Rassegna Stampa : IL MISTERO DELLA RIMET NASCOSTA ( tratto da Calcio2000 "La Posta Storica" Tutto quello che avreste voluto sapere sul calcio... )


Un lettore del mensile Calcio2000 chiede al Direttore  notizie circa su Ottorino Barassi, un dirigente sportivo che è riuscito a stare “in sella” sia con il Fascismo che con la Repubblica e che istituì la  “riforma Barassi".

Risponde Marino Bartoletti << Ottorino Barassi è stato una bella fetta della storia del calcio italiano e va annoverato tra i grandi dirigenti del nostro Paese. Conquistò infatti tale prestigio anche fuori dai confini e tanto rispetto in quanti operavano nel mondo del calcio, da far ritenere che il suo fosse l’ingegno del grande diplomatico o del grande politico, una vera fortuna per il calcio, che lo ebbe in esclusiva. Proprio le sue qualità superiori gli consentirono di non risentire del passaggio dal Regime fascista all’Italia repubblicana, come confermato dalle elezioni plebiscitarie che ne sostennero le cariche ricoperte. Ottorino Barassi era nato a Napoli il 5 ottobre 1898, ma si era trasferito prestissimo con la famiglia a Cremona, diventata sua città adottiva. Giovanissimo laureato in ingegneria elettrotecnica, calciatore dilettante dal 1913 e arbitro dal 1920, comincia la carriera dirigenziale nel 1925, nominato vicepresidente dell’Associazione italiana arbitri. Nel 1927 viene chiamato dal presidente della Federcalcio, Leandro Arpinati, alla segreteria del Direttorio Divisioni Superiori (una sorta di attuale Lega professionisti), di cui due anni dopo diventa presidente. Cura assieme allo stesso Arpinati e al segretario Zanetti il trasferimento della sede federale da Bologna a Roma nel 1929, anno dell’avvio del girone unico. Nel 1933 Barassi diventa segretario generale della Federcalcio sotto la presidenza Vaccaro e gli tocca il compito non semplice di curare l’organizzazione del Mondiale in Italia, impeccabilmente assolta. Nel corso della sua segreteria, l’Italia fu ai vertici mondiali, vincendo due titoli iridati e un’Olimpiade. Volontario in guerra, riprese l’attività nel 1944, quando fu chiamato da Giulio Onesti, commissario straordinario del Coni, a diventare commissario della Federcalcio in sostituzione del dimissionario Fulvio Bernardini. Intanto, aveva svolto un inestimabile compito storico, nascondendo agli occupanti tedeschi, in un luogo che mai volle rivelare (si sospettava fosse il suo letto), la Coppa Rimet detenuta dall’Italia e poi riconsegnandola alla Fifa quando venne il momento, in vista dei Mondiali 1950, di rimetterla in palio. Intanto, finita la guerra, il 15 maggio 1946, dopo aver scongiurato il pericolo di una divisione tra le Leghe Alta Italia e Centrosud, era stato eletto presidente della Federcalcio, carica che tenne ininterrottamente fino al 1958, quando gli fu fatale la mancata qualificazione della Nazionale azzurra ai Mondiali per mano dell’Irlanda del Nord. L’anno dopo, con la ristrutturazione della Figc, Barassi veniva eletto all’unanimità presidente della Lega Nazionale Dilettanti, carica che avrebbe mantenuto fino alla morte, sopravvenuta il 24 novembre 1971, dopo una lunga malattia. La “riforma Barassi” fu un tentativo, da lui elaborato all’indomani dell’eliminazione al primo turno dal Mondiale 1950 in Brasile, per arginare la deriva del calcio italiano, che il nuovo affarismo, la debordante esterofilia e il depauperamento tecnico provocato dalla tragedia di Superga parevano minacciare nelle fondamenta. Tra l’8 e il 9 dicembre di quell’anno, Barassi presentava all’assemblea delle Leghe a Rapallo il suo progetto, contemplante una riduzione a 18 delle squadre partecipanti a ogni serie, vietando per le partecipanti alla B e alla C il tesseramento di giocatori stranieri e riducendo subito a due quelli di A. Il progetto venne poi parecchio annacquato, rinviandosene l’applicazione al campionato 1951-52 e con correttivi che tutto puntavano tranne che al sospirato risanamento morale del calcio italiano. Ci riprovò nel 1953, dopo il tracollo della Nazionale, sconfitta 0-3 nell’inaugurazione dello Stadio Olimpico contro la Grande Ungheria, anticipando la sua riforma in 14 punti che tendeva a un’ulteriore riduzione delle squadre della A da 18 a 16 e a porre nuovi argini all’invasione straniera. Un altro progetto fagocitato da defatiganti discussioni e poi attuato solo in minima parte, prima che il fiasco del 1958 chiudesse l’era legata al grande dirigente, aprendone un’altra ben poco più felice.>>



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