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   Vivarium Scyllacense                                            Guido RHODIO*                                                                                       
   Anno IV-N.2,1993,9-38

                                                                        
   
                                           

  SQUILLACE E IL COMPRENSORIO
                              
DAGLI  SVEVI  AL  TRACOLLO DELLA FEUDALITÀ:  SPIGOLATURE STORICHE

 

          Nel presentare  lo studio La successione nello Stato feudale di Squillace** del prof. Luigi Borgia*** devo dire che  esso affronta per la prima volta in modo sistematico e documentato la successione feudale dello Stato di Squillace, uno dei Feudi politicamente strategici non solo della Calabria ma dell'intero Reame, conosciuto nel tempo col nome <<di Sicilia>>, <<di Napoli>> e <<delle Due Sicilie>>.

         L'incasellamento cronologico dei vari Conti, Principi e Duchi di Squillace, il ventaglio di Casate nobiliari tra le più esposte, rinomate e illustri a cui nei diversi secoli  gli stessi Signori appartenevano, ma soprattutto l'analisi storica che inquadra il ruolo, per tante ragioni primario e cruciale, di un territorio feudale tra i più emblematici e determinanti nello snodo politico ed economico del Regno, concorrono  a mettere fi­nalmente in chiaro e a precisare adeguatamente non solo pagine significative della storia cittadina e calabrese,ma a stabilire, con cognizione di causa, alcuni tasselli necessari e fondamentali per il mosaico della storia del nostro Meridione.

         Lasciato da parte, opportunamente, l'approccio complesso e im­pegnativo con la Casa normanna, viene rimandato ad altro approfon­dimento l'esame scrupoloso della successione e delle vicende politico-militari riguardanti la dinastia degli Altavilla Signori di Squillace per circa un secolo,  dalla resa dei bizantini asserragliati tenacemente nel fortilizio e fino all'arrivo degli Svevi (1).

         Una dinastia che - con Guaimaro di Salerno, il Guiscardo e Ruggero, Eberardo, <<a cui il malvagio Re [Guglielmo il Malo,nel 1158, ndr.] cavò gl'occhi per sugestione dell'empio Maione>>, An­fuso, Guglielmo e Riccardo, ma anche con Adelaide, Elisabetta, Sichelgaita e Medania - fonda il <<Regno del Sud>> e lo stesso si­stema feudale meridionale; riesce ad abbattere l'<<ultima roccaforte bizantina>> di Squillace e ne soppianta l'organizzazione; reintroduce in chiave politica e religiosa la latinizzazione dell'area scillacense, interrotta con l'oscuramento della luce sfavillante dei Cenobi cassiodorei di Vivarium e Montecastello, e riproposta, nella linea della risoluta e incalzante politica papale, dal grande carisma ascetico di San Bruno di Colonia che, con Ruggero il Gran Conte, proprio attraverso le donazioni da Squillace, fonda la Certosa della Torre e recide l'esperienza del rito greco-bizantino che per quattro secoli circa aveva caratterizzato la diocesi.

 

    Tra Svevi, Angioini e Aragonesi.

 

         Il prof.Borgia squarcia invece la prima notte feudale squil­lacese scandagliando puntigliosamente e lucidamente l'impianto a Squillace della Casa Sveva dei Lancia,cugini di Federico II e di Manfredi, nonchè il caposaldo eccezionalmente filo-ghibellino, perciò antiangioino e antipapale, in cui i conti svevi trasformano Squillace,costretta a contrastare, gareggiare e affrontare, col coinvolgimento della nobiltà e degli stessi vescovi locali,il leggendario ed enigmatico conte Pietro Ruffo di Catanzaro,esponente principale e testardo della partigianeria filo-guelfa.

         E'sicuramente certo che Squillace non ingoiò mai lo strazio del corpo di Manfredi nel 1266, nè la sconfitta-esilio a Benevento del suo  conte Federico Lancia: dopo solo qualche anno, infatti, nel 1268, la riscossa ghibellina  impersonata dal <<pullum aquilae>> federiciana, fermamente deciso, dopo la dieta di Augusta, a rivendicare il regno avito, trovò ancora l'entusiastica a­desione della stragrande maggioranza del popolo squillacese.

         Trascinata nella rivolta a favore di Corradino dall'agitato re Rinaldo da Cirò (o Ipsigro); dalle gesta del suo Conte esule, Federico Lancia, che comandava però arditamente la flotta pisana, e dagli stessi vescovi locali, nella primavera-estate di quell'anno, con pochissime significative altre città calabresi - nonostante che il castellano, Andrea de Cornay, si schiera decisamen­te con l'esercito angioino, lasciando la moglie a guardia della rocca, invasa e depredata dagli abitanti - Squillace insorgerà coraggiosamente e rischiosamente contro Carlo d'Angiò, che aveva proseguito  <<...con forza e con menzogna la sua rapina>> de <<la gran dota provenzale>> e che <<vittima fè di Curradino>>.

         Al tiranno angioino e alla <<mala segnorìa>> la città resisterà, infatti, per alcuni anni pagandone la temerarietà con la  dura  repressione programmata dall'altero vincitore <<ad cunctorum proditorum exterminium et ruinam>>, e capitolando solo molto tardi all'inesorabile francesizzazione,tanto che solo a partire dal 1271 risulta infeudata a Giovanni di Montfort (2).

         Da tenere in conto che è di questi anni - 1270-1271 - una decisione del Re Carlo I d'Angiò che dispone una  <<provisio de non molestando Stefano Ruffo, de Squillacio,pheudatario>>, eviden­temente suo partigiano - come il leggendario, e certamente parente, conte di Catanzaro Pietro Ruffo - ma di cui non è chiaramente interpretabile il ruolo di <<pheudatario>>, se cioè vi sia stata una reale investitura di Squillace.

         Non  va dimenticato  inoltre il protagonismo di Squillace e dei suoi migliori cittadini nei prodromi,durante e nei mesi susseguenti dei Vespri Siciliani, quando soprattutto <<gli intrighi di Pietro d'Aragona con gli esuli siciliani e con i ghibellini d'Italia miravano a fare scoppiare la guerra civile>> nel Regno e principalmente in Calabria, dove <<parecchi fuorusciti calabresi, che avevano trovato ospitalità presso Pietro d'Aragona, erano stati da questo rimandati nei rispettivi paesi, allo scopo d'incitare gli animi a sollevarsi contro gli Angioini>> (3).

