensiero negli anni della formazione, degli studi, del vagabondaggio in America latina, e poi come guerrigliero, ministro, diplomatico, polemista, scrittore e via discorrendo; tutti campi nei quali le caratteristiche salienti della sua personalità filosofica appaiono costantemente presenti; non solo in forma istintiva, ma a volte anche teorica e sistematica.

Tale aspetto non sembra essere sfuggito all'attenzione del grande pubblico, compresi quanti hanno una conoscenza puramente superficiale del personaggio Guevara. E' una sorta di "effetto alone", come una familiarità diffusa e di massa con la sua figura, per cui si tende istintivamente a percepirlo come un uomo. Un uomo della nostra epoca, ma proiettato nel futuro, dotato di una grande ricchezza interiore, umana per l'appunto.

E' un effetto che è stato raggiunto certamente anche col concorso dell'aspetto iconografico, dell'immagine, del volto. Da quelle fotografie assai note - ma anche da quelle meno note, alcune centinaia, per lo più inedite - scaturiscono sensazioni e allo stesso tempo messaggi.

Una serie di fattori quindi, che concorrono a far sì che qualcosa si comunichi all'osservatore (così come all'ascoltatore dei suoi discorsi o al lettore delle sue opere): una proposta parzialmente realizzata di uomo nuovo, proveniente da un pioniere avventuroso e filosofico del secolo XX. Sensazioni che si comunicano nonostante i decenni che cominciano a separarci dalla sua morte e che certamente continueranno a comunicarsi.

Per lo studioso rimane quindi la difficoltà - nonostante lo scorrere del tempo - di non farsi trascinare da questi aspetti entusiasmanti, dall'evocazione di un tale mondo meraviglioso e futuribile. Perchè l'umanismo rivoluzionario del Che non diventi una pura e semplice patinatura, un ennesimo mito da aggiungere a tanti altri meno belli, è compito dello studioso di fare il punto criticamente su quell'esperienza, di scavare a fondo nei processi politici ed esistenziali, con tutte le difficoltà del caso. Ma coll'intento preciso di compiere opera critica e scientifica, di ricavare da questa figura qualcosa di oggettivo, di traducibile in parole o gesti, di trasmissibile al futuro prossimo o remoto, al grande e poco generoso "archivio della storia".

Si può ricordare che il mito del Che - nel senso buono o cattivo del termine - si è sviluppato solo dopo la sua morte, nei mesi e negli anni successivi, senza averlo mai accompagnato in vita, se si escludono alcuni resoconti delle sue imprese militari. In vita, il Che è stato una personalità ostica, difficile, per molti un rospo da mandar giù, un anticorpo nel mondo stereotipo delle relazioni diplomatiche e del commercio internazoinale.

Il Che non si sarebbe mai aspettato un tale destino, pur tenendo come ogni buon hidalgo a preservare la propria immagine per il futuro, per i posteri. L'estrema modestia, che si accompagnava in felice equilibrio a un'estrema coerenza, costituì sempre un'importante corazza della sua personalità umana e una base fondamentale; una parte integrante di quelle caratteristiche politiche ed esistenziali dell'individuo Guevara che, a nostro avviso, rappresentano la struttura per così dire "fisiologica" del suo umanismo rivoluzionario.

L'umanismo del Che può essere considerato anche come un punto d'arrivo molto maturo del suo itinerario teorico. Basti pensare ad affermazioni come la seguente, nelle quali appare evidente l'attenta calibratura, la misurazione linguistica di ogni termine impiegato.

Nell'intervista a Jean Daniel del luglio 1963, per esempio, dichiarava:

Il socialismo economico senza la morale comunista non mi interessa. Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo al tempo stesso, contro l'alienazione.

Oggi queste parole possono forse sembrare scontate - che la lotta per il socialismo non si svolga solo sul terreno economico, solo per migliori condizioni di vita, ma sia invece e allo stesso tempo anche una lotta per il miglioramento dell'uomo, per un reale salto di qualità nei rapporti sociali di produzione, per la fine quindi effettiva, dell'alienazione. Udire queste parole pronunciate nel 1963, da un uomo quasi-capo-di-Stato, un ministro dell'industria, l'Ambasciatore della rivoluzione cubana all'estero, ha senz'altro un effetto sconvolgente.

Jean Daniel descrive il contesto in cui avvenne l'intervista: ad Algeri, mentre in lontananza echeggiavano gli spari e Guevara appariva al giornalista come un "Saint-Just", stagliato contro le colline di Algeri. Aggiunge Daniel che, dopo aver pronunciato quelle parole, il Che sorrise, null'altro. Eppure in quel sorriso, tra sogni africani e violenza politica, c'è la chiave di comprensione filosofica di quell'esplicita condanna formulata dal Che contro la grande nemica storica d'ogni concezione umanistico-rivoluzionaria o anche umanistica tout court: vale a dire contro l'alienazione, politica, economica o psicologica che sia.

Ascoltiamo un'altra definizione altamente significativa:

"Vincere il capitalismo con i suoi stessi feticci, ai quali si è tolta la qualità magica più efficace, il profitto, mi sembra un'impresa difficile"

E' una lettera a Josè Medero Mestre, un cubano che nel febbraio 1964 aveva scritto al Ministro dell'industria in veste di privato cittadino. Erano i giorni conclusivi del grande dibattito economico e Mestre aveva voluto esprimere un proprio parere sull'andamento di quella discussione. Guevara, pur estremamente affaticato dalla tensione del dibattito, dai sei o sette articoli impegnativi scritti in quel breve arco di mesi sui grandi temi del marxismo e dell'economia di transizione - oltre che da tutte le altre sue attività - Guevara, dicevamo, trovò ugualmente il tempo per rispondere. E lo fece ricorrendo a espressioni insolite per il marxismo sclerotizzato di provenienza sovietica, utilizzando addirittura un termine maturato e ampiamente analizzato all'interno della filosofia europea "classica", come quello di "feticcio", riferito all'economia. Un termine che va collocato accanto all'altro fondamentale della citazione precedente - "alienazione" - per costruire i due pilastri del portico che può introdurci in chiave filosofico-scientifica nel mondo teorico dell'umanismo rivoluzionario del Che. Non mancherebbero ovviamente altre citazioni sull'argomento, anche se non sempre così significative. Non ci troviamo quindi di fronte ad un discorso umanistico ingenuo o semplicistico, ma di fronte ad un abbozzo di teoria sociale - in particolare una teoria sociale della transizione - che si alimenta di apparati concettuali in parte personali, in parte già patrimonio del pensiero marxista più vitale. Non c'è solo il marxismo tuttavia, ma c'è molto anche di cultura "europea" nel senso più ampio e migliore del termine.

