Servizi
Offerte
Prezzi
Prodotti
La
Masca
- Cascina
- Creusa
- via
Cavour 98
- Pocapaglia
- 0172/473218
- 335/7481173
- 339/7161347
- fax:
0172/473756
|
La
Masca Micilina
Una delle leggende
più importanti di Pocapaglia è quella della "Masca Micilina",
legata al personaggio di una presunta strega arsa sul rogo intorno al
1500. Nel paese roerino si tiene ad inizio novembre nel contesto della
"sagra della burnia (conservazione)" una rappresentazione
storica che rievoca il processo e il rogo della strega. Alcune
pubblicazioni, locali e non, fanno riferimento alla vicenda:
-
Italo
Calvino, La barba del Conte (vai al testo)
-
Euclide
Milano, Nel regno della fantasia, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1931. (vai
al testo)
-
Donato
Bosca, Langa Magica, Gribaudo Editore (vai al testo)
-
Edoardo
Mosca, La vera storia della Masca, Bra7, 1986 (vai al
testo)
Scarica
i testi in formato zip
- La Masca
Micilina (Da
Euclide Milano, Nel Regno della Fantasia, Leggende della Provincia di
Cuneo, Fratelli Bocca Editori, Torino 1931).
- Questa viveva -non è gran tempo, saranno
tutt'al più un trecento o quattrocento anni fa- nel villaggio di
Pocapaglia. Ognun sa che attorno a quel pittoresco paesello si
sprofondano burroni dovuti all'erosione delle acque, così grandiosi
nell'aspetto, così aspri nei contorni, così bizzarri nelle forme e
varii nei colori da costituire, tra le dolci colline scendenti sulla
sinistra del Tanaro alla ridente e amenissima conca di Pollenzo, un
quadro di paese che pare un angolo d'Alpe selvaggia portato fuor del
suo ambiente, tanto più ricco d'attrattive pel contrasto che la sua
orrida tumultuosa disordinata bellezza offre con quella, tutta pacata
uniforme linda e serena, dei luoghi circostanti.
- Ebbene,
proprio là, tra quelle rocche irte di creste e vette
acuminate, solcate da tortuose spaccature, coperte di macchie e
d'arbusti o nude e scabre, esercitò, per lungo tempo le sue arti
nefande la «masca Micilina ».
- Essa
abitava nel mezzo del villaggio, dov'è un gruppo di case chiamato il
Bricchetto; e ancora vi sanno indicare precisamente la sua. Era
piccola e deforme, con una faccia scura, tutta grinze e bitorzoli,
incorniciata da pochi capelli bianchi e scomposti, il naso adunco e il
mento appuntito, la bocca sdentata e, gli occhi guerci splendenti
d'una luce strana, dotati di un fascino tremendo.
- Andando
tutta curva per le solinghe strade
del paesello o per i sentieri tra le rocche, levava per l'aria quelle
sue mani lunghe e secche simili ad artigli, e col bastone disegnava
curiosi mulinelli pronunciando parole incomprensibili;
ed anche se era tutta sola discorreva ad alta voce, certo con
degli spiriti, invisibili a tutti fuorchè
a lei. E pazienza se si fosse
contentata di quel parlare oscuro e di quel gesticolare da
pazza! Il guaio era che per causa di lei ne capitava tutti i
giorni una, che a dirle tutte ci sarebbe da farne un libro
grosso come un messale.
- Per
esempio, un giorno attaccò discorso con alcune comari, formando
capannello davanti a casa sua. Durante la conversazione le venne fatto
di toccare sulla spalla la figlioletta d'una di quelle comari, che le
stava accanto: il giorno dopo alla povera bambina cominciò a crescere
la gobba! ‑ Un ragazzo che stava sulla strada a giocare, vistala
comparire, si diede alla fuga,
ma inciampò e cadde: nello rialzarsi si trovò
con un piede volto in avanti e l'altro voltato
all’indietro! E una fanciulletta che tornava dalla vigna con un
canestro di frutta, richiesta
da lei che gliene
desse ad assaggiare, fu pronta a contentarla; ma appena la
vecchia l'ebbe toccata diventò tutta storta, e nemmeno il settimino
la poté più raddrizzare! Né
occorre dire che i cattivi raccolti, la grandine, le malattie,
tutti insomma i malanni che colpivano i Pocapagliesi, avevano un'unica
origine, un unico movente: la maledetta strega Micilina.
- Con
chi ella avesse relazione si vide chiaramente quando si sbarazzò di
suo marito: sentite come. Un mattino d'estate se ne tornava da
Sommariva del Bosco in preda a una grande agitazione, perché, essendo
andata a vendere al mercato un canestro di ciliege e avendovi fatto
una scommessa sul probabile peso del canestro stesso mettendolo in
gioco, perduta la scommessa, aveva dovuto cederlo senza beccare
neppure un quattrino; del che certamente il marito, avaro e manesco,
l'avrebbe non solo redarguita, ma ripagata a bastonate. Quando si trovò
fra i boschi prossimi alle
rocche, si vide comparire dinanzi, sullo stretto e sabbioso
sentiero, un elegante signore, che le domandò perché fosse tanto afflitta. Micilina gli raccontò ogni
cosa, e scoppiando in disperato pianto affermò che non osava più
tornarsene a casa; ma quel signore la rassicurò. Disse che egli le
avrebbe subito reso il marito tranquillo e innocuo; tracciò sul suolo
un circolo invitando la donna a mettervi un piede, poi disegnò per l'aria
strane figurazioni e borbottò parole incomprensibili.
