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La Masca Micilina

Una delle leggende più importanti di Pocapaglia è quella della "Masca Micilina", legata al personaggio di una presunta strega arsa sul rogo intorno al 1500. Nel paese roerino si tiene ad inizio novembre nel contesto della "sagra della burnia (conservazione)" una rappresentazione storica che rievoca il processo e il rogo della strega. Alcune pubblicazioni, locali e non, fanno riferimento alla vicenda:

  • Italo Calvino, La barba del Conte (vai al testo)

  • Euclide Milano, Nel regno della fantasia, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1931. (vai al testo)

  • Donato Bosca, Langa Magica, Gribaudo Editore (vai al testo)

  • Edoardo Mosca, La vera storia della Masca, Bra7, 1986 (vai al testo)

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La Masca Micilina (Da Euclide Milano, Nel Regno della Fantasia, Leggende della Provincia di Cuneo, Fratelli Bocca Editori, Torino 1931).
Questa viveva -non è gran tempo, saranno tutt'al più un trecento o quattrocento anni fa- nel villaggio di Pocapaglia. Ognun sa che attorno a quel pittoresco paesello si sprofondano burroni dovuti all'erosione delle acque, così grandiosi nell'aspetto, così aspri nei contorni, così bizzarri nelle forme e varii nei colori da costituire, tra le dolci colline scendenti sulla sinistra del Tanaro alla ridente e amenissima conca di Pollenzo, un quadro di paese che pare un angolo d'Alpe selvaggia portato fuor del suo ambiente, tanto più ricco d'attrattive pel contrasto che la sua orrida tumultuosa disordinata bellezza offre con quella, tutta pacata uniforme linda e serena, dei luoghi circostanti.
Ebbene, proprio là, tra quelle rocche irte di creste e vette acuminate, solcate da tortuose spaccature, coperte di macchie e d'arbusti o nude e scabre, esercitò, per lungo tempo le sue arti nefande la «masca Micilina ».
Essa abitava nel mezzo del villaggio, dov'è un gruppo di case chiamato il Bricchetto; e ancora vi sanno indicare precisamente la sua. Era piccola e deforme, con una faccia scura, tutta grinze e bitorzoli, incorniciata da pochi capelli bianchi e scomposti, il naso adunco e il mento appuntito, la bocca sdentata e, gli occhi guerci splendenti d'una luce strana, dotati di un fascino tremendo.
Andando tutta curva per le solinghe strade del paesello o per i sentieri tra le rocche, levava per l'aria quelle sue mani lunghe e secche simili ad artigli, e col bastone disegnava curiosi mulinelli pronunciando parole incomprensibili; ed anche se era tutta sola discorreva ad alta voce, certo con degli spiriti, invisibili a tutti fuorchè a lei. E pazienza se si fosse contentata di quel parlare oscuro e di quel gesticolare da pazza! Il guaio era che per causa di lei ne capitava tutti i giorni una, che a dirle tutte ci sarebbe da farne un libro grosso come un messale.
Per esempio, un giorno attaccò discorso con alcune comari, formando capannello davanti a casa sua. Durante la conversazione le venne fatto di toccare sulla spalla la figlioletta d'una di quelle comari, che le stava accanto: il giorno dopo alla povera bambina cominciò a crescere la gobba! ‑ Un ragazzo che stava sulla strada a giocare, vistala comparire, si diede alla fuga, ma inciampò e cadde: nello rialzarsi si trovò con un piede volto in avanti e l'altro voltato all’indietro! E una fanciulletta che tornava dalla vigna con un canestro di frutta, richiesta da lei che gliene desse ad assaggiare, fu pronta a contentarla; ma appena la vecchia l'ebbe toccata diventò tutta storta, e nemmeno il settimino la poté più raddrizzare! occorre dire che i cattivi raccolti, la grandine, le malattie, tutti insomma i malanni che colpivano i Pocapagliesi, avevano un'unica origine, un unico movente: la maledetta strega Micilina.
Con chi ella avesse relazione si vide chiaramente quando si sbarazzò di suo marito: sentite come. Un mattino d'estate se ne tornava da Sommariva del Bosco in preda a una grande agitazione, perché, essendo andata a vendere al mercato un canestro di ciliege e avendovi fatto una scommessa sul probabile peso del canestro stesso mettendolo in gioco, perduta la scommessa, aveva dovuto cederlo senza beccare neppure un quattrino; del che certamente il marito, avaro e manesco, l'avrebbe non solo redarguita, ma ripagata a bastonate. Quando si trovò fra i boschi prossimi alle rocche, si vide comparire dinanzi, sullo stretto e sabbioso sentiero, un elegante signore, che le domandò perché fosse tanto afflitta. Micilina gli raccontò ogni cosa, e scoppiando in disperato pianto affermò che non osava più tornarsene a casa; ma quel signore la rassicurò. Disse che egli le avrebbe subito reso il marito tranquillo e innocuo; tracciò sul suolo un circolo invitando la donna a mettervi un piede, poi disegnò per l'aria strane figurazioni e borbottò parole incomprensibili. «Vostro marito, disse per ultimo, si trova in questo momento su un gelso nel campo del Baudetto, ove raccoglie la foglia pei bachi; andate pure da lui senza paura, chè non vi torcerà un capello». Infatti Micilina andò a cercarlo nel punto indicato, vide il pover'uomo che stava sull'albero silenzioso e immobile; scosse l'albero, e quegli precipitò a terra con i denti stretti e gli occhi sbarrati, duro e secco. come un baccalà, insomma morto stecchito...
