Un noto medico
castellammarese, avendo la propria moglie ammalata, girava attorno al letto
della degente, pensieroso, tenendosi la testa tra le mani. Ad un certo punto,
per dare anche soddisfazione ai familiari, dimentico della propria professione,
esclamò: “’Cca ci vulissi un mericu” (Qua ci vorrebbe un medico).
Negli
anni trenta i fratelli “Giannulotti” in compagnia di “Purpiteddu maiulinu”,
di Peppe Arragghianu e di Minicu Salerno fecero una scampagnata nelle vicinanze
della stazione ferroviaria di Castellammare. Era estate: quindi periodo di
fichidindia. Uno dei fratelli Giannulotti era ghiotto di fichidindia e ne
approfittò per farne una scorpacciata non curandosi degli effetti che ne
sarebbero derivati. Dopo avere fatto colazione andarono a fare il bagno nella
vicina spiaggia di Alcamo Marina. Uno dei fratelli Giannulotti si sentì male. I
fichidindia nello stomaco ribollivano ma stentavano ad uscire in quanto i semini
avevano “attuppato” (ostruito) il condotto naturale di sfogo. Gli amici si
prodigarono prontamente a soccorrere il malcapitato con rimedi naturali; infatti
secondo la medicina tradizionale popolare si deve ingerire pomodoro acerbo
oppure uva acerba per provocare lo svuotamento dell’intestino. Il malcapitato
avendo ingerito tutto quel ben di Dio di materiale purgante,
accusava dolori sempre più lancinanti. Stimolato ancora una volta dal
bisogno di evacuare corse sotto un ponticello della strada ferrata che ancora
oggi costeggia la strada che porta ad Alcamo Marina, nel tentativo di liberarsi.
Mentre era accovacciato sotto il ponte, gli amici, che stavano sulla strada,
videro avvicinarsi delle signorine in bicicletta; allarmatissimi gridarono al
malcapitato: “Ammucciati, nun ti fari viriri di li signorine chi stanno
passannu. (Nasconditi, non farti vedere dalle signorine che stanno per
sopraggiungere)”. Il Giannulotto che era assillato da dolori atroci gridò:
“Mi ’nni futtu di li signorini. Eu
staiu murennu”. Gli
amici preoccupati delle condizioni del compagno, lo presero e lo posero sul
dorso di un asino per portarlo a casa. Arrivati a casa lo adagiarono sul letto
matrimoniale dei genitori, posto, come era d’uso allora, nell’alcova. I
genitori del giovane erano assenti. I compagni improvvisatisi infermieri presero
una forchetta e cominciarono a tirargli fuori dall’ano i semi che lo
tappavano. Dopo ripetuti tentativi, finalmente riuscirono a togliere il tappo,
però diedero la stura ad un “geiser”. Il materiale accumulatosi nello
stomaco, pressurizzato dai gas sviluppatisi, schizzò sulle facce degli amici e
sulle pareti dell’alcova in maniera così repentina che nessuno ne uscì
indenne.
Il
ben noto Castrenze Navarra, insigne poeta castellammarese , ai tempi del
fascismo non condivideva le idee di quel regime, motivo per cui era
continuamente tenuto sotto osservazione. Una domenica, ai Quattro Canti, luogo
di riunione e di passeggiate della popolazione, il Navarra espresse qualche suo
pensiero poco gradevole nei confronti del Duce. Il suo detto fu riferito al
Podestà e subito dopo fu avvicinato da persone della Casa del Fascio, che si
trovava nelle vicinanze, e fu invitato a recarsi presso tale luogo per bere il
consueto bicchiere di olio di ricino offerto gratuitamente agli oppositori del
regime, in modo da far loro schiarire le idee. Quel giorno il Navarra aveva
mangiato della salsiccia, che non era di tutti i giorni mangiarne, al che il
“don Castrenze” - così veniva comunemente chiamato – supplicò gli
emissari del Podestà affinchè gli permettessero di digerire la salsiccia
mangiata e che comunque sarebbe andato l’indomani mattina presso la Casa del
Fascio a tracannare l’olio di ricino. Il
Podestà acconsentì e l’indomani mattina “Don Castrenze” si recò alla
Casa del Fascio, ringraziò il Podestà per la cortesia accordatagli e tracannò
l’olio senza fiatare
Una
figura conosciutissima a Castellammare del Golfo è stata Pietro Galatioto, di
professione stagnino. Era un soggetto allegro, spassoso, purtroppo muto, ma non
del tutto: “Mutangaru” diciamo noi. Riusciva però a farsi capire abbastanza
bene. Camminava in lambretta e si recava spesso nella vicina Alcamo per
acquistare dei vetri. Per cautelarsi dal freddo mentre andava in lambretta aveva
l’abitudine di indossare la giacca con l’apertura abbottonata sul dietro.