Se questo può sembrare in termini sintetici un punto d'arrivo, qual è il punto di partenza nell'itinerario umanistico del Che? Cosa ha fatto sì che egli sia stato l'unico dei dirigenti cubani a considerare la costruzione del socialismo in primo luogo come un problema teorico? Che cosa ha prodotto questo autentico fenomeno storico-politico?

Vi sarebbe spazio ovviamente per una prima analisi d'ordine psicologico, che però poco interessa in questa sede e che comunque è praticamente impossiblie condurre a posteriori senza rischi di superficialità e pressapochismo giornalistico. C'è invece una parte che si può ricostruire nelle sue grandi linee come itinerario vissuto del pensiero del Che.

 

 

Nei primi anni di vita del giovane Guevara de la Serna non c'è molto di particolare.

Un'infanzia sostanzialmente "normale", per ciò che può significare questo termine. Le sue letture giovanili riflettono la normalità di un giovane argentino relativamente benestante, cresciuto in una famiglia colta e dotata di una moderna visione della vita sociale.

Molto invece si potrebbe dire sulla figura straordinaria della madre, Celia de la Serna, una donna con una propria formazione intellettuale, autonoma, radicale e combattiva.

Con lei Ernesto dovrà fare i primi conti teorici, dopo averne assorbito tutta la passione per i libri e lo studio. Con lei svolgerà delle importanti polemiche epistolari - per es. sul peronismo, ma anche su vari altri aspetti dell'etica e della vita quotidiana, che rappresentano una vera e propria anticipazione delle problematiche dell'umanismo rivoluzionario del Guevara maturo. Può essere utile rilevare che in queste corrispondenze con la madre il Che sembra animato da un "antiumanismo" programmatico. Egli anzi la rimprovera in più di un'occasione per le aspettative da "benpensante" nei suoi confronti, in una fase in cui invece il suo radicalismo si va formando con tutte le consuete e prevedibili deformazioni: dal settarismo all'ingenuo dogmatismo. Le scriverà nel 1956:

"Non sono Cristo e filantropo mamma, sono tutto il contrario di un Cristo...per le cose in cui credo lotto con tutte le armi di cui dispongo e cerco di atterrare l'altro, invece di lasciarmi inchiodare ad una croce o qualsiasi altra cosa".

Eppure, proprio in quel momento, egli sta compiendo uno sciopero della fame in carcere; non per sè - visto che come argentino privo di documenti ritiene di non poter essere lasciato andare - ma per il gruppo dei cubani del Movimento 26 di luglio, per Fidel e gli altri, arrestati insieme a lui nel campo d'addestramento in Messico. Un gesto quindi di altruismo politico - riflettuto e tutt'altro che animato da etiche del sacrificio - in cui già molto si può intravedere della sua personale concezione della morale rivoluzionaria.

I cubani lo ripagheranno non abbandonandolo, riuscendo ad ottenere la sua liberazione dopo un peridodo di prigionia lungo il doppio del loro e permettendogli di imbarcarsi di lì a poco sul Granma, partecipando così alla rivoluzione cubana: un dettaglio e una serie di coincidenze che tanta importanza dovevano avere per la storia e per la vicenda personale del Che. E tutto ciò sia detto senza determinismi o meccanici causalismi.

Uno degli aspetti meglio sviluppati nella filosofia personale del Che è stato lo studio dell'uomo. In lui c'è molto di riflessione sull'uomo, sull'uomo che egli è, quindi sull'uomo "se stesso", ma anche sull'uomo "altro", sull'uomo che egli incontra, come amico e come nemico.

Uno degli aspetti pionieristici dell'umanismo di Guevara è stato certamente rappresentato dalla determinazione con cui ha intrapreso il processo di trasformazione di se stesso.

Sulla base di fonti documentarie abbastanza precise e attendibili (diari di viaggio, lettere, ricordi di amici e conoscenti) è stato possibile ricostruire il percorso di questa rivoluzione interiore, da giovane ribelle a grande trasformatore sociale: il modo, per esempio in cui egli a un certo punto ha detto basta al suo contesto sociale, alle sue abitudini in via di cristallizzazione, fuori dal conformismo, alla ricerca di una strada per uscire da se stesso, dalla famiglia, da Buenos Aires, dall'Argentina peronista. In giro per il mondo a cercare l'uomo, l'"altro", quel qualcosa che ovviamente non poteva trovare in se stesso, nè nel banale mondo di una tranquilla sopravvivenza piccolo o medio-borghese.

Tra le righe del primo diario di viaggio (con Alberto Granado), che si mescola a sua volta con le prime lettere alla madre, al padre, alla zia Beatriz, si avverte distintamente questa ricerca del qualcosaltro. Cosa cerca realmente il giovane Guevara? Non è molto difficile rispondere, visto che si tratta di un itinerario di rottura, ma tutto sommato "classico". Alla ricerca dell'uomo abbruttito e reietto, il giovane Ernesto visita come prime tappe del suo lungo e celebre viaggio i luoghi di raccolta degli estremi parìa della società latinoamericana del tempo: i lebbrosari più celebri del continente. Non era il suo un interesse professionale di medico - si badi bene - che lo spingeva in quella direzione, ma la percezione trasfigurata, al limite letteraria, del lebbroso come espressione esasperata della sofferenza umana, della miseria, dell'uomo schiacciato dal destino e dalle condizioni sociali.