Or chi era quel signore che dai boschi tra le rocche, a distanza di un miglio, l'aveva fatto crepare come un rospo a quel modo? Bella domanda! E chi poteva essere se non il demonio? L'avevan visto parecchi, che quella mattina erano andati nei boschi a far legna: tarchiato, collo corto, testa grossa con capelli neri lanosi e una barbetta simile a quella del caprone. Con un amico e protettore di tale specie si capiva troppo ,bene come Micilina potesse farne di tutti i colori!
E poco tempo dopo ne fece per l'appunto un’altra che merita d'esser contata. Una mattina il fornaio, dalla porta del suo forno, l'unico del villaggio, si diede a chiamarla, come soleva fare con tutte le massaie, per dirle che impastasse. Alle due prime chiamate Micilina non rispose; ma alla terza comparve improvvisamente davanti al forno con i pani già allestiti. Al fornaio allibito dallo stupore, senza farne mistero alcuno, la terribile donna raccontò che quando egli l'aveva chiamata la prima volta era sul ponte di Pavia a farvi morire un carrettiere; alla seconda chiamata, essendosi tosto messa in moto per ritornare a casa, trovavasi già presso Pocapaglia, sotto il noce nel .prato del pecoraio; alla terza aveva impastato e fatto i pani… Insomma una velocità fantastica, vertiginosa, inconcepibile. Ma poi la donna, venuta a diverbio col povero fornaio, dal quale pretese ad ogni costo che le portasse i pani cotti in casa, non appena egli l'ebbe servita come voleva, proprio sulla soglia del suo abituro gli gettò il malefizio, e lo fece cadere a terra fulminato.
Oramai più nessuno era sicuro della vita. Tutti tremavano al pensiero di dover subire gli influssi della maliarda. Quando la vedevano comparire, fuggivano in ogni parte terrorizzati; le donne strillavano; i bimbi correvano a nascondersi come se arrivasse l'Orco che volesse mangiarli; ognuno facevasi prontamente il segno della croce. E quando poi una povera mamma, che aveva lasciato un bimbo in culla recandosi a lavar panni presso casa sua, vistane uscire la Micilina, che v'era entrata di soppiatto, e corsa a vedere l'innocente creaturina, se la trovò tutta deformata, contorta, rattrappita, si levò allora tra il popolo esasperato tale tumulto che dovettero accorrere le autorità civili e religiose, per ordine delle quali la strega fu messa finalmente nell'impossibilità di nuocere più oltre. La legarono ben bene, e la chiusero in carcere; poi le fecero un processo in tutta regola, dal quale risultò evidente, per confessione della stessa accusata, che ella aveva avute strettissime relazioni con le potenze infernali.
Micilina fini col rivelare che molte sue compagne erano sparse nella regione a commettervi ogni sorta di fattucchierie; che Satana. le riuniva spesso a notturni convegni e le bastonava di santa ragione se si mostravano poco sollecite ad ubbidirgli, ma le soddisfaceva con piaceri sensuali e dava loro poteri terribili se gli si mostravan devote. Confessò d'aver fatto morire con le sue arti magiche il marito e il fornaio, ed altri parecchi; confessò d'aver soprattutto stregato un'infinità di bambini. Dopo di che i giudici ebbero poca da fare; trattandosi d’un reo confesso, e dovendosi d’altra parte dare un esempio per liberare il paese da tanto pericolo, condannarono la strega a morire sul rogo, perché soltanto il fuoco avrebbe potuto distruggere gl’influssi che emanavano da lei e purificare l'ambiente.
Così Micilina fu bruciata viva. Il supplizio. ebbe luogo su un'altura a nord di Pocapaglia posta tra due enormi voragini, dette l’una la rocca della porcheria l’altra la rocca della bignina: la strada che vi adduce :passa appunto per buon tratto sul ciglio dei burroni., Ma quando il corteo delle confraternite e dell'innumerevole popolo che accorreva allo spettacolo, giunse in quei pressi, si udì per l'aria uno strano miagolio, mentre gomitoli arruffati di refe, come eruttati da quegli abissi, cadevano sulla strada, e delle voci, or cavernose or acute, gridavano: “Attaccati, Micilina! attaccati!”
Micilina era nel mezzo del lungo corteo tra i confratelli della Misericordia e gli aguzzini che la spingevano innanzi a urtoni. Ella vedeva quei gomitoli,, sentiva le voci che la chiamavano; e se avesse potuto agguantare uno di quei fili sarebbe stata salva, chè quelli eran gettati dalle invisibili streghe sue compagne: ma il prete che l'accompagnava, aspergendo a lei d'intorno l'acqua benedetta con una mano e con l'altra presentando il Crocifisso, ricacciava lontano i gomitoli che ricadevano nel vuoto.
Giunto alfine il corteo alla catasta di legna già apprestata all'uopo, Micilina, sbiancata dallo spavento e più orribile che mai, vi fu legata al palo che la sormontava; dopo di che venne appiccato il fuoco alla pira. Si vide dapprima una densa colonna di fumo; poi le vive fiamme avvolsero scoppiettando le carni della megera, la cui figura appariva a tratti fra il loro balenio contorcendosi e disfacendosi a brani, finché non rimase che un vasto braciere, le cui ceneri furono sparse al vento.
