COLOMBIA
L’ULTIMO INGANNO |
PARTE SECONDA
LA BORGHESIA DELLA COCA: LA
GUERRA SPORCA DEL PARAMILITARISMO
In campo contro la ‘narco-guerriglia’.
“Dobbiamo appoggiare il governo colombiano
mentre tenta di ristabilire il controllo sulle regioni produttrici di droga. La
minaccia è amplificata dal crescente legame tra narcotrafficanti, unità della
guerriglia e paramilitari. Questi gruppi criminali controllano il 40% del
territorio colombiano e usano il traffico di droga, il sequestro, le rapine in
banca per finanziare le loro attività terroristiche contro la popolazione
civile”. Il generale Berry McCaffrey, nella sua audizione di fronte al
Congresso, ha voluto enfatizzare “gli enormi profitti” del traffico della droga
che finirebbero nelle mani della denominata ‘narco-guerriglia’. Citando non
meglio identificati ‘esperti della difesa colombiani’, lo zar anti-droga ha
affermato che i due maggiori gruppi insorgenti (le Farc e l’Eln)
guadagnerebbero “oltre il 50% dei loro
profitti dal loro coinvolgimento nel traffico di droga”, cioè un valore
stimato “da un minimo di 100 milioni di
dollari ad un massimo di 500 milioni”[1].
A dimostrazione che si è di fronte ad una vera e propria
campagna di disinformazione per impressionare l’opinione pubblica statunitense
ed ottenere il consenso al vasto programma di aiuti militari, basta comparare i
dati forniti dal generale McCaffrey con quelli in possesso dell’ex
sottosegretario di Stato Thomas Pickering. Presentando ufficialmente il ‘Plan
Colombia’, Pickering ha dichiarato che “i
proventi della guerriglia dal traffico di droga ed altre attività illecite,
come rapimenti ed estorsioni, eccedono sicuramente i 100 milioni di dollari
all’anno; di essi, stimiamo che il 30-40% provengano direttamente dal traffico
di droga”. Anche se Pickering ridimensiona di quasi quattro volte il valore
degli ‘affari della narco-guerriglia’, non nasconde come la crociata Usa
“contro la droga” sia in realtà finalizzata a contrastarne le operazioni
politico-militari: “le organizzazioni
della guerriglia in Colombia dipendono, proteggono e forse partecipano e
tassano il traffico e la produzione di droga in aree che sono sotto il loro
controllo. E gli sforzi contro la droga, in questo senso, inevitabilmente
colpiscono le organizzazioni della guerriglia. L’asse centrale della politica
americana è lavorare insieme alla Colombia per combattere contro i trafficanti
di droga. Questo, inevitabilmente colpirà alcune delle organizzazioni della
guerriglia”[2].
Il rapporto tra le organizzazioni
insorgenti rivoluzionarie e la coltivazione della coca è stato sicuramente
contraddittorio e non sono mancate ambiguità e possibili ‘degenerazioni
ideologiche’. Alcune unità guerrigliere hanno gestito e continuano a gestire
direttamente laboratori di trasformazione e le piste d’atterraggio clandestine
per il traffico di cocaina; narcotrafficanti e cartelli hanno stabilito
contatti e alleanze con gruppi e movimenti insorgenti. A metà degli anni '70,
il trafficante colombiano Jaime Guillot Lara, esportava marihuana agli Stati
Uniti dalla città atlantica di Barranquilla, ed introduceva illegalmente nel
paese carichi di armi per il gruppo guerrigliero M-19, via Cuba.
Il ricercatore statunitense Rensselaer Lee,
autore di un saggio sull’industria della cocaina nella regione andina, cita
l’esempio del narcotrafficante Carlos Leheder, che nonostante avesse sposato
l’ideologia dell’ultradestra nazionalista e sostenuto apertamente i tentativi
paragolpisti del generale Landazabal Reyes (ex ministro della difesa destituito
nell’84 dal presidente Betancur per la sua opposizione ad ogni tentativo di
conciliazione con la guerriglia), avrebbe mantenuto relazioni con due
organizzazioni rivoluzionarie, l’M-19 e il ‘Movimiento indigenista Quintín
Lame’. Leheder, in occasione delle elezioni presidenziali dell’86, avrebbe appoggiato
il candidato di Unión Patriótica Jaime Pardo Leal, strenuo oppositore del
trattato di estradizione con gli Stati Uniti. Il narcotrafficante, secondo
fonti giornalistiche che non hanno trovato ancora conferme giudiziarie, avrebbe
contribuito al finanziamento dell’attacco guerrigliero al Palazzo di giustizia
di Bogotá nel novembre ’85, conclusosi con il massacro da parte delle forze
dell’esercito di numerosi ostaggi, tra cui undici membri della Corte Suprema
colombiana[3].
Nonostante il suo esasperato anticomunismo e
i suoi vincoli con importanti esponenti liberali e conservatori, Rodríguez
Gacha, uno dei maggiori trafficanti di stupefacenti colombiani degli anni ’80,
mantenne una “relazione funzionale” con Jacobo Arenas, riconosciuto come il
maggiore ideologo delle Farc. Grazie a questo rapporto, i proprietari delle
coltivazioni pagavano una quota per ogni tonnellata di foglie di coca e per
ogni chilo di pasta processata. In cambio la guerriglia svolgeva il servizo di
vigilanza alle coltivazioni. La relazione tra Rodríguez Gacha ed Arenas si
interruppe qualche anno più tardi quando il narcotrafficante propose la
costruzione di una pista d'atterraggio nei pressi di La Uribe, nel Meta, dove
si trovava il quartier generale delle Farc. Arenas respinse l’accordo per la
preoccupazione che la pista si convertisse in un'area di incursione dei
militari contro la guerriglia[4].
Queste vicende, certamente deprecabili, non
possono peró essere astratte dal contesto e dall’intensità della ‘guerra
sporca’ colombiana che non permetteva alla guerriglia il ricorso ad altre
attività ‘lecite’ per ottenere le risorse necessarie a continuare il conflitto
contro lo Stato e le organizzazioni paramilitari. Nella maggior parte dei casi
poi, il rapporto con i coltivatori ed i grossisti di coca si è limitato alla
tassazione di un’‘imposta di guerra’ in aree dove i gruppi insorgenti
svolgevano funzioni istituzionali (gestione dell’ordine pubblico e difesa dei
campesinos, intervento sociale, ecc.). La cosiddetta ‘connesione finanziaria’
con il mercato della droga inoltre, è stata maggiormente evidente nelle fasi
iniziali del mercato (coltivazione e processamento iniziale) che nelle tappe
successive dove i profitti si fanno maggiori (raffinamento ed esportazione).
Come ha spiegato Alvaro Camacho Guizado, docente presso la ‘Universidad del
Valle’ di Cali, “ci sono certamente
alcune basi obiettive nel rapporto tra la guerriglia e la produzione di coca,
ma esse non si prestano necessariamente per ipotizzare una comunanza di
interessi politici, o una strategia comune di lungo periodo per lo
smantellamento delle istituzioni statali”[5].
Dello stesso avviso sono gli studiosi del
Centro di documentazione ‘Giuseppe Impastato’ di Palermo, che riconoscono la
ricerca di un’“alleanza strategica” esclusivamente tra la guerriglia e i
contadini produttori, mentre “con gli
altri soggetti (intermediari e narcos), può parlarsi di un’alleanza funzionale
o tattica, temporanea e soggetta a bruschi cambiamenti”. Le differenze
ideologiche si evidenziano particolarmente
nel momento in cui la grande industria della cocaina mostra il suo volto di forza politica
conservatrice. “Gli interessi dei
guerriglieri – spiega il Centro di documentazione - sono diversi da quelli dei narcotrafficanti, anzi in contrapposizione,
e la vicenda dei gruppi paramilitari lo dimostra. (…) I narcos per un certo periodo hanno avuto un rapporto di convivenza con
i gruppi guerriglieri, come le Farc, il Movimento 19 aprile (M-19) e l’Epl. Le
Farc nelle zone in cui operavano, praticavano una tassazione sulla coca: il 10%
degli introiti dei produttori, l’8% su quello dei rivenditori di pasta base. La
convivenza tra narcos e guerriglieri si incrina intorno al 1985: le Farc
attaccano i laboratori di raffinazione in mano ai narcotrafficanti che nel
frattempo, investendo i capitali ricavati dalle loro attività illecite, si sono
trasformati in grandi proprietari terrieri. Gran parte delle proprietà dei
narcos sono in zone controllate dalla guerriglia, pertanto lo scontro era
inevitabile”[6].
Si è altresì sottovalutato il ruolo che le
Farc hanno ricoperto a tutela dei piccoli produttori di coca di fronte allo
strapotere dei trafficanti, sia in termini di protezione di diritti sia per la
determinazione di un più equo prezzo del prodotto e di una reale
ridistribuzione dei profitti. In alcune zone si è riusciti a regolare le
proporzioni tra le aree della coca e quelle destinate alla coltivazioni di
altri prodotti, impedendo così i danni socioambientali derivanti dalla
monocoltura intensiva. Il consenso che la guerriglia ha conquistato in ampi
settori rurali non si giustifica però solo dalla protezione offerta alla
coltivazione dell’unico prodotto il cui prezzo non è stato colpito
dall’apertura neoliberale alle importazioni statunitensi. Esso nasce e si
sviluppa a seguito dell’incapacità da parte dello Stato di dare una risposta
concreta alla ingiusta distribuzione della proprietà delle terre, la causa
socioeconomica principale alla base del conflitto colombiano.
Secondo l’Incora (l’istituto colombiano che
avrebbe dovuto coordinare la riforma agraria e la ridistribuzione delle terre),
l’1,3% dei proprietari controlla il 48% delle migliori terre, mentre il 68% dei
piccoli proprietari campesini, controlla appena il 5,2% dell’area occupata[7]. Ad esso si aggiunge il peso
dell’allevamento estensivo, che invece di interessare le terre marginali, ha
progressivamente occupato i migliori suoli a vocazione agricola, riproducendo
il latifondo e i conflitti per i suoli, espellendo con la violenza decine di
migliaia di produttori e accelerando la deforestazione e il depauperamento
delle risorse idriche. La frustrazione delle aspettative campesine ha
assicurato il tessuto sociale all’espansione territoriale della guerriglia, che
approfittando a fine anni ‘70 della vasta campagna repressiva condotta dall’ex
presidente Julio César Turbay, “dimostrò
l’inefficacia delle politiche ‘riformiste’
e aumentò la sua credibilità come veicolo di organizzazione delle lotte
per una trasformazione strutturale”[8].
Le cifre dell’affare droga
Coca Papavero da oppio
Raccolte annue 4 1
Produzione per ettaro 4.000 kg 10
Produzione di
stupefacenti 5,6 kg (cocaina) 0,5 (eroina)
per ettaro
Prezzo in Colombia
1.150 Us $ / kg 11.500
Us $ / Kg
Prezzo negli Stati Uniti
25.000 Us $ / kg 250.000
Us $ / Kg
Storia e alleanze del fenomeno paramilitare
Nelle
loro descrizioni sulla produzione e il traffico di droga, i maggiori
sostenitori statunitensi del ‘Plan Colombia’ (vedi McCaffrey e Pickering)
citano solo genericamente i legami tra trafficanti di droga ed i leader
paramilitari. Eppure è in ambito paramilitare che le ricerche storiche e le
indagini dei magistrati colombiani hanno provato intrecci di tipo ‘fisiologico’
e strategico-militare con le organizzazioni che gestiscono il processamento, la
commercializzazione e l’esportazione della cocaina.
Un’ampia
letteratura ha ricostruito la nascita e lo sviluppo delle maggiori
organizzazioni paramilitari nel Paese (particolarmente nel Magdalena Medio e
nel dipartimento di Antioquia). Si è evidenziato come il paramilitarismo abbia
avuto origine dal patto strategico finalizzato ad annientare i gruppi della
guerriglia e le stesse organizzazioni della sinistra ‘legale’ e sindacale,
sottoscritto all’inizio degli anni ’80 da latifondisti e grandi allevatori
locali, leader politici dei partiti tradizionali, i boss del narcotraffco e i
settori di destra delle forze armate.
La nascita dei gruppi paramilitari coincise con un momento
particolare del conflitto politico-militare colombiano, quando all’acutizzarsi
delle azioni controinsorgenti effettuate dalle forze armate nel gennaio ‘82, le
Farc (che con il 4° Fronte si erano insediate nel Magdalena Medio sin dal ’65 e
che imponevano l'”imposta rivoluzionaria” ai dirigenti delle compagnie
petrolifere statunitensi) scelsero di aumentare le richieste estorsive e il
numero dei sequestri. La cosiddetta ‘vacuna ganadera’, tassazione estorsiva in
precedenza imposta ai grandi proprietari terrieri e agli allevatori, fu estesa
alla media-piccola proprietà. Ciò creò condizioni sempre più difficili per i
proprietari delle aziende della zona. Molti preferirono vendere o dividere i
grandi fondi, altri decisero di autorganizzarsi militarmente per opporsi alla
guerriglia. In questa situazione furono principalmente i narcotrafficanti ad
avvantaggiarsene: grazie agli ingenti capitali accumulati con la vendita della
droga, essi si lanciarono sulle regioni dove i prezzi delle terre erano
crollati in seguito alle incursioni dei gruppi armati. Questo fenomeno si
evidenziò particolarmente nel dipartimento di Antioquia e in alcune regioni
latifondiste della Costa Atlantica, del Magdalena Medio e delle pianure
orientali (Llanos Orientales), dove oltre il 60% delle terre produttive finì
nelle mani dei narcotrafficanti. Nella sola Antioquia, gli uomini dei cartelli
s’impossessarono di terre in 88 dei 124 municipi del dipartimento.
Le
classi dominanti e latifondiste non ebbero pregiudizi di sorta a stringere
alleanze con i soggetti criminali protagonisti di questo processo di
riconcentrazione della proprietà agraria. Parallelamente entrarono in gioco le
forze armate, decise ad interpretare più attivamente il ruolo di difesa dello
‘status quo’ economico e sociale contro ogni processo di democratizzazione
della vita politica. In particolare i militari si opponevano ai timidi
tentativi di dialogo con le guerriglie del nuovo presidente Belisario Betancur,
che consideravano un tradimento degli sforzi bellici realizzati durante il
governo precedente. Così, le forze armate iniziarono a chiedere ai grandi
proprietari nel sud del Magdalena Medio di “vincolare
la popolazione alla lotta controinsorgente” per creare una “forza non convenzionale di soldati e
specialisti civili” che continuasse il conflitto con l’insorgenza in
maniera ‘coperta’ e ‘clandestina’, in linea con i principi strategici della
‘Dottrina della sicurezza nazionale’ dell’amministrazione Usa[9].
Con la ‘guerra non convenzionale’, le azioni militari acquisirono una dinamica
distinta che si manifestò attraverso “l’eliminazione selettiva del nemico (leader
politici, sindacali e popolari), il massacro collettivo (contro coloro che
appoggiano la sovversione e si rifiutano di fornire informazioni ai militari) e
il genocidio (contro le zone e le regioni in cui esiste il riconoscimento
formale dell’influenza del movimento insorgente). Per lo sviluppo di questa
strategia si ricorre a sicari provenienti dalle forze armate e dalla
popolazione civile”[10].
L’applicazione
in Colombia della ‘Dottrina della sicurezza nazionale’ ha avuto tuttavia uno
sviluppo distinto da quello di altri paesi latinoamericani: essa non ha toccato
in maniera sostanziale le formalità proprie di una democrazia rappresentativa.
“La peculiarità del caso colombiano –
scrive Abilia Peña della Commissione intercongregazionale di ‘Justicia y Paz’ –
è che il governo civile si libera del
controllo dell’ordine pubblico e assegna il potere alle forze armate di
esercitare con autonomia tale controllo, dotandole di una giurisdizione
speciale protetta nel permanente ‘stato di emergenza’ (previsto sino
all’approvazione della nuova Costituzione), che è stato interrotto solo in
maniera sporadica”[11].
Ciò tuttavia, non ha impedito che la ‘guerra sucia’ (‘guerra sporca’) scatenata
in Colombia dalle forze armate e dai propri alleati sociali fosse similare in
intensità e drammaticità rispetto alle più note tragedie delle dittature in
Cile e Argentina o dei conflitti civili centroamericani. In soli quindici anni
dall’organizzazione delle ‘forze clandestine’ si arrivò a contare 24.000
assassinii, 2.230 sparizioni, 7.000 casi di tortura e centinaia di migliaia di
sfollati[12].