«Vostro marito,
disse per ultimo, si trova in
questo momento su un gelso nel campo del
Baudetto, ove raccoglie la foglia pei bachi; andate pure da
lui senza paura, chè non
vi torcerà un capello». Infatti
Micilina andò a cercarlo nel punto indicato, vide il pover'uomo che
stava sull'albero silenzioso
e immobile; scosse l'albero, e quegli precipitò a terra con i denti
stretti e gli occhi sbarrati, duro e secco. come un baccalà,
insomma morto stecchito...
- Or
chi era quel signore che dai boschi tra le
rocche, a distanza di un miglio, l'aveva fatto
crepare come un rospo a quel modo?
Bella domanda! E
chi poteva essere se non il demonio? L'avevan
visto parecchi, che quella mattina erano andati nei boschi a
far legna: tarchiato, collo corto, testa grossa con capelli neri
lanosi e una barbetta simile a quella del caprone. Con un amico e
protettore di tale specie si capiva troppo ,bene come Micilina
potesse farne di tutti i colori!
- E
poco tempo dopo ne fece per l'appunto un’altra
che merita d'esser contata.
Una mattina il fornaio, dalla porta del suo forno, l'unico del
villaggio, si diede a chiamarla,
come soleva fare con tutte le massaie,
per dirle che impastasse. Alle due prime chiamate Micilina non
rispose; ma alla terza comparve improvvisamente davanti al forno con i
pani già allestiti.
Al fornaio allibito dallo stupore, senza farne mistero alcuno,
la terribile donna raccontò che quando egli l'aveva chiamata la prima
volta era sul ponte di Pavia a farvi morire un carrettiere; alla
seconda chiamata, essendosi tosto messa in moto per ritornare a casa,
trovavasi già presso Pocapaglia, sotto il noce nel .prato del
pecoraio; alla terza aveva impastato e fatto i pani… Insomma una
velocità fantastica, vertiginosa, inconcepibile. Ma poi la donna,
venuta a diverbio col povero fornaio, dal quale pretese ad ogni costo
che le portasse i pani cotti in casa, non
appena egli l'ebbe servita
come voleva, proprio sulla soglia del suo abituro
gli gettò il malefizio, e lo fece cadere a terra fulminato.
- Oramai
più nessuno era sicuro della vita. Tutti tremavano al pensiero di
dover subire gli influssi della maliarda.
Quando la vedevano comparire, fuggivano in ogni parte
terrorizzati; le donne strillavano; i bimbi correvano a nascondersi
come se arrivasse l'Orco che
volesse mangiarli; ognuno
facevasi prontamente il
segno della croce. E quando poi una povera mamma, che aveva lasciato
un bimbo in culla recandosi a lavar panni presso casa sua, vistane
uscire la Micilina, che
v'era entrata di
soppiatto, e corsa a vedere l'innocente creaturina,
se la trovò tutta deformata, contorta, rattrappita,
si levò allora tra il popolo esasperato tale
tumulto che dovettero
accorrere le autorità civili e
religiose, per ordine delle quali la strega fu messa
finalmente nell'impossibilità di nuocere più oltre. La
legarono ben bene, e la chiusero in carcere; poi le fecero un processo
in tutta regola, dal quale risultò evidente, per confessione della
stessa accusata, che ella aveva avute strettissime relazioni con le potenze infernali.
- Micilina
fini col rivelare che molte sue compagne erano sparse nella regione a
commettervi ogni sorta di fattucchierie;
che Satana. le riuniva spesso
a notturni
convegni e le bastonava di santa ragione se si mostravano poco
sollecite ad ubbidirgli, ma le soddisfaceva con piaceri sensuali e
dava loro poteri terribili se gli si mostravan devote. Confessò d'aver fatto morire con le sue
arti magiche il marito e il fornaio, ed altri parecchi; confessò
d'aver soprattutto stregato un'infinità di bambini.
Dopo di che i giudici ebbero poca da fare; trattandosi d’un
reo confesso, e dovendosi d’altra parte dare un esempio per liberare
il paese da tanto pericolo,
condannarono la strega a morire sul rogo, perché
soltanto il fuoco avrebbe potuto distruggere gl’influssi
che emanavano da lei e purificare l'ambiente.
- Così
Micilina fu bruciata
viva. Il supplizio. ebbe luogo su un'altura a nord di Pocapaglia posta
tra due enormi voragini,
dette l’una la rocca della
porcheria l’altra la rocca della bignina: la
strada che vi adduce :passa appunto per buon tratto sul ciglio dei
burroni., Ma quando il corteo delle confraternite e dell'innumerevole
popolo che accorreva allo spettacolo, giunse in quei pressi,
si udì per l'aria uno
strano miagolio, mentre
gomitoli arruffati di
refe, come eruttati da
quegli abissi, cadevano sulla strada, e delle voci, or cavernose or
acute, gridavano: “Attaccati, Micilina!
attaccati!”
- Micilina
era nel mezzo del lungo corteo tra i confratelli della
Misericordia e gli aguzzini che la spingevano innanzi a urtoni.
Ella vedeva quei gomitoli,, sentiva le voci che la chiamavano;
e se avesse potuto agguantare uno di quei fili sarebbe stata salva, chè
quelli eran gettati dalle invisibili streghe sue compagne: ma
il prete che l'accompagnava, aspergendo a lei d'intorno l'acqua
benedetta con una mano e con l'altra presentando il Crocifisso, ricacciava lontano i gomitoli che ricadevano nel vuoto.
