LE ORIGINI

 

Razzismo

 Visione dell’umanità divisa in razze "superiori" e razze "inferiori" in rapporto a un’eredità biologica: secondo tale teoria lo sviluppo della storia dell’umanità sarebbe conseguenza del predominio delle razze superiori su quelle inferiori. L’ampio dibattito avviatosi a cavallo fra il XIX e il XX secolo sulla "questione della razza", in particolare sulle conseguenze sociali e politiche delle differenze biologiche fra i gruppi umani, vede tuttavia in questo fine secolo gli studiosi concordi sul fatto che il vero problema non siano le differenze razziali quanto piuttosto il significato negativo che il razzismo, inteso sia come dottrina sia come pratica di discriminazione, attribuisce loro.

 

Cenni storici

Il termine "razza", da cui deriva razzismo, è di incerta origine e fu introdotto nelle lingue europee intorno al XVI secolo; venne usato nel Libro dei martiri (1563) di John Fox per indicare la stirpe: nel caso specifico la "razza e il ceppo di Abramo". Dal XVI secolo in poi, per spiegare le differenze fra africani, cinesi ed europei, invece che al termine razze si ricorse alle genealogie dei diversi gruppi etnici descritte nell'Antico Testamento e, quando alla fine del XVII secolo si sviluppò il dibattito sulla moralità del commercio degli schiavi tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, coloro che erano contrari alla schiavitù sottolinearono il fatto che i neri e i bianchi condividevano una comune umanità.Il termine razza tornò a essere impiegato in relazione alla relativa arretratezza tecnologica degli africani, che venne considerata frutto delle loro condizioni di vita malsane (dovute sia al clima sia alla mancanza di istituzioni politiche e sociali che ne promuovessero il progresso) e che furono alla base dei tentavi di legittimazione della discriminazione prima e dello schiavismo poi.

Neppure il libro di Charles Darwin L’origine della specie (1859), che documentò come lo sviluppo fosse prodotto dalla selezione naturale e che rivoluzionò in campo scientifico le teorie sulle differenze fra gli esseri umani, poté impedire un uso distorto del termine razza. Ispirò anzi una nuova forma di razzismo, il cosiddetto "razzismo scientifico", basato sull’idea che il pregiudizio razziale svolga addirittura una funzione evolutiva

La teoria sociologica del razzismo risale ai primi anni Venti di questo secolo quando alcuni psicologi cominciarono a sostenere, esibendo un’ampia documentazione, che il pregiudizio razziale non era una caratteristica ereditaria bensì una forma di comportamento appreso durante la socializzazione. Ogni società ha una propria cultura e, contestualmente, è soggetta a una serie di pregiudizi culturali: l’etnocentrismo è infatti la tendenza a compiere ragionamenti e formulare giudizi "come se la propria cultura e il proprio gruppo etnico fossero al centro del mondo". Rispetto al colore della pelle, gli individui possono ad esempio condividere le preferenze del gruppo sociale in cui sono inseriti e quindi trattare con diffidenza coloro che non vi appartengono; oppure, come in Giappone, la maggioranza può evitare il contatto con i Burakumin, una minoranza etnica proveniente da una casta professionale formatasi nel periodo feudale. Anche il sistema delle caste in India o l’apartheid in Sudafrica rappresentano forme di discriminazioni molto simili a quelle razziali.

La teoria biologica

Le teorie biologiche sulla razza subirono profondi mutamenti negli anni Trenta quando, con l’affermarsi della genetica che documentò come non la specie ma il gene fosse l’unità di selezione, si poté inferire che esistevano potenzialmente tante razze quanti erano i geni. Nel 1939 Julian Huxley e Alfred Cort Haddon, nel libro Noi europei, sostennero così che i gruppi solitamente considerati razze non erano fenomeni biologici ma invenzioni politiche e che sarebbe stato più corretto denominarli "gruppi etnici".