         E'infatti della fine del 12 febbraio 1283 la partecipazione del Conte di Squillace, Giovanni di Montfort - insieme a quelli di Catanzaro, Arena, Borgogna e Alencon - al consulto che il vicario generale in Calabria di Carlo I, il principe ereditario Carlo (poi II), tiene a Reggio e in cui si decide il trasferimento dell'esercito angioino da Catona a Terranova presso Oppido, che di fatto apre le porte di Reggio a quello Aragonese e apre anche <<una nuova fase per la guerra del Vespro>>.

         Non è da escludere che in quegli anni siano arrivate fino a Squillace le bande dei ribaldi <<Amulgaveri>> assoldati com'è no­to da Pietro d'Aragona e <<spediti nell'infelice suolo di Calabria a rinnovarvi le nefaste imprese operatavi dai Saraceni nell'alto Medio Evo>>, bande che <<col terrore, suscitato dai saccheggi, dalle taglie e dalle uccisioni, essi ebbero il compito di aprire le vie del paese al re d'Aragona>>, smorzando gradualmente gli entusiami delle popolazioni per il partito aragonese (4).

         Sicuramente fu in questo contesto e nell'euforia delle intrepide gesta del grande condottiero Ruggero di Lauria che, dopo la strepitosa impresa navale di Nicotera del 1285 e le susseguenti favorevoli incursioni dello stesso coraggioso Capitano <<sulle sponde dell'uno e l'altro mare>> calabrese, Squillace, con pochissime altre emblematiche città calabresi, autonomamente innalzò la bandiera aragonese, accaparrandosi d'ora in avanti un crescendo di patrimonio d'affezione e di predilezione da parte della Casa regnante d'Aragona.

         Ciò ovviamente non servì a far conseguire alla città l'auspicata tranquillità per il prolungarsi sul suolo calabrese delle ostilità, mutatesi nel tempo <<in guerriglia devastatrice e selvaggia>>, tra eserciti e fazioni angioine ed aragonesi e per l'in­capacità degli Aragonesi e dello stesso Ruggero di Lauria di <<saper conservare le terre conquistate, che, poco e mal difese, passavano alternativamente da Aragonesi ad Angioini>>.

         Di questo altalenarsi di prevalenze partitiche ne è riprova evidente l'intervento del vescovo di Squillace, Filippo, nel 1286,  all'incoronazione di Giacomo d'Aragona a re di Sicilia e la certa riconquista della città da parte dell'angioino conte Giovanni di Montfort, che - nel quadro della riconquista angioina di qualche posizione perduta e delle prolungate trattative diplo­matiche tra Carlo II d'Angiò e Giacomo II d'Aragona, culminate, auspice il papa Bonifacio VIII e il matrimonio di Giacomo con la figlia di Carlo, col patto di Junquera del 1293 e con la pace di Anagni del 12 giugno 1295 - ritroviamo  sicuramente Signore di Squillace nel 1292, anche con la carica di Gran Camerlengo del Re­gno, e nel 1295, quando firma l'inventario di preziosi tessuti di seta catanzarese.

         Tutti conoscono con quale sdegno reagì la Calabria e anche la Sicilia a quei patti,giudicati un vero tradimento di Giacomo, e con quale ardore d'impegno - respinto decisamente dal fratello Federico d'Aragona il patto, gli ordini del papa e acclamato re di Sicilia lo stesso Federico dal parlamento generale di Catania del 15 gennaio 1296 - riarse la guerra tra i due blocchi, coinvolgendo soprattutto l'epicentro calabrese con un esercito poderoso alla testa del quale stavano con il giovane re Federico, il gran condottiero Ruggero di Lauria e il  <<prode e generoso>> Blasco d'Alagona.

         Sono questi tre eccezionali ed ardimentosi condottieri ara­gonesi che nel pieno dell'anno  1296, dopo la presa di Messina e di Reggio, investono, piegano <<con maggior nerbo di forze>> ed espugnano Squillace, precisando il Fazello che  <<Capto Squilla­cio, et Conrado Lancea ibi Praefecto constituto, contra Catanza­rim exercitum mittit...>>, esercito che resta accampato per più settimane alla marina di Squillace in attesa di risolvere le titubanze "patriottiche?" di Ruggero di Lauria per l'assalto contro Catanzaro (5).

         Questo Corrado Lancea, morto intorno al 1300, era Ammiraglio della flotta catalana di Pietro d'Aragona e poi Gran Cancelliere e Ammiraglio di Sicilia; ma, quel che più conta per noi, era molto probabilmente figlio e  sicuramente discendente dei Lancia, conti di Squillace, ed aveva perciò radicati astio e odio antichi e tutto il sangue ribollente della brama di vendicare i suoi congiunti svevi, scacciati da Squillace dai Monforte e disumanamente annientati dagli angioini, quasi trenta anni prima, dopo Benevento e Tagliacozzo, con Manfredi e Corradino.

         Sempre in questo periodo dobbiamo registrare uno scontro tra Ruggero di Lauria e il conte Giovanni Monforte di Squillace, evidentemente scampato alla resa a cui la nostra città era stata in­dotta nelle settimane precedenti, il quale  nel luglio-agosto 1296 aveva con veemenza attaccato Rocca Imperiale, in settembre poi ar­resasi in suo potere.

         Gli ultimi convulsi episodi di un ventennale e cruento duel­lo tra Dinastie e tra fazioni feudali e cittadine della Calabria dovranno registrare il voltafaccia ancora indecifrabile dei due grandi condottieri e protagonisti della lunga guerra del Vespro: Giovanni di Procida e Ruggero di Lauria, passati repentinamente nelle schiere che avevano passionalmente e prestigiosamente com­battuto.

         Soprattutto il voltafaccia di Ruggero, il leggendario Ammira­glio aragonese, che nel tentativo disperato e infelice di combat­tere, questa volta finalmente, stretti dal <<comun sangue>>, fianco a fianco con Pietro Ruffo, per la riconquista di Catanzaro, viene dagli Aragonesi e dal suo prode compagno d'arme Blasco d'Alagona, nel settembre 1297, duramente sconfitto, ferito e messo in fuga, salvandosi miracolosamente la vita col rifugio a Badolato.

         La stessa Squillace, occupata dagli Aragonesi, resistette lun­gamente all'assedio delle truppe angioine che da più mesi non riuscivano ad espugnarla e cui cederà soltanto nella primavera del 1299, ritornando, con altre terre finitime e con la stessa Catanzaro, al mai gradito governo angioino.

         Anche quì da noi, questo atteggiamento di permanente ripulsa al potere angioino verrà a stemperarsi  soltanto con gli accordi di Caltabellotta del 1302 e con l'arrivo in città, nel 1313, di Tommaso Marzano, il quale sposando, evidentemente in terze nozze, Maria Estendardo avvierà la dinastia squillacese di questa famiglia, munifica di libertà civili e di significative istituzioni religiose.