La sua ricerca dell'uomo non poteva che iniziare dal fondo della disperazione sociale e psicologica e quindi coerentemente dal "fratello di lebbra": un simbolo per tutto il nostro medioevo della disperazione umana, affiancato per secoli alla idealizzazione del "bacio del lebbroso" come prova estrema di coraggio e altruismo. In altra occasione abbiamo richiamato un esempio laico di questa antica pratica religiosa nel personaggio centrale de Il diavolo e il buon Dio di Sartre: nel Goetz avventuriero iconoclasta, penitente fallito e incarnazione letteraria del massimo di autodeterminazione pensabile all'interno di una concezione individualistica della storia e della rivoluzione, quale è contenuta nell'umanismo esistenzialistico del grande filosofo francese. Non a caso si potrebbe scrivere un intero capitolo sui rapporti tra i due - tra Sartre e Guevara - fatto in termini di reciproca ammirazione e istintiva diffidenza. Nelle sue appassionate letture di autori francesi - i suoi prediletti - il Che aveva fatto i conti, come ogni buon argentino colto e ribelle di quegli anni, col pensiero dell'autore dell'Essere e il nulla. Lungi da noi l'idea di voler rappresentare in Sartre un momento di rinascita o rinnovamento del marxismo - come si volle far credere - rimane pur sempre il fatto che egli tentò tra i primi di dare delle basi materialistiche a un pensiero umanistico che col passare del tempo era stato abbandonato inerme nelle mani della religione, del moralismo, d'una qualunque tra le filosofie ultime arrivate nel campo dell'irrazionalismo; c'è tanto marxismo esasperato in Sorel, come c'è tanto umanismo esasperato, o meglio superomismo, in Nietzsche. Se Sartre sia riuscito nel suo intento filosofico non è problema che ci riguardi in questa sede, ma resta significativo il fatto che eglia sia stato il primo - e quasi unico per anni - tra i filosofi europei he si sia recato a Cuba (1960), che abbia cercato di capire le novità di questa Rivoluzione, i problemi dei suoi dirigenti, ma anche dei suoi scrittori: il primo in ogni caso tra gli ammiratori del Che, come si ricava dalle pagine in cui descrive l'incontro con Guevara, nel libro Huracàn sobre el azùcar.

Torniamo al viaggio del Che con Granado nel mondo dei lebbrosi. E' anche un'escursione con interessi etnologici, che si faranno più accentuatamente archeologici nel grande viaggio dell'anno seguente (1953). Interessi che, a loro volta avevano degli antecedenti nelle letture appassionate di racconti di viaggi, scoperte ed esplorazioni, compiute precocemente nella casa paterna, sotto lo stimolo dell'eredità spirituale dei primi due anni di vita trascorsi nella selvaggia natura di Misiones, sulle rive dell'Alto Paranà, e sulla Sierra di Cordoba negli anni successivi. Ma archeologia in America latina significa interesse per le culture indie precolombiane. Di lì anche per il Che, come per molti altri celebri pensatori o scrittori del continente, è venuto emergendo l'interesse politico-letterario per l'"indianismo", l'indigenismo latinoamericano, destinato a trasformarsi rapidamente in questione sociale, in questione di lotta di classe e quindi rivoluzionaria. E' chiaramente un secondo stadio nel processo di formazione dell'umanismo rivoluzionario del Che. Dopo il lebbroso, la disperazione dell'uomo si incarna nell'indio, vale a dire nel grande esercito industriale di riseva del continente, negli emarginati delle Ande, nei peones delle haciendas, nei minatori del salnitro, in quelle grandi masse di popolo che per prime - storicamente parlando - hanno pagato i prezzi del colonialismo e poi dell'imperialismo.

Guevara non si avvicina a quegli indios come marxista, non vede subito in loro un enorme potenziale proletario nè dei lavoratori supersfruttati; ma vede in loro un nuovo gradino - un gradino di massa questa volta - della miseria dell'uomo. Li studia dapprima sotto il profilo archeologico, li frequenta direttamente, viaggia e dorme con loro nel corso delle sue peripezie avventurose (raccontate dettagliatamente nel bel libro di Granado En viaje con el Che por Sudamèrica, 1989, oltre che nelle pagine di diario del giovane Ernesto, ormai conosciute come Notas de viaje).

 

Si è appena laureato in medicina e parte nuovamente per il grande viaggio della sua vita, a luglio del 1953. Non tornerà più in Argentina, se non per una brevissima visita diplomatica a Frondizi (e una visita privata ai propri cari).

Nel giovane medico non c'è ancora un interesse per le problematiche sociali della lotta di classe, della condizione proletaria sui luoghi di lavoro e nei modelli di vita; non c'è ancora interesse vero e proprio per la politica, anche se viene da un paese in cui è proprio la politica ad essere esplosa, ad aver assunto una straordinaria dimensione di massa coll'esperienza dei governi peronisti. Stranamente è più nella professione che si avverte un interesse sociale, una voglia di impegno politico, come dimostra chiaramente il progetto di scrivere su La funzione del medico in America latina. Progetto poi accantonato, ma non prima di aver scritto alcuni capitoli che purtroppo non ci sono pervenuti. Deontologia professionale e finalità sociali della medicina - una medicina sociale, ovviamente - si mescolano in quel lavoro , aprendo uno spiraglio personale attraverso il quale si sarebbe potuta precipitare a valanga tutta una nuova e originale riflessione sui temi dell'umanismo rivoluzionario, se non fosse intervenuta l'esperienza guerrigliera sulla Sierra Maestra a interrompere quel processo. O meglio, ad assorbirlo e svilupparlo in una dimensione più ampia, realmente sociale e "professionale".

Resta tuttavia la sensazione che anche in quel campo apparentemente specifico il Che avrebbe potuto dare un proprio contributo originale, particolarmente sentito e vissuto nel pieno senso del termine.

La terza fase si apre nell'estate del 1953, assorbendo e trasformando tutto il ribellismo, l'anticonformismo dell'Ernesto vagabondo: un ribellismo e un anticonformismo tuttavia, che vanno considerati in una luce particolare, nel contesto latinoamericano dei primi anni '50 e non in quello europeo degli anni '60. Differenze che varrebbero bene una digressione di storia culturale, qui impossibile. Si tenga allora soltanto a mente che quei fattori dinamici citati nella struttura caratteriale del Che in formazione, significano nè più nè meno radicalismo fisiologico e programmatico per un giovane ribelle di Buenos Aires, dotto e benestante, in un contesto sociale di peronismo dilagante, vale a dire di una delle massime espressioni di organizzazione populistica e carismatica del conformismo, attraverso pressioni socioculturali provenienti contemporaneamente dall'alto e dal basso.