L’appello delle forze armate per la creazione delle cosiddette
‘autodefensas’ ottenne il consenso dei proprietari terrieri e degli allevatori,
e in alcuni casi dei campesinos maggiormente colpiti dalle attività della
guerriglia. Il luogo dove venne sancita questa grande alleanza fu il municipio
di Puerto Boyacá, uno dei maggiormente sottoposti al controllo e agli interessi
petroliferi Usa. Puerto Boyacá, è sorto a metà anni ‘30 su una sponda del río
Magdalena per favorire il trasporto dell’oro nero estratto nella zona dalla
‘Texas Petroleum Company’, il primo gruppo nordamericano a ricevere
l’autorizzazione a sfruttare i giacimenti in Colombia. In quest’area di
rilevanza strategica, l’esercito avviò la sperimentazione in larga scala delle
‘operazioni clandestine’ dei gruppi armati costituiti da civili e militari,
insediandovi a tal fine il 3° battagione di fanteria ‘Barbula’ e la 14^ brigata
con oltre 4.000 uomini. A questi reparti, tra i più coinvolti in massacri e
gravi violazioni dei diritti umani, furono destinati risorse finanziarie e
supporto logistico da parte della ‘Texaco’, grazie ad una discutibile decisione
della Corte costituzionale che affermò la legittimità di accordi diretti alla
difesa delle concessioni tra l’esercito colombiano e le multinazioni del petrolio[13].
Non è casuale che la prima grande organizzazione paramilitare fu costituita in
occasione di una riunione a cui parteciparono i responsabili delle forze
armate, il sindaco della città (l’ufficiale dell’esercito Oscar Echandía),
alcuni rappresentanti della 'Texas Petroleum Company', i membri del comitato
degli allevatori e dei commercianti, i maggiori leader politici locali.
I principali finanziatori dei ‘gruppi di
autodifesa’, tuttavia, “furono i grandi
narcotrafficanti che avevano comprato aziende nella regione, tra cui Pablo
Escobar Gaviria, i fratelli Ochoa Vásquez e José Gonzalo Rodríguez Gacha.
Questi ultimi videro l’opportunità di legittimarsi di fronte alle forze armate
e di creare eserciti privati che garantirono la protezione e la sicurezza dei
territori acquisiti”[14].
L’intervento controinsorgente a fianco di militari e gruppi politico-economici
conservatori, fu formalizzato a seguito del sequestro da parte di un gruppo di
guerriglieri di M-19, della sorella di uno dei leader del Cartello di Medellín,
Jorge Luis Ochoa, nel novembre ’81. In risposta alla ‘provocazione’
dell’organizzazione di estrema sinistra, fu organizzato un vertice a Medellín a
cui parteciparono centinaia di narcotrafficanti e di smeralderi di tutta
Colombia che decisero di finanziare un vero e proprio gruppo paramilitare “di
autodifesa”, il “Mas" (Muerte a los sequestradores) che iniziò ad operare
nel paese con la copertura delle forze
armate e dei leader di governo. L’organizzazione, nei fatti, servì “come una specie di canale di comunicazione
tra la mafia e i militari”[15].
I gruppi paramilitari iniziarono presto a porsi l’esigenza di una
loro ‘legalizzazione’, pretendendo il riconoscimento politico della loro lotta
contro la guerriglia. Nel caso specifico del Magdalena Medio, essi diedero
vita ad un vero e proprio progetto
politico, sociale, economico e militare, grazie alla costituzione di ACDEGAM
(Associación Campesina de Agricultores y Ganaderos del Magdalena Medio), che
trasformò Puerto Boyacá “in una specie di
‘Repubblica Indipendente Anticomunista’, nella quale l’applicazione della
forza, della giustizia, il controllo politico e amministrativo, la spinta dei
processi economici e sociali, sono vigilati e orientati dall’ACDEGAM; la stessa
Texas Petroleum Company si relaziona indirettamente con l’associazione e
collabora in alcune fasi con le attività locali dei sicari”[16]. L’associazione arrivò ad aprire impunemente alcuni conti correnti
nelle succursali di Puerto Boyacá di due banche statali, il ‘Banco Popular’ e
la ‘Caja Agraria’, per mobilizzare i fondi con cui pagare sicari e gruppi
paramilitari. Alla vigilia degli anni ’90, ACDEGAM tentò perfino di darsi un
respiro nazionale, attraverso la creazione di un organizzazione politica
apertamente anticomunista, antidemocratica e neonazista, il ‘Movimiento de
Restauración Nacional Morena’. L’esperimento però non decollò perché le classi
politiche ed economiche dominanti preferirono restare fedeli ai partiti
tradizionali.
L’azione organizzativa e di copertura che
l’ACDEGAM forniva alle ‘operazioni sporche’ dei paramilitari era perfettamente
a conoscenza delle autorità statali e dei principali organi di sicurezza
colombiani. Nel 1988 un rapporto del Das alla Procura generale affermava che “i sicari e gli assassini di Puerto Boyacá
utlizzano come copertura l’ACDEGAM, dietro cui effettuano le proprie attività
illecite”. “Il sostenimento della
banda – proseguiva il rapporto - è a
carico dei Narcotrafficanti, degli Allevatori e degli Agricoltori, che in
qualche modo dedicano parte delle proprietà alla coltivazione delle foglie di
coca, attività camuffata con altre attività agricole e pascoli; ognuna di
queste persone periodicamente apporta una quota che oscilla tra i 50 mila e un
milione di pesos per finanziare il personale (…). Alcune autorità nel Magdalena
Medio collaborano con ACDEGAM, come il Procuratore generale di Honda, il
comandante della base militare di Calderón, i comandanti della polizia di La
Dorada e Puerto Boyacá, il sindaco di Puerto Boyacá, i narcotrafficanti Gonzalo
Rodríguez Gacha, ex sergente dell’esercito, Pablo Escobar, Gilberto Molina,
Jairo Correa”[17].
Nel
1989, l’ex guerrigliero Diego Viafara Salinas, passato nelle file delle
‘audofensas’ del Magdalena Medio, ammise davanti ai giudici che i maggiori
esponenti delle forze armate della zona, ricevevano ordini direttamente dal
latifondista Henry de Jesús Pérez, un politico di estrema destra identificato
come il vero 'cervello' delle organizzazioni di sicari. "Il battaglione ‘Barbula’ era solito ricevere
donazioni da parte dei capi paramilitari in denaro, combustibile, veicoli ed
altre attrezzature particolari" ha raccontato Viafara Salinas.
L'azienda ‘Las Palmeras’ di proprietà di Henry de Jesús Pérez era contigua alla
caserma del battaglione ‘Barbula’, e la notte del 31 dicembre dell'’88, a
festeggiare il nuovo anno vi s’incontrarono boss della portata di Rodríguez
Gacha, Fabio Ochoa e Jairo Correa e lo stesso comandante del presidio militare.
Tra gli ufficiali legati al latifondista, Viafara Salinas identificò il
colonnello Rodríguez, i maggiori Tinjacá, Oscar Echandía Sánchez e Humberto
García, i capitani Estanislao Caycedo, Guillelmo León Tarazona e Luis
Bohórquez, quest’ultimo notoriamente vicino all’allora ambasciatore degli Stati
Uniti Charles Guilepsie, assiduo frequentatore di Puerto Boyacá e del Magdalena
Medio[18].
Per il maggiore Echandía, la Procura regionale di Bogotá ha chiesto
recentemente l’incriminazione per i delitti di “istruzione e addestramento in tattiche e procedimenti militari e
terroristici nel Magdalena Medio di gruppi paramilitari al soldo dell’ACDEGAM”[19].
I narcotrafficanti, grazie al sostegno logistico delle forze
armate, hanno potuto pianificare vere e proprie operazioni militari finalizzate
al controllo strategico delle aree ‘sensibili’ al contrabbando di smeraldi e ai
traffici di armi e stupefacenti. Rodríguez Gacha, ad esempio, di cui sono stati
provati versamenti per milioni di dollari a favore di ufficiali della 13^
brigata dell'esercito colombiano, aveva strutturato nella seconda metà degli
anni ’80, una rete paramilitare per assicurarsi ‘corridoi di sicurezza’ dal
Magdalena Medio verso l’Urabá (costa atlantica), e mettere in comunicazione i
depositi di cocaina con le aree utilizzate per l’imbarco della droga. Nell’area
nordoccidentale del Meta, lo stesso narcotrafficante aveva attivato la ‘Liga de
autodefensa de terratenientes’, un gruppo finanziato ed equipaggiato da grandi
allevatori e militari locali, che alternava la lotta ai gruppi delle Farc con
le attività relative al processamento della droga. Gli stessi paramilitari
della ‘Liga’ assumevano il ruolo di ‘vigilantes’ dei laboratori e di
'cocineros' per la raffinazione della cocaina come forma di promozione
all’interno del gruppo paramilitare.
Anche il pieno coinvolgimento delle organizzazioni paramilitari
nella produzione e il traffico della cocaina era perfettamente a conoscenza
degli organi investigativi colombiani. "Le regioni contaminate dalla presenza del narcotraffico – scriveva
il Das nel marzo 1989 - sono precisamente
quelle dove sono sorte con maggior vigore i cosiddetti gruppi 'irregolari o di
auto-difesa', utilizzati dalle mafie per non svelare l'identità dei suoi reali
promotori"[20].
Tuttavia le maggiori istituzioni statali preferivano assumere un atteggiamento
di compiacenza e tolleranza, quasi a voler rivendicare la paternità di un
fenomeno, quello del narcoparamilitarismo, che ha permesso di regolare i conti
con l’opposizione senza un diretto coinvolgimento governativo.
Gli uomini di Rodríguez Gacha e di Pablo Escobar sono stati
utilizzati per eseguire una serie di importanti omicidi politici come quello di
Luis Carlos Galán, candidato alle elezioni parlamentari per ‘Nuevo
Liberalismo’, assassinato nell’agosto ‘89 con la collaborazione di alcuni
agenti del Das e di alcuni ufficiali del battaglione ‘Barbula’ che avrebbero
preventivamente addestrato i killer[21].
Tre anni prima era toccato al direttore del quotidiano ‘El Espectador’
Guillelmo Cano, protagonista di una coraggiosa campagna di denuncia sulle
innumerevoli violazioni dei diritti umani durante il governo liberale di Julio
César Turbay (1978-82), e in particolare sui casi di tortura compiuti dai
militari contro dirigenti della sinistra.
Secondo il ministero della Giustizia colombiano, lo stesso Gacha
avrebbe pagato 120.000 dollari ai sicari che assassinarono l’11 ottobre dell’87
il leader della Unión Patriótica Jaime Pardo Leal. Questa organizzazione
politica in cui erano confluiti ex dirigenti di alcuni gruppi della guerriglia
che avevano scelto di deporre le armi, subì da parte dei paramilitari il
massacro di più di un terzo dei propri candidati alle elezioni politiche del
marzo ’88. Sotto il piombo cadevano inoltre 1.043 militanti della Unión
Patriótica, un’ecatombe senza precedenti che veniva rivendicata da gruppi con
chiara connotazione di estrema destra, operanti alla luce del sole su scala
regionale e nazionale: la ‘Alianza Anti-comunista Colombiana’, la ‘Alianza
Anti-comunista Americana’, ‘Muerte a Secuestradores y a Comunistas’, ‘Muerte a
los Revolucionarios de Urabá’[22].
Ai gruppi paramilitari di Carlos Castaño, oggi leader indiscusso
del terrorismo di estrema destra e del narcotraffico in Córdoba, Urabá e
Magdalena, è stato attribuito in particolare l’omicidio del candidato presidenziale Eduardo
Pizarro, leader dell’Unión Patriótica, assassinato durante la campagna
elettorale del 1990. L’omicidio, compiuto da sicari di Medellín, avrebbe goduto
del sostegno e della protezione di un direttore del Das e del comandante
dell’esercito di Montería[23].
Le operazioni delle organizzazioni ‘narcoparamilitari’ hanno
avuto respiro internazionale. Nella seconda metà degli anni ’80, furono inviati
300 paramilitari nella Valle dell’Alto Huallaga per sostenere l’offensiva dei
narcos peruviani contro l’organizzazione guerrigliera di Sendero Luminoso.
Uomini del Cartello di Medellín in collaborazione con alcuni rappresentanti
della mafia corsa trasferitisi in Colombia sin dalla fine degli anni ’70,
agirono invece in differenti paesi latinoamericani per assassinare distinti
militanti della sinistra[24].
Nonostante le reciproche differenze storiche e l’ineguagliabile
dimensione della violanza del caso colombiano, è possibile individuare
un’analogia con quanto successo in Sicilia nel dopoguerra, quando le organizzazioni
di mafia intervennero direttamente nella repressione dei movimenti contadini. “Gli attori che parteciparono – scrive il
sociologo Ciro Krauthausen – erano
diversi, ma all’inizio, si trattava della stessa cosa: un’alleanza tra mafiosi
o narcotrafficanti, latifondisti tradizionali e apparati repressivi statali che
difendono con la violenza le relazioni dominanti di proprietà di fronte ad una
popolazione discriminata e insoddisfatta, mentre i servizi segreti svolgevano
un ruolo importante di coordinamento. Allo stesso modo dei mafiosi, i
narcotrafficanti non si subordinano ai grandi proprietari terrieri: essi stessi
erano proprietari in espansione”[25].
La ‘guerra sucia’ dei
mercenari israeliani
Il clima generale d’impunità di cui hanno
goduto i gruppi paramilitari è proseguito sino al gennaio dell’’89, quando un
gruppo di uomini armati guidato dal famigerato narcotrafficante Alonso de Jesús
Baquero e composto da alcuni militari, tra cui il comandante dell’esercito di
Campocapote, Andrade Ortiz, si macchiò di uno dei più gravi crimini della
recente storia del paese, la strage di undici funzionari del potere giudiziario
a La Rochela (Santander). L’ondata di proteste internazionali costrinsero
l’allora presidente Barco Vargas a ‘disconoscere’ le organizzazioni paramilitari
e a decretarne lo ‘scioglimento’, anche se nessuna misura fu intrapresa
realmente per perseguirle e reciderne i legami con le forze armate. Lo stesso
comandante Ortiz, dopo una timida condanna a cinque anni per la sua
partecipazione al massacro, venne assolto da un tribunale militare.
L’inchiesta sul massacro di La Rochela
rivelò un altro inquietante particolare: alcuni dei componenti del gruppo
criminale erano stati preventivamente addestrati da una ventina di mercenari
israeliani e da cinque “ex” membri delle Sas, il settore speciale delle forze
armate britanniche per le operazioni nella selva[26].
Uno di essi, l’ex ufficiale Andrew Gibson ammise di essere stato
contattato da un agente che “faceva parte
dell’amministrazione del presidente Virgilio Barco Vargas” e che i suoi
uomini erano tutti veterani dell’’Operazione Prometea’ con la quale il
Sudafrica aveva invaso il sud dell’Angola per distruggere le basi della Swapo,
l’organizzazione per la liberazione della Namibia[27].
Quello di La Rochela non fu l’unico
massacro effettuato da uomini addestrati dai mercenari israeliani e britannici.
Il 4 marzo ’88, un gruppo di sicari assassinarono venti raccoglitori di banane
nelle fattorie ‘Honduras’ e ‘La Negra’ del distretto di Urabá; il mese
successivo lo stesso gruppo ‘paramilitare’ entrava a Turbo, il porto di
Antioquia, per sterminare un gruppo di lavoratori scampato all’eccidio in
Urabá. Le indagini sui due massacri individuarono come mandanti i narcos
Rodríguez Gacha, Fidel Castaño ed Hermán Giraldo, quest’ultimo proprietario di
numerose coltivazioni di marihuana nella Sierra Nevada di Santa Marta ed autore
dello sterminio di interi villaggi indigeni. Alla pianificazione degli eccidi
avrebbero altresì collaborato l’allora sindaco di Puerto Boyacá, i latifondisti
della zona e alcuni alti ufficiali dell’esercito, tra cui il comandante del
battaglione ‘Voltigeros’, Luis Felipe Becerra. Il militare aveva condotto la
cattura di quattro guerriglieri dell'Epl (Ejercito Popular de Liberación), che
sotto tortura furono costretti a confessare i nomi dei propri collaboratori
nelle aziende bananiere. Fu inoltre provato che il comandante Becerra aveva
pagato, con la propria carta di credito, l’alloggio in un lussuoso albergo di
Medellín ad alcuni componenti del gruppo. Nonostante i pesanti indizi di
complicità con le stragi, i suoi superiori lo promuovettero a tenente
colonnello e lo inviarono per un corso di sei mesi negli Stati Uniti. Tornato
in Colombia, Luis Felipe Becerra fu assolto da un tribunale militare; cinque anni
più tardi, il 5 ottobre ’93, egli ricopriva il comando del battaglione ‘Palacé’
che, occupato il villaggio di El Bosque, Riofrío (Valle del Cauca), violentava
cinque donne e torturava e assassinava tredici contadini, costretti prima
dell’esecuzione a indossare tute da combattimento e passare per guerriglieri[28].
Stavolta il tribunale condannava per favoreggiamento il maggiore Becerra e
altri due ufficiali del battaglione ‘Palacé’, Eduardo Delgado e Leopoldo
Moreno, alla mitissima pena di anni uno di detenzione. Becerra è stato
misteriosamente assassinato il 14 febbraio ’99, in un quartiere residenziale di
Cali.
Di alcuni dei mercenari venuti da Tel
Aviv è stato possibile ricostruirne identità e connessioni. In particolare è
stato accertato che il gruppo di addestratori era guidato dal colonnello Yair
Klein, già membro delle forze d’élite di Israele, “paracadutista ed esperto in lotta antiterrorista, commerciante d’armi e
conoscitore del più avanzato armamento moderno”. Nel curriculum vitae del
colonnello Klein comparivano, tra l’altro, la direzione nel ‘72 di un blitz
contro i sequestratori di un aereo libico, e dieci anni più tardi, la
partecipazione all’invasione del Libano. Nell’’85, dimessosi dalle forze
armate, Klein aveva costituito una società di “consulenza militare”, denominata
‘Jod Hajanit’, con lo scopo di vendere armi e fornire ‘consiglieri’ a paesi
terzi. Tra gli affari più grossi di ‘Jod Hajanit’ la vendita di armi per due
milioni di dollari a favore delle milizie falangiste libanesi.
