Carlo Felice Colucci è nato a Riccia (Campobasso) nel 1927, ed
è sempre vissuto a Napoli, svolgendo attività di medico e di ricercatore.
Fra l’altro, nel corso degli anni Settanta, ha svolto originali ricerche sui
ritmi circadiani, ricevendo consensi internazionali. Ha pubblicato le raccolte
di versi: Fenèste’int’o scuro, (Roma, 1960), Una vita fedele
(Guanda, Parma, 1963), La pagaia, (De Luca, Roma, 1967), Poésies,
(Millas-Martin, Paris, 1969), Placebo, (Lacaita, Manduria, 1975), Preghiera
occidentale, (Guida, Napoli, 1981), Check-up, (Almanacco dello
Specchio Mondadori, Milano, 1983), La bella afasia, (Lacaita, Manduria,
1983), Memoria e fuga, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1987), A
fuochi spenti, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia, 1992), Il viaggio
inutile, (Ed. del Leone, Spinea, Venezia.2003), Selected poems,
Edizione bilingue italiano-Inglese, (Gradiva Publications, New York 2003). Ha
pubblicato i romanzi: La corsia, (Rebellato, Padova, 1972), I figli
dell’arca, (Cooperativa Scrittori, Roma, 1979), I fuochi di
Sant’Elmo, (Cappelli, Bologna, 1985), Il gatto e il Rembrandt, (Rusconi,
Milano, 1993), ed una cospicua raccolta di saggi ed elzeviri dal titolo: La
parola perduta, (Guida, Napoli, 2001). Sono in corso di stampa una
raccolta di racconti (Non sparare all’ombra) ed un romanzo
breve (L’appello). Per cui riteniamo che il Colucci abbia già al suo
attivo-decisamente- la doppia veste di poeta, nella quale è nato alla
letteratura e di narratore tout court (a partire dagli anni Settanta),
appartenendo di diritto alla sparuta schiera di scrittori in utroque
del nostro Novecento che va da Palazzeschi a Saba, Pavese, Bassani,
Compagnone, Tobino, Scotellaro, Volponi, Pasolini, Rimanelli, Bevilacqua ed a
pochissimi altri. Ciò che caratterizza la poesia di Carlo Felice Colucci è
il costante lavoro sul significante a cominciare da la Pagaia dove già
si formulano i primi contatti linguistici innovativi, che si faranno più
chiari e distinti in Placebo, “in una temperie stilistica di
ironia tragica di sequenze appositive e comportamenti verbali nel rispetto però
delle forme linguistiche e del nucleo del sintagma.”(Lanfranco Orsini, Otto-Novecento-
tra poesia e prosa, Napoli, S..E.N., 1980, pag. 358); per poi
“passare”, “attraverso l’avanguardia con grande intelligenza e
saggezza”,(G.B. Squarotti: dai Postermetici alla postavanguardia,
in Letteratura Italiana Contemporanea, Lucarini, 1982 vol. III, pp.545-546);
pervenendo con Preghiera occidentale ad uno dei documenti poetici tra i
più significativi degli anni Ottanta. La poesia di Colucci, prevalentemente
logica e antropocentrica, gira intorno al tema della memoria e al dramma della
vita in cui vengono esaminati e ritracciati i filamenti della realtà con
conclusivi epitaffi e infausti pronostici per tutti. Si fanno così
strada gli spazi del tempo dove mancano i giorni per seminare o per sperare e
la Morte ha le sembianze dell’arrotino nel volume Il viaggio
inutile. Questa visione culturale e psicologica viene correlata alla vita,
con l’occhio spietato del medico-poeta che ricorre ad un glossario
scientifico per analizzare, con metafore e sintagmi, il destino dell’uomo.
In questo caso, l’unica solidarietà possibile di fronte al
negativo, è la propria testimonianza esposta a quelle scarne profezie /
tumori adiesse denutrite magie. Il futuro si identifica con il lessico del
nichilista tout court, e il risultato è un evidente schiacciamento
dell’esistenza fuori da ogni considerazione metafisica, in un pessimismo che
“appartiene alla stirpe di Eduard von Harmann, che identificò
l’Universo con il male e ne rimpianse l’esistenza”.(Giancarlo
Rugarli, Il Mattino, 20 luglio 2003).