         Con questa famiglia il castello di Squillace potrà ancora allietarsi e ingentilirsi, come nel passato, di splendide e virtuose Madonne Contesse e Castellane, appartenenti ai migliori e più illustri Casati del Regno, e tra queste soprattutto, intorno al 1342, della bellissima Giovanna (o Giovannella) Ruffo, figlia di Giovanni, conte di Catanzaro e moglie di Goffredo Marzano, conte di Squillace, che Boccaccio magnificherà nell'<<Amorosa visione>> per l'eccezionale bellezza pari a quella di una dea (6) e infine, circa un secolo dopo, della famosa Eleonora d'Aragona, figlia del Re Alfonso il Magnanimo, e moglie dell'unico Duca di Squillace, Mari­no Marzano-Ruffo, fellone nei confronti del cognato Ferrante, che lo manderà in carcere e  lo farà avvelenare nel 1464.

Nel castello di Squillace come "Giulietta e Romeo"?

           E' nella successione di questi trambusti turbinosi,rimasti tuttora ampiamente inesplorati, che va collocato il mistero dei giovani amanti sepolti vivi nel Castello di Squillace, i cui scheletri teneramente abbracciati sono stati scoperti nel corso di recenti scavi archeologici della Ecole Francaise (7).

         Tali conflitti, interessanti i secoli  XI,XII e XIII, s'intrecciano infatti, come già si è potuto notare, con avvenimenti politicamente rilevanti per l'intera Nazione, ma, senza essere ancora adeguatamente decifrati, si diramano da Squillace, intersecando  il triangolo bizantino, normanno/svevo e angioino della Signoria dei Montfort.

         Quest'ultima Signoria si insedia a Squillace con frotte di cavalieri francesi o filofrancesi dopo la fine tragica di Manfredi e Corradino e degli stessi Federico, Vicario generale di Manfredi in Calabria, e Galvano Lancia junior, conti di Squillace.

         Parallelamente si registra in città - avvenimento per niente scardinato dagli eventi  misteriosi, per non dire esoterici, attribuiti allo sfortunato Ordine cavalleresco - l'insediamento di un nucleo significativo e prestigioso di Templari che allungano la loro influenza, tramite la postazione del Monastero dei Gerosolimitani di <<Monasterace>>, fino alle porte di Catania, anche con la figura emblematica di  Guglielmo di Squillace, che nel 1294 risulta sindaco ed economo degli estesi possedimenti ed imbarcazioni templari di Lentini, strategicamente nevralgici per il controllo dell'intera costa jonica calabro-sicula e dei traffici verso le sponde palestinesi, rispetto alle operazioni militari delle Crociate e a quelle connesse di carattere economico.

         L'indagine osteologica e gli altri accertamenti predisposti  dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Reggio Calabria e dalla stessa Ecole Francaise stabiliranno l'anno approssimativo a cui far risalire gli scheletri - sembrerebbe tra il XII e il XIII secolo - e conseguentemente si potrà ricondurre a ragionamenti plausibili la storia conturbante e la dinamica del fatto tenebro­so - delitto o suicidio ? - che ha interessato la giovane coppia - novelli Giulietta e Romeo! - emersa non tanto improvvisamente (8) dai sotterranei del castello di Squillace.

         Si potrà sapere, cioè, se la vicenda sentimentale dei due giovani innamorati o amanti squillacesi sia stata conseguenza dei terribili e funesti conflitti registrati nel maniero squillacese tra tra famiglie di bizantini e normanni,di normanni e svevi o di svevi e angioini e aragonesi, oppure se va spiegato come l'epilogo di un amore impossibile e senza ritorno maturato, contenuto ed esploso all'interno di una stessa famiglia di Signori e Dignitari o Cavalieri della Corte feudale squillacese.

          Vita religiosa che rifiorisce.

          Ma non sono solo i misteri e i conflitti a far scena nella Squillace di questi secoli, se possiamo notare  con compiacimento che non mancano, anche sotto l'aspetto spirituale, momenti partecipativi di prim'ordine ai grandi innesti del rinnovamento ecclesiale e rilevare che Squillace ancora una volta è humus fecondo per il rifiorire della vita religiosa.

         Con l'arrivo delle prime Clarisse nel 1331, volute dal conte Tommaso Marzano; con la fondazione del Convento osservante  di S.Maria della Misericordia nel 1457, ma soprattutto  intorno al 1252 - a soli venticinque anni dalla morte del Fondatore - con l'impianto del protoconvento di San Francesco (che diventerà nel 1686 la seconda sede del Convento di San Domenico e nel 1928 sede delle Scuole Elementari), la città accoglie il primitivo France­scanesimo, che esprime il massimo fulgore con Donato di Squillace, vescovo di Anglona nel 1254, e con fra Nicola da Squillace che nel 1310 è tra i dodici <<eremiti>> di Calatamuro presso Agrigento, quando il gruppo clareniano dei <<Fraticelli>> a cui egli apparteneva - interprete autentico in Calabria dello spiritualismo e del rigorismo Gioachimita - promette di <<voler osservar povertà secondo la vita evangelica>> e viene raggiunto nel 1317 dalla seconda scomunica papale (9).

         E poichè siamo in tema di scomuniche non possono dimenticar­si quelle inflitte, nel 1229 e nel 1236, dal Papa Gregorio IX all'Imperatore Federico nello scontro per la Chiesa di Squillace, di cui il Monarca aveva dichiarato vacante la Sede per usurparne i beni ed esercitarne la primazia di investitura.
Anche l'altro rinomatissimo ed efficacissimo Ordine <<Mendicante>>, quello dei  Predicatori, si afferma celermente e vigorosamente a Squillace fin quasi dal suo emergere nella Chiesa.

         Stando ai cronisti locali (10), è proprio nella nostra città infatti che, sotto la spinta del concittadino Venerabile Fra Giovanni da Squillace, compagno di San Domenico, viene edificato un Cenobio domenicano - <<primum in utraque Calabria>> - di cui nel 1450, con una Bolla di Papa Nicola V, viene ufficializzato il funzionamento presso la nuova sede della <<Torricella>>, negli edifici dell'antichissima  chiesa e Ospedale di San Giovanni Battista, sicuramente di impianto Templare, e da quì si sarebbe propagato il Messaggio e la Regola domenicana per l'intera regione.