Il colonnello Klein nel corso di una
lunga intervista ad un quotidiano di Bogotá, ha ammesso che “alti funzionari del governo” e “alcuni rappresentanti del Ministero della
difesa” erano perfettamente a conoscenza delle reali motivazioni della sua
presenza in Colombia e che gli stessi “collaboravano
nell’esercizio delle sue funzioni antiguerriglia”. Yair Klein ha tuttavia
negato di aver diretto corsi individuali a militari e civili nei locali della
Scuola di Cavalleria dell’esercito, come invece è stato affermato da alcuni
testimoni oculari. “Mi sollecitarono
d’incontrarmi con il capo di sicurezza colombiano, per dare istruzione alla
guardia della difesa personale del Das. Ho presentato un preventivo, ho
richiesto l’autorizzazione del governo d’Israele per l’incontro, ma ho ricevuto
una risposta negativa”[29].
Klein sarebbe stato contattato
direttamente da un ex maggiore dell'esercito colombiano di nome Gabino, in
servizio presso la fabbrica statale di esplosivi e armamenti ‘Indumil’, e da un
altro ufficiale delle forze armate, tale Hernández, che s’incaricò di
accompagnarlo nei suoi spostamenti nel paese. La stessa società colombiana che
firmò il contratto d’ingaggio del colonnello israeliano, la 'Atlas', aveva come
maggiore azionista il ministero della difesa colombiano. A Klein non mancarono
inoltre le coperture del personale dell’ambasciata israeliana di Bogotá, che
fornì il denaro per i trasferimenti all’estero del colonnello. Un altro
cittadino israeliano, Eitan Koren, fece da tramite con il governo colombiano
per il reclutamento dei mercenari. Koren ricopriva la carica di rappresentante
per l’America Latina dell’’Isds’ (Israel Security Defense System), un’azienda
militare che nel 1988 aveva venduto all’aviazione colombiana 16 velivoli C-7
Kfire per il valore di 200 milioni di dollari. Già capo scorta dell’ex
presidente Menhaem Begin, Eitan Koren fu poi chiamato dal governo colombiano
per realizzare i sistemi di sicurezza della prigione di Envigado in cui fu
‘detenuto’ Pablo Escobar prima della sua fuga verso la morte nell’autunno del
’93.
Klein contò altresì sul determinante
appoggio di un altro importante commerciante d’armi israeliano, il tenente
colonnello Yitzhak Shoshani, che all'inizio degli anni '80 aveva diretto la
filiale di Bogotá della ‘Israx’, società che aveva firmato un contratto con la
Colombia di circa 250 milioni di dollari per la fornitura di equipaggiamenti
militari, sistemi radar, carri armati e cingolati. L’asse Tel Aviv – Bogotá per
il trasferimento di sistemi d’arma era uno dei più consolidati in tutta
l’America Latina: alla vigilia dell’arrivo di Klein in Colombia, il paese
assorbiva un terzo di tutte le esportazioni di armi di Israele con commesse per
centinaia di milioni di dollari[30].
Secondo quanto accertato dagli
inquirenti, il colonnello Klein, dopo essere giunto a Bogotá in compagnia di
due ufficiali dell’esercito colombiano e, forse, con i direttori di due delle
maggiori banche nazionali, si trasferì a Puerto Boyacá con alcuni mercenari
israeliani, tra cui l’ex comandante delle unità antiterrorismo delle forze
armate di Tel Aviv Aurham Tzadaka, l’ex tenente colonnello della polizia, poi
addestratore dell'esercito del Guatemala e dei Contras nicaraguensi Amatzia
Sheuli, l’ex capo della sicurezza del deposto generale Manuel Noriega, poi
coinvolto nel trasferimento di armi e droga alle organizzazioni antisandiniste
del Nicaragua Michael Harari, e tale David Candotti, successivamente arrestato
a Miami con l’accusa di aver venduto armi al Cartello di Medellín.
Completavano l’assortito gruppo Rafi Eitan,
capo della misteriosa organizzazione segreta ‘Lakam’, impegnata nello sviluppo
dei programmi nucleari israelieni e nella direzione di un corso antiguerriglia
presso il ministero della difesa colombiano, e il titolare di un’agenzia di
viaggi di Miami, Arik Asek, anch’egli implicato nelle triangolazioni di armi a
favore degli oppositori del governo di Managua. Quest’ultimo, misteriosamente
assassinato alcune settimane dopo l'invasione di Panama, è risultato essere
legato ai servizi segreti americani: proprio in Colombia avrebbe cooperato con
la Cia, da cui avrebbe ricevuto un passaporto diplomatico statunitense, e con i
servizi di sicurezza impegnati nella preparazione della visita del presidente
Bush a Cartagena in occasione del vertice andino sulla lotta alla droga del
1990[31].
Il primo corso addestrativo dei mercenari
israeliani ebbe inizio nei primi mesi dell’89 e vi parteciparono trenta uomini
scelti da Gonzalo Rodríguez Gacha, Victor Carranza, Pablo Escobar e Fabio Ochoa
Vásquez. Ai corsi “avrebbero assistito lo
stesso Gacha e l’allora comandante del battaglione ‘Barbula’, colonnello Luis
Bohórquez Montoya”[32]. Il campo di esercitazione era situato
vicino alla base dell'esercito e i militari vi si recavano frequentemente per
partecipare a vere e proprie competizioni di tiro con gli uomini del cartello. Il commando
israeliano avrebbe partecipato inoltre all'addestramento di alcuni uomini
dell'organizzazione di controspionaggio dell'esercito ‘Cherry Solano’, già al centro
d’indagini per casi di tortura ed omicidi selettivi, presente l’allora
responsabile della sicurezza dell'ambasciata israeliana di Bogotá, Yossi Biran[33].
A Sabaneta, nei pressi della città di
Medellín, gli uomini di Klein riattivarono un secondo centro di addestramento
per gli uomini del narcotraffico e in particolare per il gruppo al soldo di
Fidel Castaño, responsabile della strage di Sasaima, Cundinamarca, il 28
febbraio dell’’89, quando furono assassinate diciotto persone, tra cui lo
smeraldiere Gilberto Molina. In
precedenza il poligono di Sabaneta era stato diretto da un altro cittadino di
origine israeliana, Isaac Guttnan Esternbergef, a cui Pablo Escobar aveva
affidato la formazione di una cinquantina di sicari delle famigerate bande dei
‘Los Quesitos’ e dei ‘Los Priscos’, specializzate nell’assassinare le proprie
vittime da moto in corsa. Guttnan Esternbergef era stato colpito a morte verso
la fine dell’86 da misteriosi sicari presumibilmente giunti da Cali.
Il ruolo di protagonista del colonnello
Klein nei foschi scenari della ‘guerra sucia’ in Colombia non si limitò
all’addestramento di sicari e paramilitari. Egli infatti, trasferì al gruppo di
Rodríguez Gacha mitragliatori e proiettili di produzione israeliana, grazie ad
una triangolazione tra Tel Aviv e l’isola di Antigua nei Caraibi. Le armi
giunsero nell’isola in container sigillati, accompagnati da permessi alle
esportazioni firmate dal ministero della difesa israeliano. Poi furono
trasferite in una proprietà dell’imprenditore Bruce Rappaport, intimo amico di
Shimon Peres e dell'allora direttore della Cia William Casey, per cui aveva
realizzato una transazione di sistemi militari a favore della ‘contra’
nicaraguense per un valore di 10 milioni di dollari.
Secondo il settimanale ‘Newsweek’, quando
il capo dell’esercito di Antigua scoprì il carico di armi nell’isola, la Cia
ordinò ai governanti locali di facilitarne la spedizione al porto di Cartagena.
Alcuni esponenti del Congresso Usa hanno aggiunto che ad Antigua, “grazie alla protezione e al finanziamento
della Cia”, era stata realizzata una vera e propria “scuola di sopravvivenza aperta ai paramilitari colombiani e ai
combattenti di altre organizzazioni controguerrigliere del Centroamerica”[34]. Ancora
una volta, come già successo in Salvador e Guatemala, l’amministrazione di Washington
aveva preferito delegare a Israele l’organizzazione di attività clandestine che
difficilmente avrebbero goduto del sostegno del Congresso e dell’opinione
pubblica statunitense.
Del colonnello Yair Klein si sono perse
le tracce sino a qualche mese fa. La Procura generale della Nazione ha emesso
contro di lui un mandato di cattura perché lo ritiene responsabile dell’invio
di 50.000 fucili mitragliatori di fabbricazione austriaca a favore dei boss
della coca di Cali, un traffico gestito via Russia-Ecuador, da alcuni cittadini
israeliani residenti a Bogotá. Lo stesso gruppo avrebbe promosso il
trasferimento in Colombia, suppostamente alla guerriglia, di 10.000 fucili
acquistati ufficialmente dalle forze armate peruviane in Giordania. La
triangolazione è stata ‘svelata’ nel corso di una conferenza stampa a fine
agosto 2000, dal presidente Alberto Fujimori e dal suo assistente per i servizi
segreti Vladimiro Montesinos, nell’inutile tentativo di ottenere una
rilegittimazione internazionale dopo le elezioni farsa che avevano riconfermato
per la terza volta ‘El Chino’ alla guida della repubblica.
La Segreteria di stato ha prontamente
smantellato il ‘teorema’ di Fujimori, chiamando direttamente in causa per
l’illegale triangolazione i vertici del sistema d’intelligence di Lima e
indirettamente lo stesso Montesinos, coinvolto più tardi nell’’affaire’ delle
bustarelle consegnate dal governo ad alcuni membri dell’opposizione, scandalo
che ha accelerato il processo di decomposizione della dittatura peruviana. Anche
Vladimiro Montesinos condivide come l’israeliano Klein un passato da
trafficante d’armi, collaboratore Cia e ‘consigliere’ di alcuni padrini del
narcotraffico. Demetrio Chávez ‘Vaticano’, uno dei più importanti signori della
droga di Lima, catturato in Colombia nel 1995, ha raccontato ai giudici di aver
versato a Montesinos, tra il ‘91 e il ’92, “50.000
dollari al mese perché gli permettesse di operare nel traffico di stupefacenti
nella località di Campanilla, sotto la protezione dell’esercito”. L’ex capo
dell’intelligence peruviana è stato inoltre avvocato difensore di Evaristo
Porras, potente narcotrafficante colombiano, liberato nel 1978 da un commando
mentre si trovava in un ospedale militare di Lima, dove era stato ricoverato
dopo aver simulato un forte dolore addominale in carcere[35].
La nuova borghesia mafiosa
Le
relazioni di scambio e le alleanze narcotraffico-classi dirigenti per arrestare
i processi di democratizzazione politica e sociale in Colombia, si sono
progressimamente trasformate in un rapporto ‘simbiotico’. Sin dalla nascita dei
maggiori cartelli della coca, la società e le istituzioni dominanti preferirono
sviluppare con essi una “relazione parassitaria”, ottenendone il sostegno ai
propri interessi imprenditori, sia nelle aree di produzione agricola e di
allevamento estensivo che nei grandi centri urbani. In questa prima fase, la
classe dominante considerò le grandi organizzazioni esportatrici di coca come
un’imprescindibile “fonte d’attrazione di
finanziamento per l’economia formale ed una domanda addizionale di beni e
servizi”. I capitali accumulati con il traffico di stupefacenti furono
messi a disposizione in particolare per investimenti nel settore delle
costruzioni edili; negli anni ‘80 i ‘nuovi cavalieri della coca’ furono accolti
e integrati nelle classi dirigenti.
Si
aprì così la fase della partecipazione diretta nella politica attraverso il
finanziamento di campagne elettorali, l’elezione di rappresentanti dei cartelli
nei consigli dipartimentali e al Congresso, il lavoro di lobby in occasione
delle iniziative legislative d’interesse (estradizione, lavaggio del denaro,
amnistie patrimoniali, riforme del codice penale). I casi più emblematici
furono quelli del boss Carlos Leheder, che arrivò a fondare direttamente
un’organizzazione politica di ideologia neonazista, il ‘Movimiento Latino
Nacional’ e a candidarsi, senza fortuna, per un seggio senatoriale alle
politiche dell’86; e del leader del Cartello di Medellín, Pablo Escobar, che
dopo essere stato eletto membro supplente al Congresso nel 1982 nelle liste del
Partito liberale, fondò una propria organizzazione politica, ‘Civismo in
marcha’. Lo stesso Escobar, da latitante, in occasione delle prime elezioni a
sindaco della storia colombiana del ’91, s’impegnò direttamente a favore del
candidato Juan Gómez Martinez, direttore del quotidiano ‘El Colombiano’, di cui
ammirava il pragmatismo politico e la disponibilità al dialogo tra lo Stato ed
i narcotrafficanti[36].
Gómez Martinez fu eletto sindaco; nel ’93 passò alla presidenza della governazione
di Antioquia e successivamente ricoprì la carica di ministro dei trasporti nel
governo di Ernesto Samper. Nell’ottobre del ’97 Juan Gómez Martinez è stato
rieletto sindaco di Medellín.
In
tema di rapporti tra criminalità e politica, uno dei maggiori pubblicisti
colombiani, Fabio Castillo, ha segnalato i legami d’affari tra il fratello
dell’ex presidente della repubblica Virgilio Barco e due dei piú noti
trafficanti di marihuana della costa atlantica, Julio Caderón e Fernando Millón
Palacio[37].
Castillo segnala inoltre una serie di narcotrafficanti che negli anni ’80
ascesero ai vertici delle istituzioni parlamentari, come ad esempio il boss del
municipio di Zipaquirá, nei pressi di Bogotá, Severo Escobar Ortega, eletto
rappresentante supplente alla Camera per i conservatori di Cundinamarca, o il
congressista liberale di Nariño, Hernando Suárez Burgos, che trasferiva
imponenti carichi di cocaina all’Ecuador nascondendoli negli elettromedistici
prodotti nella fabbrica di cui era proprietario. Nel capoluogo di Nariño,
Pasto, ha operato per anni una potente rete di narcotrafficanti diretta dai
congressisti Samuel Alberto Escrucería e Samuel Escrucería Manzi, padre e
figlio, legati al Cartello di Cali e ad alcuni potenti finanzieri di Bogotá. La
figlia di Escrucería Manzi ha sposato il ministro della difesa del governo
Betancur, generale Miguel Vega Uribe, ed uno dei velivoli utilizzati dalla
‘famiglia’ Escrucería per il trasporto della droga, fu ‘prestato’ all’ex
presidente Turbay Ayala durante la campagna elettorale del 1977.
Uno
degli esponenti politici più in vista della città atlantica di Barranquilla,
Miguel Pinedo Vidal, già congressista per il Magdalena, era figlio del
contrabbandiere Pinedo Barros, coinvolto nell’indagine sull’omicidio del
direttore del quotidiano ‘El Espectador’, Guillelmo Cano. Nello stesso
dipartimento sono stati indiziati di narcotraffico cinque parlamentari, tra cui
il deputato Enrique Caballero e il senatore José Ignacio Vives Echeverría,
protagonista di accesi interventi parlamentari contro l’estradizione e di poco
ortodosse pressioni sui ministri per allegerire i procedimenti contro i
maggiori esponenti della droga. Un’indagine congiunta tra la Dea e la polizia
colombiana appurò altresì che il maggiore importatore di etere per il
processamento di cocaina era un industriale di Barranquilla, Luis Eduardo
Orejarena, membro della giunta direttiva della multinazionale petrolifera
‘Shell de Colombia’, e determinante finanziatore delle campagne dei politici
locali.
Carlos Náder, congressista per il
dipartimento di Córdoba, fu arrestato e condannato a New York a fine anni ’80,
dopo aver tentato di vendere una partita di cocaina ad un agente coperto della
Dea. L’ex governatore del dipartimento di Bolivar, Humberto Rodríguez Puentes,
era fratello del noto narco ‘Tico’ Rodríguez Puentes, contattato dal governo
per ricostruire le antiche mura spagnole della città di Cartagena[38].
Un deputato liberale di Risaralda, il medico Jairo Montoya Escobar, fu
arrestato a Bogotá mentre negoziava la vendita di 30 chili di cocaina, mentre
su altri due congressisti liberali del Nord di Santander, Jairo Slebi e Felix
Salcedo, fu spiccato mandato di cattura (mai eseguito) in Venezuela per un
carico di coca rinvenuto in un hotel di Caracas.
In
occasione delle elezioni amministrative del 1984, l’allora ministro Rodrigo
Lara Bonilla, inviò una nota riservata ai leader dei partiti liberale e
conservatore, dove denunciava la presenza di una cinquantina di
narcotrafficanti nelle liste dei candidati dei dipartimenti di Guajira,
Magdalena, Cesar e Antioquia. Due anni più tardi il ministro Enrique Parejo
svelava i legami tra alcuni congressisti neoeletti e i maggiori gruppi
criminali del paese: “almeno il 10% dei
parlamentari colombiani sono vincolati al traffico di droga, ed un altro 10%
riceve appoggio economico da noti narcotrafficanti. Come dire che una
cinquantina di congressisti dovrebbero essere interdetti”[39].