Il Che riesce comunque a non vedere la lotta di classe che divampa nel proprio paese e la scopre invece quasi casualmente nella Bolivia di Paz Estenssoro, in un contesto molto più favorevole di quello argentino. Il suo umanismo rivoluzionario e successivamente anche il suo marxismo si avvantaggeranno enormemente del fatto che egli abbia compiuto la sua prima scelta politica - vaga e superficiale quanto si vuole - in un contesto di ascesa di un movimento di massa, di un movimento di lavoratori, contadini e minatori soprattutto, armati contro la reazione e impegnati a organizzare proprie strutture di potere per la gestione in prima persona delle grandi conquiste della rivoluzione: riforma agraria, libertà sindacali, nazionalizzazioni.

Lì Guevara scopre la lotta di classe, compie le sue prime analisi politiche, manifesta per la prima volta dei segni di ricerca di un impegno rivoluzionario: le lettere scritte dalla Bolivia stanno a dimostrare tutto questo.

Il passo successivo è invece ormai cosciente. Decide di recarsi in Guatemala, perchè ha saputo che lì il movimento diretto da Jacobo Arbenz è ancora più vasto e più incisivo nella sua radicalità. Il rapido fallimento di quell'esperienza è storia nota.

Le analisi, tuttavia, che vengono compiute per lettera dal Che (e in due articoli) riguardo alla vicenda guatemalteca sono quanto di più lucido si possa leggere sull'argomento. Meno lucido è invece il processo di adesione al marxismo che avviene in quegli stessi mesi, in collegamento dapprima e poi in dissidio con alcuni intellettuali del Pgt (il Partito comunista guatemalteco).

Guevara vi arriva dopo una fase di intense discussioni con ambienti dell'aprismo più radicale e in particolare, con una giovane intellettuale peruviana, Hilda Gadea, sua futura moglie e madre di Hildita. Nella confusione ideologica è certo tuttavia che Guevara giunge ad un primo rapporto col marxismo, fatto di freschezza e di spontaneità, in quotidiano quasi fisico collegamento colla lotta dei lavoratori, armi alla mano e con un preciso programma di rivoluzione antimperialistica, vale a dire socialista nel contesto boliviano e guatemalteco.

E' a partire da questo momento che il suo umanismo si fa sistematico, pervadendo in tal modo e in tal veste, vari campi dell'attività pratico-teorica del Che. Qualcosa si è già detto al riguardo, molto vi sarebbe da dire. E' certo tuttavia che negli anni della Bolivia, del Guatemala e del Messico (1953-56) si delinea il nucleo definitivo della filosofia sociale del Che, quella che sboccherà nella concezione utopica e societaria dell'uomo nuovo e che l'accompagnerà fino alla morte. Tale filosofia va però anche analizzata nelle sue componenti ed esaminata alla luce delle varie categorie del sociale in cui l'umanismo rivoluzionario del Che trovò modo di applicarsi, facendosi teoria, cultura e pratica rivoluzionaria.

A voler elencare i principali campi di sviluppo del nuovo raggiunto umanismo del Che, foss'altro che a fini di ulteriori approfondimenti e analisi critiche, si dovrebbe come minimo tener conto di un umanismo rivoluzionario in campo filosofico, nell'economia, nella problematica della costruzione del socialismo, nel campo militare e nella guerriglia (forse il meno significativo e il più ingenuo), sul terreno per il Che importantissimo dei rapporti umani, nelle manifestazioni dell'arte e della cultura.

E' una suddivisione che operiamo esclusivamente per ragioni di studio, ma che non corrisponde a una compartimentazione della realtà. L'umanismo per definizione - e non solo quello rivoluzionario - non può mai essere ridotto ad un fatto settoriale. Si tratta di una concezione unitaria pe eccellenza; si potrebbe addirittura dire che una delle funzioni storiche dell'umanismo, pre o post marxiano, è stata sempre quella di ricomporre in una sintesi superiore i vari rami d'attività dell'uomo, agens, ludens o cogitans che fosse. Basti pensare agli sforzi di ricomposizione di un'unità delle varie espressioni culturali dell'individuo compiuti dal Rinascimento (italiano in primo luogo). E certamente, compito di un moderno umanismo non può non essere quello di ricomporre l'integrità psicofisica e culturale dell'uomo davanti alla crescente parcellizzazione, ai processi di frantumazione ed esasperata specializzazione delle tecniche produttive. Il Che fu sensibile a questo tipo di problematica e ritenne di dover estendere la propria lotta contro l'alienazione anche a questo aspetto disumanizzante dello sviluppo capitalistico, che si protrae e anzi può rinvigorirsi in una società di transizione affetta dal cancro del burocratismo.

E quando la realtà sociale, quando le condizioni materiali di produzione ed esistenza non permettono un tale processo di ricomposizione nell'immediato - per ragioni storiche e politiche che però andrebbero esaminate di volta in volta - è il momento in cui può scattare la molla dell'utopia. Vale a dire della proiezione ideale, verso il futuro, dei bisogni e delle esigenze più profonde di liberazione dell'uomo che non riesce a trovare nel proprio habitat sociale le possibilità effettive di un'autentica trasformazione, di una ricomposizione del conflitto uomo-natura, di un'eliminazione definitiva dell'alienazione.

E' a quel punto che l'umanismo rivoluzionario si fa utopia: utopia rivoluzionaria, ovviamente come è stato il caso per il Che. Nel suo itinerario teorico si può chiaramente individuare questo tipo di passaggio, in piena coerenza con le premesse degli anni formativi.

 

L'umanismo filosofico di Guevara.

Occorre adottare la massima cautela nell'accostarsi alle sue opere, tenendo conto che sotto questo profilo esistono notevoli discontinuità, fratture, veri e propri arretramenti.