Giustizia era fatta. E la moltitudine che aveva assistito al supplizio si disperse soddisfatta, sperando che ora il paese fosse purificato. Ma s'ingannava. Se Micilina era morta, -e non ne era morta che la parte corporea- restavano, ahimè, le sue men note, ma pur evidenti compagne. Evidenti nel fatto che dopo il supplizio si ebbero stranissime apparizioni. Furono viste chiocce disperse con miriadi di pulcini, i quali, invece del solito pigolio, emettevano uno stridore simile a quello della lima del fabbro, e scomparivano appena osservate con attenzione; fu visto un ragno colossale con gambe cortissime, che camminava come un parapioggia aperto radendo la terra, e appena scorto grugniva come un maiale fuggendo a rintanarsi tra le rocce; si videro branchi di montoni dalle corna smisurate e con setole irte sulla schiena, che lanciavano sibili come le serpi...
Cos'erano tutti quei mostri? Non altro che le streghe compagne di Micilina; le quali andavano in cerca di lei o volevano vendicarla. E chissà che tutt'oggi non ve ne siano ancora, nascoste fra i cespugli o nell'imo degli abissi, in vicinanza di quell'erto poggio che porta sempre il nome di “bric d'la masca Micilina”! Lo si distingue subito dagli altri perché tinto di striscie e di macchie rossigne, prodotte per l'appunto dal fuoco con cui fu bruciata e dal suo stesso sangue. Forse qualche volta ritorna anche lei, in forma di cagna randagia famelica ululando, o in forma di gatta nera, o di nera gallina sperduta, che appare e dispare. E quando la notte incombe su quei dirupi, e il cielo è fosco di nembi o livido di lampi, Micilina e le sue compagne vi si riuniscono forse ancora su qualche spiazzo fra i boschi e vi fanno la loro ridda selvaggia, saltando, correndo, gesticolando, gettando fischi ed urli assordanti, volando a cavallo di scope, irti i capelli, truci gli occhi, aguzzi i denti delle bocche orribili, lunghe le lingue forcute, squamosa la pelle, unghiute le mani e i piedi. Alla larga!

 

LA MASCA MICILINA (Da Donato Bosca, Langa Magica cento storie di masche tra finzione e realtà, Gribaudo Editore)
Vi ringrazio per gli applausi con i quali mi avete accolta. Voi sapete che la sfortuna mi ha sempre perseguitata e mi avete voluto bene ancora di più, come per compensarmi del.la malora che ho avuto. Quello che hanno scritto su di me risponde a verità. Sono nativa diBarolo e mi hanno battezzata Michelina. Quel Sebastiano di Pocapaglia, che Dio l'abbia in gloria, è venuto a maritarmi che io non avevo ancora diciotto anni. Solo che non aveva cognizione; di giorno mi faceva filare come se io fossi stata di ferro, sempre ad usarmi in campagna nei lavori pesanti, e di notte mi voleva accondiscendente a soddisfare tutte le sue perversioni, quel brutto animale. Ero spaesata, malinconica, spaventata quando era l'ora di andare a letto e le botte del marito non mi aiutavano certo a rinsavire. Lui, detto con licenza parlando, aveva la faccia come il sedere, faceva il prepotente e mi maltrattava tutta la settimana, poi alla domenica andava a messa e sussurrava all'orecchio degli amici che io ero un po' masca e che mi aveva sorpreso con dei libri in mano. La verità vera è che i libri mi incantavano, specie quelli con delle figure ed avrei dato dieci anni della mia vita per essere capace di leggere. Invece non potevo permettermi neppure questo sfogo innocente, intristivo, mi chiudevo in me stessa. Il giorno che ho cercato un rapporto umano e che ero vogliosa di un gesto affettuoso, la ragazzina cui mi ero rivolta con una semplice carezza si ammalò improvvisamente e raccontò a casa di essere stata toccata da Micilina. Un'altra volta mi è successo di passare davanti ad una porta aperta e,di sentire i pianti di un neonato. Non ho saputo resistere e sono entrata per vedere se aveva bisogno di aiuto. La mamma era uscita perché il bambino era in preda alle convulsioni, ma poi mi vide vicina alla culla e pensò bene di far ricadere su di me la colpa della malattia del figlio. Le chiacchiere crescevano come un torrente in piena che scende a valle impetuoso. E il giorno per me benedetto che finalmente avevo motivo di sentirmi un po' risollevata nello spirito, quando mio marito buon'anima cadde dal ciliegio rompendosi l'osso del collo, si coalizzarono tutti per incriminarmi e farmi processare come la più incallita delle masche. Chiamarono il tribunale dell'Inquisizione oltre che il giudice civile e quella era gente che non faceva tanti chilometri par cavare un ragno dal buco. L'ho capito scrutandoli negli occhi ed ho pensato che l'unica cosa era abbreviare il supplizio, confessando quello che loro erano convinti io avessi commesso. Così mi presi anche la col 'a del cattivo raccolto, delle grandinate, delle disgrazie accadute negli ultimi cinquant'anni. Non potevo fargli un regalo migliore. Mi condannarono «ad essere bruciata viva su una rocca a Nord di Pocapaglia, accompagnata da un lungo corteo di confratelli della Misericordia, col parroco e il seguito di tutti i paesani dei dintorni». Dell'avvenuto rogo potete osservare ancora oggi le tracce sul cosiddetto « bric d'la masca Micilina», un poggio sopraelevato che si nota anche a distanza proprio per le macchie rossastre di sangue che lo segnano. Solo che quel sangue non era il mio, bensì del gattaccio nero che all'ultimo momento sono riuscita a chiamare al mio posto, approfittando di una folata di nebbia che aveva avviluppato tutt'intorno il falò.