Nella
città amazzonica di Leticia, il boss Evaristo Porras capeggiò la lista del
Partito liberale alle elezioni amministrative del 1986, mentre alle elezioni a
sindaco dell’88, esponenti politici implicati direttamente nei traffici gestiti
da Gonzalo Rodríguez Gacha, ottennero il controllo di cinque governi locali del
Magdalena. Dimostrando un certo pragmatismo, lo stesso Pablo Escobar,
alle presidenziali dell’82, preferì puntare politicamente su ambedue i
candidati, finanziando la loro campagna elettorale. Per diretta ammissione di
Escobar, 370.000 dollari furono consegnati direttamente nelle mani di Ernesto Samper,
al tempo responsabile della campagna del candidato Alfonso López Michelsen, in
una abitazione dell’Hotel Intercontinental di Medellín. Carlos Ledher, da parte
sua, affermò che più di un milione di dollari appartenenti a Pablo Escobar,
Rodríguez Gacha e ad altri trafficanti, erano finiti nelle mani dell’avversario
Belisario Betancur, che tra l’altro avrebbe utilizzato per gli spostamenti
della sua campagna elettorale un elicottero di proprietà dei narcos.
Le
accuse contro l’ex presidente Betancur non hanno mai trovato riscontri
giudiziari; le cronache tuttavia, lo hanno ritratto in prima fila, accanto ai
rappresentanti della migliore società di Antioquia, ai funerali del
narcotrafficante Alberto Uribe Sierra, padre del congressista Alvaro Uribe Vélez,
candidato alle prossime elezioni presidenziali. Un fratello di Betancur fu
coinvolto in Florida nella cosiddetta ‘Operazione Pescespada’ realizzata dalla
Dea nell’82, per un ‘prestito’ di 12.000 dollari ricevuto dal trafficante di
Bogotá José Hader Alvarez, quest’ultimo al centro di uno scandalo su un
finanziamento di grosse somme di denaro a favore dei servizi segreti dell’F-2.
Grazie ai legami con esponenti politici di primo piano, Hader Alvarez si
assicurò una commessa di imbarcazioni in fibre di vetro per la Polizia
nazionale[40].
La
crisi di legittimità e di credibilità dello Stato colombiano fu particolarmente
evidente in occasione delle elezioni per l’Assemblea costituente, chiamata a
riscrivere la legge fondamentale del paese e a risolvere il conflitto con i
padrini del narcotraffico protagonisti dell’attacco violento alle istituzioni
per sabotare il trattato di estradizione con gli Stati Uniti. Appena il 25%
dell’elettorato elesse i 70 congressisti che vararono la nuova costituzione:
tra essi i liberali Armando Holguín Sarria, poi arrestato perché destinatario
del denaro sporco dei fratelli Rodríguez Orejuela, e Horacio Serpa, indiziato e
prosciolto nell’inchiesta sui finanziamenti illeciti a favore della campagna
presidenziale di Ernesto Samper; i conservatori Mario Ramírez Arbeláez
(coinvolto nei contatti tra il Cartello di Cali e l’entourage elettorale di
Samper), Julio Salgado Vásquez, Hernando Londoño ed Augusto Ramírez Ocampo, tre
penalisti da sempre impegnati nelle difese di noti narcotrafficanti colombiani.
Ramírez Ocampo, in qualità di cancelliere del presidente Belisario Betancur,
s’impegnò in una dura battaglia per ottenere dalla Spagna l’estradizione dei
boss Jorge Luis Ochoa e Gilberto Rodríguez Orejuela; il suo nome è stato
inoltre vincolato al narcotrafficante Camilo Zapata Vásquez.
Nella
sentenza del procedimento penale in Florida contro il Cartello di Cali si legge
che “all’inizio del 1991 Miguel Rodríguez
Orejuela ordinò una serie di pagamenti a favore di membri dell’Assemblea
costitutente colombiana, in cambio di un loro voto per respingere qualsiasi
articolo che permettesse l’estradizione di cittadini colombiani”. Per uno
di essi, il parlamentare Tulio Cuevas Romero, è stato possibile provare il
diretto legame con il padrino di Cali: in qualità di presidente della centrale
operaia Utc, aveva svenduto il ‘Banco de los Trabajadores’ ai fratelli
Rodríguez Orejuela. Per un altro invece, l’ex ministro dell’energia Alvaro
Leyva Durán, é stata recentemente avviata un’indagine per presunto ‘arricchimento
illecito’, dopo il rinvenimento di un assegno per 50 milioni di dollari
giratogli da un’impresa di facciata del Cartello di Cali[41].
Il maggiore avvocato di Pablo Escobar fu invece filmato in una stanza d’albergo
mentre offriva 3.200 dollari ad Augusto Ramírez Cardona, eletto all’Assemblea
grazie all’appoggio dei paramilitari del Magdalena Medio[42].
Il
risultato dell’inedita alleanza trasversale fu l’approvazione a netta
maggioranza di un originale articolo costituzionale, che non solo vietava l’estradizione
dei cittadini colombiani, ma che disponeva che i cittadini residenti nel paese
responsabili di delitti commessi all’estero, venissero giudicati in Colombia.
Bisognerà attendere quasi un decennio perché la norma, in palese violazione con
i principi del diritto internazionale, venisse modificata dal Congresso.
Le cose si sono fatte ancora più pesanti a metà degli anni ’90 e
gli interessi convergenti dei trafficanti e dei rappresentanti governativi
della borghesia nazionale hanno fatto assumere alla Colombia sempre più
l’aspetto di una vera e propria ‘narcodemocrazia’. L’Osservatorio Geopolitico
delle Droghe di Parigi, ha segnalato come “le
elezioni, il 30 ottobre 1994, dei sindaci e dei governatori danno vita a
Pereira, Tulua, La Dorada, così come in numerose altre città e province
colombiane, a manovre d’intimidazione e d’infiltrazione da parte delle
organizzazioni legate ai narcotrafficanti, che prendono di mira i poteri
legali. Questa loro ingerenza nelle elezioni locali e regionali si traduce
nella costituzione di veri e propri gruppi parlamentari: nel 1994, infatti, ci
furono vari tentativi diretti a far votare quello che la stampa colombiana
definì il ‘narcoprogetto’: un insieme di provvedimenti legislativi che
avrebbero impedito di sequestrare i beni dei narcotrafficanti, nel caso fossero
stati trasferiti a dei prestanome, e che avrebbero messo fine all’anonimato dei
giudici (‘giudici senza volto’) nei processi”[43].
Un rapporto della polizia del 1996, confermava come per lo meno il 30% dei sindaci
colombiani, cioè più di 300, erano stati eletti con l’appoggio diretto dei
baroni della droga.
La forza ‘politica’ del narcotraffico arrivò infine a
determinare i vertici istituzionali dello Stato. L’atteggiamento conciliante e
il ‘basso profilo’ militare esercitato dagli uomini del cartello di Cali “permise una maggiore accumulazione di
capitale e di avanzare in vista dello stadio simbiotico estendendo le sue
connessioni con la società regionale e nazionale, sino al punto di impegnarsi
direttamente nell’elezione della presidenza della Repubblica”[44]. La lunga confessione dell’ex ministro
della difesa Fernando Botero (figlio del noto pittore-scultore e direttore
generale della campagna presidenziale di Ernesto Samper), agli atti del
cosiddetto “procedimento 8.000”, confermava come per l’elezione del candidato
fossero stati determinanti i contributi in denaro dei maggiori narcoboss di
Cali. Ben 22 sono stati i congressisti coinvolti nell’indagine sugli ‘affari’
di Rodríquez Orejuela[45];
tra i nomi di maggiore spicco, il membro della direzione nazionale del partito
liberale, senatore Eduardo Mestre, dirigente del ‘Banco de los Trabajadores’ di
proprietà di Gilberto Rodríguez Orejuela, il senatore tolimense Alberto
Santofimio, recentemente condannato a quattro anni di carcere per
“arricchimento illecito”, e l’ex presidente della Camera dei rappresentanti
Alvaro Benedetti Vargas. L’inchiesta ha inoltre accertato che tra i maggiori contribuenti ‘in nero’
della campagna elettorale presidenziale, oltre ai fratelli Rodríguez Orejuela,
intervennero importanti gruppi economici nazionali ed internazionali, in
particolare il colosso finanziario ‘Bavaria’, prima entità in fatturato della
Colombia, e la filiale di Bogotà della ‘British Petroleum’[46].
Nonostante
l’epurazione intrapresa negli ultimi due anni da alcuni coraggiosi magistrati,
la ‘connection’ mafia-politica continua ad essere un elemento distintivo della
incompiuta ‘democrazia’ colombiana. Alle ultime elezioni parlamentari è stato
eletto deputato della Camera Luis Javier Castaño Ochoa, due volte condannato
negli Stati Uniti nel 1988 per traffico di cocaina e riciclaggio di denaro. Il
parlamentare aveva diretto un’”impresa
criminale per il lavaggio di più di 59 milioni di dollari del narcotraffico e
la distribuzione di cocaina in alcune città degli Stati Uniti”. Castaño
Ochoa é stato condannato ad una pena di 33 anni di prigione, di cui solo tre
scontati in un centro di detenzione di Miami, grazie ad un insperato
provvedimento di condono per “cooperazione giudiziaria” da parte dei giudici
della Florida. In molti diffidano sulla reale portata della ‘collaborazione’
che l’odierno deputato avrebbe offerto agli investigatori della Dea. Alcuni
detenuti con cui divise la cella del carcere hanno dichiarato sotto giuramento
che il colombiano “avrebbe comprato la
sua libertà”, grazie all’intermediazione dell’avvocato del Cartello di Cali
Joel Rosenthal e di un ex agente dell’Fbi, Bob Levinson. Sul caso sarebbe stata
aperta un’indagine negli Stati Uniti[47].
Qualche
sospetto è stato sollevato perfino sul passato del presidente Pastrana, vittima
nel 1988 di un breve sequestro da parte degli uomini di Pablo Escobar e Gonzalo
Rodríguez Gacha. Nel novembre ’93, fu arrestato e condannato a Miami a 33 mesi
di prigione il diplomatico Gustavo Enrique Pastrana Gómez, per un’operazione di
riciclaggio di denaro sporco attraverso alcune finanziarie statunitensi e di
Hong Kong. Secondo due giornalisti argentini alle carte processuali era
allegata la copia di una registrazione in cui il diplomatico spiegava ad un
interlocutore, che per lavare il denaro aveva utilizzato lo schema “già impiegato per la campagna del proprio
cugino Andrés Pastrana”. Solo che di quella registrazione si sarebbero
stranamente perse le tracce[48].
La guerra sporca al Cartello di Medellín
Le
diverse modalità operative dei rappresentanti dei maggiori cartelli dei primi
anni ’90, hanno condotto a differenze sostanziali nella risposta delle
istituzioni politiche ed economiche del paese. Mentre si sviluppava la
‘simbiosi’ tra istituzioni e i padrini della droga di Cali, l’attacco violento
al cuore dello Stato del Cartello di Medellín (avviato nell’’84 dall’assassinio
del ministro della giustizia Rodrigo Lara Bonilla e a cui seguirono gli omicidi
di giudici, giornalisti e due candidati presidenziali), scatenò le reazioni
della stampa, di alcune fazioni dei partiti tradizionali e dell’amministrazione
degli Stati Uniti, preoccupata per un presunto avvicinamento di Pablo Escobar
ad alcuni dirigenti del fronte sandinista in Nicaragua. Il governo fu costretto
a confrontarsi apertamente contro il Cartello di Medellín, sino
all’eliminazione di Pablo Escobar, ormai ingombrante per l’establishment
colombiano.
Paradossalmente,
la violenta offensiva militare contro i gruppi di Medellín, ha favorito il
processo di ‘narcodemocratizzazione’ della Colombia. Per liquidare Escobar fu
privilegiata infatti la ‘guerra parallela’ con l’intervento dei corpi di
sicurezza a fianco di mercenari di mezzo mondo e dei rappresentanti del
Cartello di Cali, e l’immancabile collaborazione di Washington che inviò
appositamente in Colombia una ventina di elicotteri, un centinaio di militari
della ‘Delta Force’, e speciali apparecchiature per la registrazione telefonica
e la rivelazione notturna[49].
Il contributo dei caleñi a favore dei militari colombiani fu ampiamente
ripagato. Ad essi fu assicurata l’impunità e la libertà di azione per
conseguire il monopolio nel processamento e l’esportazione di cocaina,
accelerando il processo di ristrutturazione regionale del circuito della droga
e il trasferimento delle coltivazioni dal Perú alla Colombia. Gli Stati Uniti
perdettero invece l’ennesimo appuntamento con la storia per dimostrare un
minimo di coerenza nella lotta alla droga.
Diversi i fatti di
cronaca che hanno confermato la portata della ‘guerra sporca’ contro gli uomini
di Medellín. Grazie alla complicità dei servizi colombiani, ad esempio, fu
contattato per eliminare Pablo Escobar un commando di mercenari inglesi guidato
da Peter Mc Aleese, Dave Tomkins, Alex Lennox e Geffrey Adams[50].
Il 3 giugno ‘89, un elicottero Hugues appartenente ad un’impresa privata e
camuffato con le insegne della polizia, precipitò in una zona montuosa del
municipio di Sonsón (Antioquia). Nell’incidente moriva il tenente del
dipartimento della polizia metropolitana di Cali Gustavo González Giraldo,
figlio del generale Gustavo González Puerto, allontanato dall’esercito per un
presunto legame con il Cartello di Cali. La tragedia permise agli inquirenti di
individuare un accampamento per una cinquantina di uomini, in cui erano state
nascoste tende militari e buste di esplosivo liquido di uso esclusivo del
Pentagono, proiettili e granate da mortaio, più alcune mappe del Magdalena
Medio in cui erano segnalate le aziende di proprietà dei boss Pablo Escobar e
Gonzalo Rodríguez Gacha. L’inchiesta appurò che l’incidente all’Hugues aveva
impedito la realizzazione di un’”operazione
pazientemente pianificata dal Cartello di Cali con mercenari britannici e
nordamericani per assassinare Escobar e Rodríguez Gacha, che all’epoca si
nascondevano e si spostavano nella regione. E per portare a termine il piano,
la Cia, collaborava con due agenti che aveva insediato a Medellín”[51]. Un anno e mezzo più tardi, l’11 agosto
’90, una pattuglia dell’esercito scoprì un gruppo di incappucciati della Dijín,
il servizio segreto della polizia colombiana, che stava per fucilare in un
campo di calcio di un quartiere marginale di Medellín, una quindicina di
giovani sequestrati con l’accusa di essere vicini al cartello dominante nella
città[52].
E negli stessi giorni un’altra pattuglia dell’esercito individuava alcuni
agenti della polizia dotati di elicotteri in una fattoria di proprietà di Ivan
Urdinola, boss dell’eroina legato al Cartello di Cali, sospettato insieme ad
alti ufficiali colombiani di essere tra i responsabili di alcuni massacri di
contadini. L’unità della polizia era impegnata in un’operazione
d’individuazione dei nascondigli dei narcos di Medellín.
Il Pentagono ed i servizi segreti statunitensi non si limitarono a
fornire consulenza ed intelligence alle operazioni parallele contro Escobar e
soci. Agenti coperti della Dea s’infiltrarono ripetutamente tra gli uomini dei
cartelli in operazioni ambigue e spregiudicate. Nel 1987, l’agenzia antidroga
degli Stati Uniti varò un programma speciale denominato 'Seo' (Special
Enforcement Operations) che pianificò due operazioni internazionali di
infiltrazione contro i narcos di Medellín e Cali, la 'Operación Bolivar' e la
'Operación Calico'. A conclusione dell’operazione contro i laboratori di coca
insediati nella cosiddetta regione di 'Tranquilandia', fu rivelato che
l’intercettazione era avvenuta grazie ad alcune emittenti poste sui carichi di
etere venduti dagli agenti della Dea agli uomini di Jorge Ochoa.
Collaboratori dell’agenzia antidroga ed
alcuni elicotteri del Comando Sud di stanza a Panama parteciparono
all’operazione che portò all’arresto e alla morte di Rodríguez Gacha, un’azione
direttamente pianificata dal maggiore della Us Army Arnaldo Claudio,
consigliere militare delle forze di sicurezza colombiane dal 1986 al 1990 ed
autore di numerosi articoli sulle relazioni Usa-Colombia nelle prestigiosa
rivista ‘Military Review’[53].