L’immigrazione come causa del razzismo

Il razzismo può essere anche conseguenza di fenomeni migratori. Dovuti in genere a ragioni economiche e in particolare alla mancanza di opportunità di lavoro nelle regioni di provenienza, i fenomeni migratori quando avvengono verso zone caratterizzate da situazioni di scarsità di risorse e di insicurezza economica sono spesso percepiti come una minaccia al benessere delle popolazioni locali che fa sorgere un sentimento di generale intolleranza e diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati: il termine usato per descrivere questo atteggiamento è xenofobia (dal greco "paura dello straniero"). Anche se possono condividere alcune caratteristiche, xenofobia e razzismo sono tuttavia fenomeni diversi: mentre la prima consiste in un atteggiamento ostile nei confronti dello straniero percepito come una minaccia, il razzismo concepisce l’immigrato come appartenente a una razza inferiore.

 

Il quoziente di intelligenza come causa di razzismo

Negli anni Sessanta la diffusione della pratica dei test d’intelligenza riaccese nel mondo scientifico la controversia circa l’ereditarietà dell’intelligenza (o meglio di quel particolare concetto di intelligenza rilevato dai test del quoziente di intelligenza, QI), dando nuovo impulso a forme di razzismo basate sulla presunta inferiorità di alcuni gruppi etnici. Provare scientificamente quanto un comportamento o una caratteristica siano un prodotto dell’ereditarietà oppure una conseguenza della socializzazione è tuttavia estrememente difficile: coloro che sostengono la prima ipotesi sono stati quindi accusati di incentivare un nuovo razzismo scientifico. Il linguista William Labov ha infatti documentato, grazie a numerose ricerche, come i test costruiscano l’intelligenza più che misurarla.In un suo articolo, Black Intelligence and Academic Ignorance (Intelligenza nera e ignoranza accademica), ha sostenuto che i test di intelligenza sono etnocentrici perché basati su un concetto ristretto di intelligenza, quello relativo alle operazioni logiche, tipico della cultura occidentale e in cui è ovvio che i bianchi siano mediamente più abili, almeno nel breve periodo; i risultati del test non avrebbero quindi niente a che fare con le differenze genetiche ma rispecchierebbero esclusivamente il modo etnocentrico in cui il test è formulato.

Schiavitù

Schiavitù Condizione di chi è schiavo, di una persona cioè completamente e involontariamente assoggettata a un’altra. Caratteristiche costitutive della schiavitù sono: la coercizione a svolgere un compito o a prestare un servizio; la riduzione di un essere umano a proprietà esclusiva di un altro essere umano, cioè del suo padrone; l’assoggettamento completo di un individuo alla volontà di colui che lo possiede.Il sistema sociale o l’ordinamento politico fondato sull’istituto sociale della schiavitù è detto schiavismo.

L’esplorazione dell’Africa, l’invasione delle Americhe da parte degli europei nel XV secolo e la successiva colonizzazione di questi territori nei tre secoli successivi diedero un grande impulso al commercio di schiavi.

 

                                                               

Schiavitù negli USA

 

Il Portogallo, che necessitava di lavoratori agricoli, fu il primo stato europeo a utilizzare fin dal 1444 schiavi per soddisfare le necessità di manodopera interna: nel 1460 importava già da 700 a 800 schiavi l’anno prelevati sulle coste occidentali africane. La Spagna seguì ben presto l’esempio portoghese senza riuscire però, almeno inizialmente, a intaccare il monopolio portoghese del traffico africano di schiavi. Negli stessi anni il commercio di schiavi africani dall’Africa centrale ai mercati arabi, iraniani e indiani fu intensificato anche dai commercianti arabi.Un fattore di forte aumento nella richiesta di manodopera di schiavi fu conseguenza della durezza delle condizioni che la colonizzazione spagnola impose in America latina alla popolazione indigena. Il duro lavoro nei campi, le pessime condizioni igieniche e le malattie portate dall’Europa contribuirono infatti a decimare la popolazione, che fu rimpiazzata con schiavi africani ritenuti in grado di sopportare meglio lavori molto faticosi come la coltivazione della canna da zucchero in climi tropicali.