Una mattina mentre si recava ad Alcamo cercò di superare la corriera
dell’autoservizio Tarantola sulla strada di “Li scampati”. Per una manovra
dell’autista del pullman, la lambretta fu spinta fuori strada ed il Galatioto
finì sul ciglio stradale. I passeggeri, scesi dalla corriera, si
premurarono di soccorrere il Galatioto e, vistolo con la giacca
abbottonata sulla spalla, cercavano di girargli la testa credendo che gli si
fosse spostata a causa della caduta. Il Galatioto, sotto gli sforzi dei
soccorritori, gridava: “La tetta no. La tetta no” (La testa no). Voleva dire
che non era la testa girata, bensì la giacca.
Sempre
il Pietro Galatioto, che di professione era stagnino, quando andava a saldare la
cassa di zinco in casa di qualche defunto si sedeva accanto al vetturino della
carrozza mortuaria. Dovendosi recare nella vicina frazione di Balata di Baida
per adempiere all’incarico affidatogli, si e’ seduto accanto al vetturino.
Strada facendo, avendo cominciato a piovere, per non bagnarsi ha creduto
opportuno scendere dal postiglione e mettersi dentro la bara. Un uomo, che a
piedi doveva recarsi a Balata di Baida, vedendo arrivare il carro funebre, lo ha
fermato ed ha chiesto un passaggio. Il cocchiere, di cuore tenero, ha
acconsentito che il passeggero salisse sul carro e si mettesse vicino alla bara.
Dopo circa un’ora di strada il Galatioto che riposava all’interno della
bara, ha creduto opportuno sollevare il coperchio della bara per vedere se
avesse smesso di piovere. Il malcapitato passeggero vedendo alzare il coperchio
della bara, spaventatissimo si è messo a gridare, a buon ragione, credendo che
il morto fosse risuscitato.
Personaggio
caratteristico a Castellammare negli anni cinquanta è stato Minico Salerno. Un
bonaccione tuttofare. Essendoci l’usanza di fare l’Altare di San Giuseppe
per sciogliere un voto, si invitavano tre poveri per rappresentare San Giuseppe,
la Madonna ed il Bambinello. Per fare un San Giuseppe fu invitato Minico Salerno
il quale accettò subito. L’organizzatore diede tutte le istruzione su quello
che doveva fare e sulle “parti” che doveva recitare. Minico appena apprese
che c’era da andare a messa, confessarsi e comunicarsi si rifiutò. Avrebbe
accettato solo se lo avessero esonerato da questa incombenza. La famiglia di
Minico viveva nella più squallida miseria e quando questi si rifiutò di
impersonare San Giuseppe, sol perché non voleva andare a messa, vistasi sfumare
l’occasione di potere sfamare l’intera famiglia con i “cucciddati” (pane
rotondo duro, di grande formato, che si offre a San Giuseppe), lo convinsero a
fare il sacrificio solo per quella volta. La domenica stabilita, Minico, vestito
da San Giuseppe, andò in chiesa tenendo per mano il fanciullo che rappresentava
il Bambino Gesù e la ragazzina che rappresentava la Madonna. All’uscita dalla
chiesa doveva recitare le parti. Minico,
a questo punto doveva bussare alla porta di alcune famiglie e alla domanda:
“Cu è?” (Chi è?), doveva rispondere, come da copione, “San Giuseppe, lu
Bamminu e la Maronna ( San Giuseppe, il Bambinello e la Madonna) invece rispose
prontamente: “Minicu Salernu cu du picciriddi”. (Domenico Salerno con due
ragazzini). Rimproverato e minacciato dall’organizzatore per non avere
recitato la parte come da istruzione, Minico ritornò a bussare alla seconda