Il maggiore Claudio è certamente una
delle figure più ambigue nella storia delle relazioni Usa-Colombia; considerato
un ‘doppio agente’ della Dea e della Cia, ha partecipato direttamente alla
cattura del dittatore Manuel Noriega a Panama. Durante la sua lunga missione di
comandante militare degli Stati Uniti in Colombia, Arnaldo Claudio ha operato
presso il Cantón Norte delle forze militari colombiane a Usaquén e
temporaneamente presso le installazioni del battaglione comunicazioni di
Facatativá, nella parte occidentale di Bogotá. Da lui dipendevano le ‘Fuerzas
Especiales Antiterroristas Urbanas (FEAU)’, protagoniste di una serie di
sanguinose operazioni clandestine, come il massacro dell’edificio ‘Altos del
Portal’, il 5 luglio dell’89, in cui furono uccisi diversi membri del gruppo
criminale legato agli smeralderi Victor Carranza e Gilberto Molina, dopo che si
erano arresi al blitz delle teste di cuoio colombiane. L’inchiesta giudiziaria
provò che il massacro del Portal fu il regalo di importanti settori delle forze
armate al narcotrafficante Rodríquez Gacha in aperto conflitto con i due boss
del contrabbando di pietre preziose. Il procedimento si concluse con la
condanna dei capitani Gustavo Oswaldo Rojas e Jorge Milton Coy, dei
sottufficiali Luis Alfonso Gómez Pérez, Orlando Martinez, Jimmy Molina, Raul
Orlando Peña e Ottilio Velásquez. Secondo l’accusa, come premio per la strage,
furono consegnati ai militari 1.050 smeraldi, 990 mila pesos e una quantità di
dollari non specificata. La misteriosa morte di Gacha durante un blitz
successivo, potrebbe essere stata ‘giustificata’ dalla necessità di eliminare
uno dei maggiori testimoni del legame tra forze armate e narcos.
Durante il processo per il massacro del
Portal, alcuni imputati confermarono il ruolo prettamente ‘politico-militare’
delle ‘Fuerzas Especiales Antiterroristas’. “Ci avete dato l’ordine di assassinare quelli della Unión Patriótica,
tra cui Pedro Nel Jiménez”, affermò durante la propria deposizione il
capitano Milton Coy, già membro del gruppo di ufficiali colombiani prescelto
dal maggiore Claudio per costituire le forze speciali antiterroriste. Il leader
di sinistra Pedro Nel Jiménez, era stato assassinato da due sicari l’1
settembre 1986 a Villavicencio un paio di giorni dopo l’omicidio del
parlamentare Leonardo Posada. Entrambi comparivano in una lista di undici
politici che era stata intercettata ad un gruppo paramilitare che operava negli
Llanos Orientali in coordinazione con l’esercito. La liquidazione dei membri
della Unión Patriótica era stata pianificata dal colonnello Oscar Meléndez,
comandante del battaglione ‘Serviez’, a cui l’organizzazione di sinistra
imputava la direzione delle operazioni paramilitari. Melendez fu
successivamente degradato, ma dopo l’ingresso nelle file del partito liberale,
fu eletto consigliere nel dipartimento di Cundinamarca[54].
La ‘guerra clandestina’ al Cartello di
Medellín è stata forse l’esempio più evidente del comportamento “oscillante”
della politica nordamericana nei confronti dei narcos colombiani. Per spiegare
le motivazioni che sottendono all’atteggiamento di favore, almeno sino al ’95,
che le agenzie militari hanno rivolto all’organizzazione di Cali è però
necessario inquadrare geostrategicamente la questione. Come sottolineato dagli
studiosi Umberto Santino e Giovanni La Fiura, gli Stati Uniti hanno dovuto
riconoscere il ruolo svolto dagli uomini di Cali “nella repressione delle forze di sinistra colombiane”, e
l’importanza degli imponenti capitali accumulati dal Cartello, “che contribuiscono in poco tempo a fare di
Miami la seconda piazza finanziaria degli Usa dopo New York” e a finanziare
i ‘contras’, alleati degli Stati Uniti contro la breve esperienza del fronte
sandinista in Nicaragua[55].
La vicenda ‘Iran-contras’, sulle operazioni segrete avviate dal
capitano Oliver North per ottenere la liberazione degli ostaggi statunitensi,
prigionieri del governo iraniano, in cambio di forniture di armi a Teheran e di
denaro ed armi alle forze antisandiniste nel paese centroamericano, è la prova
più eclatante della ‘doppia politica’ nordamericana in tema di lotta al
narcotraffico. La vicenda infatti, come documentato dal ‘Rapporto Kerry’,
pubblicato nel 1989 dalla Commissione
d’inchiesta del governo degli Stati Uniti, potrebbe essere più propriamente
definita come ‘scandalo coca-gate’. Con la copertura di aiuti umanitari alle
forze antisandiniste, si sviluppò infatti un vasto traffico di droga ed armi
che coinvolgeva Bahamas, Cuba, Nicaragua, Haiti, Honduras, Costa Rica, Panama e
Colombia. La cocaina, acquistata dal Cartello di Medellín, veniva poi
trasferita negli Stati Uniti dopo uno scalo nella postazione della contras
nicaraguense, coordinata dall’agente Cia John Hull. I carichi viaggiavano a
bordo di un Dc-3 di proprietà del narcotrafficante Jorge Luis Ochoa, che
operava sulla rotta Barranquilla-Miami con le insegne della compagnia
nordamericana ‘Southern Airlines’. Lo stesso Ochoa si serviva
contemporaneamente di velivoli dell’aeronautica militare colombiana per il
trasferimento di cocaina in Spagna. L’inchiesta del Congresso ha provato che
l’organizzazione dei traffici era stata demandata alla Cia che contestualmente
forniva consiglieri e supporto logistico alla ‘guerra sucia’ dei servizi
segreti guatemaltechi e salvadoregni, mentre la Dea sceglieva di non
intervenire contro la rete dei narcotrafficanti e di ridurre le proprie
operazioni in Centro America. L’agenzia antidroga, nel 1983, arrivò a chiudere
il proprio ufficio in Guatemala, “paese che diventava sempre più importante nel
traffico della cocaina che finanziava le operazioni antisandiniste”[56].
L’agente Celerino Castillo, che al tempo
lavorava per la Dea nell’area centroamericana, ha rivelato all'autorità
giudiziaria di Washington che la coca proveniente dalla Colombia finiva “negli hangar dell’aeroporto di Ilopango, una
delle basi della contras in El Salvador, ed era poi trasportata negli Usa da
piloti che godevano della protezione governativa”. Alcuni carichi di droga
sarebbero giunti direttamente in alcune basi militari della Florida. Tra i
piloti, Castillo ricorda il trafficante di droga ed armi William Brasher, che
godeva “di credenziali della Cia e
dell’Fbi e la sua jeep era intestata all’ambasciata Usa in Salvador”.
Secondo quanto appurato dalla ‘commissione Kerry’, William Brasher “era un uomo del colonnello Oliver North”.
E’ stato altresì appurato che negli Stati Uniti la cocaina e il micidiale
‘crack’ finivano nelle mani dei gruppi criminali di Los Angeles che versavano
in cambio milioni di dollari al colonnello Enrique Bermúdez, comandante
militare della guerriglia antisandinista, e fino al suo assassinio nel 1991, “sul libro paga della Cia”[57].
Un ruolo centrale per i trasferimenti di
armi in Nicaragua è stato svolto da una serie di trafficanti di armi ed agenti
dei servizi segreti israeliani, ed in particolare da Mike Harari, legato al
generale Noriega, già a capo delle operazioni di uno speciale gruppo segreto
attivato dal Mossad per liquidare l'organizzazione terroristica palestinese di
'Settembre nero'. In accordo con il direttore Cia per l'America Latina Duane
Clarridge e con il consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente
Bush, Donald Gregg, Harari comprò armi in Polonia e Cecoslovacchia per 20
milioni di dollari. Esse furono poi trasferite a Panama e alle basi contras in
Honduras e Costa Rica. Mike Harari assicurò armi per 500 milioni di dollari
allo stesso regime di Manuel Noriega, mediandone altresì i traffici di cocaina
con la Colombia.
A Città del Guatemala operarono invece il
rappresentante delle ‘Industrie Militari Israeliane’ Pesakh Ben Or e il ‘socio’
David Marcus Katz, principale fornitore dei generali onduregni, del dittatore
Anastasio Somoza e di alcune organizzazioni di estrema destra di coloni
israeliani insediatisi a Gaza e in Cisgiordania. La società ‘Sherwood
International’, di proprietà di Ben Or, è stata utilizzata dalla Cia per
trasferire ai contras armi acquistate nei paesi dell’est europeo[58].
Lo stesso Ben Or avrebbe fatto da intermediario con i ‘consiglieri’ israeliani,
tra cui l’altro trafficante Mike Harari, giunti in Colombia nell’89 per
addestrare paramilitari e sicari dei cartelli della coca.
La ‘israelo-connection’ ebbe infine una
testa di ponte in Honduras, l'ex colonnello Leo Gleser, fondatore della ‘Isds’
(International Security and Defense System), importante industria d’armi che
contava sulle ‘consulenze’ dell’agente Cia Felix Rodríguez, e che presso la
base delle forze speciali di Tamara, Tegucigalpa, coordinava l'addestramento
degli 'squadroni della morte' di mezzo centroamerica. Sempre in Honduras, la
rete del capitano Noth aveva ingaggiato il maggiore trafficante di cocaina
locale, Ramon Matta Ballesteros[59].
I traffici di armi e droga si intrecciarono
con le operazioni di riciclaggio a favore dei narcos colombiani della ‘Bcci’
(Bank of Credit and Commerce International), l’istituto finanziario di
proprietà di imprenditori del Pakistan e dell’emirato arabo di Abu Dhabi, con
sedi sparse in tutto il mondo. La ‘Bcci’ è stata utilizzata per anni per le
operazioni clandestine della Cia, che contava su un proprio informatore
all’interno dell’istituto, l’ex capo dei servizi segreti sauditi Kamal Adham,
addestrato presso la base di intelligence di Langley (Virginia). La filiale di
Panama in particolare, fu al centro delle triangolazioni armi-droga che la Cia
realizzò a favore delle dittature centroamericane. L’uomo chiave di questa
‘guerra occulta’, fu per anni il presidente-colonnello Manuel Antonio Noriega,
poi ‘deposto’ manu militari dagli stessi Stati Uniti. Noriega fu reclutato
dalla Cia quando era cadetto presso la Scuola militare di Chorillos, Perù; come
‘informatore’ del Dipartimento di stato, seguì tutte le più importanti
operazioni politico-militari ed economiche che si svilupparono a Panama,
compreso l’insediamento nell’aprile del 1980 della prima filiale
centroamericana della ‘Bcci’ nei locali di una società del finanziere Carlos
Duque, legato ai massimi vertici delle forze armate panamensi. Lo stesso
direttore della ‘Bcci’ offrì più volte il proprio jet personale al colonnello
Noriega per visitare i paesi centroamericani e gli Stati Uniti e sostenne
finanziariamente l’acquisto di elicotteri ed aerei per le forze armate e la
Presidenza di Panama[60].
Uomini e filiali della ‘Bcci’ gestirono
contestualmente importanti traffici di armi o di materiale nucleare, a favore
dei tradizionali ‘nemici’ degli Stati Uniti. La ‘doppia politica’ di Washington
in materia di lotta al terrorismo e al narcotraffico, fece sì che nel 1984,
quando la Cia stilò un rapporto sui legami tra la ‘Bcci’ e le fazioni
terroristiche palestinesi, la Casa Bianca decise di non intervenire per non
incrinare la relazione con una banca strategica nel finanziamento delle
operazioni coperte in Centro America[61].
Identico l’atteggiamento adottato dagli Stati Uniti quando nell’84, l’istituto
acquistò un’importante banca colombiana in odor di riciclaggio di capitali
mafiosi, il ‘Banco Mercantile’. Trasformata nel ‘Banco de Credito y Comercio de
Colombia’, l’istituto moltiplicò i propri sportelli nel triangolo
Medellín-Itaguí-Envigado e avviò, grazie alla collaborazione di importanti
settori finanziari e governativi, sospette relazioni con quasi tutti i maggiori
istituti di credito del paese.
Gli sportelli della ‘Bcci’ avviati a
Panama, in Colombia e a Trampa (Florida) servirono a far transitare gli immensi
capitali accumulati dai cartelli del narcotraffico e in particolare curarono le
transazioni di Pablo Escobar, dei fratelli Jorge e Fabio Ochoa, del boss di
Pereira Jaime Vallejo e di Gonzalo Rodríguez Gacha. Dietro la ‘Bcci’ avrebbe
operato il gruppo di trafficanti d’armi israeliani vicini al colonnello Yair
Klein, che dall’isola di Antigua, trasferirono sistemi bellici e munizioni a
favore dei narcos colombiani. Secondo José Blandón Castillo, militare legato
agli uomini del Cartello di Cali ed ex collaboratore di Manuel Noriega, il dittatore
di Panama riceveva una percentuale, tra lo 0,5 e l'1%, su ogni dollaro del
narcotraffico che si lavava nelle banche presenti nel paese. Sempre a Noriega
il Cartello di Medellín aveva versato cinque milioni di dollari in cambio
dell’autorizzazione ad installare alcuni laboratori per il processamento della
coca nella selva del Tapón del Darén al confine con la Colombia[62].
L’amministrazione Reagan
era a conoscenza dell’implicazione delle forze armate panamensi nei traffici di
droga sin dai primi anni ’80 grazie ad un rapporto sul riciclaggio di denaro
sporco presentato dal Senato (“The Cash Connection, Organized Crime, Financial
Institutions and Money Laundering”). La scelta fu tuttavia quella di continuare
a sostenere Noriega, pedina chiave della strategia antiguerriglie in Nicaragua,
Salvador e Guatemala. Dopo un viaggio negli Usa con un aereo di proprietà del
trafficante di droga Steven Michael Kalish che operava tra Barranquilla e
Miami, l’uomo forte di Panama accettò l’invito di Ronald Reagan ad aprire le
banche nazionali agli investimenti nordamericani e a collaborare più
apertamente nella lotta contro il sandinismo. Noriega autorizzò la Cia ad
installare a Panama una potente
stazione per il rilevamento elettronico e concesse l’uso del territorio nazionale
al Comando Sud degli Stati Uniti per l’addestramento dei gruppi armati
antisandinisti. I ‘berretti verdi’ s’installarono nel paese in numero
nettamente maggiore a quello previsto dall’accordo bilaterale sul Canale di
Panama. La totale fedeltà agli interessi strategici degli Stati Uniti fu
premiata con elogi e riconoscimenti pubblici. Nel maggio ’86, l’allora
responsabile della Dea John Lawn, espresse “profondo apprezzamento per la
vigorosa politica antidroga adottata” dal presidente panamense[63].
Quattro mesi più tardi, il colonnello Oliver North, con l’approvazione
dell’allora segretario di stato George Shultz, si riunì segretamente a Londra
con il dittatore per discutere un piano d’intervento militare contro il
sandinismo, poi abbandonato a seguito dello scoppio dell’‘Irangate’.
La ‘doppia politica’ di Washington in tema
di lotta alla coca è proseguita anche dopo l’intervento militare a Panama: al
posto dell’ex alleato Noriega, furono insediati alla presidenza Guillelmo
Endara e alla vicepresidenza Guillelmo Ford, entrambi direttori di istituti
bancari utilizzati dai cartelli colombiani e dalla mafia statunitense per il
lavaggio dei narcodollari. In particolare Guillelmo Ford era il maggiore
azionista della ‘Dadeland Bank’ della Florida, coinvolta in una grossa
operazione di riciclaggio diretta dal boss colombiano Gonzalo Mora. Uno dei più
fidati consiglieri di Endara, l’uomo d’affari Carlos Eleta, venne arrestato nel
’91 negli Stati Uniti per un traffico di oltre 600 chili di cocaina. Lo stesso Procuratore
generale post-Noriega, Rogelio Cruz, era stato direttore della ‘Fist
Interamericas Bank’, l’istituto bancario del padrino di Cali Gilberto Rodríguez
Orejuela, con cui la ‘Bcci’ aveva operato sui mercati centroamericani sin dal
suo arrivo nel Canale[64].
Attraverso questo istituto bancario erano transitati 46 milioni di dollari del
narcotraffico a favore della filiale di New York del ‘Banco Cafetero’,
l’istituto colombiano già utilizzato da Licio Gelli e Michele Sindona per
ripulire il denaro del gruppo P2. Nell’indagine fu implicato il fratello
dell’altro vice di Endara, Arias Calderón. Lo stesso presidente ha dovuto
ammettere il possesso del 20% del pacchetto azionario del ‘Banco
Interoceanico’, commissariato dalle autorità panamensi per le attività di
riciclaggio[65].
Aiuti Usa contro i diritti umani
“Il personale militare U.S.A. in Colombia,
continuerà ad operare, in attività di addestramento. In nessuna circostanza i
militari Usa parteciperanno o accompagneranno le forze colombiane impegnate in
operazioni di ogni sorta. Il sostegno
Usa continuerà ad essere sottoposto alla verifica del rispetto dei diritti
umani da parte del Dipartimento di stato, settore in cui le forze armate
colombiane hanno ottenuto significativi risultati”[66].
E’ sufficiente questo impegno assunto dall’ex vicesegretario Thomas Pickering
per fugare i dubbi di coloro (in prima fila le maggiori organizzazioni
internazionali per i diritti umani) che ipotizzano che il ‘Plan Colombia’ violi
apertamente l’emendamento Leahy del 1996 che proibisce di “destinare gli ‘aiuti’ ad unità militari di un paese straniero, se il
segretario di Stato ritiene credibile che esse abbiano commesso gravi
violazioni dei diritti umani”?