Ciò vale soprattutto per gli anni subito dopo la Rivoluzione, quando il Che - con entusiasmo da neofita - riprese i propri studi di marxismo. Nel nuovo contesto politico della Cuba rivoluzionaria, infatti, ciò avvenne sotto la diretta influenza dei manuali di "marxismo-leninismo" di provenienza sovietica, con complessi di inferiorità culturale nei confronti dei quadri "teorici" del vecchio Psp staliniano e soprattutto col miraggio dell'URSS come patria del socialismo e della lotta antimperialista nel mondo. Dal punto di vista teorico è un brutto periodo nella storia del Che , che non si concluse nemmeno con la lotta contro il cosiddetto "settarismo, nel 1961-62. Esso si protrasse per qualche tempo ancora - il 1963-64 si può considerare il periodo di passaggio - lasciando dietro di sè una lunga scia di dogmatismi, di affermazioni meccanicistiche, di antiumanismo programmatico in molti scritti guevariani di quei primi anni '60. Se per esempio si riprovasse a leggere con spirito critico il celebre Notas para el estudio de la ideologia de la Revoluciòn cubana (ottobre 1960), si vedrebbero riprodotti in quel testo tutti i luoghi comuni dei manuali di marxismo-leninismo in voga nei paesi dell'Est. All'epoca ci fu addirittura chi vide in quell'articolo un'applicazione "creativa" della "dialettica" marxista" alla realtà cubana. Ebbene, il lettore odierno non troverà in quello scritto sulle origini della rivoluzione cubana un solo concetto, una sola frase che sia cubana o più in generale latinoamericana. Eppure Guevara aveva una grande familiarità teorica con la storia e la letteratura del proprio continente; e nel campo più specifico del marxismo già conosceva i contributi dei grandi pensatori autoctoni, come Josè Carlos Mariàtegui, Anibal Ponce o Julio Antonio Mella. Ebbene, in quel testo non vengono mai nominate le tradizioni dei grandi libertadores, da Artigàs a quel Martì che così importante era stato per la formazione dei rivoluzionari cubani e che lo stesso Che citerà poi generosamente e continuamente in altri scritti degli anni successivi, alcuni dei quali divenuti giustamente celebri. Bolivàr viene nominato una volta, ma solo in rifereimento a una polemica di Marx, nella quale - per ironia della sorte - è proprio Marx ad avere ragione e non Guevara, ma che proprio per il suo carattere di riferimento frammentario sta a dimostrare quanto lontano fosse il Che in quegli anni, da una lettura creativa e antidogmatica del marxismo latinoamericano e internazionale.

 

Tra il 1960 e la fine del 1963 Guevara compie una serie sconfinata di esperienze politiche, pratiche e teoriche, a Cuba e nel mondo che egli visita ormai in lungo e in largo come principale ambasciatore della rivoluzione. L'effetto è dirompente su una struttura mentale onesta e coerente come la sua, su un'avida sete di conoscenze come quella che si era venuta formando fin dagli anni delle prime influenze materne. Sul piano filosofico l'apertura è consentita dalla riscoperta - o forse solo scoperta - di una problematica classica: quella del giovane Marx e del suo discorso sull'alienazione. Per tutti si può citare l'articolo Sobre el sistema presupuestario de financiamento, (febbraio 1964) (Sul sistema di finanziamento di bilancio). Scritto nel momento più alto del "grande debate economico" e molto rigidamente legato ai temi della discussione.

Ebbene, nonostante questo suo carattere "economicistico", l'articolo contiene una premessa di tipo metodologico e una citazione dai Manoscritti economico-filosofici del '44, sulla quale il Che si sofferma a riflettere, producendo una delle sue pagine più belle, più ricche di intuizioni.

E' lì che Guevara, ormai nel pieno di una fase di ripresa teorica e di intenso fermento ideologico, afferma:

"Il peso di questo monumento dell'intelligenza umana è tale che ci ha fatto dimenticare assai spesso il carattere umanistico (nel senso migliore del termine) delle sue (di Marx) inquietudini".

In un dibattito che lascia poco spazio alle divagazioni, nel pieno di uno scontro sul futuro economico dell'isola che si è fatto già duro - anticipando scelte drammatiche del futuro - il Ministro dell'industria si lascia andare a delle considerazioni quanto mai serene sulle riflessioni del giovane Marx a proposito dell'"uomo come individuo umano", ai "problemi della sua liberazione come essere sociale", al superamento dell'"autoalienazione dell'uomo", della

"reale appropriazione dell'umana essenza da parte dell'uomo e per l'uomo; e come ritorno completo, consapevole, compiuto all'interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell'uomo per sè quale uomo sociale, cioè l'uomo umano".

L'uomo come attore cosciente della storia, come

"verace soluzione del contrasto dell'uomo con la natura e con l'uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. E' il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione".

Testo e sottolineatura sono del giovane Marx, ma vengono fatti propri dal Guevara non più tanto "giovane", dal ministro economico, dal dirigente politico avviato verso nuove e affascinanti formulazioni del suo umanismo rivoluzionario più maturo. Un umanismo, come ricordavamo, che comincia ormai a farsi filosofico e sistematico.

Il richiamo al giovane Marx, alla problematica dell'alienazione, nel 1963-64 è ovviamente un sacrilegio nel mondo del cosiddetto "socialismo reale". Ancor più grave è il fatto che a parlarne non sia un giovane studente di filosofia, ma addirittura un Ministro dell'industria: vale a dire un responsabile dell'economia che, secondo le dottrine ufficiali, invece di fantasticare sulla possibile estinzione dell'alienazione nei rapporti produttivi della società di transizione, dovrebbe cercare di camuffarla, di darle veste propagandistica. E ciò allo scopo di rafforzare le nuove istituzioni statali, le nuove fasce di potere e privilegio in cui si forma e prospera la nascente burocrazia.

Di alienazione, del resto, in quegli anni si parla moltissimo in Europa e agli osservatori non può certo sfuggire il significato di queste prese di posizione di Guevara, la scelta di campo che esse indicano - dapprima implicitamente, poi sempre più apertamente - nella pratica del ministro-guerrigliero e in testi celebri come Il socialismo e l'uomo a Cuba o lo stesso Messaggio alla Tricontinentale. La lotta contro la burocrazia in cui Guevara si impegna apertamente dallinizio della Rivoluzione cubana, ma con ben altra prospettiva e dimensione sociale a partire appunto dal 1963-64, può essere considerata come un'importante quanto obbligata conseguenza di quelle posizioni sull'alienazione. Alla luce, tuttavia, del nuovo discorso più ampio e maturo che il Che conduce anche sulla necessità della rivoluzione mondiale e le responsabilità delle vecchie organizzazioni del movimento operaio nel ritardo di questo storico processo.

Il ministro Guevara fa "economia sociale", così come il giovane Ernesto aveva tentato e programmato di fare "medicina sociale". E a un convegno internazionale di architetti egli indica la strada di un impegno professionale-rivoluzionario, vale a dire di "architettura sociale", così come lo indica all'operaio o allo studente, al giovane comunista. Anche il combattente, il guerrigliero, dovrà essere al fondo "un riformatore sociale", scrive il Che in Guerra di guerriglia. Una dimensione alla quale non potrà sfuggire neppure l'artista che vorrà dar un senso alla propria opera, pur conservando il massimo di libertà e autonomia individuale.