porta e alla domanda: “Cu è?” rispose:
“Semu tri poviri pillirini ‘ncerca di lucanna” (Siamo tre poveri
pellegrini in cerca di una locanda) al che venne risposto: “Nun c’è locu né
lucanna, vaitivinni a ’nnata banna” (Non c’è luogo né locanda, andate in
un altro posto). Minico fu costretto a bussare ad un’altra porta e dopo avere
avuto la solita risposta di rito, sentendosi dire: “Nun c’è locu né
lucana, vaitivinni a ’nnata banna” rispose per le rime: “’U sapia chi
m’avia a diri accussì” (Lo sapevo che mi doveva dire così). Trovato
finalmente il luogo dell’ospitalità, (sarebbe la casa dove c’è l’altare
con le pietanze per fare sfamare la famiglia), il Bambinello doveva essere
sottratto a San Giuseppe per figurare il ritrovamento nel tempio. Mentre Gesù
veniva cercato, Minico che aveva fame, andava bofonchiando: “Giustu ora s’avia
a perdiri?” (Giusto ora Gesù doveva perdersi?). Finalmente, quando Gesù
venne ritrovato al tempio, Minico lo prese per mano e gli disse: “Gran figghiu
di… giustu ora chi aviamu a manciari t’avivi a perdiri?” (Gran figlio
di… giusto ora che dovevamo mangiare tu dovevi perderti?) Terminato il pranzo
luculliano, Minico, alquanto brillo, doveva fare ritorno a casa. Venne fatto
alzare e questi si avvicinò alla porta che dava su di un balcone privo di
inferriata, tentando di uscire. I proprietari spaventati afferrarono per mano
Minico (San Giuseppe) cercando di riportarlo sulle scale dicendogli che non era
quella l’uscita, al che, Minico, alquanto alticcio rispose: “San Giuseppi
nesci di dunni voli iddu e si nni f… si nun ci sunnu li ferri” (San Giuseppe esce da
dove vuole lui e se ne infischia se non c’è l’inferriata nel balcone.)
Tano
Pirrello, ciabattino castellammarese, era, come Don Castrenze Navarra, un
energico oppositore del regime fascista ed anche lui veniva tenuto sotto
costante sorveglianza. Un giorno, il Pirrello dopo avere visto la foto di
Mussolini stampata sul giornale, si permise di sputare sulla foto. Gli emissari
del Podestà riferirono l’accaduto e fu ordinato immediatamente che il
Pirrello fosse accompagnato presso la vicina farmacia del Dr. Fundarò e che gli
fosse somministrata la solita razione di olio di ricino. Quando il farmacista
porse il bicchiere con il quarto di litro di olio al Pirrello, questi esclamò:
Non accetto questo privilegio, me ne avete dato sempre mezzo litro ed ora me ne
volete dare un misero quartino? Non sia mai. O mezzo litro o niente!”
Tale
Leonardo Adragna, clarinettista nella banda musicale di Castellammare era anche
lui un energico oppositore del regime fascista. L’Adragna dava lezioni di
musica ad altri ragazzi e tra questi c’era il ragazzino Nicolò Lentini.
Durante il regime fascista la banda musicale girava per le vie della cittadina
suonando gli inni del regime. Una domenica nell’abituale giro della banda per
le vie cittadine, la banda suonava “Faccetta Nera”.
L’Adragna aveva corretto gli spartiti ed aveva inserito l’inno
“Avanti Popolo” al posto di “Faccetta Nera”. La stessa correzione aveva
fatto allo spartito del ragazzo Lentini, pertanto, mentre la banda suonava
“Faccetta Nera”, l’Adragna e l’allievo Lentini (ligio quest’ultimo
agli ordini del suo maestro) suonavano “Avanti Popolo”. Dopo avere ultimato
il giro per le vie del paese, l’Adragna ed il Lentini furono invitati a
presentarsi immediatamente presso la Casa del Fascio.