Nel Nord America i primi schiavi africani furono insediati a Jamestown, in Virginia, nel 1619. Inizialmente non si ritenne necessario procedere a una definizione giuridica del loro status, ma a partire dalla seconda metà del XVII secolo con lo sviluppo delle piantagioni nelle colonie del Sud il numero degli africani importati come schiavi agricoli crebbe enormemente e divenne un elemento fondamentale per l’economia e per il sistema sociale che doveva trovare una formalizzazione. Le leggi relative al loro status, legale politico e sociale, furono così definite già prima della guerra d'Indipendenza americana.

Formalmente gli schiavi d’America godettero di alcuni diritti, come nel caso della proprietà privata. Si trattò tuttavia di diritti che il proprietario di schiavi non era obbligato a rispettare e comunque di casi isolati; in generale gli elementari diritti umani furono infatti costantemente violati: gli schiavi potevano ad esempio subire violenze sessuali da parte dei padroni, le famiglie potevano essere separate perché i loro membri venivano venduti a piantagioni diverse; i trattamenti brutali come mutilazioni e omicidi, in teoria proibiti per legge, rimasero abbastanza comuni fino al XIX secolo. Ai proprietari degli schiavi era poi vietato di insegnare loro a leggere.

Breve storia delle guerre indiane negli USA

GUERRE INDIANE: Insieme delle guerre combattute dagli indiani nativi del Nord America contro i colonizzatori europei e contro le forze governative degli Stati Uniti d'America, tra il XVII e il XIX secolo, nel tentativo di impedirne lo stanziamento sui propri territori. Le divisioni esistenti tra le "nazioni" indiane e l'inadeguatezza dei mezzi a loro disposizione ridussero lo scontro a una lunga catena di sconfitte e massacri dei nativi, interrotta da vittorie divenute subito leggenda proprio per la loro eccezionalità.

 

Totem funerario

La guerra del 1812

Agli inizi dell'Ottocento il capo degli shawnee, Tecumseh, riuscì a organizzare una confederazione di nazioni indiane che allarmò il governatore del Territorio dell'Indiana, William Henry Harrison. Nel 1811 Harrison riprese le ostilità e nella battaglia di Tippecanoe sconfisse la confederazione. Il conflitto si inserì nella guerra del 1812, con gli indiani schierati dalla parte inglese. La morte di Tecumseh (ottobre 1813) determinò lo sfaldamento della confederazione e le principali tribù firmarono la pace con gli americani.

 

                                                                    

Riserve indiane negli USA

La politica dei trasferimenti indiani

L'Indian Removal Act del 1830 risolse drasticamente il "problema": intere nazioni indiane vennero cacciate dai territori d'origine e deportate a ovest del Mississippi: sauk, fox, creek, cherokee, seminole (Vedi Guerre contro i seminole) cercarono invano di resistere , ma alla fine degli anni Cinquanta era scomparsa di fatto ogni presenza indiana nella parte orientale degli USA. Tra 1840 e 1890, il governo federale organizzò un sistema di riserve entro cui costringere le nazioni indiane, avviando così la conquista e la colonizzazione dei territori occidentali. A metà secolo bannock e shoshone di Oregon e Idaho, ute di Nevada e Utah, apache e navajo dei territori del sud-est si coalizzarono in un vasto ma inefficace tentativo di ribellione. Tra gli anni Sessanta e Settanta arapaho, cheyenne e sioux intrapresero una guerra combattuta con particolare ferocia da entrambe le parti, nel corso della quale ebbe luogo la mitica battaglia di Little Bighorn (25 giugno 1876), durante la quale il VII Reggimento Cavalleria guidato dal generale Custer venne annientato da cheyenne e sioux di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, entrambi peraltro costretti alla resa nel giro di un anno. L'ultima vasta azione di resistenza fu condotta negli anni Ottanta dagli apache di Geronimo. Il 29 dicembre 1890 col massacro di Wounded Knee, nel Dakota del Sud, dove la Cavalleria federale fece strage di uomini, donne e bambini sioux, le guerre indiane ebbero fine.