 
LA VERA STORIA DELLA MASCA (Articolo in due parti scritto dal Prof. Edoardo Mosca e pubblicato sul settimanale Basette il 24 e 31 ottobre 1986)
Ci fu un tempo, quando ancora eravamo ragazzi, in cui ognuno di noi conosceva le storie, le leggende e le tradizioni che i vecchi si erano tramandati l'un l'altro per lunghi anni. Poi venne la guerra con gli sconvolgimenti che le sono propri. Tutto fu messo sottosopra. Famiglie di regioni diverse cambiarono sede di residenza. Nel dopoguerra massicce immigrazioni da luoghi anche lontanissimi stravolsero le componenti locali e se, quarant'anni or sono, da noi si sentiva comunemente parlare piemontese, in breve volger di tempo si inserirono nella nostra regione idiomi disparati tra loro con una netta prevalenza di parlate ad accento meridionale. La televisione, con i suoi annunciatori ed intrattenitori romaneschi, valse a compiere il resto. Le famiglie cittadine presero a parlare ai loro figli esclusivamente in italiano e tutta una tradizione locale plurisecolare in pochi anni andò a farsi benedire.
Con la perdita del dialetto andò pure scomparendo la tradizione delle memorie tramandatesi per tanto tempo. La televisione casalinga, serpente a sonagli nelle nostre dimore, sostituì alle belle storie di un tempo coi loro protagonisti gentili o misteriosi tutta una serie di orribili scimmiottature pseudoumane delle quali per anni fu principe l'orrido Mazinga. Ed i bambini furono conquistati dai nuovi personaggi. Fu questa la seconda ondata, ben più distruttrice della prima che aveva scelto a suoi protagonisti i pistoleri americani.
Oggi, tra i giovani, pochissimi, credo, sanno ancora di masche, di spiriti, di maghi come noi sapevamo ed è per questo che mi chiedo se la masca Micilina, che settimanalmente firma messaggi su questo giornale, pensi che tra i giovani ci sia qualcuno che sappia veramente chi essa sia stata in vita. Forse ciò può ancora verificarsi, per qualche giovane delle campagne, dove la tradizione è più restia ad essere sopraffatta: nella città credo che ben pochi sappiano qualcosa di lei e soprattutto che è veramente esistita nelle nostre terre, con altre molte, come lei in genere destinate ad una miseranda fine.
La nostra masca, quella che scrive sul giornale per intenderci, parla sempre del futuro, eccezionalmente del presente; del passato, e particolarmente del suo passato, dice ben poco. E’ per questo che provo a tracciarne un breve compendio, così come risulta dalla tradizione locale che pure trae i suoi spunti da una realtà vissuta circa tre secoli addietro.
Personalmente ho incontrato alcune volte la masca Micilina nella mia vita. La prima fu all'età di cinque anni allorché la maestra di mia madre suor Ernestina, che insegnava nelle scuole elementari di via Mendicità, nel mese di luglio di un anno ormai lontano, organizzò con un'altra suora e le sue scolare un gita, come allora usava, a piedi a Pocapaglia. Vi venni invitato e mia madre fu ben felice di affidarmi per un giorno alle ampie gonne della suora maestra.
Raggiungemmo Pocapaglia dopo non so quante ore di cammino e c'era là ad attenderci un'ex allieva della maestra che ci condusse ad ammirare le cose notevoli del paese, prime fra tutte le famose rocche. E qui un’illustrazione dei misfatti della masca Micilina fu d'obbligo. Dopo averci indicato il picco rossastro che nel bruno dei suoi colori ricorderebbe il sangue della strega, ci tracciò tutto il curriculum delle miserande azioni della povera megera: dai primi malefici all'uccisione, per interposta magia del demonio, del marito che, caduto per arti misteriose da un gelso, si ruppe la testa.
Restai vivamente colpito dalla narrazione e l'orrore mi fu ravvivato pochi anni dopo allorché, trascorrendo durante le vacanze estive un mese di ferie non sull'Adriatico come oggi usa ma ben più modestamente sulla collina di Montepulciano sovrastante la valle di Fey presso un mio lontano, vecchio cugino, una sera, con altre storie di streghe e di fantasmi, mi fu nuovamente propinata la storia della masca Micilina con tutte le opportune varianti inseritevi dal narratore.
L’esistenza della masca, ormai acquisita come certa tramite i vari racconti che me ne erano stati offerti, mi venne storicamente confermata allorché, ormai adulto, parecchi anni dopo conobbi Euclide Milano che molto si era interessato al folclore ed alle leggende locali. Egli era convinto che del processo alla strega esistesse l'incartamento originale e si intestardì a ricercarlo invano nell'archivio della parrocchia del paesello dei Roeri. E, non avendolo rinvenuto, accusò, anche in una sua pubblicazione, il parroco dei tempo di non averglielo voluto dare in visione per un malcelato timore da parte di colui di nuocere, aprendogli del tutto gli archivi parrocchiali, alla chiesa.