Il
ragazzino fu interrogato per primo ed il Podestà ha voluto sapere perché
avesse suonato l’inno “Avanti Popolo” anzichè
“Faccetta Nera”. Il ragazzino rispose con tutto il suo candore:
“Mastru Nardu mi rissi di sunari accussì” (il signor Adragna mi ha detto di
suonare così). Il Podestà si limitò a dare uno scappellotto al ragazzino,
mentre non fu così tenero con “Nardu Adragna”. A questi fece somministrare
mezzo litro di olio di ricino e gli vietò l’uso del gabinetto. A quel tempo
non esistevano i gabinetti pubblici, motivo per cui il malcapitato Adragna ha
dovuto fare di corsa la strada dalla Casa del Fascio a la “Testa di la cursa”,
dove abitava, lasciando per terra, strada facendo, la brodaglia delle
feci che gli fuoriuscivano dai pantaloni
Il
dottore Mancino, medico castellammarese di origine marinara, durante la sua
fanciullezza, come del resto tutti gli altri coetanei, giornalmente a tavola
trovava una fetta di pane ed un pezzetto di sarda salata. A turno tutta la
famiglia strofinava il pezzetto di pane sulla sarda e questo era il pranzo. La
pasta si cuoceva in occasione delle grandi feste.
Quando
i tempi cambiarono e la pasta si cominciò a cuocere tutti i giorni, il piccolo
Mancino rivolgendosi alla mamma ha esclamato: “Mà, mà, ora ricchi semu?”
(Mamma. Mamma, ora ricchi siamo?)
Pietro
Gioia, noto marmista castellammarese aveva un cuore grande come il mare, ma
quanto grande era il suo cuore tanto nervoso era il suo carattere. Nel suo
laboratorio di marmista teneva su di una parete un altarino in marmo ed un
quadro di San Giuseppe, sebbene fosse poco credente. Solo due ragazzi sono
riusciti ad imparare l’arte completa presso il suo laboratorio poi non ha
voluto mai più avere persone alle sue dipendenze. Un
giorno, mentre lavorava su di una lastra di marmo gli è saltato il martello
dalle mani ed ha rotto la lastra. Accecato dalla rabbia, prese il martello e lo
scagliò contro il quadro di San Giuseppe, frantumandolo. Dopo qualche minuto,
sbollentata la rabbia, si recò dal fratello Francesco che faceva il bottaio
poco più avanti del suo laboratorio e pregò uno dei lavoranti di andargli a
comprare dei lumini. Fatto alquanto strano per quel giovane ricevere una
richiesta in tal senso da “Mastru Pitrinu”. Senza obiettare, però, andò a
comprare i lumini e glieli portò. Incuriosito dal fatto insolito, il ragazzo
rimase dietro la porta del laboratorio per vedere cosa ne facesse “Mastru
Pitrinu” dei lumini. Grande meraviglia quando si accorse che “Mastru Pitrinu”
aveva acceso i lumini sull’altarino di San Giuseppe e stava rimettendo a nuovo
il quadro.
Tale
Peppe Scimmia, abitante a Balata di Baida aveva la moglie ammalata di cancro ed
in fin di vita. L’ammalata era accudita dalle sorelle e daifratelli oltre che
dal marito. Il marito in presenza dei cognati piangeva e si disperava dicendo di
voler morire assieme alla moglie e non voleva più mangiare. Questa manfrina durò
per circa un mese, tanto da fare insospettire i cognati anche perché ogni
mattina scendeva in paese e nel pomeriggio rientrava. Una mattina, il fratello
della moribonda, non visto, seguì il cognato in paese per accertasi come
quest’uomo potesse resistere al digiuno senza presentare segni di sofferenza.
Arrivato in paese il Peppe Scimmia si recò presso il forno della Mutola la
quale gestiva anche una trattoria. Appena entrato ordinò il solito chilo di
pane, due uova strapazzate e mezzo litro di vino. Soddisfatto salì sul mulo e
ritornò al capezzale della moglie. Il cognato che l’aveva seguito, appena il
marito finì di sfogarsi col pianto, lo prese per il bavero e portatolo dinanzi
alla moribonda disse: “Lu teatru stasera è chiusu e nun grapi cchiù, Dumani,
lu pani cu li dui ova e lu vinu ti li manci ccu tò mugghieri vasinnò ti fazzu
moriri veramenti” (Il teatro questa sera è chiuso e non apre più. Domani, il
pane con le due uova ed l vino te li mangi assieme a tua moglie altrimenti ti
faccio morire veramente).