- Giunto
alfine il corteo alla catasta di legna già apprestata all'uopo,
Micilina, sbiancata dallo spavento e più orribile che mai, vi fu
legata al palo che la sormontava; dopo di che venne appiccato
il fuoco alla pira. Si vide dapprima una densa colonna di fumo; poi le
vive fiamme avvolsero scoppiettando le carni della megera, la cui
figura appariva a tratti fra il loro balenio contorcendosi e
disfacendosi a brani, finché non
rimase che un vasto braciere, le cui ceneri furono sparse al vento.
- Giustizia
era fatta. E la moltitudine che aveva assistito al supplizio si
disperse soddisfatta, sperando che ora il paese fosse purificato. Ma
s'ingannava. Se Micilina era morta, -e non ne era morta che la parte
corporea- restavano, ahimè, le sue men
note, ma pur evidenti compagne.
Evidenti nel fatto che dopo il supplizio si ebbero stranissime apparizioni.
Furono viste
chiocce disperse con miriadi di
pulcini, i quali, invece del solito pigolio, emettevano uno stridore
simile a quello della lima del fabbro, e scomparivano appena osservate
con attenzione; fu visto un ragno colossale con gambe cortissime, che
camminava come un parapioggia aperto radendo la terra, e appena scorto
grugniva
come un maiale fuggendo a rintanarsi
tra le rocce; si videro branchi di montoni dalle corna smisurate
e con setole irte sulla schiena, che lanciavano sibili come le
serpi...
- Cos'erano
tutti quei mostri? Non altro che le streghe compagne di Micilina;
le quali andavano in cerca di lei o volevano
vendicarla. E chissà che tutt'oggi non ve ne siano ancora,
nascoste fra i cespugli o nell'imo
degli abissi, in vicinanza di quell'erto poggio che porta
sempre il nome di “bric d'la
masca Micilina”! Lo
si distingue subito dagli altri perché tinto di striscie
e di macchie rossigne, prodotte per l'appunto dal fuoco con cui fu
bruciata e dal suo stesso sangue. Forse qualche volta ritorna anche
lei, in forma di cagna randagia famelica ululando, o in forma di gatta
nera, o di nera gallina sperduta, che appare e dispare.
E quando la notte incombe su quei dirupi, e il cielo è fosco
di nembi o livido di lampi, Micilina e le sue compagne vi si
riuniscono forse ancora su qualche spiazzo fra i boschi e vi fanno la
loro ridda selvaggia, saltando, correndo, gesticolando, gettando
fischi ed urli assordanti,
volando a cavallo di scope, irti i capelli, truci gli occhi, aguzzi i
denti delle bocche orribili, lunghe le lingue forcute,
squamosa la pelle, unghiute
le mani e i piedi. Alla larga!
-
- LA
MASCA MICILINA (Da
Donato Bosca, Langa Magica cento storie di masche tra finzione e realtà,
Gribaudo Editore)
- Vi ringrazio
per gli applausi con i quali mi avete accolta. Voi sapete che la sfortuna
mi ha sempre perseguitata e mi avete voluto bene ancora di più, come per
compensarmi del.la malora che ho avuto. Quello
che hanno scritto su di me risponde a verità. Sono nativa diBarolo
e mi hanno battezzata Michelina.
Quel Sebastiano di Pocapaglia,
che Dio l'abbia in gloria, è venuto a maritarmi che io non avevo
ancora diciotto anni. Solo che non aveva cognizione; di giorno mi faceva
filare come se io fossi stata di ferro, sempre ad usarmi in campagna nei
lavori pesanti, e di notte mi voleva accondiscendente a soddisfare tutte
le sue perversioni, quel brutto animale. Ero spaesata, malinconica,
spaventata quando era l'ora di andare a letto e le botte del marito non mi
aiutavano certo a rinsavire. Lui, detto con licenza
parlando, aveva la faccia come il sedere, faceva il prepotente e mi
maltrattava tutta la settimana, poi alla domenica andava a messa e
sussurrava all'orecchio degli
amici che io ero un po' masca e che mi aveva sorpreso con dei libri in
mano. La verità vera è che i libri mi incantavano, specie quelli con
delle figure ed avrei dato dieci anni della mia vita per essere capace di
leggere. Invece non potevo permettermi neppure questo sfogo innocente,
intristivo, mi chiudevo in me stessa. Il giorno che ho cercato un rapporto
umano e che ero vogliosa di un gesto affettuoso, la ragazzina cui mi ero
rivolta con una semplice carezza si ammalò improvvisamente e raccontò a
casa di essere stata toccata da Micilina. Un'altra volta mi è successo di
passare davanti ad una porta aperta e,di
sentire i pianti di un neonato. Non ho saputo resistere e sono
entrata per vedere se aveva bisogno di aiuto. La mamma era uscita perché
il bambino era in preda alle convulsioni,
ma poi mi vide vicina alla culla e pensò bene di far ricadere su
di me la colpa della malattia del figlio. Le chiacchiere crescevano come
un torrente in piena che scende a valle impetuoso. E il giorno per me
benedetto che finalmente avevo motivo di sentirmi un po' risollevata nello
spirito, quando mio marito buon'anima cadde dal ciliegio rompendosi l'osso
del collo, si coalizzarono tutti per incriminarmi e farmi processare come
la più incallita delle masche. Chiamarono il tribunale dell'Inquisizione oltre
che il giudice civile e quella era gente che non faceva tanti chilometri
par cavare un ragno dal buco. L'ho capito scrutandoli negli occhi ed ho
pensato che l'unica cosa era abbreviare il supplizio, confessando quello
che loro erano convinti io avessi commesso. Così mi presi anche la col 'a
del cattivo raccolto, delle grandinate,
delle disgrazie accadute negli ultimi cinquant'anni. Non potevo fargli un
regalo migliore. Mi condannarono «ad essere bruciata viva su una rocca a
Nord di Pocapaglia, accompagnata da un lungo corteo di confratelli
della Misericordia, col parroco e il seguito di tutti i paesani dei
dintorni».