L'accusa era ingiustificata come ebbi poi, di recente, a dover personalmente constatare. Dovendo controllare l'esistenza di certi documenti secenteschi, anch'io dovetti consultare lo stesso archivio e, nell'occasione, l'attuale parroco don Aldo Molinaris fu verso di me di una cortesia difficilmente talvolta riscontrabile. Non solo mi aprì l'archivio ma mi permise ogni tipo di ricerca tra i documenti nello stesso conservati. Mentre passavo da antichi inventari a redazioni statutarie dei quattrocento, mi tornò in mente l'affermazione dei Milano e così, per mia curiosità, rovistai in lungo e in largo nell'ampia serie dei documenti. Passai di scoperta in scoperta con documentazioni di ogni tempo e sui più svariati argomenti, ma della masca trovai assolutamente nulla. Probabilmente il Milano non aveva posto mente che, essendo stata interrogata dall’inquisitore del tribunale di Savigliano e dal giudice di Cherasco, gli atti eventuali, seppur vennero stesi, furono in una di quelle città traslati.
La storia della masca, precisa nei particolari, ci è stata comunque tramandata grazie ad un lungo manoscritto della metà del settecento che è tutt’ora conservato presso il museo di Bra.
Micilina dunque, il cui nome di battesimo, così storpiato nella parlata locale, era Michelina, era originaria di Barolo. Andata sposa ad un contadino di Pocapaglia, qui venne ad abitare e per certe sue stranezze, già guardata con sospetto perché forestiera, cominciò a destare la curiosità dei vicini specie per certi inaspettati suoi atteggiamenti.
A porla in cattiva luce fu anche il marito che, convinto di sposarsi per avere una donna da far lavorare mane e sera, presto si accorse che la sposa poco era propensa ad ubbidire a tutti i suoi comandi. Lui la chiamava per mandarla nell'orto o nei campi e lei si nascondeva evitando di farsi trovare. Lui s'infuriava e, quando gli veniva a tiro, la pestava di santa ragione. Allorché della moglie parlava con i conoscenti sì lamentava per il suo comportamento e per la sua poca voglia di lavorare affermando di non aver sposato una donna ma una masca che gli sfuggiva di sotto gli occhi e gli ricompariva davanti quando meno se lo aspettava. Ed in un'epoca in cui erano facili i soprannomi, quello di "masca" fu tosto appioppato a Micilina che, peraltro, se ne faceva beffe.
Successe un giorno che una bambina stava tornando dai campi, poco fuori del paese, con un cestello di frutta. Incontrò Micilina che le chiese uno di questi frutti. La bambina glielo diede e Micilina, nel ringraziarla, le pose una mano sulla spalla. Tornata a casa la bimba si piegò tutta da un lato e così rimase. Alle insistenti domande dei parenti per sapere cosa le fosse successo, la bimba raccontò dell'avvenuto incontro. Fu facile per alcuni affermare che si trattava di stregoneria, di malocchio trasmesso dalla fattucchiera all'innocente fanciulla.
Il convincimento raddoppiò allorché una giovane madre, allontanatasi per breve tempo dalla stanza nella quale riposava nella culla la sua creatura, tornatavi la trovò in preda alle convulsioni. Fu sufficiente che .costei affermasse di aver visto ,nei paraggi Micilina perché i due fatti fossero tra di loro connessi e ne nascesse quindi un subbuglio che portò ben presto un nutrito gruppo di abitanti del borgo dal castellano reclamando che prendesse i provvedimenti del caso onde non insorgessero altre disgrazie tra la popolazione a causa dell'ignobile fattucchiera.
Il destino volle che proprio in quel frattempo suo marito, da un gelso sul quale era salito per raccogliere foglie da dare ai bachi da seta, cadesse fratturandosi l'osso dei collo. Micilina fu chiaramente individuata come autrice del misfatto e, davanti all'ira popolare, il castellano fu costretto a farla imprigionare rinchiudendola nelle carceri del castello. Si interpellò sul caso il tribunale dell'inquisizione che aveva allora una sua sede a Savigliano. Fu inviato per appurare la verità un padre inquisitore affiancato dal giudice di Cherasco. Costoro, giunti a Pocapaglia, si accinsero all'interrogatorio che, secondo le consuetudini del tempo, per i casi di stregoneria contemplava l'impiego obbligatorio della tortura. Così avvenne per Micilina che, impossibilitata a sopportare i tratti di corda e le tenaglie arroventate che le venivano applicate sulle gambe e sulle braccia, confessò tutto quello che le si chiese di confessare: che aveva storpiato le due bambine, che aveva procurato la morte del marito e molti altri misfatti che andava via via inventandosi pur di porre fine alle sue sofferenze.