E come l'umanismo rivoluzionario di Guevara attribuisce un ruolo insostituibile al fattore "uomo" nel processo di superamento dei limiti del sottosviluppo e dll'inferiorità commerciale cui la giovane Cuba si trova condannata dal funzionamento della legge del valore su scala internazionale, dai meccanismi dello scambio ineguale, così lo attribuisce ancora una volta all'uomo nel processo più generale di costruzione del socialismo.

Un concetto, ricordiamolo, che per il Che non è riduttivamente economico, ma comprensivo dell'insieme delle manifestazioni culturali e sociali, individuali e collettive.

La leva di tale concezione storicizzata, moderna ed antiburocratica della costruzione del socialismo è per Guevara la pianificazione, con le sue tecniche, ma anche con la sua capacità di coinvolgimento della massa dei lavoratori nell'individuazione delle priorità di piano, delle necessità sociali da soddisfare. Guevara fu un "ammiratore" dei meccanismi della pianificazione, ingenuo e illuso dapprima, sperimentato e realistico nella fase conclusiva del suo ministero economico. E questa non è cosa da poco.

Unita alla sua concezione dinamica e dialettica del rapporto teoria-prassi, tale ammirazione significa concepire la costruzione del socialismo come un'azione cosciente dell'individuo-massa, del soggetto storico concreto sulla realtà circostante, amica o nemica che sia.

Non più quindi soltanto controllo razionale dell'uomo sulla natura - come dovrebbe indirizzare una tradizione millenaria di pensiero occidentale - ma controllo razionale delle risorse, delle potenzialità produttive, da intendersi in senso materiale e tecnico-scientifico.

La pianificazione per Guevara non è una tecnica, nè un insieme di tecniche; non è "econometria", ma è fondamentalmente razionalizzazione: dell'habitat, dell'agire sociale, della fabbrica, del rapporto lavoro-territorio, del lavoro produttivo e in ultima analisi anche del pensiero di coloro che producono. Di qui la grande enfasi posta sul problema della formazione: dai livelli più bassi ammissibili in una società di transizione (il "minimo tecnico" di guevariana ispirazione, vale a dire l'acquisizione di un livello minimo indispensabile per permettere all'operaio di cominciare ad essere utile alla produzione) fino ai seminari di studio su Il Capitale, organizzati sempre dal Che per i dipendenti del suo Ministero; dalla familiarizzazione con tutti i problemi tecnici della produzione di serie, fino al raggiungimento di una visione d'insieme dei problemi e delle interconnessioni dei vari settori merceologici (dal Che in gran parte raggiunta).

Tutto ciò si affianca nel ministro-guerrigliero al grande discorso della nostra epoca, che il Che fa suo pionieristicamente nell'isola di Cuba; vale a dire la fede - istintiva e viscerale, ma anche razionale e costruita con lo studio - nel progresso teconologico. Egli crede al carattere intrinsecamente rivoluzionario dello sviluppo della scienza e della tecnologia, ma solo quando ciò si verifica in un contesto disalienante, di rottura della dipendenza, in un contesto per l'appunto di autentica pianificazione socialista.

Lo sviluppo e l'utilizzo della tecnologia non sono ovviamente neutrali. Guevara ne è pienamente consapevole e lo ripete più volte: dai paesi capitalistici più avanzati occorre prendere le tecniche, dopo aver preso le loro fabbriche. Ma ciò è possibile solo in presenza di una tensione etica, di un controllo rivoluzionario, di un'autoconsapevolezza, di tutto ciò che può intendersi per "coscienza socialista" al di fuori di ogni retorica e demagogia.

E' così che a un certo punto egli arriva a inserire nella propria visione societaria il "perno dinamico" - come egli lo chiama - della coscienza. E quando ciò avviene, nel corso del dibattito economico, egli comincia effettivamente a ragionare in termini futuribili, da vero e proprio utopista, nel senso classico e migliore del termine.

Lo scheletro del suo ragionamento è in sostanza il seguente: non abbiamo le basi mateiali per operare un salto qualitativo sul piano dell'industrializzazione; non abbiamo risorse da canalizzare al fine di realizzare un'accumulazione originaria socialista; nè sarebbe possibile del resto pensare un salto del genere in un paese solo, in un'isola, per giunta assediata dall'imperialismo; possediamo solo le fabbriche che abbiamo tolto al capitalismo; ci mancano le risorse energetiche indispensabili per marciare sulle nostre stesse gambe; unica vera nostra risorsa mobilitabile per il salto dal sottosviluppo nell'economia del socialismo (che in quanto tale non può non essere un'economia del benessere) è il fattore-uomo, la risorsa-uomo. Lì occorre intervenire, concentrare gli sforzi e moltiplicare all'infinito quell'unica, magnifica e imprevedibile risorsa: i risultati non potranno tardare.

A più di trent'anni di distanza da quelle formulazioni visionarie e utopistiche, è difficle non dar ragione al Che, o per lo meno non dar torto ai suoi oppositori, al presunto realismo dei suoi detrattori. L'isola di Cuba poteva compiere un salto qualitativo sul piano dell'economia e del suo processo di transizione al socialismo, solo trasformando il fattore-uomo, cioè il fattore coscienza, collettiva e individuale, in fattore produttivo. Questa era e rimane l'unica possibilità. E anche per questo, di Guevara a Cuba si dovrà continuare a parlare ancora per molto tempo.

 

L'umanismo etico del Che si colloca decisamente all'opposto della morale equivoca e corruttrice del "fine che giustifica i mezzi". Teorizzata e applicata per decenni dallo stalinismo, questa etica dell'immoralità non riscuote in alcun momento un sia pur minimo consenso da parte di Guevara, nemmeno negli anni della sua più profonda infatuazione per i "paesi del cortisone" - i paesi d'oltrecortina, come egli li chiamava scherzosamente - negli anni in cui, sempre per scherzo, si firmava "Stalin II" in una lettera alla zia. La sua è sempre stata un'etica della coerenza, una coerenza programmatica tra fine e mezzi, tra libertà individuale e necessità sociale, tra le esigenze della volontà e quelle della ragione. Lo scrive e ne parla in continuazione: se vogliamo ottenere questo bisogna fare in questo modo; se vogliamo ottenere che domani l'uomo sia in un certo modo, bisogna che già oggi si comporti in questo determinato modo; se vogliamo che i dirigenti di domani siano i giovani, bisogna che noi vecchi ci tiriamo da parte oggi; se vogliamo eliminare la burocrazia, bisogna cominciare a razionalizzare questo e quel lavoro, a creare questa e quella coscienza; e così via, seguendo una serie sconfinata di esempi.

