Campanile Basso

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Spiriti del Brenta

Campanile Basso (2883m)

Via normale: IV, disl. 260m, svil. 350m

 

Maciej Bak e Valerio Bozza, 2 agosto 2002.

 

- Ciao Giovanni, siamo Valerio e Maciej! E’ il suono della campana sulla vetta. Siamo in cima! Abbiamo scalato il Campanile Basso! -

Gli appigli sono pagine di libri che narrano di alpinisti di epoche passate. Generazioni di scarponi, corde e moschettoni hanno sfiorato questa roccia antica, emersa da mari preistorici a formare la magica torre di una fiaba. Mentre arrampico penso a loro, agli spiriti che aleggiano sulla parete e fanno a gara per raccontarci le loro incredibili storie, la loro lotta con l’Alpe. Il Campanile Basso, cima unica nel suo slancio formidabile, all’apparenza inaccessibile da tutti i lati, incanta i miti degli alpinisti da più di un secolo. Ma i miti dell’alpinismo non muoiono mai e, ancora oggi, nelle serate del Rifugio Pedrotti, il “Basso” viene nominato con il rispetto dovuto ad un tempio arcano.

Cerchiamo di scacciare ogni pensiero mentre agganciamo i moschettoni ai corrimani della Via delle Bocchette. La via di salita al Basso è un’ubriacante spirale che si avvolge su tutti i lati di questo superbo monolito, una surreale opera d’arte disegnata da Angelo Garbari negli ultimi anni dell’800, collegando, come il filo di una gigantesca collana, tutti gli impercettibili punti deboli per i 260 metri dalla base alla vetta.

Rapidamente, ci lasciano passare le docili rocce della parete sud, fino all’uscita sullo spigolo sud-est, sbarrato da una parete di venti metri leggermente strapiombante. Nino Pooli le lasciò il suo nome, superandola il 12 agosto del 1897, quando accompagnò il Garbari nel primo coraggioso tentativo. Oggi tocca a noi e, in quel momento, tutti i dubbi svaniscono: ce la faremo.

Dopo aver attraversato la parete est, ora siamo sulla parete nord. Sopra di noi si apre la minacciosa spaccatura del Camino a Y. Ne risaliamo la base e poi l’incassato braccio sinistro. Traversiamo ancora tutta la parete nord per lo stradone provinciale, un inaspettato sentiero, che inizia e finisce in nessun luogo, sospeso com’è a metà dell’abisso. Siamo a due terzi, ma manca ancora il contorto torrione sommitale. Un interminabile camino sulla parete ovest porta all’albergo al sole. Da qui altri dieci metri ci portano sul terrazzino Garbari.

Impressionano gli strapiombi sopra di noi, che 105 anni fa preclusero a Garbari e a Pooli la strada verso la vetta. Dopo tanti sforzi, i due pionieri lasciarono su questo terrazzino un biglietto d’auguri per chi avesse proseguito l’impresa. Avevano creato una delle più grandi incompiute dell’alpinismo. Due anni dopo, l’intuizione geniale di Otto Ampferer e Karl Berger, due studenti di Innsbruck, li portò ad un’impensabile vittoria. Impossibile capire cosa li spinse a calarsi per cinque metri verso lo spigolo nord-ovest, su quella minuscola insignificante protome chiamata pulpito del re del Belgio. Ci sporgiamo sulla parete nord per guardare ciò che ci aspetta: una precaria e delicata traversata di otto metri affacciata su una parete verticale di 250 metri. Ricordo i racconti di Rolly Marchi: quanta gente si è fermata qui, non trovando il coraggio di proseguire. L’esposizione è eccezionale, il vento soffia sulla parete in ombra, il battito accelera, i movimenti sono lenti, ma superiamo anche questo. Alla cima mancano gli ultimi trentacinque metri della parete Ampferer. Maciej parte mentre io lo assicuro; supera uno strapiombo, scompare sopra un altro. La corda scorre lentamente e io aspetto in nervoso silenzio, appeso sulla parete senza fine di quest’antico totem. In cima si radunano gli spiriti degli eroi. Cerco di figurarmi i passaggi che Maciej sta affrontando e mi sforzo di superarli con la fantasia, come se i miei pensieri potessero aiutarlo. Il tempo passa, e solo il Campanile Alto di fronte a me può vedermi.

- OK, Valerio, puoi salire -

Mi riscuoto dai miei pensieri e mi appresto anche io a scalare la parete. Parto. La mano trova un appiglio, poi sale un piede, poi l’altro… Il mito di Bruno Detassis, il re del Brenta. Il grande Ettore Castiglioni. Chissà quante volte avranno scalato questa via. Adesso sono io ad arrampicare qui, su quest’ultima placca verticale. Concentrato nell’assaporare i miei movimenti, tocco morbidamente queste rocce che brillano d’incantesimi sconosciuti.  Passaggio dopo passaggio, la felicità cresce dentro di me; la parete verticale comincia ad appoggiarsi, e io sento la felicità aumentare e riempirmi, ancora sugli ultimi appigli, fino ad esplodere in commozione, nell’istante in cui raggiungo in vetta il mio compagno di cordata. Avvolti in una nuvola, a stento intravediamo squarci di panorama, ma non fa niente: E’ bello  trattenersi per salutare gli spiriti del Brenta e ringraziarli di averci ammessi alla loro segreta dimora.

In discesa rivediamo l’uscita dell’irresistibile diedro Fehrmann, ripercorriamo lo stradone provinciale a ritroso e incontriamo una guida che si appresta a scendere con i suoi clienti ormai arresi. Oggi ci invidia la cima, ma ci indica la parete est:

- Lì c’è la via più bella alla vetta: Preuss la aprì senza corda nel 1911. -

Altri tempi e altre storie si accavallano ancora su queste pareti. Spesso scendiamo nel vuoto assoluto: sospesi sulla corda sopra abissi di vertigine.

Stasera al rifugio siamo i festeggiati. Qualcosa in noi è diverso. Abbiamo scalato il Campanile Basso. Queste montagne da oggi appartengono anche a noi. Il giorno dopo, sul sentiero di ritorno verso Molveno, mi fermo per cinque minuti a rifiatare, scaricandomi dei trenta chili che porto addosso e, un’ultima volta, intravedo il Campanile Basso tra le nuvole. Sorrido. Ora so che una parte del mio spirito è rimasta lassù con gli altri, per raccontare la storia della nostra impresa ad altre generazioni, per sempre.

 

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