Dell'avvenuto rogo potete osservare ancora oggi le tracce sul
cosiddetto « bric d'la masca Micilina», un poggio sopraelevato che si
nota anche a distanza proprio per le macchie rossastre di sangue che lo
segnano. Solo che quel sangue non era il mio, bensì del gattaccio nero
che all'ultimo momento
sono riuscita a chiamare al mio posto, approfittando di una folata di
nebbia che aveva avviluppato tutt'intorno il falò.
-
- LA
VERA STORIA DELLA MASCA (Articolo in due parti scritto dal Prof. Edoardo
Mosca e pubblicato sul settimanale Basette il 24 e 31 ottobre 1986)
- Ci
fu un tempo, quando ancora eravamo ragazzi, in cui ognuno di noi conosceva
le storie, le leggende e le tradizioni che i vecchi si erano tramandati
l'un l'altro per lunghi anni. Poi venne la guerra con gli sconvolgimenti
che le sono propri. Tutto fu messo sottosopra.
Famiglie di regioni diverse cambiarono sede di residenza. Nel
dopoguerra massicce immigrazioni da luoghi anche lontanissimi stravolsero
le componenti locali e se, quarant'anni or sono, da noi si sentiva
comunemente parlare piemontese, in breve volger di tempo si inserirono
nella nostra regione idiomi disparati tra loro con una netta prevalenza di
parlate ad accento meridionale. La
televisione, con i suoi annunciatori ed intrattenitori romaneschi, valse a
compiere il resto. Le famiglie cittadine presero a parlare ai loro figli
esclusivamente in italiano e tutta una tradizione locale plurisecolare
in pochi anni andò a farsi benedire.
- Con
la perdita del dialetto andò pure scomparendo la tradizione delle memorie
tramandatesi per tanto tempo. La televisione casalinga, serpente a sonagli
nelle nostre dimore, sostituì alle belle storie di un tempo coi loro
protagonisti gentili o misteriosi tutta una serie di orribili
scimmiottature pseudoumane delle quali per anni fu principe l'orrido Mazinga. Ed i bambini furono conquistati dai nuovi personaggi.
Fu questa la seconda ondata, ben più distruttrice della prima che
aveva scelto a suoi protagonisti i pistoleri americani.
- Oggi,
tra i giovani, pochissimi,
credo, sanno ancora di masche, di spiriti, di maghi come noi sapevamo ed
è per questo che mi chiedo se la masca Micilina, che settimanalmente
firma messaggi su questo giornale, pensi che tra i
giovani ci sia qualcuno che sappia veramente chi essa sia stata in
vita. Forse ciò può ancora verificarsi, per qualche giovane delle
campagne, dove la tradizione è più restia
ad essere sopraffatta: nella città credo che ben pochi sappiano
qualcosa di lei e soprattutto che è veramente esistita nelle nostre
terre, con altre molte, come lei in genere destinate ad una miseranda
fine.
- La
nostra masca, quella che
scrive sul giornale per intenderci, parla sempre del futuro,
eccezionalmente del presente; del passato, e particolarmente del suo
passato, dice ben poco. E’ per questo che provo a tracciarne un breve
compendio, così come risulta dalla tradizione locale che pure trae i suoi
spunti da una realtà vissuta circa tre secoli addietro.
- Personalmente
ho incontrato alcune volte la masca Micilina nella mia vita.
La prima fu all'età di cinque anni allorché la maestra di mia
madre suor Ernestina, che insegnava
nelle scuole elementari di via Mendicità, nel mese di luglio di un anno
ormai lontano, organizzò con un'altra suora e le sue scolare un gita,
come allora usava, a piedi a Pocapaglia.
Vi venni invitato e mia madre fu ben felice di affidarmi per un
giorno alle ampie gonne della suora maestra.
- Raggiungemmo
Pocapaglia dopo non so quante ore di cammino e c'era là ad attenderci
un'ex allieva della maestra che ci condusse ad ammirare le cose notevoli
del paese, prime fra tutte le famose rocche. E qui un’illustrazione dei
misfatti della masca Micilina
fu d'obbligo. Dopo averci indicato il picco rossastro che nel bruno dei
suoi colori ricorderebbe il sangue della strega, ci tracciò tutto il
curriculum delle miserande azioni
della povera megera: dai
primi malefici all'uccisione, per
interposta magia del demonio, del marito che, caduto per arti misteriose
da un gelso, si ruppe la testa.
- Restai
vivamente colpito dalla narrazione e l'orrore mi fu ravvivato pochi anni
dopo allorché, trascorrendo durante le vacanze estive un mese di ferie
non sull'Adriatico come oggi usa ma ben più modestamente sulla collina di
Montepulciano sovrastante la valle di Fey
presso un mio lontano, vecchio cugino, una sera, con altre storie
di streghe e di fantasmi, mi fu nuovamente propinata la storia della masca
Micilina con tutte le
opportune varianti inseritevi dal narratore.
- L’esistenza
della masca, ormai
acquisita come certa tramite i vari racconti che me ne erano stati
offerti, mi venne storicamente confermata allorché,
ormai adulto, parecchi anni
dopo conobbi Euclide Milano
che molto si era interessato al folclore
ed alle leggende locali. Egli era convinto che
del processo alla strega esistesse l'incartamento originale e si intestardì
a ricercarlo invano nell'archivio della
parrocchia del paesello dei Roeri.