E tutti sanno, ovviamente, che queste indicazioni di coerenza etica da parte del Che non erano destinate a restare sulla carta. La sua vita di Comandante e di Ministro è una lista interminabile di esempi di coerenza e di abnegazione personale: dalla povertà scelta come vocazione, nel rifiuto di ogni privilegio materiale o qualsiasi vantaggio anche solo per i suoi figli, sino al sacrificio della propria vita nel tentativo di applicare alla lettera, fisicamente addirittura, le indicazioni programmatiche del suo messaggio ai popoli del mondo.

Al fondo di quell'etica c'è anche una coerenza psicologica, una coincidenza di valori e vissuto. di aspirazioni e impegno pratico che rende impossibili, anche a volerli, i rovesciamenti mentali o "astuzie politiche" quali venivano e vengono ancora comunemente apprese alla scuola tradizionale dei partiti di origine staliniana e socialdemocratica.

Alla madre scrive, nel 1956: "...ho costruito una volontà di ferro"; e sa bene di averlo fatto viaggiando, faticando, rischiando, ma anche studiando, scavando impietosamente dentro se stesso. E sempre alla madre scriverà a luglio 1959 - alcuni mesi quindi dopo la vittoria della rivoluzione -

"In me si è sviluppato molto il senso del collettivo contrapposto all'individuale; sono sempre lo stesso solitario di un tempo, alla ricerca della mia strada, senza aiuto personale, ma possiedo ora il concetto del mio dovere storico...mi sento qualcosa nella vita, non solo uno potente forza interiore, che ho sempre sentito, ma anche una capacità di comprensione degli altri e un assoluto senso fatalistico della mia missione che mi toglie ogni timore".

Su questa ricchezza e forza etica del suo mondo psichico si innesta però anche un senso di morte, presente fin dagli anni giovanili, ma accentuatosi via via negli ultimi anni, mesi e giorni della sua esistenza. In parte ciò è dovuto alla consapevolezza che il fatto di aprire nuove strade, di esporsi, in fin dei conti espone anche la sua vita. Molti, troppi compagni - alcuni carissimi amici - muoiono lungo il cammino, accentuando in lui quel senso di solitudine che nel Messaggio alla Tricontinentale egli attribuirà per il Vietnam all'insensibilità dei paesi che si dicono "socialisti" e che considererà la più grande tragedia etica della storia contemporanea. Nelle lettere personali Guevara si è dato per morituro decine di volte, a partire per lo meno dalla prima bella lettera di commiato dai genitori, nell'estate 1956, fino a quella più celebre del 1965 o nel Messaggio alla Tricontinentale.

E' un senso di morte che aleggia anche su alcune scelte personali e politiche dell'ultima fase e sul quale non si hanno tutti gli strumenti - e forse nemmeno il diritto - per approfondire il discorso. Un discorso, del resto - quello del rapporto vita-morte - complesso e in fin dei conti appartenente ad un campo dell'intimo, dell'etica individuale, anche per quanto riguarda la scelta dei rivoluzionari, dei grandi riformatori sociali. Il marxismo, l'umanismo, la filosofia del socialismo hanno il dovere e la possibilità di teorizzare la vita delle grandi masse, ma non hanno la possibilità di dire nulla sulla morte di queste stesse masse o dei grandi uomini che le dirigono. Il tema della morte rimane in fondo il limite invalicabile per il pensiero e l'azione di ogni materialista degno del nome. A posteriori è difficle resistere alla tentazione di affermare che - nonostante quanto detto fin qui - Guevara non aveva il diritto di morire, o per lo meno di morire così presto. La sua morte ha indubbiamente privato il mondo e le nuove generazioni di una fonte di pensiero, di un punto entusiasmante di riferimento teorico, di una guida etica e di un nemico inflessibile dell'imperialismo e della burocrazia. Ancora più grave è forse la constatazione che la sua morte ha spezzato il filo di un ragionamento che si stava delineando e rafforzando ed era forse sul punto di ricongiungere la vecchia teoria del marxismo rivoluzionario con le nuove aspirazioni e acquisizioni della lotta di liberazione nazionale nel mondo moderno. Egli del resto non è morto casualmente: è morto per una deliberata scelta politica compiuta in Bolivia (in un contesto peraltro e per molti versi non ancora del tutto chiaro). La sua morte quindi si può considerare come l'apice di quell'etica della coerenza di cui si diceva o come il precipitae storico della sua filosofia personale, della sua concezioni umanistico-rivoluzionaria del rapporto teoria-prassi. Punti di vista e frammenti di discorso certamente destinati a ulteriori imprevedibili sviluppi, se gliene fosse stata data la possibilità.

L'umanismo rivoluzionario del Che si proietta anche sul piano dei rapporti interpersonali, nel quadro di un rivoluzionamento complessivo del mondo spirituale dell'individuo storico-concreto che fa storia e che si sa come soggetto agente di trasformazione sociale.

E' forse questa la parte più bella del contributo guevariano che lo studioso può scoprire oggi, dopo alcuni decenni di imbrogli, menzogne e assurde semplificazioni sulla figura reale di questo straordinario essere umano. Ed è così che, leggendo e rileggendo le sue opere si può incontrare improvvisamente il suo discorso alla Textilera "Ariguanabo" (marzo 1963) in cui egli parla esplicitamente in termini di liberazione della donna, anticipando di alcuni anni problematiche che poi esploderanno in gran parte del mondo:

"...la liberazione della donna non è completa...ottenere la sua libertà totale, la sua libertà interiore, perchè non si tratta di una costrizione fisica che si impone alle donne per farle arretrare rispetto a determinate attività; è anche il peso di una tradizione precedente."

Ma poi aggiunge Guevara:

"...senza arrivare alle tradizioni del passato precedente il trionfo della Rivoluzione, rimane una serie di tradizioni del passato posteriore, vale a dire del passato che appartiene alla nostra storia prerivoluzionaria".