L'inquisizione era esigente per tal genere di testimonianze: le furono richiesti i nomi delle altre megere che, trasformatesi nottetempo in gatti e cani, vagavano per i boschi e le rocche portando nelle case isolate i loro malefici. Lei indicò nomi e cognomi. Molti corrispondevano a donne della natia Barolo dove aveva trascorso gli anni della giovinezza ed i cui abitanti meglio conosceva. Erano tutte donne innocenti che si trovarono in tal modo scaraventate, loro malgrado ed a loro insaputa, nel bel mezzo dell'indagine. Circa la morte dei marito, interrogata sui particolari che l'avevano occasionata, disse che, a causa delle sue lamentele verso di lui che la faceva lavorare troppo, le era apparso tra i boschi, paludato da avvocato, ricoperto dalla toga nera, il demonio che, lodandola per l'amore che aveva per lui e la sua corte aveva tracciato con un bastone un cerchio intorno ai suoi piedi dicendole che, quando avesse oltrepassato tale cerchio magico, suo marito avrebbe avuto la giusta punizione. Nell’istante in cui il demonio si allontanò il marito cadde dal gelso e si fratturò la cervice.
Dopo le più ampie confessioni ed il riferimento ai più minuti particolari su tali avvenimenti, finalmente dopo più e più giorni, l'interrogatorio ebbe termine. Fu chiesto a Micilina se si pentiva dei suoi misfatti e lei rispose affermativamente. Cos'altro poteva dire? Il padre inquisitore le somministrò la pena spirituale: sarebbe dovuta andare scalza per tutta la vita e digiunare a pane e acqua per quaranta giorni consecutivi. Dopodiché la passò al braccio secolare perché questo emettesse la sua sentenza.
Il giudice di Cherasco affermò che, pur tenendo conto che spiritualmente la masca mostrava segni di ravvedimento, non se la sentiva di correre il rischio che nel futuro potesse tornare alle sue ignobili pratiche. Decretò pertanto che per il suo bene e affinché non ricadesse nelle mani del demonio, fosse sospesa per la gola finché l'anima non si fosse separata dal corpo, quindi abbruciata e le sue ceneri sparse al vento tra le rocche di Pocapaglia dove si era nottetempo intrattenuta in carnale commercio, come lei stessa aveva confessato, con Satana più volte apparsale sotto l'aspetto talora di un gatto, tal'altra di un caprone.
E così si fece. Preceduta dai confratelli della Misericordia incappucciati di nero e seguita da tutto il popolo, la triste processione, al canto dei Miserere, si avviò verso le rocche. Raccontarono poi parecchi dei presenti che, lungo il tragitto mostruosi ragni cercavano dalle ripe scoscese di lanciare lunghi fili di seta a Micilina urlandole, tra i paurosi sibili che mettevano, di aggrapparvisi. Se ciò fosse potuto avvenire Micilina certamente, per arti magiche, si sarebbe salvata. Ma la poveretta procedeva con le mani legate dietro la schiena e, davanti a lei, il parroco aspergeva con l'acqua benedetta il cammino per cui i fili di seta, al contatto con essa, si raggrinzivano e scomparivano del tutto. Si giunse infine sul luogo del supplizio e gli armigeri del castellano provvidero a compiere quanto era stato loro ordinato. Dopo l'impiccagione, il falò illuminò di cupi bagliori rossastri le forre e gli anfratti di quei tristi luoghi e di Micilina non rimase che un mucchio di cenere presto dispersa al vento.
Tutto ciò avvenne circa trecento anni or sono. Ora il nome della masca Micilina è tornato sulle colonne di questo giornale e la stessa masca ci intrattiene coi suoi discorsi economici-finanziari. Sarà questa la nuova fattucchierìa dei tempi moderni? Ed allora, i grandi masconi che un tempo avevano imperio sulle meno importanti, piccole masche locali, saranno forse oggi i grandi banchieri o i ministri del tesoro?Chissà!  

 

La barba del Conte
(da Italo Calvino, Fiabe Italiane, 3 volumi, Mondatori, Milano 1993)
 
Pocapaglia era un paese così erto, in cima a una collina dai fianchi così ripidi, che gli abitanti, per non perdere le uova che appena fatte sarebbero rotolate giù nei boschi, appendevano un sacchetto sotto la coda delle galline.
Questo vuol dire che i Pocapagliesi non erano addormentati come si diceva, e che il proverbio “Tutti sanno che a Pocapaglia/L'asino fischia e il suo padrone raglia” era una malignità dei paesi vicini, i quali ce l'avevano coi Pocapagliesi solo per il fatto che erano gente tranquilla, che non gli piaceva litigare con nessuno.
‑ Si, ‑ era tutto quello che rispondevano i Pocapagliesi, ‑ aspettate che tomi Masino, e vedrete chi raglierà di più, tra voi e noi.
Masino era il più sveglio dei Pocapagliesi e il più benvoluto da tutto il paese. Non era robusto più degli altri, anzi, a vederlo non gli si sarebbe dato un soldo, ma era furbo dalla nascita. Sua madre, appena nato, vedendolo così piccino, per tenerlo in vita e irrobustirlo un po', gli aveva fatto fare un bagno nel vino caldo. Suo padre, per scaldare il vino, ci aveva messo dentro un ferro di cavallo rosso come il fuoco. Così Masino aveva preso attraverso la pelle la furbizia che c'è nel vino e la resistenza che c'è nel ferro. Dopo questo bagno, perché si rinfrescasse, sua madre l'aveva messo in culla in un guscio di castagna ancora verde, che, essendo amaro, dà intelligenza.
In quei tempi, mentre i Pocapagliesi aspettavano il ritorno di Masino, che da quando era partito soldato non aveva fatto più ritorno al paese e adesso pareva fosse dalle parti dell'Africa, cominciarono a succedere a Pocapaglia fatti misteriosi. Ogni sera capitava che buoi e vacche che tornavano dal pascolo in pianura venivano rubati dalla Maschera Micillina.