E, non avendolo rinvenuto, accusò, anche in una sua pubblicazione,
il parroco dei tempo di non averglielo voluto dare in visione per un malcelato
timore da parte di colui di nuocere, aprendogli del tutto gli
archivi parrocchiali, alla chiesa.
- L'accusa
era ingiustificata come
ebbi poi, di recente, a dover personalmente constatare. Dovendo
controllare l'esistenza di certi documenti secenteschi, anch'io
dovetti consultare lo stesso archivio e, nell'occasione, l'attuale
parroco don Aldo Molinaris fu verso di me di una cortesia difficilmente
talvolta riscontrabile. Non
solo mi aprì l'archivio ma mi permise ogni tipo di ricerca tra i
documenti nello stesso conservati. Mentre passavo da antichi inventari a
redazioni statutarie dei quattrocento, mi tornò in mente l'affermazione
dei Milano e così, per mia curiosità,
rovistai in lungo e in largo nell'ampia serie dei documenti.
Passai di scoperta in scoperta con documentazioni di ogni tempo e sui più svariati argomenti,
ma della masca trovai assolutamente nulla. Probabilmente il Milano non
aveva posto mente che, essendo stata interrogata dall’inquisitore del
tribunale di Savigliano e dal giudice di Cherasco, gli atti eventuali,
seppur vennero stesi, furono in una di quelle città traslati.
- La
storia della masca, precisa nei particolari, ci è stata comunque
tramandata grazie ad un lungo manoscritto della metà del settecento che è tutt’ora
conservato presso il museo di Bra.
- Micilina
dunque, il cui nome di battesimo, così storpiato nella parlata
locale, era Michelina, era originaria di Barolo.
Andata sposa ad un contadino di Pocapaglia, qui venne ad abitare e per
certe sue stranezze, già guardata con sospetto perché forestiera,
cominciò a destare la curiosità dei vicini specie per certi inaspettati
suoi atteggiamenti.
- A
porla in cattiva luce fu anche il marito
che, convinto di sposarsi per avere una donna da far lavorare mane
e sera, presto si accorse che la sposa poco era propensa ad ubbidire a
tutti i suoi comandi. Lui la chiamava per mandarla nell'orto o nei campi e
lei si nascondeva evitando di farsi trovare. Lui s'infuriava e, quando gli
veniva a tiro, la pestava di santa ragione. Allorché della moglie parlava
con i conoscenti sì lamentava per il suo comportamento e per la sua poca
voglia di lavorare affermando di non aver sposato una donna ma una masca
che gli sfuggiva di sotto gli occhi e gli ricompariva davanti
quando meno se lo aspettava. Ed in un'epoca in cui erano facili i
soprannomi, quello di "masca"
fu tosto appioppato a
Micilina che, peraltro, se ne faceva beffe.
- Successe
un giorno che una bambina stava tornando dai campi, poco fuori del
paese, con un cestello di
frutta. Incontrò Micilina che le chiese uno di questi frutti. La
bambina glielo diede e Micilina, nel
ringraziarla, le pose una mano sulla spalla. Tornata a casa la bimba si
piegò tutta da un lato e così rimase. Alle insistenti domande dei
parenti per sapere cosa le fosse successo, la bimba raccontò
dell'avvenuto incontro. Fu facile per alcuni affermare che si trattava di
stregoneria, di malocchio trasmesso dalla fattucchiera all'innocente
fanciulla.
- Il
convincimento raddoppiò allorché una giovane madre, allontanatasi per
breve tempo dalla stanza nella quale riposava nella culla la sua creatura,
tornatavi la trovò in preda alle convulsioni. Fu sufficiente che .costei
affermasse di aver visto ,nei paraggi Micilina
perché i due fatti fossero tra di loro connessi
e ne nascesse quindi un subbuglio che portò ben presto un nutrito
gruppo di abitanti del borgo dal
castellano reclamando che
prendesse i provvedimenti del caso onde non insorgessero altre disgrazie
tra la popolazione a causa dell'ignobile fattucchiera.
- Il
destino volle che proprio in quel frattempo suo marito, da un gelso
sul quale era salito per raccogliere foglie da dare ai bachi da seta,
cadesse fratturandosi l'osso dei collo. Micilina fu chiaramente
individuata come autrice del misfatto e, davanti all'ira popolare, il castellano
fu costretto a farla imprigionare rinchiudendola
nelle carceri del castello. Si
interpellò sul caso il tribunale dell'inquisizione che aveva allora una
sua sede a Savigliano. Fu inviato per appurare la verità un padre
inquisitore affiancato dal giudice di Cherasco. Costoro, giunti a
Pocapaglia, si accinsero all'interrogatorio che, secondo le consuetudini
del tempo, per i casi di stregoneria contemplava l'impiego obbligatorio
della tortura. Così avvenne per Micilina che, impossibilitata a
sopportare i tratti di corda e le tenaglie arroventate che le venivano
applicate sulle gambe e sulle braccia, confessò tutto quello che le si
chiese di confessare: che aveva storpiato le due bambine,
che aveva procurato la morte del marito e molti altri misfatti che
andava via via inventandosi pur di porre fine alle sue sofferenze.