Dato l’esito del voto a favore dell’ingente pacchetto di aiuti
militari alla Colombia, è evidente che i congressisti degli Stati Uniti,
democratici e repubblicani, hanno creduto pienamente agli apprezzamenti
dell’amministrazione Clinton a favore delle forze armate e del governo di
Bogotà. “Negli ultimi due anni – ha
commentato soddisfatto il vicesegretario della difesa Brian Sheridan - i tribunali civili hanno processato 240
membri delle forze armate e della polizia per violazioni dei diritti umani, il
governo ha intrapreso importanti passi nell’allontanare ufficiali superiori e
della polizia coinvolti in esse, tra cui tre generali, come il comandante Bravo
per la sua incapacità a prevenire i massacri dei gruppi di estrema destra a La
Gabarra e Tibú nell’agosto ’99”[67].
In quei giorni un gruppo di 300 uomini appartenenti alle ‘Autodefensas Unidas
de Colombia’ (Auc) dirette da Carlos Castaño, aveva seminato il terrore nella
regione del Cacatumbo, un’area strategica per le vaste coltivazioni di coca,
l’estrazione petrolifera e la vicinanza con il Venezuela. Dopo aver
attraversato impunemente un ‘check-point’ controllato dalla forze armate
colombiane, i paramilitari erano entrati nel villaggio di La Gabarra per
assassinare ventitre campesinos. Il governo inviò nella zona il battaglione
‘Héroes de Saraguro’ per proteggere la popolazione da altre incursioni, ma
dall’8 luglio sino al 21 agosto, le Auc, perpetuarono una serie di nuovi
massacri nei centri urbani di Tibú e La Gabarra con la morte di oltre cinquanta
uomini e la sparizione di altri trenta. Oltre 7.600 abitanti furono costretti a
rifugiarsi nel vicino Venezuela e nelle città colombiane di Cúcuta e Puerto
Santander[68]. Lo scandaloso
comportamento omissivo delle autorità militari ha convinto il presidente
Pastrana a decretare la sospensione dalle proprie funzioni del comandante della
5^ brigata Alberto Bravo, del comandante della polizia del Nord di Santander
Julio Sánchez Holguin e del direttore regionale del Das Aimer Muñoz.
“Sono assai significative
le decisioni del ministro della difesa di Bogotá” ha aggiunto il
vicesegretario Brian Sheridan “di
revocare dalle loro funzioni i generali Millán e Del Río a causa delle loro
relazioni con le organizzazioni paramilitari e ad ordinare gli arresti del
generale Uscátegui e del colonnello Sánchez Oviedo per un loro presunto
coinvolgimento nel massacro avvenuto a Mapiripán nel 1997”. “Nessuna
assistenza Usa è stata fornita a quelle unità militari di cui sospettiamo
fortemente il coinvolgimento nella commissione di gravi violazioni dei diritti
umani” ha concluso la sua audizione il vicesegretario Sheridan. “Tutte le unità militari colombiane che
ricevono assistenza antinarcotici sono attentamente monitorate dall’Ambasciata
e dal Dipartimento di stato”[69].
Il Pentagono ha fornito una prima lista delle unità dell’esercito
a cui è stata fornita assistenza diretta: il Comando speciale orientale di
stanza a Puerto Carreño (dipartimento di Vichada); la 24^ brigata di Mocoa
(Putumayo); la 12^ brigata di Florencia (Caquetá); le due brigate mobili delle
Forze speciali e dell’Aviazione dell’esercito. Ad esse si è aggiunta
recentemente la Scuola per le Forze speciali dell’isola di Barrancón, nei
pressi di San José del Guaviare. Per altre tre brigate di cui era stata
richiesta l’assistenza dal governo colombiano (la 3^ brigata di Cali, la 7^ di
Villavicencio, Meta, e la 2^ brigata mobile), è stato deciso di soprassedere “sulla base dei precedenti in materia di
violazioni e per l’assenza di ‘misure reali’ per consegnare alla giustizia i
responsabili di queste azioni”[70].
Washington nega di aver mai fornito assistenza a reparti
implicati in crimini contro le popolazioni civili o colluse con le operazioni
paramilitari, ma proprio la vicenda del villaggio sudorientale di Mapiripán,
citata da Brian Sheridan per sottolineare i “passi in avanti” delle forze armate
colombiane in tema di diritti umani, ha smentito clamorosamente le
dichiarazioni degli uomini del Pentagono. A Mapiripán, al centro di una regione
che produce quasi il 30% della coca mondiale, nel luglio del 1997 furono
assassinati cinquanta civili durante una vasta operazione condotta da un gruppo
paramilitare che, secondo la Procura colombiana, era diretto dal colonnello
dell'esercito Lino Sánchez e dal leader delle forze paramilitari di destra
Carlos Castaño. Sánchez, arrestato insieme ad altri due ufficiali, comandava la
2^ brigata mobile, che proprio alla vigilia del massacro era stata addestrata
dalle forze Usa in una base fluviale a circa 80 chilometri da Mapiripán[71].
Nello specifico i soldati Usa del 7° Gruppo delle forze speciali
di Fort Bragg, avevano curato l’addestramento delle truppe colombiane presso la
‘Scuola’ di Barrancón e nel vicino scalo aereo di San José del Guaviare, dove
gli Stati Uniti hanno installato un radar per l’appoggio tattico. Proprio in
questa base aerea, secondo i magistrati, furono alloggiati i narcoparamilitari
durante il loro trasferimento a Mapiripán, nel luglio del ‘97. Il Pentagono ha
tentato in tutti i modi di smentire che in quella data i ‘berretti verdi’
risiedessero ancora a San José del Guaviare. Secondo Brian Sheridan, i militari
nordamericani avevano concluso il loro addestramento il 23 giugno, per
riprenderlo il 18 agosto sino al successivo 18 settembre. Alcuni documenti
rinvenuti presso il Dipartimento della difesa hanno però rivelato che le forze
speciali statunitensi risiedettero ininterrottamente nel Guaviare dal 14 maggio
al settembre del 1997 per partecipare a “nove
esercitazioni congiunte con i militari colombiani”. Inoltre, proprio nei
giorni compresi dal 20 al 22 luglio, quelli in cui fu perpetuato il massacro a
Mapiripán, il personale militare Usa partecipava a Barrancón ad una
cerimonia di fine corso dei cadetti
colombiani.
Appositamente interrogati, i militari statunitensi hanno
dichiarato di non aver visto attività inusuali attorno alle basi di San José e
Barrancón nei giorni precedenti la strage. L’inchiesta della Procura generale
colombiana ha tuttavia accertato che il 12 luglio, due aerei civili, un Antonov
ed un Dc-3, erano atterrati a San José e che da essi erano scesi “quindici paramilitari del gruppo di Castaño,
armati con maceti e coltelli, mentre venivano
scaricati diverse tonnellate di provviste e volantini indirizzati alla
‘popolazione del Guaviare’ in cui si ordinava di cessare ogni cooperazione con
la guerriglia”[72].
I paramilitari furono raggiunti nello scalo militare da altri uomini armati e
successivamente, con gli stessi velivoli, si diressero verso Mapiripán. Sempre
secondo la Procura, altri paramilitari attraversarono il río Guaviare con delle
imbarcazioni veloci per raggiungere una base d'emergenza della fanteria di
marina colombiana, nei pressi di Barrancón, “realizzata dal genio della Us Navy nel ‘94, e dove la marina
statunitense continua ad addestrare le unità colombiane”. Le forze
paramilitari operarono indisturbate nel villaggio di Mapiripán dal 15 al 20
luglio, giorno in cui il Comitato internazionale della Croce Rossa riuscì ad
inviare un aereo con propri monitor.
In seguito alle prove raccolte, sono stati rinviati a giudizio i
colonnelli Lino Sánchez e Carlos Ávila e gli ufficiali Arbey García, Miller
Uruena, Leonardo Montoya e Juan Carlos Gamarra, tutti membri della 4^ divisione
dell’esercito. L’allora comandante della divisione, generale Humberto
Uscátegui, è stato rimesso alla giustizia militare insieme al colonnello Hernán
Orozco, per falso in atto publico ed “omissione
di fronte ai delitti di omicidio e sequestro aggravato”. Su Uscátegui sono
in corso altri procedimenti penali, sempre per ‘atteggiamenti omissivi’ e
‘gravi negligenze’. Il generale risulta indagato per non essere intervenuto a
difesa della popolazione di Puerto Alvira (Meta) il 4 maggio del ’98, quando i
‘paramilitari’ delle ‘Autodefensas Unidas de Colombia’ (Auc) sequestrarono,
assassinarono e bruciarono ventidue persone. Per questo massacro, insieme ad
Uscátegui, sono indagati altri ufficiali dell’esercito colombiano, il
comandante della 3^ divisione di Cali Jaime Humberto Cortés, il comandante
della 2^ brigata di Barranquilla Freddy Padilla de León, il nuovo comandante
della 4^ divisione Agustín Ardila e l’allora capo del battaglione ‘Joaquín
París’, Lino Sánchez, il colonnello accusato di aver autorizzato l’atterraggio
dei paramilitari a San José del Guaviare alla vigilia del massacro di
Mapiripán. Il generale Humberto Uscátegui dovrà altresì rispondere di quanto
accaduto il 3 ottobre ’97, quando una commissione d’inchiesta fu attaccata dai
narcos a San Carlos de Guaroa, dopo aver individuato un laboratorio per il
processamento della coca. A seguito dell’incursione furono assassinate undici
persone[73].
L’amministrazione
Usa è perfettamente consapevole della gravità della situazione colombiana e del
coinvolgimento delle forze di sicurezza locali nei massacri paramilitari. Nel
’97 il Dipartimento di stato ha descritto le forze armate come “uno dei principali agenti della violazione
dei diritti umani in Colombia, sia nella loro azione diretta che attraverso i
suoi vincoli con gruppi 'paramilitari'”; inoltre ha evidenziato il “livello generale di impunità del paese nel
97% dei casi, favorito dalla particolare giurisdizione speciale di cui godono i
militari”[74].
Ancora
più espliciti gli ultimi due rapporti presentati proprio dal Dipartimento di
stato sulla condizione dei diritti umani in Colombia. “Unitá delle forze armate e di sicurezza colombiane hanno una lunga
storia di gravi abusi dei diritti umani, inclusa l’attivitá di squadroni della
morte, principalmente finalizzati contro i gruppi insorgenti di sinistra. Nel
1989 e 1990, gruppi paramilitari colombiani
massacrarono 107 persone nell’area attorno a Trujillo”. La strage,
ma questo il Dipartimento non lo ricorda, fu scatenata per ‘liquidare’ ogni
opposizione sociale contro l’acquisizione da parte del cartello di Cali delle
migliori terre locali da cui erano stati espulsi con la forza numerosi piccoli
produttori e contadini. “Nel 1995 –
prosegue il rapporto - il governo ammise
che l’esercito e la polizia colombiana erano a conoscenza del massacro, ma non
fecero nulla…”. Sempre secondo il Dipartimento di stato, nel 1996 ci
sarebbero stati 54 omicidi extragiudiziari effettuati dalle forze di sicurezza,
e “l’Avvocato generale colombiano per i
diritti umani ha fatto riferimento ad inchieste su 462 casi di tortura commessi
dalla polizia, dal Das, dall’esercito, da agenti penitenziari, nel periodo
compreso tra il giugno 1995 e l’ottobre 1996”.
Dati
precedenti all’era Pastrana? Si legge nel rapporto del Dipartimento presentato
nel febbraio 2000: “L’impegno del Governo
in materia di diritti umani continua ad essere povero”. “Le forze di sicurezza, i gruppi paramilitari,
la guerriglia e i narcotrafficanti, continuano a commettere gravi abusi,
incluse esecuzioni extragiudiziarie e torture. (…) I paramilitari, responsabili
di numerose stragi dispongono di una base di appoggio tra militari e
poliziotti, così come tra la classe dominante a livello locale in certe regioni”.
Il rapporto successivo (febbraio 2001) segnala altresí come “ci siano stati accordi taciti tra i
comandanti militari e le forze paramilitari che operano liberamente in alcune
regioni sotto il controllo dell’Esercito”. Tra le 418 persone arrestate nel
’98 perché legate ad attività paramilitari, compaiono i nomi di 82 appartenenti
alla forza pubblica e l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha
denunciato che le violente operazioni aeree effettuate dai gruppi delle
‘autodefensas’ nel Sud di Bolivar nel novembre dello stesso anno sono
“incomprensibili” in una zona sottoposta al controllo dello spazio aereo da
parte delle forze armate colombiane. “In
Colombia - prosegue l’ultimo rapporto del Dipartimento di Stato - sono attualmente in corso indagini su 303
crimini presumibilmente commessi da militari e poliziotti, tra cui molti
ufficiali, tanto come delitti politici che comuni. Tuttavia nei casi in cui si
è giunta alla condanna di militari per violazioni dei diritti umani, la
maggioranza di essi non sono stati incarcerati, ma confinati in basi militari o
centri di detenzione della polizia”[75].
“In tutto il paese – conclude il
Dipartimento di Stato – i paramilitari
hanno assassinato, torturato e minacciato i civili sospettati di simpatizzare
per la guerriglia in una campagna orchestrata per fronteggiare le Farc e l’Eln
per il controllo delle coltivazioni di coca in aree strategiche”. La consapevolezza dell’amministrazione Clinton
sui crimini paramilitari non è stata tuttavia sufficiente a includere
formalmente questi gruppi nella lista dei ‘terroristi internazionali’ nemici
del governo Usa, dove invece compaiono Farc ed Eln. “Secondo la legge statunitense – ha spiegato Phil Chicola,
responsabile dell’Ufficio andino del Dipartimento di Stato durante
l’amministrazione Clinton – questi gruppi
devono commettere azioni che vadano contro gli interessi nazionali degli Stati
Uniti per poterli includere nella lista. Fortunatamente, i paramilitari non
hanno commesso nessun crimine, non hanno sequestrato, non hanno assassinato, né
hanno attaccato infrastrutture economiche che appartengono a stranieri in
Colombia”. Chicola ha infine invitato il governo colombiano ad avviare il
dialogo con questi gruppi. “I
paramilitari sono attori reali nella crisi colombiana e il governo e la societá
colombiana devono cercare di conseguire una soluzione unitaria e tenere in
conto l’esistenza di questo gruppo armato”[76].
Una conferma ufficiale che il terrorismo paramilitare agisce in sintonia con
gli obiettivi geostrategici Usa nei Caraibi.
Ancora menzogne ed omissioni
Peccato
che lo stesso Dipartimento di stato abbia omesso dai suoi ultimi rapporti ogni
riferimento alle sempre più numerose inchieste giudiziarie sul coinvolgimento
di alti ufficiali delle forze armate colombiane nel traffico internazionale
della droga. Tra i casi più eclatanti l’arresto nel novembre del ‘98, di cinque
ufficiali dell’aeronautica colombiana, tra cui il maggiore Gonzalo Alberto
Noguera ed il capitano Juan Ricardo Ruiz Ramírez, accusati di aver trasportato
a Miami in un Hercules 1005 de la Fac (Fuerza aerea de Colombia) ben 415 chili
di cocaina e 6 di eroina[77]. Nel novembre ’99, nell’ambito dell’inchiesta
sull’omicidio del leader conservatore Alvaro Gómez Hurtago, che ha visto il
rinvio a giudizio del colonnello Bernardo Ruiz Silva, ex comandante della 20^
brigata dell’esercito, sono stati raccoli indizi “di arricchimento illecito e relazioni con il Cartello di Cali”
contro il generale Ivan Ramírez. L’inchiesta ha svelato però altri inquietanti
particolari. Nell’abitazione di Gómez Hurtago sono stati rinvenuti documenti
sulla preparazione di un golpe militare in Colombia nei mesi ‘caldi’ della
crisi Samper, alcuni a firma del generale Ramírez. Al momento dell’omicidio,
Ivan Ramírez ricopriva la carica di direttore del Dipartimento D-2 dei servizi
segreti, che operava in stretto contatto con un gruppo occulto di spionaggio,
il cosiddetto ‘Nucleo Cazadores’, responsabile della sparizione e dell’omicidio
di alcuni leader politici di opposizione[78].
Secondo il ‘Washington Post’, il generale Ramírez, sino alla metà del ’99 “è stato una fonte chiave d’intelligence per
gli Stati Uniti ed ha fatto da informatore retribuito per la Cia, nonostante
mantenesse stretti legami con i gruppi paramilitari di estrema destra che
finanziavano le loro attività con il traffico di droga"[79].