         Il Convento di San Domenico subirà moltissime, alterne vicende, fino alla soppressione innocenziana del 1652, durata per un intero novennio, e fino al ripristino del 1662 ancora alla <<Torricella>>; ma saranno decisivi l'ardore e la costanza del concittadino Padre Maestro Giuseppe Lottelli, la munificenza del nobile Agazio Ferrari e i voti insistenti dei cittadini per la <<reintegratione, et restauratione illius Conventus>>, ricostruito dalle fondamenta nel 1686, come si è detto, sul vecchio edificio dei francescani conventuali e riconosciuto come Priorato il 24 ottobre 1699 dal Maestro Generale Fr. Antonino Cloche.

         Affrontato il capitolo della Signoria dei Marzano, quasi tut­ti Grandi Ammiragli del Regno, che caratterizza il trapasso dal dominio angioino e che si conclude ingloriosamente, come sopra detto, con la fellonia di Marino Marzano nei riguardi del cognato re Ferrante, il prof.Borgia ci immette nel periodo aureo della città, quando, con l'avvento degli Aragonesi nella persona dello stesso Federico, primo Principe di Squillace poi Re, si registra l'inizio della demanialità cittadina e si favorisce ogni forma di crescita nel campo delle istituzioni locali, delle attività economiche, e finanche della cultura.

         Questa demanialità verrà confermata e rafforzata attraverso uno dei concordati politici più emblematici di quel periodo tra il Reame di Napoli e il Papato  che stabilisce  nel 1492 l' infeudamento di Squillace alla figlia di re Alfonso, Sancia, e il matrimonio della stessa con  Goffredo Borgia, figlio di Papa Alessandro VI e poi Protonotario del Regno, un avvenimento decisivo per la storia di Squillace, che a ben ragione poteva esprimere grande contentezza per l'assunzione del feudo da parte di due personaggi di rango regale, avvenimento foriero di grandi benefici per tutti anche perchè era assicurata la permanenza in loco dei due sposi.

         Goffredo, o Jofrè altrimenti chiamato, darà vita infatti al ramo tipicamente italiano dei Borgia di Squillace che - insieme alle diramazioni procedenti dagli altri germani, specialmente dal Valentino e da Lucrezia, da cui è immesso negli Estensi ferraresi - costituirà l'alternativa al ramo spagnolo dei Duchi di Gandia, procedenti da Juan Francisco, trucidato misteriosamente, secondo incontrollate dicerie a causa degli asseriti amori impudichi e incestuosi della stessa Sancia, a Roma nel 1497, e che terrà in soggezione la città per circa 250 anni.

 Un abbozzo di Umanesimo, garanzie istituzionali e roghi  dell'Inquisizione.

          Sono secoli e anni, questi,nei quali la città,per il ruolo politico che esprime e per i vertici istituzionali di così alto livello che la guidano, indirizza o convive, d'altro canto, con eventi significativi della storia umana, sociale, religiosa e politica dei territori meridionali.

         Non mancano anzitutto gli interventi per la tutela di interressi economici fondamentali della comunità, come si rileva dal conflitto che l'Università di Squillace apre con quella di Catanzaro per l'esercizio diffuso di legnatico, conflitto che la corte napoletana conclude purtroppo a danno di Squillace e con lo sfruttamento di alcune importanti risorse minerarie.

         Proverbiale il suo spirito antifrancese, che probabilmente deve essere fatto risalire alla traumatica interruzione dell'esperienza filosveva, all'odio mai sopito contro i carnefici di Manfredi e Corradino, ma soprattutto affonda le sue radici nello tendenza ghibellina della maggior parte della Nobiltà locale, contro quella filoguelfa rappresentata dalla fazione contraria, almeno fino a quando, nel 1492, l'arrivo dei Borgia non sanzionò la pacificazione tra il Papato e gli Aragonesi.

         Il Marafioti, nel 1601, sottolinea questa peculiarità di Squillace - confermata anche nel 1495 quando Carlo VIII toglie il Principato a Goffredo Borgia nominando, col titolo di Marchese, il suo fido scozzese Eberardo Stewart d'Aubigny, divenuto peraltro Vicario Generale nella Calabria - e ricorda che <<nel tempo che Carlo d'Angiò occupò il Regno di Napoli, per la divotione che por­tava questa città agli Aragonesi, udita la nova ch'il Rè Ferrando era venuto in Reggio [2 giugno 1495, ndr.], col gran Consalvo Ca­pitano, tosto si rilasciò da Francesi da quali à forza era stata occupata, e volontariamente si diede al suo vero, e legittimo Rè>> (11).

         Singolare l'episodio ardimentoso riportato dal Martire in un suo manoscritto, secondo cui durante i momenti più caldi della battaglia di Seminara del 21 giugno 1495 Re Ferrandino, caduto più volte da cavallo - dopo aver colpito con l'asta il fianco del neo Marchese di Squillace d'Aubigny - viene rimesso in sella da Giovanni di Capua, <<il quale amò meglio di morirsi, che di veder morto il suo Re>>, e viene salvato definitivamente da Birardo Misaso, gran soldato di Paterno, detto perciò volgarmente il Paterno, al quale il Sovrano conferisce sul campo il Principato di Squillace, che il Misaso non potè godere <<per esser morto nel dì seguente in un fatto di armi>>.

         Nei giorni seguenti il d'Aubigny, dopo aver invano tentato la capitolazione di Catanzaro, secondo le narrazioni locali tra cui quella del D'Amato, volse l'impresa contro Squillace (12), che però per la strenua resistenza dei cittadini, per la difficile, tradizionale espugnabilità della rocca formidabile e per l'accerchiamento alle spalle operato dalle truppe accorse da Catanzaro sotto la guida del coraggioso Principe Galeotto Carafa di Roccella, parente di Goffredo Borgia, costrinse il generale francese a ripiegare verso Stilo.

         E' noto che a conclusione di questi avvenimenti il Principa­to fu nuovamente assegnato a Goffredo Borgia, anche se con una riduzione notevole dei territori per via della posizione altalenante e poco lineare assunta dal Borgia  nella vicenda.

         Stante questo legame privilegiato con la Casa d'Aragona la città riesce più facilmente a misurarsi con esperienze istituzio­nali locali di primissimo ordine, protette da Capitoli e Ordinazioni  di Principi e Re, che anticipano in termini di garanzia e di equilibrio tra classi le tesi del Tutini; vive il fiorire di mestieri, professioni e di arti, come quello della seta e della ceramica, la cui rinomanza travalica il territorio calabrese, finanche della liquerizia (13); si organizza in Associazioni, Corporazioni e Confraternite tra le più antiche ed operative del territorio regionale; convive civilmente e con regole di dignitosa parità con la comunità ebraica,consistentemente presente ed operante economicamente nel quartiere de <<La Giudeca>>, alla quale sarà accordato la possibilità di non portare il segno del <<Thau>>, obbligo imposto anche dalle leggi del 1423 emanate dalla Regina Giovanna II contro i Giudei (14).