- L'inquisizione
era esigente per tal genere di testimonianze: le furono richiesti i
nomi delle altre megere che, trasformatesi nottetempo in gatti e
cani, vagavano per i boschi e le rocche portando nelle case isolate i loro
malefici. Lei indicò nomi
e cognomi. Molti
corrispondevano a donne della natia Barolo dove aveva trascorso gli anni
della giovinezza ed i cui abitanti meglio conosceva. Erano tutte donne
innocenti che si trovarono in tal modo scaraventate, loro malgrado
ed a loro insaputa, nel bel mezzo dell'indagine. Circa la morte dei marito, interrogata sui
particolari che l'avevano occasionata, disse che, a causa delle sue
lamentele verso di lui che la faceva lavorare troppo, le era apparso tra i
boschi, paludato da
avvocato, ricoperto dalla toga nera, il demonio che, lodandola per l'amore
che aveva per lui e la sua corte aveva tracciato con un bastone un cerchio
intorno ai suoi piedi dicendole che, quando avesse oltrepassato tale
cerchio magico, suo marito avrebbe avuto la giusta punizione.
Nell’istante in cui il demonio si allontanò il marito cadde dal gelso e
si fratturò la cervice.
- Dopo
le più ampie confessioni ed il riferimento ai più minuti particolari su
tali avvenimenti, finalmente dopo più e più giorni, l'interrogatorio
ebbe termine. Fu chiesto a Micilina se si pentiva dei suoi misfatti e lei
rispose affermativamente. Cos'altro poteva dire? Il padre inquisitore le
somministrò la pena spirituale: sarebbe dovuta andare scalza per tutta la
vita e digiunare a pane e acqua per quaranta giorni consecutivi. Dopodiché
la passò al braccio secolare perché questo emettesse la sua sentenza.
- Il
giudice di Cherasco affermò che, pur tenendo conto che spiritualmente la
masca mostrava segni di ravvedimento, non se la sentiva di correre il
rischio che nel futuro potesse tornare alle sue ignobili pratiche. Decretò
pertanto che per il suo bene e affinché non ricadesse nelle mani del
demonio, fosse sospesa per la gola finché l'anima non si fosse separata
dal corpo, quindi abbruciata e le sue ceneri sparse al vento tra le rocche
di Pocapaglia dove si era nottetempo intrattenuta in carnale commercio,
come lei stessa aveva confessato, con Satana più volte apparsale sotto
l'aspetto talora di un gatto, tal'altra di un caprone.
- E
così si fece. Preceduta dai confratelli
della Misericordia incappucciati di nero e seguita da tutto il
popolo, la triste processione, al canto dei Miserere, si avviò verso le
rocche. Raccontarono poi parecchi dei presenti che, lungo il tragitto
mostruosi ragni cercavano dalle ripe scoscese di lanciare lunghi fili di
seta a Micilina urlandole,
tra i paurosi sibili che mettevano, di aggrapparvisi. Se ciò fosse potuto avvenire Micilina
certamente, per arti magiche, si sarebbe salvata. Ma la poveretta
procedeva con le mani legate dietro la schiena e, davanti a lei, il
parroco aspergeva con l'acqua benedetta il cammino per cui i fili di seta,
al contatto
con essa, si raggrinzivano e scomparivano del tutto. Si giunse
infine sul luogo del supplizio e gli armigeri del castellano provvidero a compiere quanto era
stato loro ordinato. Dopo l'impiccagione, il falò illuminò di cupi
bagliori rossastri le forre e gli anfratti di quei tristi luoghi e di
Micilina non rimase che un mucchio di cenere presto dispersa al vento.
- Tutto
ciò avvenne circa trecento anni or sono. Ora il nome della masca Micilina
è tornato sulle colonne di questo giornale e la stessa masca ci
intrattiene coi suoi discorsi economici-finanziari. Sarà questa la nuova fattucchierìa
dei tempi moderni? Ed allora, i grandi masconi che un tempo
avevano imperio sulle meno importanti, piccole masche
locali, saranno forse oggi i grandi banchieri o i ministri del
tesoro?Chissà!
-
- La
barba del Conte
- (da
Italo Calvino, Fiabe Italiane, 3 volumi, Mondatori, Milano 1993)
-
- Pocapaglia
era un paese così erto, in cima a una collina dai fianchi così
ripidi, che gli abitanti, per non perdere le uova che appena fatte
sarebbero rotolate giù nei boschi, appendevano un sacchetto sotto la
coda delle galline.
- Questo
vuol dire che i Pocapagliesi non erano addormentati come si diceva, e
che il proverbio “Tutti sanno che a Pocapaglia/L'asino fischia e
il suo padrone raglia” era una malignità dei paesi vicini, i
quali ce l'avevano coi Pocapagliesi solo per il fatto che erano gente
tranquilla, che non gli piaceva litigare con nessuno.
- ‑
Si, sì
‑ era tutto quello che rispondevano i Pocapagliesi,
‑ aspettate che tomi Masino, e vedrete chi raglierà di più,
tra voi e noi.
- Masino
era il più sveglio dei Pocapagliesi e il più benvoluto da tutto il
paese. Non era robusto più degli altri, anzi, a vederlo non gli si
sarebbe dato un soldo, ma era furbo dalla nascita. Sua madre, appena
nato, vedendolo così piccino, per tenerlo in vita e irrobustirlo un
po', gli aveva fatto fare un bagno nel vino caldo. Suo padre, per
scaldare il vino, ci aveva messo dentro un ferro di cavallo rosso come
il fuoco. Così Masino
aveva preso attraverso la pelle la furbizia che c'è nel vino e la
resistenza che c'è nel ferro. Dopo questo bagno, perché si
rinfrescasse, sua madre l'aveva messo in culla in un guscio di
castagna ancora verde, che, essendo amaro, dà intelligenza.
- In
quei tempi, mentre i Pocapagliesi aspettavano il ritorno di Masino,
che da quando era partito soldato non aveva fatto più ritorno al
paese e adesso pareva fosse dalle parti dell'Africa, cominciarono a
succedere a Pocapaglia fatti misteriosi. Ogni sera capitava che buoi e
vacche che tornavano dal pascolo in pianura venivano rubati dalla
Maschera Micillina.