Il paesaggio esterno è marcatamente sassoso, tragico,
freddamente lunare, ma di una luce che rischiara la memoria e gli immutati
affetti verso i cari estinti, attraverso il recupero antologico di
figure e volti che transitano in un’atmosfera sempre più mitica e sacrale,
franta ed epigrafica, in vicende che rimarcano il senso proustiano del tempo,
dove i suoni dell’anima si amplificano in un umanesimo esistenzialistico. A
questo punto si potrà parlare di Colucci pure come di un poeta sotterraneo,
in grado di sondare a fondo il vissuto esistenziale, fino a sezionarlo,
penetrando “lo sguardo o il bisturi nella tragicità della
vita”. (Giuseppe Zagarrio, da Febbre, furore e fiele, Mursia,
1983, pag. 328), in una sorta di “veggenzialità postuma”
(idem, pag. 346). Ma forse non si capirebbe appieno il substrato più riposto
e pregnante di codesta poesia, senza mettere mano ad un’altra icastica
citazione:”Eppure la lingua frantumata e sconnessa della preghiera di
Colucci, se il lettore vi si abbandoni nel corso di una lettura partecipe,
rivela un sottofondo, una musicalità di tono elegiaco che riesce ad
organizzare fra loro i frammenti recuperati, a diventare essa stessa struttura
sintattica, naturalmente in senso lirico, fissando un punto se non di
salvezza, almeno di speranza. Si veda, per concludere, quello che resta di ciò
che abbiamo definito il “folclore medico”: definizioni di stati patologici
senza rimedi, di malattie incurabili, di rare e terribili varietà tumorali (e
non ultime, di recente, le serie patologie personali dell’Autore n.d.r.).
Come altrettante punte di iceberg questi sinistri avvertimenti ci inducono
alla meditazione sul nostro destino fisiologico, guidandoci al recupero di
profondità spirituali insospettate”. (L.Sbragi, Nostro Tempo,
1982-1983, pp. 25-26). E’ codesta la “centralità concettuale” di
Colucci, donde partono le onde “psicoespressive” dentro un’operazione
poetico/testamentaria che, attualizzando l’effimero dell’umanità, ci
restituisce il caos delle cose e degli eventi: da cui è impossibile il
tentare di uscire, se non dopo aver conosciuto (e vissuto) tutto il dolore
possibile, che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi.
Paesaggio
E certi hanno profonde cunette
ho finito i gettoni, altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva si
l’uniforme, da Lotta continua
ed uno vorrebbe alla spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza gioco di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre,
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia,
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie
(da: Preghiera occidentale, 1981)
Detto tra noi
Io sarò sempre incerto semmai,
degli uccelli hanno preso a cantare
in modo così orrendo da angosciarmi,
se con la penna col bastone o con
se una lunga fila d’auto e requiem
diagnosi prognosi e autopsia
ritornare nell’Acqua Primordiale
con tanti miti e qualche fiore in tasca,
è metafora sublime
il vostro guano ubiquitario
popolo eletto degli uccelli addio
la vita scelta fra mali
e tu a darmi ragione torto niente
nessuno ci offriva più niente più mance
solo una debole nenia di futuro
le iniziali sul destino e si disfiora
l’hashish nel vaso dei gerani,
vi troveranno vi prenderanno sempre
fin dentro malfide riserve;
non me, la breve avventura
nell’epitaffio di riguardo
io traverso sempre sulle strisce
fedele nei secoli nei vicoli
quelle farse per sopra e sotto su e giù,
il resto è tutto sul fondale disfatto
una toga d’ermellino per giustizia
la città sul banco degli accusati
adoro fresche basiliche d’estate
le donne di statura media
e il sorriso idiota del vicino,
decidono domani i sindacati
non io, né mai troverò le siepi
dove imberbi ci masturbammo né
mio nonno il biroccio e la cavalla
venduta anche la stalla d’adozione,
misura il volo compagno di paura,
io sarò sempre incerto semmai
il verso lungo o la memoria corta.
(da: Almanacco dello Specchio, Mondadori,
1983)
Totem, tabù e infanzia
Totem annunziarono allarmati
non destare i sacri tabù e
giochi, sconvolto volli sapere
e se amati orchi fossero
se il tuo ordinato spazzare, madre
di sapone fatto in casa,
ove d’infanzia serbavo ultime
perline colorate su
guerre non mie ingenuo sparpagliavo o
d’acacia al miele perdoni
sogni e sogni d’innocenti incesti,
se un geco moriva anemico
una preghiera contadina e sia,
rischio d’idillio, avverte uno
attento ai menù, forse non devo, o a
tumulazione avvenuta,
Pearl Harbor e Hiroschima, Dio mio, Dio mio,
a Est e a Ovest è tabù la morte,
arriva l’arrotino
(da Il viaggio inutile, 2003)