Il
coinvolgimento di alti ufficiali delle forze armate e della polizia nel
narcotraffico è stato tuttaltro che sporadico o temporalmente circoscritto, e
le differenti amministrazioni succedutesi sono dovute intervenire con frequenza
per ‘allontanare’ funzionari nominati ai massimi vertici dei corpi di
sicurezza. Il direttore del Das durante l’amministrazione di Misael Pastrana
(1970-74), generale Jorge Ordonez Valderrama, fu costretto a dimettersi a
seguito di una serie di denunce per traffico di cocaina. Nello stesso periodo
la polizia nazionale accusò l’intero Dipartimento amministrativo di sicurezza
di essere implicato nel narcotraffico; in due distinte operazioni i capi del
Das di Leticia e di Santa Marta furono arrestati all’aeroporto di Bogotá perché
in possesso di decine di chili di cocaina. Tra il ’75 e il ’76, unità aeree e
navali delle forze armate furono utilizzate per il trasferimento di ingenti carichi
di droga: un volo cargo della Fac fu intercettato dall’aeronautica ecuadoreña
dopo essersi rifornito di stupefacenti nella selva, mentre la fregata ‘Gloria’
venne sequestrata dalle autorità doganali dopo il rinvenimento a bordo di un
carico di coca. Quest’ultima vicenda ebbe come conseguenza la destituzione del
capo del Das di Barranquilla, mentre i marinai della ‘Gloria’ furono
scandalosamente assolti dai giudici della corte militare.
L’amministrazione Barco fu costretta ad allontanare 300
ufficiali di tutti i livelli, tra cui l’allora direttore nazionale della polizia, generale José Guillermo Medina
Sánchez, indicato da alcuni organi di stampa internazionali come “vicino” al
narcotraffico, e successivamente arrestato su mandato della Corte suprema di
giustizia. Nel 1978 fu la volta dei ministri della difesa e del lavoro del
governo di Turbay Ayala ad essere accusati di legami con i narcos. Non ne uscì
indenne lo stesso presidente su cui piovvero i sospetti di un aiuto elettorale
da parte dei maggiori trafficanti di smeraldi. Altri due ministri della difesa
furono vincolati ad esponenti del narcotraffico. Il generale Miguel Vega Uribe
sposò la figlia del padrino di Turbo Escrucería Delgado, condannato a metà anni
’80 da un tribunale della Carolina del Nord per l’importazione negli Stati
Uniti di tonnellate di cocaina, mentre l’ex generale Luis Carlos Camacho
dovette lasciare il dicastero dopo che un fratello fu scoperto con un carico di
cocaina a bordo di un aereo della ‘Satena’, la compagnia di proprietà della
Difesa, su cui volava come unico passeggero dalla città amazzonica di Leticia[80].
Cinque anni più tardi finì nelle maglie della giustizia un’intera
compagnia delle forze speciali colombiane, accusata di aver protetto il
trasferimento di un laboratorio di cocaina dal Caquetá ad una zona più sicura.
Nel febbraio dell’’83 il Procuratore generale della nazione, Carlos Jiménez
Gómez, presentò un rapporto in cui coinvolgeva 163 persone, tra cui 59 membri
attivi delle polizia e delle forze militari, nei crimini commessi dal gruppo
‘paramilitare’ “Mas” (Muerte a secuestradores), costituito dai principali boss
del narcotraffico. Tra essi comparivano i nomi di alcuni ufficiali in forza al
battaglione ‘Barbula’ di Puerto Boyacá, un comandante della brigata che operava
nel dipartimento di Cundinamarca ed uno dei maggiori esperti del paese in lotta
anti-insorgente. Lo stesso Procuratore aggiunse che le organizzazioni di
‘giustizia privata’ erano coinvolte in 150 casi di sparizioni, in buona parte
avvenute nel dipartimento di Antioquia. La risposta di generali ed ufficiali fu
unanime: denunciando l’“infamia
orchestrata contro la dignità delle forze armate”, offrirono un giorno del
loro stipendio per pagare gli avvocati difensori dei loro colleghi, mentre
l’allora ministro della difesa generale Fernando Landazábal, denunciò Jiménez
Gómez per “aver tentato di sporcare
l’immagine dei militari”[81].
Nel novembre dell’’83, un gruppo delle forze speciali colombiane
di stanza a Villavicencio, comandate dal generale Luis Eduardo Roca, intervenne
a sostegno del trafficante Camilo Rivera per trasferire un sofisticato
laboratorio per il processamento della cocaina, da un’area controllata dal 1°
Fronte delle Farc ad una più sicura alla frontiera con il Brasile. L’operazione
durò 26 giorni e vide la partecipazione di una cinquantina tra ufficiali e
sottufficiali della 7^ brigata dell’esercito, che utilizzarono velivoli aerei
ed armi di proprietà dello stesso Rivera. La base militare di Apiay fu
utilizzata per gli scali tecnici dei voli che trasportarono le attrezzature del
laboratorio chimico. Alla fine dell’operazione, i militari ricevettero un
compenso valutato tra i 500 e i 2.200 dollari; nonostante le prove schiaccianti
raccolte dai magistrati che evidenziarono come l’operazione non sarebbe stata
possibile “senza il permesso diretto del
comandante delle forze armate colombiane, generale Miguel Vega Uribe”,
nessuno degli autori fu condannato. Solo tre ufficiali ricevettero una
sospensione dalle funzioni per un anno[82].
Gli uomini della 7^ brigata dell’esercito furono coinvolti nello
stesso anno in un’altra inchiesta sul narcotraffico, quando intervennero
‘autonomamente’ contro i guerriglieri del 3° fronte delle Farc che si erano
impossessati dei laboratori per il processamento della cocaina installati a
Yarí, nell’azienda del narco Camilo Rivera. L’indagine delle forze di polizia
lasciò aperta l’ipotesi che “militari e
altre persone potenti in Colombia avevano interessi finanziari nel complesso di
Yarí, in grado di produrre sino a tre tonnellate di stupefacenti al mese”[83].
Uno dei maggiori esponenti del narcotraffico colombiano,
Rodríguez Gacha, arrivò a vantarsi pubblicamente di aver stretto legami con
alcuni alti esponenti militari. Le operazioni pianificate per catturarlo fallirono
sempre in quanto egli poteva contare sulle soffiate preventive del colonnello
Plinio Libardo Correa, a capo del B-2 (il servizio segreto militare) e
dell’allora direttore della polizia generale José Medina Sánchez, poi coinvolto
dalla Corte Suprema di giustizia in un procedimento per arricchimento illecito[84].
Nel 1986, Rodríquez Gacha fu protagonista di una memorabile festa di compleanno
nel municio di La Dorada, presenti i narcotrafficanti Pablo Escobar, Fabio
Ochoa, Jairo Correa e Gilberto Molina, il cui il servizio di sicurezza fu
effettuato da agenti della polizia nazionale, sotto il comando del capitano
Yesid Parra[85].
Grazie all’impunità assicuratagli per oltre trenta anni
dall’autorità giudiziaria colombiana o dalle maggiori agenzie investigative internazionali,
il boss di Boyacá Victor Carranza ha potuto assumere il ruolo di eminenza
grigia del contrabbando mondiale degli smeraldi, stringendo una vera e propria
alleanza strategica con il Cartello di Cali, la polizia colombiana e la stessa
Dea[86].
Socio sin dagli anni ’80 dello Stato colombiano nelle società concessionarie
delle miniere di smeraldi, interessi multimiliardari con i governanti di
Brasile, Zambia e Zimbabwe, Carranza ha seminato il terrore nella regione del
Magdalena Medio e del Meta grazie alle organizzazioni di ‘giustizia privata’
che coordinava e finanziava: ‘Los Machetos’, ‘Los Motosierras’, ‘Los
Carranceros’, i primi due autonominatisi così per gli strumenti di morte
(maceti e motoseghe), utilizzati per seviziare le vittime[87].
Analoga protezione fu garantita ai maggiori criminali della Valle
del Cauca, mai coinvolti in indagini poiché, secondo il comandante dell’unità
antinarcotici della polizia, “nel
traffico di droga sono presenti molti elementi vincolati al governo, ai partiti
politici, alla polizia e all’esercito, così come alla buona società del Valle”.
La dichiarazione dell’alto ufficiale fu fatta nel settembre ’84 al processo
contro il colonnello Gustavo González Puerto, accusato e assolto, della
‘sparizione’ di diversi chili di cocaina sequestrati al trafficante Héctor
Roldán[88].
I militari a servizio
dei cavalieri della coca
I legami tra forze armate e narcos si consolidarono nella
seconda metà degli anni ’80 in concomitanza dell’ascesa economica dei Cartelli
di Medellín e Cali. Le inchieste sull’impero di Pablo Escobar accertarono che
egli poteva contare sulla protezione del direttore della polizia nazionale José
Medina Sánchez, del capo del servizio segreto della 4^ brigata, Plinio Correa,
del capo delle forze speciali Eber Villegas, dell’ex capitano dell’esercito
Javier Wanumen[89]. Ad Escobar
il ministero della difesa concesse per decreto il riconoscimento di un proprio
gruppo privato di ‘vigilantes’, ‘La Seguridad Nutibara”, con un organico di 150
uomini autorizzati a girare armati e in pattuglie radiomobili. Si appurò
altresì che l’aeroporto cittadino di Medellín veniva stabilmente utilizzato per
le spedizioni di coca, grazie alla fattiva collaborazione delle unità di
sicurezza che vi operavano.
Il livello di corruzione raggiunto tra le forze dell’ordine si
rese palese nel febbraio ’85, quando fu reso noto che un centinaio di
appartenenti alla forza aerea colombiana e 200 poliziotti erano stati
destituiti per i loro legami con il mondo del narcotraffico, mentre centinaia
di giudici risultavano indagati dalla Procura generale per gli stessi motivi[90].
Il repulisti non produsse alcun effetto tra le forze di sicurezza: quando nel
novembre ’86 lo stesso Escobar fu arrestato
casualmente da una pattuglia della polizia, ottenne la libertà dopo un
paio d’ore consegnando una busta con 300.000 dollari ad un ufficiale del
commissariato del capoluogo di Antioquia[91].
Nel settembre dello stesso anno fu invece arrestato un maggiore
in forza al comando generale dell’esercito che nascondeva 80 chili di cocaina
più un carico di armi acquistate ‘legalmente’ grazie alla raccomandazione di un
generale dello stato maggiore, che invece di essere indagato, fu ‘promosso’ e
trasferito a Puerto Triunfo, una delle aree maggiormente conflittuali del
Magdalena Medio[92]. Due anni
più tardi sarebbe stato destituito l’allora comandante del servizio segreto
della 4^ brigata dell’esercito di stanza a Medellín, su cui erano stati provati
‘contatti’ con i narcotrafficanti. Escobar, inoltre, avrebbe effettuato ingenti
versamenti di denaro a favore di alcuni funzionari statunitensi onde evitare
l’intercettazione radar dei carichi di coca che dal Centroamerica raggiungevano
gli scali aerei della Florida[93].
Secondo quanto rivelato nella sua autobiografia dall’ex
vicecomandante della 4^ brigata, colonnello Augusto Bahamón Dussán, “l’infiltrazione del narcotraffico negli
organismi di sicurezza era giunta al punto che alla cosiddetta ‘guerra tra i
cartelli’, parteciparono numerosi militari ritiratisi, pagati da uno o l’altro
gruppo”. Tra i militari assoldati dai narcos, il colonnello Bahamón Dussán
cita il maggiore Henry Villegas, “capo
della sicurezza del Cartello di Medellín, che avrebbe fornito ad Escobar le
fotografie dei militari ritiratisi che, il 13 gennaio del 1988, avevano messo
la bomba all’edificio Monaco di Medellín dove viveva la sua famiglia. Grazie a queste fotografie, il Cartello di
Medellín potette assassinare il tenente (ritirato) Germán Espinoza e il
sergente Felix Estrada Rodríquez, responsabili della sistemazione della
dinamite davanti alla residenza di
Escobar”. L’autobiografia del colonnello fornisce un ulteriore elemento a
prova della ‘guerra incrociata’ tra gli uomini di Cali e quelli di Medellín:
l’11 luglio dello stesso anno, cinque ex militari (il colonnello Oscar Bedoya
Florez, i sottufficiali Julio Narvaez, Gustavo Bedoya Herrera, Luis Jesús
Caycedo e Javier Rodríquez) furono assassinati a Medellín dopo essere giunti da
Cali “per realizzare attentati contro
appartenenti al cartello di questa città”. La lunga catena di vendette
terminò a Cali il 18 febbraio dell’‘89, con l’omicidio del maggiore Libardo
Gómez, responsabile della sicurezza del ‘Grupo Radial Colombiano’, di proprietà
di Gilberto Rodríguez Orejuela[94].
L’altro ex maggiore dell’esercito incaricato della sicurezza e della protezione
personale dei fratelli Rodríguez Orejuela, Luis Mario del Basto, s’incaricò di
contattare l’ufficiale Jorge Salcedo per localizzare e assassinare Pablo
Escobar.
Immensa la rete di protezioni e collusioni di cui godettero gli
‘imprendibili’ padrini del Cartello di Cali. Per presunti atti corruttivi e
arricchimento illecito, nel 1994 venne allontanata dalle sue funzioni quasi la
metà degli ufficiali di polizia della città di Cali. La società ‘Discor’ di
proprietà dei fratelli Rodríguez Orejuela si aggiudicò una commessa di milioni
di dollari per la vendita di veicoli alla polizia nazionale, e l’affare fu
bloccato solo perché una società finanziaria di New York, a contratto firmato,
ritirò il proprio appoggio economico all’operazione. I boss di Cali, poi,
contavano su un proprio esercito privato di 200 uomini bene armati, sotto la
copertura di due società di “vigilanza”, ‘La Nacional de Securidad’ e ‘Los
Servicios de Securidad’, autorizzate dal ministero della difesa e dirette
dall’ex generale dell’esercito Raul Martínez Espinosa.
La megainchiesta ‘8.000’ contro il cartello della città
colombiana, permise d’individuare ulteriori ‘contatti’ tra militari e narcos:
oltre al ministro della difesa Botero, i fratelli Rodríguez Orejuela contavano
sul direttore dei servizi segreti della polizia ‘Dijín’ Pelaez Carmona, poi
‘trasferito’ all’ambasciata colombiana di Washington, e sul direttore
amministrativo del Das colonnello Luis Herbert España, arrestato con l’accusa
di aver ricevuto 132 milioni di pesos dai mafiosi di Cali[95].
Una serie di assegni firmati da Guillelmo Pallomari, il cassiere dei fratelli
Rodríguez Orejuela, costringeva il governo ad allontanare dal corpo d’élite
della polizia, il ‘Bloque de Búsqueda’, 3 colonnelli, 13 tenenti colonnelli, 25
maggiori e 50 agenti; lo stesso governo era costretto ad allontanare dalla
polizia per fatti legati al narcotraffico e alla violazione dei diritti umani
5.044 funzionari, tra cui 353 ufficiali. Ad essi si sarebbero aggiunti l’allora
comandante delle forze armate Ramón Emilio Gil ed il generale Hernán José
Guzmán, ufficiali già coinvolti in un’inchiesta sulle protezioni dell’esercito
agli squadroni della morte del ‘Mas’[96].
Il ‘Bloque de Búsqueda’, voluto dalla Dea per specializzare la
polizia colombiana nella lotta al narcotraffico e al terrorismo, ha goduto
sempre della supervisione e dell’addestramento dei servizi segreti
nordamericani. E qualche protezione di un certo livello i padrini di Cali
dovevano averla anche negli Stati Uniti, dato che negli anni '80 a Gilberto
Rodríguez Orejuela fu concessa la rete di distribuzione dell’azienda
automobilistica nordamericana ‘Crysler’, mentre uno degli sportelli
maggiormente utilizzati all’estero per il riciclaggio dei narcodollari del
Cartello di Cali e la compravendita di oro sui mercati internazionali, fu per
tutti gli anni ’90 il ‘Marine Midland Bank’ di New York.
Connivenze e protezioni di settori delle forze di sicurezza
colombiane con il narcotraffico sono state verificate in occasione di due
importanti indagini dei magistrati italiani. Nel novembre ’94, nell’ambito di
un’inchiesta su un grosso traffico di cocaina dalla Colombia alla Calabria,
gestito dal gruppo di Africo dei Morabito-Bruzzaniti-Palamara, si accertava che
il corriere della ‘ndrangheta a Bogotá, l’ex prete Franco Mondellini, aveva
agito con la copertura “di due alti
ufficiali colombiani”[97].
L’anno successivo, un sottufficiale dei Ros dei Carabinieri, infiltratosi in un
gruppo criminale di Medellín, riferiva nel suo rapporto ai magistrati, che ad
un’operazione di carico di 1.000 chili di cocaina su un aereo diretto in Italia
“avevano partecipato direttamente
poliziotti colombiani giunti allo scalo aereo di Medellín con due camionette
della polizia”[98].
Un recente rapporto della Commissione andina dei giuristi dal
titolo "Situazione dei diritti umani nel Putumayo", ha chiamato
fortemente in causa i militari colombiani distaccati nel dipartimento a cui è
destinata la componente qualitativamente più significativa degli armamenti
statunitensi. Dal rapporto emerge che "i
legami della polizia e dei militari coi narcotrafficanti nella regione sono
compromessi in tutti i ranghi. Secondo le testimonianze di cittadini delle
località maggiormente coinvolte e secondo alcune inchieste giudiziarie,
ufficiali di polizia e dell'esercito ricevono paghe mensili per permettere il
libero traffico di cocaina e dei componenti chimici per la sua lavorazione”.