- La
Maschera Micillina stava appostata nei boschi sotto il paese e bastava
un suo soffio per portare via un bue. I contadini, a sentirla
frusciare nei cespugli dopo il tramonto, battevano i denti e cascavano
tramortiti, tanto che si diceva: “La Maschera Micillina/Ruba
i buoi dalla cascina,/Guarda con l'occhio storto,/E ti stende come
morto”.
- I
contadini la notte presero ad accendere dei grandi falò perché la
Maschera Micillina non s'azzardasse a uscire dai cespugli. Ma la
Maschera s'avvicinava senza farsi sentire al contadino che stava da
solo a far la guardia alle bestie vicino al falò, lo tramortiva con
un soffio, e alla mattina quando si svegliava non trovava più né
vacche né buoi, e i compagni lo sentivano piangere e disperarsi e
darsi pugni sulla testa. Tutti allora si mettevano a battere i boschi
per cercare tracce delle bestie, ma non trovavano che ciuffi di pelo,
forcine, e orme di piedi lasciate qua e là dalla Maschera Micillina.
- Andò
avanti così per mesi e mesi, e le vacche sempre chiuse in stalla
diventavano tanto magre che per pulirle non ci voleva più la spazzola
ma un rastrello che passasse tra costola e costola. Nessuno osava più
portare le bestie alla pastura, nessuno osava più entrare nel bosco,
e i funghi porcini del bosco, siccome nessuno li coglieva, diventavano
grossi come ombrelli.
- A
rubare negli altri paesi la Maschera Micillina non ci andava perché
sapeva che gente tranquilla e senza voglia di litigare come a
Pocapaglia non c'era in nessun posto, e ogni sera quei poveri
contadini accendevano un falò nella piazza del paese, le donne e i
bambini si chiudevano nelle case, e gli uomini restavano intorno al
grande fuoco a grattarsi la testa e a lamentarsi. Gratta e lamenta
oggi, gratta e lamenta domani, i contadini decisero che bisognava
andare dal Conte a chiedere aiuto.
- Il
Conte abitava in cima al paese, in una grande cascina rotonda, con
intorno un muraglione seminato di cocci di vetro. E una domenica
mattina, tutti insieme, arrivarono col cappello in mano, bussarono,
gli fu aperto, entrarono nel cortile davanti alla casa rotonda del
Conte, tutta ringhiere e finestre sprangate. Intorno al cortile c'erano seduti i soldati del
Conte, che si lisciavano i baffi con l'olio per farli luccicare e
guardavano brutto i contadini. E in fondo al cortile, su una sedia di
velluto, c'era il Conte, con la barba nera lunga lunga, che quattro
soldati con quattro pettini stavano pettinando dall'alto in basso.
- Il
più vecchio dei contadini si fece coraggio e disse: ‑Signor
Conte, abbiamo osato di venire fino a lei, per dirle qual è la nostra
sventura che tutte le bestie andando nel bosco c'è la Maschera
Micillina che se le piglia, ‑ e così, tra sospiri e lamenti,
con gli altri contadini che facevano sempre segno di sì, gli raccontò
tutta la loro vita di paura.
- Il
Conte restò zitto.
- ‑
E noi siamo qui venuti, ‑ disse il vecchio, ‑ per osare di
chiedere un consiglio a Sua Signoria.
- Il
Conte restò zitto.
- ‑
E siamo qui venuti, ‑ aggiunse, ‑ per osare di chiedere a
Sua Signoria la grazia di venirci in aiuto, perché se ci concede una
scorta di soldati potremmo portare di nuovo in pastura le nostre
bestie.
- Il
Conte scosse il capo. ‑ Se concedo i soldati, ‑ disse,
‑ devo concedere anche il capitano...
- I
contadini stavano a sentire, con un filo di speranza.
- ‑
Ma se mi manca il capitano, ‑ fece il Conte, ‑ allora,
alla sera, con chi potrò giocare a tombola?
- I
contadini si misero in ginocchio: ‑ Ci aiuti, signor Conte, per
pietà! ‑ I soldati intorno sbadigliavano e si ungevano i baffi.
- Il
Conte scosse ancora il capo e disse:
- “Io
sono il Conte e conto per tre/E se la Maschera non l’ho mai
vista/Vuol dire che di Maschere non ce n'è”.
- A
quelle parole i soldati sempre sbadigliando presero i fucili e a passo
lento caricarono i contadini a baionetta in canna, finché non
sgombrarono il cortile.
- Tornati
sulla piazza, scoraggiati, i contadini non sapevano più cosa fare. Ma
il più vecchio, quello che aveva parlato al Conte, disse: ‑ Qui
bisogna mandare a chiamare Masino!
- Così
si misero a scrivere una lettera a Masino e la mandarono in Africa. E
una sera, mentre erano raccolti come al solito attorno al falò della
piazza, Masino ritornò. Figuratevi le feste, gli abbracci, le
marmitte di vino caldo con le spezie! E ‑ Dove sei stato!
‑ e ‑ Cos'hai
visto? ‑ e ‑ Sapessi quanto siamo
disgraziati!