         La città inoltre si caratterizza in modo particolare per l'impronta culturale che assume la Corte principesca, soprattutto sotto Federico d'Aragona, con presenze stimolanti di letterati e e di artisti di fama, come il Pontano, Gran Cancelliere del Feudo; Elisio Calenzio (Luigi Gallucci), Govermatore della Città nel 1483; mastro Nicolò di Tommaso, intagliatore e decoratore espertissimo a Napoli, i fratelli La Rosa, pittori di fama; di filosofi come il gesuita Andrea Gironda e Nicola Rhodio; di poeti come Ascanio Piscianesi, e di musicisti, giureconsulti e filantropi e medici, come Rocco Rhodio e Stefano Pepe, Guidone Rhodio e Cesare Baldaja, Roberto Striverio, Giovan Battista de Alemagna, Pietro Gironda Presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1444, Bernardo Striverio nel 1462 e 1475, Ottaviano Cesari nel 1590, Giovan Batti­sta Pepe, Pretore ed Auditore di Rota criminale a Genova nel 1602; di scrittori come Agazio di Somma, vicario generale a Squillace e poi vescovo a Cerenzia e Catanzaro o di padre Giovanni Fiore da Cropani, vissuto nel convento di Stilo.

         Notevole ancora il fatto che essa si dota di strutture cul­turali di richiamo sovraregionale, come lo <<Studio di Filosofia,Teologia,et altre Scienze>> dei Padri Domenicani e come le famose biblioteche dei tanti Conventi e quelle  dei vescovi Guglielmo e Tommaso Sirleto, i quali, insieme ai congiunti Geronimo e Scipione, si accaparreranno ruoli culturali prestigiosi, quali per lungo tempo la carica di Prefetto e Custode della Vaticana, e gareggeranno con i massimi esponenti della più illustre erudizione di quei tempi.

         È l'abbozzo di un Umanesimo e di un Rinascimento di marca calabrese non trascurabile nè secondario anche se poco noto, come capita sempre a tutte le vicende umane, culturali e sociali del Meridione, ma che va opportunamente riconsiderato e rivalorizzato.

         Sono secoli in cui le vicende religiose e spirituali di Squillace e della vasta diocesi sono segnate altresì da episcopati prestigiosi non solo per grandezza e notorietà del Casato dei vari Prelati, come quello di Gajeta,di Galeota, di Della Corgna o del cardinale Enrico Borgia, fratello di San Francesco Borgia, ma anche per l'incisività pastorale e per la sperimentazione di rinnovamento ecclesiastico, come quelli  dei santi vescovi Marcello, Tommaso e cardinale Guglielmo Sirleto, protagonista del Concilio di Trento e per due volte sul punto di essere eletto Papa.

         Non va dimenticato però che proprio in questi  secoli Squil­lace e la comunità diocesana devono assistere attonite e smarrite all'attivismo del tribunale inquisitoriale della Curia locale e finanche ai roghi che nella piazza della Cattedrale, esattamente nel 1570, bruciano i corpi di Nardo Forese  e di Cesare Santoro, rei di aver introdotto e propagandato, dopo averle attinte direttamente a Ginevra, le fresche e innovative dottrine luterane (15).

         Ma non va dimenticato neanche che la stessa Curia Episcopale deve  subire da parte di taluni cittadini violenze incredibili per l'Ufficio e per le persone, come capita, in base ad un interessante documento di cui siamo in possesso, nel caso insorto nel 1587, in merito all'uso patrimoniale di alcune case, tra il magnifico Bernardino Cacia e il canonico sir Vincenzo Presinaci.

         Tali violenze portano il predetto Cacia  - secondo canoni che oggi definiremmo <<mafiosi>> - al sequestro di Officiali curiali e alla pretesa di rendere esecutiva  una precedente Sentenza che sarebbe stata emessa <<per episcopalem audientiam Squillacensem>> il 14 dicembre 1559, sentenza da ritenersi probabilmente apocrifa, anche perchè risulta emanata da un fantomatico Vicario e Visitatore Apostolico di Squillace, di nome Vincenzo Celino, indicato addirittura come <<prothonotarius apostolicus, presbiter cardinalis Ravanensis>>, di cui non si trova traccia nelle liste e nei documenti vaticani.

         Sono vicende dolorosissime, che però hanno comunque un con­trappeso nell'emergere di religiosi di spicco come il dotto filo­logo Antonio Guerra, maestro del Principe Borgia e pare nel 1485 anche vescovo Squillace; il domenicano padre Giuseppe Lottelli; il teologo teatino Marcello Megali; i conventuali padre Paolo da Squillace, validissimo scotista, padre Nicola Caracciolo, ministro provinciale di Calabria, padre Antonio Rhodio, dottissimo Superiore di Calabria, e padre Arturo Lattanzio da Cropani, Teologo del vescovo Marcello Sirleto e Procuratore Generale dell'Ordine; il sacerdote Sansone Carnevale di Stilo, fondatore a Napoli di una Congregazione di Sacerdoti Missionari; e soprattutto l'agostiniano beato Francesco da Zumpano, che nel 1577 e nel Monastero della Pietà di Soverato apre una fase nuova dell'Ordine e fonda il gruppo degli Agostiniani Zumpani; gli squillacesi Florestano Pepe, nel 1596 Vicario Generale dell'arcivescovo Matteo Ricialora a Genova, e Marc'Antonio Parise, Cappellano del  Re Filippo a Madrid e poi vescovo di Oria.

         A questi vanno aggiunti moltissimi altri, tra cui il cistercense vescovo Tommaso, nel 1262 inviato Visitatore Apostolico a Salisburgo in Germania; Matteo Giovanni d'Amato, Familiare di Papa Giulio II  e il francescano fra Serafino da Squillace che nel 1480 raccoglie l'eredità della resistenza di Otranto contro il tentativo di Maometto II di imporre la egemonia ottomana sulla cristianità, resistenza culminata nell'uccisione degli ottocento martiri guidati dal sarto Antonio Primaldo e dall'arcivescovo Stefano Pentinelli, di cui fra Serafino diverrà immediato Successore nella Cattedra idruntina.

 Con Campanella,le rivolte antispagnole spaccano e insanguinano la città.
         Il Seicento squillacese sperimenta anche avvenimenti che  coinvolgono la città in vicende che interessano la grande storia,ma ancor più segnano la vita della comunità cittadina e di quelle circonvicine.