E' l'affermazione esplicita quindi, che i meccanismi dell'oppressione psicologica e sociale della donna non sono soltanto eredità del capitalismo, ma nascono anche da alcune caratteristiche della fase di transizione. In particolare dalla sopravvivenza delle vecchie e dalla nascita delle nuove forme di alienazione che il processo di costruzione del socialismo provoca anche nella Cuba rivoluzionaria. Guevara era convinto - e lo ripete anche in altre occasioni - che vi fosse una forma specifica di alienazione presente in germe nei meccanismi della fase di transizione, che in determinate condizioni poteva svilupparsi fino al punto di compromettere irrimediabilmente le conquiste sociali di un popolo. Anche per questo tento vigore ebbe la sua lotta contro la nascente burocrazia cubana e nel mondo per l'estensione della rivoluzione.

Sulla donna, sull'amicizia, sul mondo spirituale del combattente, sull'etica dell'odio e dell'amore, abbiamo una serie di affermazioni, spezzoni di discorso, che non costituiscono un insieme teorico coerente e che Guevara non ebbe il tempo di sviluppare.

Esse rappresentano però delle intuizioni, delle felici anticipazioni di tematiche di liberazione, che s'inseriscono perfettamente nella sua concezione del mondo, vale a dire nella sua concezione di un moderno umanismo rivoluzionario.

Esse stimolano e rispondono, in ogni caso, alle esigenze di quanti avvertono - e sempre più avvertiranno nel futuro - la necessità che la lotta per il socialismo non sia soltanto rivolta a ottenere maggiore ricchezza sociale e una vita migliore, ma soprattutto a cambiare qualitativamente il meccanismo della produzione: sia quella dei mezzi di produzione, sia quindi coerentemente anche quella della nostra vita, di noi stessi.

Ne Il socialismo e l'uomo a Cuba, egli torna ampiamente sulla problematica dell'alienazione nella società di transizione. E lo fa ad un livello ancora più alto, in particolare quando parla dell'arte e della cultura rivoluzionaria. Su questi temi il discorso di Guevara non può che essere ispirato al massimo di tensione ideale e aspirazione libertaria, scartando contemporaneamente il realismo decadente della borghesia come il realismo socialista.

Quest'ultimo, afferma il Che, con la sua pretesa di mantenersi al livello di ciò che capiscono le masse finisce col produrre un'arte "alla portata di tutti che è poi alla portata dei funzionari.

La ricerca autentica viene annullata e il problema della cultura generale si riduce ad una appropriazione del presente socialista e del passato morto (e quindi non più pericoloso)."

Qui e altrove si vede che per il Che la funzione dell'intellettuale rivoluzionario - o dell'intellettuale tout court - consiste fondamentalmente nell'aprire nuove strade, senza predeterminarne necessariamente i contenuti. A "le nuove idee" quindi il compito di spalancare porte, spezzare incrostazioni, anticipare elementi del disegno utopistico.

Ci si intenda sul significato del termine "utopia". Non la concezione caricaturale secondo cui sarebbe "utopia" ciò che non si può realizzare materialmente, ma al contrario ciò che è desiderabile socialmente a livello di massa, che eleva la coscienza nel momento stesso in cui lo si desidera e che potrà realizzarsi solo in seguito a grandi rivolgimenti delle coscienze prima, e delle forze materiali, poi. In questo senso Guevara è un utopista e il suo disegno utopistico è molto avanzato, proiettato in una dimensione futuribile, ma tutto sommato prossima al mondo di aspirazioni e nuovi valori dell'uomo moderno. Per fare solo egli esempi egli parla di un nuovo uso del macchinismo (e dell'informatica!); dell'abolizione delle leggi di mercato:

"l'essere umano alienato, ha un cordone ombelicale invisibile che lo lega alla società nel suo insieme: la legge del valore." della ricomposizione dell'individuo frantumato - quell'uomo che

"cerca di liberarsi dell'alienazione mediante la cultura e l'arte, che muore quotidianamente durante le otto e più ore in cui funge da merce, per rinascere poi attraverso la sua creatività spirituale".

Esplicito è il rifiuto di tutti i processi di unidimensionalizzazione dell'uomo, così come tutte le forme di mercificazione e reificazione sociale. Egli parla spesso anche di libertà, in contesti diversi e con significati diversi, ma si capisce che quella parola ha per lui un suono quasi magico, in sè positivo, e quindi la distribuisce a piena mani nei propri scritti.

Guevara utilizza il termine "alienazione", come si è già detto, ma anche "angoscia": un'espressione tipicamente esistenzialistica e che mostra un alto livello di attenzione particolare al mondo psicologico-spirituale dell'individuo, senza remore d'ordine dogmatico.

"...questa arte decadente del xx secolo, da cui traspare l'angoscia dell'uomo alienato".

Oppure arriva a scrivere sempre nel celebre saggio per il settimanale uruguaiano Marcha:

"Il compito del rivoluzionario di avanguardia è a un tempo magnifico e angoscioso.

Mi permetta di dirle, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d'amore. E' impossibile concepire un rivoluzionario autentico privo di tale qualità".

Espressioni bellissime, il cui vero fascino non è d'ordine linguistico, quanto dovuto al fatto che il Che le ha sostanziate con il ragionamento teorico. coll'impegno personale e con la lotta.

Non è quindi esibizionismo verbale, ma carne e sangue che si fanno storia. E questo rende affascinante l' intero messaggio, lasciando intravvedere anche una dimensione estetica nell'esperienza teorica ed esistenziale di Guevara - anche di questa si è parlato a volte nel passato, ma per lo più a sproposito. Il meglio forse da questo punto di vista è venuto dai tanti poeti, musicisti e cantautori che gli hanno dedicato proprie composizioni o dal mondo della graica che sui lineamenti del Che si è letteralmente scatenato, producendo un numero incalcolabile di raffigurazioni e interpretazioni, quale mai era accaduto per il volto di un uomo privo di attributi divini o religiosi. Scritti e immagini di Guevara che continuano a provocare commozione. L'opera, il ricordo, sensazioni evocate dalla sua testimonianza o dal racconto della vicenda reale riescono ancora a far vibrare corde - le corde del nostro essere uomini. In questo senso si può quindi concludere affermando che il suo umanismo è riuscito a farsi messaggio. Un messaggio utopistico e rivoluzionario allo stesso tempo.

(Di Roberto Massari)

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