Prima
che venisse costruita la strada comunale che da Balata va al Castello di Baida,
tutti gli insegnanti elementari che facevano scuola a Li Visicari erano
costretti a prendere la corriera che faceva servizio da Castellammare a Trapani,
scendendo a Balata di Baida. Lì a dorso di mulo venivano accompagnati da uno
della famiglia degli Stabile, soprannominati “Armaleddi”, alla scuola di Li
Visicari. Un giorno c’era a cavallo del mulo l’insegnante M. R. Lungo la
trazzera un contadino incontrando l’Armaleddu gli chiese: “Cumpari, soccu
stai facennu?”. Questi rispose con piena disinvoltura: “Carriu fumeri!”
(Trasporto concime).
Tale
Vito P. contadino castellammarese andava spesso ad Alcamo per motivi di lavoro.
Allora le classi meno abbienti, fuori dal centro abitato, camminavano scalzi.
Portavano le calzature legate e poste a tracolla sulle spalle. Ciò per
risparmiarle dall’usura.
Un
giorno Vito, al ritorno da Alcamo, incontrò uno che vendeva pesci e comprò
delle sarde. Non sapendo come si cucinassero chiese al “riattere”
(pescivendolo) come cucinarle. Il pescivendolo avendo “lu cocciu di littra”
gli scarabocchiò su di un foglio di carta le istruzioni necessarie per cucinare
il pesce. Vito mise dentro la tasca dei pantaloni il foglio di carta con la
ricetta, mentre pose il cartoccio contenente le sarde dentro la “coffa”
(tipo di sacco fatto di corda vegetale intrecciata) e toltesi dai piedi le
scarpe le mise a tracolla, incamminandosi verso Castellammare. Arrivato alle
porte di Castellammare depose a terra la “coffa” per calzare le scarpe. Un
gatto attirato dall’odore del pesce si avvicinò alla “coffa”
e di soppiatto afferrò il cartoccio con i pesci e fuggì. Vito accortosi
della ruberia del micio gridò: “Ammatula chi scappi cu li sardi. Pirtantu nun
ti li poi manciari. La ricetta ci l’haiu cca nta la sacchetta.” (E’
inutile che fuggi con le sarde. Tanto non le potrai mangiare. La ricetta per
cucinarle la tengo io in tasca.)
Bernardo
Mattarella noto fabbro castellammarese, tanto bravo professionalmente quanto
nervoso è di carattere, aveva nella sua officina un flex per il taglio dei
metalli. Un giorno, utilizzando questo attrezzo, ha percepito delle scariche
elettriche alle mani. Allarmato chiamò subito un elettrotecnico per controllare
l’apparecchio e la linea elettrica onde accertare eventuali anomalie.
Il
tecnico recatosi sul posto controllò sia l’apparecchio che l’impianto
elettrico ma trovò tutto funzionante. Bernardo, confortato dalle parole del
tecnico ritornò a lavorare con l’apparecchio senza rilevare alcun problema.
Dopo circa un mese, pur lavorando abitualmente con il flex senza accusare
guasti, ritornò a prendere la scossa. Allarmatissimo chiamò nuovamente il
tecnico. Questi, pazientemente, ritornò a controllare sia la linea che
l’apparecchio ma di guasto nemmeno l’ombra. Bernardo nuovamente rassicurato,
ritornò a lavorare tranquillamente. Dopo altro tempo ritornò di nuovo a
prendere la scossa mentre lavorava con l’apparecchio. Nuova chiamata del
tecnico, nuovi controlli ma di guasto, ancora una volta, nemmeno l’ombra.
Queste scariche elettriche si verificarono parecchie volte e mai fu trovato un
guasto all’apparecchio o all’impianto elettrico. Bernardo prese la scossa
per l’ennesima volta. Montato su tutte le furie prese dalla parete un quadro
di San Giuseppe e postolo sull’incudine lo ridusse in poltiglia. Da allora il
flex ha funzionato a meraviglia e non ha procurato più scossa alcuna.