         Tra questi avvenimenti vanno annotati la resistenza anti­francese, guidata dal principe Francesco Borgia (che secondo il Lottelli dovrebbe essere figlio di una terza moglie di Goffredo: Giovanna d'Aragona, nipote del re Ferdinando il Cattolico), culminata con l'assedio di Catanzaro del 1528; la massiccia adesione alla lotta contro i Turchi decisa nel successo di  Lepanto dalle armate cristiane infervorate dalle parole fervide del citato padre Lattanzio e guidate, per i duemila calabresi, dal barone Gaspare Toraldo di Badolato.

         La stessa celebrazione a Squillace negli anni 1583-84 del Capitolo Generale dei Basiliani, impegnati nella riforma dell'Ordine promossa dal Protettore Cardinale Sirleto, costituisce per la città una valorizzazione e un richiamo di dimensione ecclesiale vastissima; ma in modo particolare non vanno per nulla sottovalutati i periodi burrascosi delle rivolte antispagnole, in cui la città partecipa intensamente, immergendosi in quella progettata dal condiocesano Tommaso Campanella, tradotto insieme ai rivoltosi dalle truppe del barone di Gagliato e, dopo il primo memoriale inviato al Sant'Offizio il 16 giugno dal vescovo Tommaso Sirleto, processato a Squillace il 13 settembre 1599.

         Non conosciamo allo stato i nomi degli squillacesi che possono aver appoggiato  la congiura campanelliana, ma essi non possono che appartenere ragionevolmente alle famiglie notoriamente antispagnole, quali quella dei Pepe <<da sempre sospettosissima di ribellione>>, quella dei Rhodio, storicamente schierata col partito antispagnolo, e quelle che, anche nelle vicende del primo Seicento, erano schierate con loro (16).

         Queste turbolenze antispagnole sostenute dal vento francese fomentato dalle mire di Papa Urbano VIII Barberini si protrarranno fino alla forca di Masaniello del 1647, con ripercussioni devastanti e incontrollabili nella stessa unità cittadina.

         Nella città e nella Diocesi, infatti, l'altra fallita congiura del domenicano  fra Tommaso Pignatelli del 1634, in cui è direttamente coinvolto il concittadino Anton Maria Pepe, fratello del ben noto padre Stefano dei Teatini, infervorato dagli ardenti e patriottici incontri alla Minerva di Roma con il Campanella, nonchè un misterioso furto di argenti nella cattedrale nel 1633 con l'uccisione del Canonico Tesoriere, accende le più cospicue famiglie e le stesso popolo, spaccato tra le fazioni dei Pepe e dei Giuliano, che si scontreranno a morte per cinquant'anni dal 1607 e fino al 1657 (17).

         La situazione di questo periodo a Squillace relativamente alla pace sociale è certamente consona a quella di tutto il Seicento italiano, ma è aggravata da questo strascico di permanente e sanguinosa belligeranza tra fazioni contrastanti, agguerrite e sanguinarie e per di più esponenti delle tendenze politiche emergenti e dai già detti tentativi di rivolta.

         Mai come in questo periodo, nonostante il controllo di guar­nigioni attrezzate sotto gli ordini del capitano spagnolo don Francesco Vasquez, permanentemente residente in Squillace, si collezionano omicidi e scorrerie violente, capitanate da esponenti delle famiglie più cospicue.

         Tra le uccisioni più eclatanti, oltre a quella del Tesoriere del vescovado, c'è da annotare quella di Colafrancesco Riccio, di Francesco Juliano, del dottor fisico don Diego Ferrari e del Canonico Cantore syr Cesare Baldaja - di cui nel 1651 viene addirittura accusato come mandante per motivi simoniaci il vescovo Della Corgna - e quelle di Francesco Sellia e Giovanni Andrea Ermogida da Squillace e di don Domenico Pinarò, nel 1639 Curato di Stignano, questi ultimi trucidati per vendetta in quanto ritenuti delatori per i fatti delle fallite congiure del  Campanella e dell'altro domenicano fra Pignatelli.  

         Peraltro è da scoprire ancora il motivo che spinge il Governatore generale della Provincia di Calabria Ultra, Lorenzo Cenami, ad essere presente di persona, contro gli ordini del Vicerè che gli imponevano a non muoversi dalla sede, all'esecuzione capitale di due condannati che allo stato sconosciamo e che nell'ottobre 1624 ebbe luogo a Squillace: evidentemente si trattava di condannati assai importanti se imponevano alla massima Autorità  Governativa  della Provincia (qualcosa di più  dell'attuale Prefetto!) a spostarsi da Catanzaro a Squillace per assistere ad una esecuzione capitale (18).

         E' comunque certo che la città manterrà sostanzialmente la sua linea di fedeltà alla Corona napoletana, dalla quale sarà ricambiata con significativi privilegi e concessioni regali e - soprattutto nel 1645, <<inter tumultus, plebisque deliria>> - con riconoscenti attestati e titolo, tramite don Giovanni d'Austria, spesso in stretto contatto epistolare con padre Stefano Pepe, di <<Città Fidelissima>> e di <<La Nobile Città>>.

         Solamente nel predetto anno 1657, infatti, le vibranti prediche quaresimali di un frate domenicano (quasi certamente lo stesso padre Giuseppe Lottelli!), ma soprattutto il castigo travolgente e angosciante della peste, riusciranno a porre fine, con un perdono generale in Cattedrale il giorno di San Benedetto, 21 marzo, alla serie interminabile di uccisioni, stupri, ruberie, bandi, in cui come si è detto era rimasto coinvolto, con accuse infamanti, lo stesso vescovo Della Corgna.

         Non manca inoltre l'altro genere di turbolenze e di turbative che inquietano e piegano quasi permanentemente la popolazione; tra queste le frequenti incursioni turchesche, dalle  quali, se­condo il Marafioti,  <<Squillace è stata tanto favorita città di Dio,che nell'universali rovine di Calabria fatte da Mori,ella solamente,e Reggio non patirono affanno>>, ma che nel 1604  devastano Palaforìo (19) e nel 16.7.1645 seminano lutti a Stalettì (20) e  i  rovinosi terremoti del marzo 1626 che distruggono Girifalco e del 27.3.1638, che salva Squillace anche se ne mina seriamente i grandiosi edifici medievali, e del 1640-1642 che devastano Badolato; quasi due secoli prima l'immenso incendio e la pestilenza sviluppatasi dopo i tumulti e le guerre causate dai conti Marzano, e comunque prima del 1476, ne avevano letteralmente ridotte la consistenza numerica e sociale nonchè le potenzialità istituzionali e aggregative.