- Masino
prima li lasciò raccontare loro, poi si mise a raccontare lui:
‑ Nell'Africa ho visto cannibali che non potendo mangiare uomini
mangiavano cicale, nel deserto ho visto un pazzo che per scavare acqua
s'era fatto crescere le unghie dodici metri, nel mare ho visto un
pesce con una scarpa e una pantofola che voleva essere re degli altri
pesci perché nessun altro pesce aveva scarpe né pantofole, in
Sicilia ho visto una donna che aveva settanta figli e una pentola
sola, a Napoli ho visto gente che camminava stando ferma perché le
chiacchiere degli altri la spingeva avanti; ho visto chi la vuol nera,
ho visto chi la vuol bianca, ho visto chi pesa un quintale, e chi è
grosso come una scaglia, ho visto tanti che hanno paura, ma mai come a
Pocapaglia.
- I
contadini chinarono il capo, pieni di vergogna, perché Masino
trattandoli da paurosi, li aveva toccati nel punto debole. Ma Masino
non voleva prendersela con i suoi compaesani. Si fece raccontare tutti
i particolari della storia della Maschera e poi disse: ‑ Adesso
faccio tre domande e dopo, suonata la mezzanotte, andrò a prendervi
la Maschera e ve la porterò qui.
- ‑
Domanda! Domanda! ‑ dissero tutti.
- ‑
La prima domanda è al barbiere. Quanti sono venuti da te questo mese?
- E
il barbiere rispose:
- “Barbe
lunghe e barbe corte,/Barbe molli e barbe storte,/Capelli ricci e
capelli brutti,/Le mie forbici li han tagliati tutti”.
- ‑
E ora a te, ciabattino, quanti ti hanno portato gli zoccoli da
aggiustare, questo mese?
- ‑
Ahimè, ‑ disse il ciabattino,
- “Facevo
zoccoli di legno e cuoio,/Ben ribattuti chiodo per chiodo,/Facevo
scarpe di seta e serpente,/Ma ora non han soldi e non mi fan far più
niente”.
- ‑
Terza domanda a te, cordaio: quante corde hai venduto in questo mese?
- E
il cordaio:
- “Corde
ritorte, corde filate,/Corde di paglia a strisce e intrecciate,/Corde
da pozzo, di vimini e spago,/Grosse un braccio, sottili un ago,/Forti
di ferro, molli di strutto,/In questo mese ho venduto tutto”.
- ‑
Basta così, ‑ disse Masino, e si coricò accanto al fuoco.
‑ Adesso dormo due ore perché sono stanco. A mezzanotte
svegliatemi, e andrò a prendere la Maschera. Si copri la faccia col
cappello e s'addormentò.
- I
contadini stettero zitti fino a mezzanotte, trattenendo perfino il
respiro per paura di svegliarlo. A mezzanotte Masino si riscosse,
sbadigliò, bevve una tazza di vino caldo, sputò tre volte nel fuoco,
s'alzò senza guardare nessuno di quelli che gli stavano intorno, e
prese per la via del bosco.
- I
contadini rimasero ad aspettare, guardando il fuoco che diventava
brace, e la brace che diventava cenere, e la cenere che diventava
nera, fino a quando non tornò Masino. E chi si portava dietro Masino,
tirandolo per la barba? Il Conte, il Conte che piangeva, tirava calci,
chiedeva pietà.
- ‑
Ecco la Maschera! ‑ gridò Masino. E poi subito: ‑ Dove
l'avete messo il vino caldo?
- Il
Conte, sotto gli occhi sgranati di tutti i paesani, cercò di farsi più
piccolo che poteva, si sedette per terra tutto rannicchiato come una
mosca che ha freddo.
- ‑
Non poteva essere uno di voi, ‑ spiegò Masino, ‑perché
siete andati tutti dal barbiere e non avete pelo da perdere nei
cespugli; e poi c'erano quelle impronte di scarpe grosse e pesanti
mentre voi andate scalzi. E non poteva essere uno spirito perché non
avrebbe avuto bisogno di comprare tante corde per legare le bestie
rubate e portarle via. Ma dov'è questo vino caldo?
- Il
Conte, tutto tremante, cercava di nascondersi nella barba che Masino
gli aveva arruffato e strappato per tirarlo fuori dai cespugli.
- ‑
E come mai ci tramortiva con lo sguardo? ‑ domandò un
contadino.
- ‑
Vi dava una legnata in testa con un bastone coperto di stracci, così
sentivate solo un soffio per aria, non vi lasciava il segno, e vi
svegliavate con la testa pesante.
- ‑
E le forcine che perdeva? ‑ domandò un altro.
- ‑
Gli servivano per legarsi la barba sulla testa, come i capelli delle
donne.
- I
contadini erano stati a sentire in silenzio, ma quando Masino disse:
‑ E adesso, cosa volete farne? ‑ scoppiò una tempesta di
grida: ‑ Lo bruciamo! Lo peliamo! Lo leghiamo a un palo da
spaventapasseri! Lo chiudiamo in una botte e lo facciamo rotolare! Lo
mettiamo in un sacco con sei gatti e sei cani!
- ‑
Pietà! ‑ diceva il Conte con un fil di voce.
- ‑
Fate così, ‑ dice Masino, ‑ vi restituirà le bestie e vi
pulirà le stalle. E visto che gli è piaciuto andar di notte nei
boschi, sia condannato a continuare ad andarci tutte le notti, a far
fascine per voialtri. E dite ai bambini che non raccolgano mai le
forcine che troveranno per terra, perché sono quelle della Maschera
Micillina, che non riuscirà più a tenersi in ordine i capelli e la
barba.
- E
così fu fatto. Poi Masino parti per il giro del mondo, e lungo il
giro gli capitò di fare una guerra dopo l'altra, tutte così lunghe
che ne venne il proverbio:
- “O
soldatin di guerra,/Mangi mal, dormi per terra,/Metti la polvere nei
cannon,/Bim Bon!”
|
|