La Maschera Micillina stava appostata nei boschi sotto il paese e bastava un suo soffio per portare via un bue. I contadini, a sentirla frusciare nei cespugli dopo il tramonto, battevano i denti e cascavano tramortiti, tanto che si diceva: “La Maschera Micillina/Ruba i buoi dalla cascina,/Guarda con l'occhio storto,/E ti stende come morto”.
I contadini la notte presero ad accendere dei grandi falò perché la Maschera Micillina non s'azzardasse a uscire dai cespugli. Ma la Maschera s'avvicinava senza farsi sentire al contadino che stava da solo a far la guardia alle bestie vicino al falò, lo tramortiva con un soffio, e alla mattina quando si svegliava non trovava più né vacche né buoi, e i compagni lo sentivano piangere e disperarsi e darsi pugni sulla testa. Tutti allora si mettevano a battere i boschi per cercare tracce delle bestie, ma non trovavano che ciuffi di pelo, forcine, e orme di piedi lasciate qua e là dalla Maschera Micillina.
Andò avanti così per mesi e mesi, e le vacche sempre chiuse in stalla diventavano tanto magre che per pulirle non ci voleva più la spazzola ma un rastrello che passasse tra costola e costola. Nessuno osava più portare le bestie alla pastura, nessuno osava più entrare nel bosco, e i funghi porcini del bosco, siccome nessuno li coglieva, diventavano grossi come ombrelli.
A rubare negli altri paesi la Maschera Micillina non ci andava perché sapeva che gente tranquilla e senza voglia di litigare come a Pocapaglia non c'era in nessun posto, e ogni sera quei poveri contadini accendevano un falò nella piazza del paese, le donne e i bambini si chiudevano nelle case, e gli uomini restavano intorno al grande fuoco a grattarsi la testa e a lamentarsi. Gratta e lamenta oggi, gratta e lamenta domani, i contadini decisero che bisognava andare dal Conte a chiedere aiuto.
Il Conte abitava in cima al paese, in una grande cascina rotonda, con intorno un muraglione seminato di cocci di vetro. E una domenica mattina, tutti insieme, arrivarono col cappello in mano, bussarono, gli fu aperto, entrarono nel cortile davanti alla casa rotonda del Conte, tutta ringhiere e finestre sprangate. Intorno al cortile c'erano seduti i soldati del Conte, che si lisciavano i baffi con l'olio per farli luccicare e guardavano brutto i contadini. E in fondo al cortile, su una sedia di velluto, c'era il Conte, con la barba nera lunga lunga, che quattro soldati con quattro pettini stavano pettinando dall'alto in basso.
Il più vecchio dei contadini si fece coraggio e disse: ‑Signor Conte, abbiamo osato di venire fino a lei, per dirle qual è la nostra sventura che tutte le bestie andando nel bosco c'è la Maschera Micillina che se le piglia, ‑ e così, tra sospiri e lamenti, con gli altri contadini che facevano sempre segno di sì, gli raccontò tutta la loro vita di paura.
Il Conte restò zitto.
‑ E noi siamo qui venuti, ‑ disse il vecchio, ‑ per osare di chiedere un consiglio a Sua Signoria.
Il Conte restò zitto.
‑ E siamo qui venuti, ‑ aggiunse, ‑ per osare di chiedere a Sua Signoria la grazia di venirci in aiuto, perché se ci concede una scorta di soldati potremmo portare di nuovo in pastura le nostre bestie.
Il Conte scosse il capo. ‑ Se concedo i soldati, ‑ disse, ‑ devo concedere anche il capitano...
I contadini stavano a sentire, con un filo di speranza.
‑ Ma se mi manca il capitano, ‑ fece il Conte, ‑ allora, alla sera, con chi potrò giocare a tombola?
I contadini si misero in ginocchio: ‑ Ci aiuti, signor Conte, per pietà! ‑ I soldati intorno sbadigliavano e si ungevano i baffi.
Il Conte scosse ancora il capo e disse:
Io sono il Conte e conto per tre/E se la Maschera non l’ho mai vista/Vuol dire che di Maschere non ce n'è”.
A quelle parole i soldati sempre sbadigliando presero i fucili e a passo lento caricarono i contadini a baionetta in canna, finché non sgombrarono il cortile.
Tornati sulla piazza, scoraggiati, i contadini non sapevano più cosa fare. Ma il più vecchio, quello che aveva parlato al Conte, disse: ‑ Qui bisogna mandare a chiamare Masino!
Così si misero a scrivere una lettera a Masino e la mandarono in Africa. E una sera, mentre erano raccolti come al solito attorno al falò della piazza, Masino ritornò. Figuratevi le feste, gli abbracci, le marmitte di vino caldo con le spezie! E ‑ Dove sei stato! ‑ e ‑ Cos'hai visto? ‑ e ‑ Sapessi quanto siamo disgraziati!