Sempre secondo la Commissione andina dei giuristi, le forze armate colombiane
impegnate nel Putumayo “hanno permesso il
passaggio di camion carichi di etere e di acetone e il passaggio di cocaina
verso Puerto Asís. Inoltre hanno partecipato all'esecuzione di rivali nei
regolamenti di conti fra narcos"[99].
I giuristi segnalano inoltre come nell’area si siano
moltiplicati gli ufficiali in pensione coinvolti nei traffici di stupefacenti e
nell’organizzazione dei gruppi paramilitari. Uno di essi è il maggiore Mesulen
Martínez, “padrone dell'Hotel Chiluinaco
a Puerto Asís, distrutto da un’incursione armata delle Farc”, legato in
passato al narcotrafficante Rodríguez Gacha che “alloggiava nel medesimo hotel insieme ad alcuni mercenari stranieri che
addestravano i paramilitari nel suo accampamento di El Azul”. Sempre a ‘El
Azul’ dal 1987 opera un gruppo guidato dall’ex sergente dell’esercito Jorge
Amariles, che lavora la pasta di coca proveniente da Bolivia e Perù per conto
del Cartello di Cali. Le operazioni di processamento della cocaina sono state
protette per anni da un colonnello della locale base militare che preavvertiva
i narcos sulla realizzazione delle operazioni antidroga delle forze di
sicurezza.
Recentemente, nell’ambito di un’indagine contro i nuovi padrini
della criminalità colombiana, si è scoperto che al contrabbandiere di smeraldi
Luis Enrique Ramírez Murillo, a capo del cosiddetto Cartello della Costa, il
ministero della difesa ha concesso l’autorizzazione a dotarsi di propri gruppi
armati di ‘vigilanza privata’. Ancora più fitta la rete di complicità di cui ha
goduto e continua a godere Pastor Perafán, detto ‘el Presidente’, uno dei
maggiori finanzieri del narcotraffico, proprietario di numerose imprese
distribuite tra Colombia, Russia e Sudafrica e ‘padrino’ politico di una decina
di congressisti e due ex ministri dell’economia. Ex ufficiale del reparto di
telecomunicazioni dell’esercito, Pastor Perafán ha nominato a capo del suo
gruppo di sicurezza due ex generali, e la sua rapida scalata ai vertici del
riciclaggio, è stata facilitata dal particolare “spirito di corpo” delle forze
armate colombiane. I primi affari nel contrabbando di liquori e sigarette con
il Centroamerica, iniziarono infatti quando ‘el Presidente’ copriva il ruolo di
vicecomandante del ‘Laboratorio di lingue’ dell’esercito. I suoi ‘contatti’ con
i massimi vertici dello Stato, gli hanno permesso di firmare contratti per
decine di miliardi di pesos con la società petrolifera ‘Ecopetrol’, per
esplorazioni in Guatiqía, Guaviare e Cacuana, in violazione dei diritti e degli
interessi delle comunità indigene.
Altro ex appartenente alle forze di sicurezza, divenuto tra i
“nuovi cavalieri della cocaina”, è Jesús Amado Sarria Agredo, stimato tra i
vertici della polizia nazionale per le campagne periodiche di assistenza sociale
che organizzava in compagnia della moglie Elizabeth Montoya, poi assassinata, a
favore dell’istituzione a cui era appartenuto “e nella quale creò una
struttura di protezione personale e di affari”[100].
Tra coloro che frequentavano con assiduità gli uffici di Sarria Agredo, alcuni
congressisti di Nariño e il colonnello della polizia Germán Osorio, guardia del
corpo del liberale Ernesto Samper durante la campagna presidenziale, e
successivamente suo consigliere di fiducia. Sarria Agredo avrebbe avviato con
l’architetto Juan Carlos Gaviria, un’operazione d’investimento immobiliare
nell’isola caraibica di San Andrés. L’attività fu sospesa a seguito del
misterioso rapimento di Juan Carlos Gaviria, liberato grazie all’intervento del
fratello, l’ex presidente della Colombia, oggi segretario dell’Organizzazione
degli Stati Americani, César Gaviria Trujillo.
Le indagini sul narcotrafficante Guillelmo Ortiz Gaitán, hanno
confermato il ruolo di contatto del colonnello Germán Osorio tra
l’establishment dell’ex presidente Samper e i padrini di Cali. “L’avvocato Ortiz Gaitán conseguiva voti e
forniva il denaro per acquistare la benzina per i veicoli della campagna al
colonnello della polizia Germán Osorio”, hanno scritto di lui gli
inquirenti di Bogotá[101].
Noto costruttore e proprietario di alberghi e complessi edilizi in Colombia e
Miami, Guillelmo Ortiz Gaitán è stato indagato e prosciolto nel ’92 dalla
Procura di Firenze che indagava su un vasto traffico di cocaina dal Sud America
all’Italia.
L’amministrazione Clinton, incapace in tutti questi anni di
interrogarsi sulla reale dimensione degli intrecci narcos-forze armate
colombiane, ha dovuto fare i conti con una vicenda che ha rischiato di minare
l’immagine dei propri reparti inviati in Colombia per fare la lotta al traffico
di stupefacenti. Nel novembre del 1999 è stata arrestata nella Carolina del
Nord, Laurie Hiett, moglie del colonnello James Hiett, nominato da appena un
anno presso l’ambasciata Usa a Bogotà, a capo del reparto speciale di
addestramento delle unità antidroga colombiane. Laura Hiett era accusata di
aver spedito più di 15 libbre di eroina (valore 700.000 dollari) dalla Colombia
a New York utilizzando il servizio privato della posta dell’ambasciata.
Un’inchiesta interna dell’esercito determinava invece ‘l’innocenza’ del marito
che tuttavia era ‘allontanato’ dalla Colombia. La vicenda sembrava destinata
all’oblio, quando alcune prove raccolte in sede processuale determinavano il
ruolo attivo del colonnello James Hiett negli affari di droga della moglie.
L’ex responsabile delle operazioni anti-narcos in Colombia, figura di primo
piano nella pianificazione della base strategica di Tres Esquinas per la
‘campagna antinarcoguerriglia’, ha dovuto ammettere di fronte alla Corte
federale di aver utilizzato il denaro ricavato dalla moglie con la vendita di
eroina per pagare i conti dell’abitazione comprata negli Stati Uniti. Mentre
Laurie Hiett è già stata condannata a cinque anni di reclusione, il colonnello
è stato rinviato a giudizio per riciclaggio di denaro[102].
I grandi network di stampa e televisione, impegnati a sostenere
la necessità della crociata antidroga, si sono guardati bene a dar risalto ad
una vicenda che avrebbe potuto incrinare la credibilità del ‘Plan Colombia’ e
dell’intervento delle forze armate statunitensi nello scacchiere
andino-caraibico. Lo scandalo è stato opportunamente coperto dalla stessa
ambasciata Usa di Bogotá. Secondo alcuni funzionari civili e militari in forza
presso il corpo diplomatico, gli ufficiali sotto le dipendenze del colonnello
Hiett erano a conoscenza “dell’uso di droga da parte della moglie” sin dai
tempi del loro matrimonio a Panama a fine anni ’80, quando James Hiett operava
presso il quartiere generale del Comando Sud. “L’informazione era stata passata
direttamente all’ambasciatore Curtis Kamman, che tuttavia approvò la nomina del
colonnello a comandante delle missioni antidroga in Colombia”[103].
[1] B. McCaffrey, “Statement before the House Committee
on Government Reform”, Subcommittee on Criminal Justice, Drug Policy, and Human
Resources, Washington, February 15, 2000.
[2] T. R.
Pickering, Under Secretary of State for Political Affairs, “Statement before
the Senate Appropriations Committee, Subcommittee on Foreign Operations”,
Washington, February 24, 2000.
[3] R. W. Lee, “El labirinto blanco. Cocaina y poder político”, Cerec, Bogotà, 1989, pag. 48.
[4] F. Castillo, "La coca nostra", Editorial Documentos Periodísticos, Bogotá, 1991, pag. 68.
[5] A. Camacho,
“Droga, corrupción y poder: marihuana y cocaina en la sociedad colombiana”,
Cidse, Cali, 1988, pag. 146.
[6] U. Santino,
G. La Fiura, “Dietro la droga”, cit., pag. 249.
[7] L. A.
Restrepo, “La guerra como sustición de la política” en ‘Analis Política’, n. 3,
Bogotá, gennaio-aprile 1988, pag. 80.
[8] A. Reyes Posada, “Compra de tierras por
narcotraficantes”, en ‘Drogas ilícitas en Colombia’, cit., pag. 286.
[9] A. Reyes Posada, “Compra de tierras por
narcotraficantes”, en ‘Drogas ilícitas en Colombia’, cit., pag. 288.
[10] C. Medina
Gallego, “Autodefensa, Paramilitares y Narcotráfico en Colombia”, EDP, Bogotá, 1990, pagg. 167-8.
[11] A. Peña, “La mal llamada Limpieza Social”, in ‘Justicia y Paz. Revista de Derechos Humanos’, n. 10, gennaio-marzo 1999, pag. 42.
[12] ‘Utopías’, n. 65, giugno 1999, pag. 21.
[13] A. Sema, “Come si combatte in Colombia”, in ‘I grandi Caraibi’, cit., pag. 108.
[14] A. Reyes Posada, “Compra de tierras por
narcotraficantes’, cit., pag. 288.
[15] R. W. Lee, “El labirinto blanco”, cit., pag. 175.
[16] C. Medina
Gallego, “Autodefensa, Paramilitares y Narcotráfico en Colombia”, cit., pag.
23.
[17] Informe
Confidencial del Das al Juzgado Segundo de Orden Público del 10 de Mayo de
1988.
[18] F. Castillo, ‘La coca nostra’, cit., pag. 219.
[19] ‘Utopías’, n. 68, settembre 1999, pag. 28.
[20] F. Castillo, ‘La coca nostra’, cit., pag. 249.
[21] ‘El Mundo’,
19 agosto 2000.
[22] G. Piccoli,
“Pablo e gli altri. Trafficanti di morte”, cit., pag. 122.
[23] ‘El Espectador’, 24 aprile 2000.
[24] F. Castillo, ‘La coca nostra’, cit., pag. 46.
[25] C. Krauthausen, “Padrinos y Mercaderes. Crimen organizado en Italia y Colombia”, Planeta Colombiana Editorial, Santafé de Bogotá, 1998, pag. 267.
[26] G. Guillén,
“Cronicas de la guerra sucia”, cit., pag. 158.
[27] ‘Evening
Standard’, 21 giugno 1990.
[28] G. Piccoli,
“Pablo e gli altri. Trafficanti di morte”, cit., pag. 119.
[29] ‘El Espectador’, 1 ottobre 1989.
[30] A. e L. Cockburn, "Amicizie pericolose. Storia segreta dei rapporti tra Stati Uniti e Israele”, Gamberetti editore, Roma, 1993, pag. 306.
[31] ‘Washington Post’, 29 gennaio 1990.
[32] C. Medina
Gallego, “Autodefensa, Paramilitares y Narcotráfico en Colombia”, cit., pag.
383.
[33] A. e L. Cockburn, "Amicizie pericolose. Storia segreta dei rapporti tra Stati Uniti e Israele”, cit., pag. 312.
[34] G. Piccoli,
“Pablo e gli altri. Trafficanti di morte”, cit., pag. 117.
[35] ‘El Tiempo’, 17 settembre 2000.
[36] C. Krauthausen,
“Padrinos y Mercadores”, cit., pag. 286.
[37] F. Castillo, “Los jinetes de la cocaina”, Editorial Documentos Periodísticos, Bogotá, 1987, pag. 22.
[38] Ibidem, pag.
107-9.
[39] Ibidem, pag. 225.
[40] Ibidem, pag. 82.
[41] ‘El Tiempo’, 11 novembre 2000.
[42] F. Castillo, “Los
nuevos jinetes de la cocaina”, cit., pagg. 172-9.
[43] A. Labrousse, M. Koutouzis, “Geopolitica e Geostrategie
delle Droghe”, cit., pag. 91.
[44] R. R. García, ‘Aspectos ecónomicos de las drogas
ilegales’, en “Drogas ilícitas en Colombia”, cit., pag. 164.
[45] E. Torres y A. Sarmiento,
“Rehenes de la mafia”, Intermedio Editores, Santafé de Bogotá, 1998, pagg.
555-6.
[46] I. Betancourt
Pulecio, “Sì Sabía. Viaje a través del expediente de Ernesto Samper",
Ediciones Temas de Hoy, Santa Fé de Bogotà, 1996, pag. 409.
[47] ‘El Tiempo’, 17 settembre 2000.
[48] F. Castillo, “Los nuevos jinetes de la cocaina”, cit., pag. 143.
[49] ‘Semana’, 26 ottobre 1993.
[50] C. Medina
Gallego, “Autodefensa, Paramilitares y Narcotráfico en Colombia”, cit., pag.
382.
[51] G. Guillén,
“Crónicas de la guerra sucia”, cit., pag. 242.
[52] G. Piccoli,
“Pablo e gli altri. Trafficanti di morte”, cit., pag. 62.
[53] 'Newsday', 4 maggio 1990.
[54] G. Guillén, “Crónicas de la guerra sucia”, cit., pag. 130.
[55] U. Santino, G. La Fiura, “Dietro la droga”, cit., pag. 239.
[56] Ibidem, pag. 238.
[57] ‘Panorama’, 10 ottobre 1996, pag. 120.
[58] ‘New York Times’, 10 agosto 1985.
[59] A. e L. Cockburn, "Amicizie pericolose. Storia segreta dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, cit., pag. 266.
[60] D. Gonzalez, “Los reyes del lavado de dinero. La ventanilla sinistra de la Economía”, Panama, 1991, pag. 83.
[61] ‘Il Sole – 24 ore’, 14 novembre 1991.
[62] F. Castillo, “La coca nostra”, cit., pag. 115.
[63] ‘Newsweek’, 15 febbraio 1988, pag. 34.
[64]
‘New York Times’, 16 gennaio 1990.
[65] ‘Avvenimenti’, 29 gennaio 1992, pag. 26.
[66] T. R.
Pickering, “Statement before the Senate Appropriations Committee, Subcommittee
on Foreign Operations”, cit..
[67] B. E.
Sheridan, “The Colombian Drug Threat”, cit..
[68] ‘Semana’, 15 maggio 2000, pag. 37.
[69]
B. E. Sheridan, “The Colombian Drug
Threat”, cit..
[70] U.S. Ambassador to Colombia Curtis Kamman,
letter in response to congressional inquiry, Bogota, November 17, 1998.
[71] ‘El Espectador’, 27 febbraio 2000.
[72] Ibidem.
[73] ‘Utopias’, n. 68, settembre 1999, pag. 24.
[74] M.M. Malagón,
"Los derechos humanos en las relaciones Estados Unidos-Colombia", in
L. A. Restrepo (a cura), ‘Estados Unidos. Potencia y prepotencia’, cit., pag.
89.
[75] ‘El Colombiano’, 26 febbraio 2000.
[76] ‘Tiempos del Mundo’, 26 ottobre 2000, pag. 5.
[77] ‘El Tiempo’, 27 novembre 1998.
[78] ‘Semana’, 15 novembre 2000, pag. 52.
[79] ‘Washington Post’, 11 agosto 1998.
[80] F. Castillo, “Los jinetes de la cocaina”, cit., pag. 233.
[81] A. Salazar y A.M. Jaramillo, “Las subculturas del narcotráfico”, Cinep, Bogotà, 1996, pag.54.
[82] ‘El Espectador’, 1 agosto 1985.
[83] R. W. Lee, “El labirinto blanco”, cit., pag. 299.
[84] F. Castillo, “La coca nostra”, cit., pag. 260.
[85] F. Castillo, “Los jinetes de la cocaina”, cit., pag. 88.
[86] G. Piccoli, “Le guerre degli smeraldi”, in ‘Narcomafie’, giugno 1994, pag. 24.
[87] ‘El Colombiano’, 16 luglio 2000.
[88] F. Castillo, “Los jinetes de la cocaina”, cit., pag. 50.
[89] ‘Time’, 14 febbraio 1989, pag. 21.
[90] ‘Time’, 25 febbraio 1985, pag. 30.
[91] ‘Semana’, 27 gennaio 1987, pag. 25.
[92] G. Piccoli, “Pablo e gli altri. Trafficanti di morte”, cit., pag. 112.
[93] Acción Andina, “Póliticas antidroga e interdicción”, cit., pag. 36.
[94] G. Guillén, “Crónicas de la guerra sucia”, cit., pagg. 163-4.
[95] ‘Cambio’, 31 gennaio 2000, pag. 62.
[96] ‘Reuters’, 22 novembre 1994.
[97] ‘Gazzetta del Sud’, 8 gennaio 1996.
[98] ‘La Repubblica’, 20 settembre 1995.
[99] Comisión juridica
andina, “Situación de los derechos humanos en Putumayo”, Lima, 1993, pag. 47.
[100] F. Castillo, “Los nuevos jinetes de la cocaina”, pag. 91.
[101] ‘Cambio’, 13 marzo 2000, pag.18.
[102] “Colonel admits money laundering”, in ‘Agencia de Noticias Nueva Colombia’, http://home3.swipnet.se/anncol/index.htm, 12 maggio 2000.
[103] ‘Semana’, 15 novembre 2000, pag. 92.