A distanza di tempo il proprietario di un locale oleificio prese la scarica elettrica toccando una macchina del frantoio. Chiamò il tecnico che in precedenza era stato da Mattarella e gli chiese di revisionare sia la macchina che l’impianto elettrico onde evitare che gli avventori dell’oleificio rimanessero fulminati. Il tecnico che è un gran figlio di …, visto l’agitazione del proprietario gli disse: “Il tecnico competente per questi tipi di guasti è il fabbro Bernardo Mattarella. Il proprietario senza rifletterci su, corse a chiamare il fabbro, il quale nel frattempo era stato avvisato telefonicamente dal tecnico. Il fabbro accorse immediatamente e dopo essersi fatto spiegare cosa fosse successo, con tono serio e cattedratico disse al proprietario dell’oleificio: “Lei ha un quadro di San Giuseppe? Possiede una mazza? Ha una “ancunia” (incudine)?”. Il proprietario rispose che non possedeva né quadro, né incudine né mazza. Il fabbro sempre serio rispose: “L’ancunia gliela presto io e lo stesso dicasi per la mazza.” Il proprietario assicurato della reperibilità degli attrezzi pregò un avventore di accompagnarlo a comprare un quadro di San Giuseppe. Prima di uscire però, dubbioso chiese: “Ma che cosa ci faremo con questo quadro?”. Mattarella sempre serio rispose: “Lo metteremo sull’”ancunia” perché solo così potremo risolvere il guasto delle scosse elettriche”. A questo punto il proprietario dell’oleificio, da agitato che era, cominciò a rotolarsi per terra come preso da convulsioni per il troppo ridere, seguito dagli avventori che resisi conto della burla, si sbellicavano dalle risate copiosamente.
Vito
C. nel 1948 è andato a prestare il servizio di leva a Torino. Racimolato quel
poco di denaro che aveva, per sopperire alle piccole spese che doveva affrontare
per raggiungere Torino, si mise sul treno e partì. Dopo un estenuante viaggio,
avendo esaurito il cibo che la madre gli aveva preparato, cominciò a sentire
crampi allo stomaco dovuti alla fame. Fece i conti di quanto gli era rimasto in
tasca. Tenuto conto che disponeva di duecento lire, messo piede a terra, uscito
dalla stazione ferroviaria di Torino, si avviò verso un Hotel Ristorante con
l’intenzione di rimpinzarsi prima di
andare in caserma. Il portiere dell’albergo vistolo entrare gli chiese:
“Desidera una stanza?”. Vito rispose: ”Desidero solamente mangiare”. Il
portiere fece accomodare Vito nella sala ristorante ed il cameriere si premurò
di sottoporgli la lista con i vari menu. Vito, prima di entrare aveva dato
un’occhiata ai prezzi esposti nella bacheca. Aveva fatto il conto mentalmente
di quello che poteva mangiare secondo la propria disponibilità. Sedutosi
comodamente a tavola ordinò un piatto di pasticcio di lasagne, un secondo a
base di carne, un dolce e la
frutta. Terminato il pranzo chiese il conto. Quando arrivò il cameriere, la
faccia di Vito diventò verde, e poi gialla, e poi rossa. Credendo che si fosse
trattato di un errore del cameriere fece rifare il conto.
Primo
piatto
£. 80
Secondo patto
£. 190
Dolce
£. 95
Frutta
£.
25
Totale
£. 390
Il totale era di lire 390. E no, ribatté Vito ed invitò il cameriere ad uscire fuori per leggere quello che c’era scritto nella bacheca. Il cameriere seguì Vito e questi, sicuro di sé ribatté: “Ecco dove sta l’errore! Dall’importo che mi avete presentato avete dimenticato di detrarre £. 250”. Il cameriere sbigottito chiese: “Perché devo detrarre 250 lire?”. E Vito: “Lei sa leggere? Qui come fa? Menu lire 250. Al mio paese menu vuol dire meno, quindi lei deve detrarre dalle 390 lire le 250 lire”. Il cameriere resosi conto che il giovane non aveva capito il significato della parola menu, lo invitò a pagare subito l’importo di 390 lire. Vito sbiancò in volto e confessò che in tasca aveva solamente 200 lire. A questo punto è dovuto intervenire il Direttore dell’Hotel il quale, per evitare che Vito fosse denunziato, accettò che per una settimana Vito lavasse i piatti. Fortuna per Vito che allora non esistevano ancora le lavastoviglie!