Masino prima li lasciò raccontare loro, poi si mise a raccontare lui: ‑ Nell'Africa ho visto cannibali che non potendo mangiare uomini mangiavano cicale, nel deserto ho visto un pazzo che per scavare acqua s'era fatto crescere le unghie dodici metri, nel mare ho visto un pesce con una scarpa e una pantofola che voleva essere re degli altri pesci perché nessun altro pesce aveva scarpe né pantofole, in Sicilia ho visto una donna che aveva settanta figli e una pentola sola, a Napoli ho visto gente che camminava stando ferma perché le chiacchiere degli altri la spingeva avanti; ho visto chi la vuol nera, ho visto chi la vuol bianca, ho visto chi pesa un quintale, e chi è grosso come una scaglia, ho visto tanti che hanno paura, ma mai come a Pocapaglia.
I contadini chinarono il capo, pieni di vergogna, perché Masino trattandoli da paurosi, li aveva toccati nel punto debole. Ma Masino non voleva prendersela con i suoi compaesani. Si fece raccontare tutti i particolari della storia della Maschera e poi disse: ‑ Adesso faccio tre domande e dopo, suonata la mezzanotte, andrò a prendervi la Maschera e ve la porterò qui.
‑ Domanda! Domanda! ‑ dissero tutti.
‑ La prima domanda è al barbiere. Quanti sono venuti da te questo mese?
E il barbiere rispose:
Barbe lunghe e barbe corte,/Barbe molli e barbe storte,/Capelli ricci e capelli brutti,/Le mie forbici li han tagliati tutti”.
‑ E ora a te, ciabattino, quanti ti hanno portato gli zoccoli da aggiustare, questo mese?
‑ Ahimè, ‑ disse il ciabattino,
Facevo zoccoli di legno e cuoio,/Ben ribattuti chiodo per chiodo,/Facevo scarpe di seta e serpente,/Ma ora non han soldi e non mi fan far più niente”.
‑ Terza domanda a te, cordaio: quante corde hai venduto in questo mese?
E il cordaio:
Corde ritorte, corde filate,/Corde di paglia a strisce e intrecciate,/Corde da pozzo, di vimini e spago,/Grosse un braccio, sottili un ago,/Forti di ferro, molli di strutto,/In questo mese ho venduto tutto”.
‑ Basta così, ‑ disse Masino, e si coricò accanto al fuoco. ‑ Adesso dormo due ore perché sono stanco. A mezzanotte svegliatemi, e andrò a prendere la Maschera. Si copri la faccia col cappello e s'addormentò.
I contadini stettero zitti fino a mezzanotte, trattenendo perfino il respiro per paura di svegliarlo. A mezzanotte Masino si riscosse, sbadigliò, bevve una tazza di vino caldo, sputò tre volte nel fuoco, s'alzò senza guardare nessuno di quelli che gli stavano intorno, e prese per la via del bosco.
I contadini rimasero ad aspettare, guardando il fuoco che diventava brace, e la brace che diventava cenere, e la cenere che diventava nera, fino a quando non tornò Masino. E chi si portava dietro Masino, tirandolo per la barba? Il Conte, il Conte che piangeva, tirava calci, chiedeva pietà.
‑ Ecco la Maschera! ‑ gridò Masino. E poi subito: ‑ Dove l'avete messo il vino caldo?
Il Conte, sotto gli occhi sgranati di tutti i paesani, cercò di farsi più piccolo che poteva, si sedette per terra tutto rannicchiato come una mosca che ha freddo.
‑ Non poteva essere uno di voi, ‑ spiegò Masino, ‑perché siete andati tutti dal barbiere e non avete pelo da perdere nei cespugli; e poi c'erano quelle impronte di scarpe grosse e pesanti mentre voi andate scalzi. E non poteva essere uno spirito perché non avrebbe avuto bisogno di comprare tante corde per legare le bestie rubate e portarle via. Ma dov'è questo vino caldo?
Il Conte, tutto tremante, cercava di nascondersi nella barba che Masino gli aveva arruffato e strappato per tirarlo fuori dai cespugli.
‑ E come mai ci tramortiva con lo sguardo? ‑ domandò un contadino.
‑ Vi dava una legnata in testa con un bastone coperto di stracci, così sentivate solo un soffio per aria, non vi lasciava il segno, e vi svegliavate con la testa pesante.
‑ E le forcine che perdeva? ‑ domandò un altro.
‑ Gli servivano per legarsi la barba sulla testa, come i capelli delle donne.
I contadini erano stati a sentire in silenzio, ma quando Masino disse: ‑ E adesso, cosa volete farne? ‑ scoppiò una tempesta di grida: ‑ Lo bruciamo! Lo peliamo! Lo leghiamo a un palo da spaventapasseri! Lo chiudiamo in una botte e lo facciamo rotolare! Lo mettiamo in un sacco con sei gatti e sei cani!
‑ Pietà! ‑ diceva il Conte con un fil di voce.
‑ Fate così, ‑ dice Masino, ‑ vi restituirà le bestie e vi pulirà le stalle. E visto che gli è piaciuto andar di notte nei boschi, sia condannato a continuare ad andarci tutte le notti, a far fascine per voialtri. E dite ai bambini che non raccolgano mai le forcine che troveranno per terra, perché sono quelle della Maschera Micillina, che non riuscirà più a tenersi in ordine i capelli e la barba.
E così fu fatto. Poi Masino parti per il giro del mondo, e lungo il giro gli capitò di fare una guerra dopo l'altra, tutte così lunghe che ne venne il proverbio:
O soldatin di guerra,/Mangi mal, dormi per terra,/Metti la polvere nei cannon,/Bim Bon!
 

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