         In quest'epoca molto probabilmente si rafforza a Squillace  la devozione a San Sebastiano, divenuto fin dal primo Medioevo Patrono minore della città e della Diocesi, come fa fede l'ampia <<cona>> con questo Santo, la Vergine e S.Nicola realizzata per la città, nel 1579, dal rinomato pittore napoletano Antonio Spanò (o Sparano) di Tropea (21).

         Tale devozione  non si affievolisce in città neanche quando sopravviene e si diffonde a macchia d'olio, in quasi tutti i paesi della Diocesi, a cominciare da quelli più vicini a Squillace, la invocazione di protezione e il culto di San Rocco, che risulta coeva e si sviluppa a seguito alla grande pestilenza del 1656, dalla quale rimase immune Squillace, secondo quanto narrano le cronache, mercè la protezione di Sant'Agazio, nonchè a seguito dell'altra pestilenza del novembre 1620, cui sopravvenne il devastante alluvione, passato alla storia come <<diluvio di San Martino>> (22).

Intorno alle Ossa di Sant'Agazio, mentre si estingue la dinastia      Borgia
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          Il secondo cinquantennio  del Seicento colleziona un sommario di fatti che incanalano  Squillace sulla linea comune a tutta la realtà meridionale ed il secolo si conclude riproponendo, anche nella nostra città - con gli aspetti  caratterizzanti la decadenza sociale, economica e demografica - , quello specificamente introverso e miserando delle nostre assolate comunità, che riducono  il Mezzogiorno a <<una plaga atona e spenta>> e rendono stridente il <<divario crescente tra la cultura meridionale, inserita in una cornice europea, e lo spaventoso disgregamento della società circostante>>, un fatto che <<costituì uno degli elementi più impressionanti nella vita civile del Mezzogiorno nei secoli successivi e forse l'ostacolo maggiore ad una comprensione esatta dei suoi problemi reali>> (23).

         Alcuni episodi, che riporteremo quì appresso, ci sembra che esprimano adeguatamente questa specificità meridionale e locale.

         Il primo riguarda la vicenda impressionante della <<Religiosa Professa del Monastero di Santa Chiara di Squillace>>, Suor Maria Barone, che per quarant'anni, da quando nel 1678 circa  <<per sua disaventura cadde in commercio carnale con il quondam D.Gio. di Marco non cittadino... fu posta in uno Carcere sotteraneo,che può dirsi sepolcro,e fu tenuta per il spazio di anni diecinove col vitto di solo pane, et accqua con dormire sopra la nuda terra come una Cagna, e puol ascriversi a miracolo l'aver sopra vissuto frà tanti estremi patimenti,q[ua]li hà sofferti patientemente in soddisfattione del suo peccato>>(24).

         Senza sminuire lo spirito di umano sacrificio e di spiritua­le espiazione della vicenda precedente,che  ci pare rasenti l'eroismo e quindi la Santità, ad essa fa da contrappeso l'episodio della <<Monaca Santa>> del Monastero di S. Maria Maddalena, che i cronisti ci hanno tramandato senza nome. In tale Monastero, fondato da Dianora Carafa, seconda moglie del Principe  Pietro Borgia, e trasformato nel tempo da nudo Conservatorio di Pentite in vero Cenobio di clausura, sempre più frequentemente avevano cominciato a chiedere con insistenza  di entrare  delle <<immaculatae honestioresque Virgines>>.

         Accadde che un pò prima dell'agosto 1693 fu celebrato un funerale spontaneo per la morte di una di queste Sorelle,avendo la cittadinanza udito improvvisamente e con stupore, <<neminesque pulsante>>, suonare in tono di gloria le campane della Cattedra­le,nei cui pressi si trovava il Monastero, mentre la popolazione <<turmatim>>  si precipitava a staccare particelle di vesti della defunta, il cui corpo  rischiò di essere seppellito quasi nudo e ciò mentre  frotte di fanciulli giravano per la città gridando spontaneamente  <<è morta la Santa, è morta la Santa>> (25).

         Su tutti questi episodi emerge la instancabile predicazione evangelica dell'umile frate cappuccino padre Antonio, nato nel 1553 nella vicina Olivadi, che in Squillace soprattutto svolgerà la sua intensa missione apostolica e quì, nel convento di S.Antonio, morrà il 22 febbraio 1720,  riconosciuto <<Beato>> dalla voce popolare e dal voluminoso processo di Beatificazione raccolto pa­zientemente e amorevolmente dal vescovo Abbati (26).

         È proprio con l'azione carismatica e con la santa morte di questo religioso diocesano - anch'esso come tutti i più famosi conterranei rimasto privo del sostegno di istituzioni o potentati, sia civili che ecclesiastici, per la diffusione della sua spirituale celebrità o per il riconoscimento delle eroiche virtù che potessero elevarlo agli onori degli altari - che si delinea a Squillace il Secolo dei Lumi, parallellamente avviato sulla irre­quieta e sterile conflittualità giurisdizonalista tra Chiesa e Stato che lo caratterizzerà quasi permanentemente e che troverà il suo epicentro locale nel  conflitto tra Vescovi e Governatori per il possesso dell'antichissima <<Fiera di Sancto Agatio>> (27), rimasta all'epoca la più consistente e remunerativa dopo il progressivo esaurimento d'importanza di quelle, anch'esse antichissime ma che si svolgevano nella campagna lontana dall'abitato, di <<San Fantino>> e di <<Santo Janni>> e considerando che quella dell' <<Assunta o Mezzagosto>> era ancora in via di affer­mazione.

         Mentre si estingue con fumosi discendenti, come chiaramente annota prof. Borgia, dopo quasi duecentocinquant'anni la dinastia di Goffredo Borgia, e si consuma vanamente un tentativo di innestare un'altra famiglia feudale con l'intestazione e il possesso del 13 ottobre 1732 da parte di donna Tomasa Urtado De Mendozza y Sandoval, vedova del conte di Santa Croce, lo Stato squillacese dopo il  1734  viene dichiarato "aperto" e sottomesso alla Regia Camera (28), mentre la linea giurisdizionalista del Tanucci mette le mani anche sul nostro Vescovado dichiarandolo di <<Regio Patronato>> (29).

         I ricorrenti terremoti dei primi decenni imporranno poi in­terventi radicali alla vecchia Cattedrale normanna,rinnovata dal­le fondamenta e riconsacrata il 24 novembre 1737 dal vescovo Nicola Michele Abbati con lavori di abbellimento e pitture affidati al noto <<Ricciolino>> (30) e la città si ritroverà nella stessa Cattedrale per la ricognizione  delle insigni Reliquie, traslate nella nuova Urna di argento e cristallo, con atto pubblico del 16-17 gennaio 1735  e si stringerà intorno alla rinnovata statua d'argento del glorioso Patrono della Città e Diocesi, Sant'Agazio Centurione e Martire (31).

         In contemporanea si realizza  un risveglio operoso delle attivita artistiche e artigianali, che troverà la massima espressione in tanti campi, come le botteghe dei ceramisti fajenzari (32), di argentieri come  Bruno de Leo e di tantissimi pittori come il giovane figliuolo di questi, Nicola Maria de Leo (33).  

         Il secolo dei Lumi e i prodromi del nuovo mondo.

         Ma sarà la formazione di un manipolo numeroso di ecclesiastici e di civili,spesso realizzata nella capitale napoletana ma anche nel rinato e rilanciato Seminario squillacese affidato ai Padri Domenicani (34) che, trapiantando nella nascente fase sociale e culturale personaggi di grande rilievo,  tutti forniti di prestigiosi titoli accademici delle maggiori Università italiane,  andrà a costituire il nucleo dirigente in campo religioso e civile non soltanto del comprensorio squillacese ma di molte comunità calabresi, pionieri e primi protagonisti dell'avventura entusiasmante del pensiero illuminista, riformatore e sovvertitore dell'Antico Regime.

         Il secolo vedrà emergere ed imporsi, infatti, i nomi  di Saverio Ferrari di Squillace, Domenico Feudale e Lorenzo M. Varano di Isca, Francesco Antonio Attaffi di Stignano, Domenico Peronaci e Bruno Maria Tedeschi di Serra, Antonio Spedalieri di Monasterace, Francesco Maria Loyero e Nicola Spedalieri di Badolato, Giovanni Romano di Simbario, Ferdinando Mandarani, Pier Domenico Scoppa e lo stesso Nicola Notaris vescovi in diverse diocesi calabresi; di Gregorio Aracri di Stalettì, patriota e letterato illuminista, ma anche canonico arciprete della Cattedrale; di studiosi rinomati come Pasquale De Caria di Squillace e patrioti eminenti come Agazio Ciancio, Giovan Battista, Giuseppe e Nicola Schipani, Giovan Battista, Ferdinando e Florestano Pepe, Gregorio e Giuseppe Garigliani di Squillace; Luigi Rossi, Gregorio  e Saverio Mattei di Montepaone, formati o imparentati anch'essi in Squillace, e moltissimi altri di tanti Comuni circonvicini che non c'è spazio per citare.

         Anche a questo manipolo di nostri intellettuali, ecclesiastici e patrioti va attribuito il merito, secondo il nostro punto di vista, di aver contribuito e favorito quella spinta innovatrice e quel vento riformatore, a cui purtroppo ebbe scarsa partecipazione la massa del popolo, che fece scuotere dalle fondamenta tutta quell' impalcatura feudale che per secoli aveva organizzato e governato le nostre contrade.

         Lo stesso atteggiamento del vescovo Notaris che nel 1797, non ostante la notoria posizione giacobina dell'ecclesiastico,  affidò la predicazione quaresimale e pare volesse favorire la nomina di Gregorio Aracri a Canonico Teologo della Cattedrale di Squillace (35), è tutto da sottoporre a più favorevole rilettura e da ritenere emblematico di quanto nella Chiesa locale e in taluni vertici ecclesiastici locali, non ostante le apparenze, il favore ai processi riformatori siano stati più concreti e più significativi di quel che finora si è creduto.

         Non ho difficoltà a confermare anche quì, che prima e pià delle riforme francesi del 1806, fu questo soffio vitale di pensiero e di azione di tanti cittadini e sacerdoti illuminati e impegnati che, insieme al sussulto sismico del  <<grande flagello>> del 1783, sradicò sicuramente la vecchia mentalità e la vecchia e traballante struttura della nostra società calabrese e che gettò le basi del Risorgimento nazionale, pur passando attraverso l'amara e finalmente comprensibile esperienza dell' "Insorgenza"  antifrancese.

         Un capitolo, quest'ultimo, che francamente dobbiamo ammettere fu, soprattutto da noi, "Insorgenza" contro la <<violenza di coloro che parlavano di libertà,ma la rinnegavano nell'istante stesso che usavano l'argomento delle baionette e dei cannoni contro...un popolo che si trovava pressochè al completo dall'altra parte della barricata>> (36) e che, ferito da un ondata di stupri, violenze angherie inaudite, tra cui assai vistose quelle di Soveria Mannelli o di Palmi, <<diede adesione ai valori della religione tradizionale e della nazione, sicchè la lotta antifrancese fu interpretata come un episodio della lotta pe la "patria">> (37) e della libertà dall'invasore.

         Questo capitolo, lo sappiamo, ebbe protagonista principale e  sfortunato combattente in tante regioni meridionali Giovambattista Rhodio, il giovane ventisettenne nostro compaesano <<già partigiano dei Francesi e ora accostatosi al Cardinale Ruffo>>, che, dopo una vita ardimentosa e tormentata, solo l'insuccesso e l'invidia di suoi emuli e la <<dispotica ragion di Stato>> volta a terrorizzare i rivoltosi calabresi, lo farà salire sul patibolo di piazza Mercato a Napoli il 27 aprile 1806, con una sentenza in­giusta di fronte al Diritto e alla Storia, <<in dieci ore giudicato due volte,assoluto e condannato, libero e spento>> (38),una specie di <<assassinio politico>> (39) di cui rimasero sdegnati <<tous les gens de bien>>, anche di nazionalità o di partigianeria francese (40).

         Alcuni giorni prima, il 23 e 24 aprile 1806, Giuseppe Bonaparte, nominato solo da poche settimane Re delle Due Sicilie e richiamato certamente dall'importanza strategica della località, occupata dalle truppe francesi, <<malgrado la pioggia dirotta...in mezzo al giubilo, con cui il popolo l'ha ricevuto>> (41) aveva visitato e pernottato a Squillace, noi diremmo quasi a compensare ed attutire con la sua  regale presenza l'influenza che uno dei suoi figli più esposti aveva fortemente  esercitato in tutte le contrade del Regno contro l'Armata Francese e forse raccogliendo le sollecitazioni rancorose di avversari squillacesi e catanzaresi, città ambedue maggiormente legate al lo sfortunato generale <<capo degli insurgenti>>.

         Non ci sembra solo un caso, infatti, che il re Giuseppe scriva la famosa, impaziente lettera al generale Massena, pubblicata dal Rambaud, per "definire" il caso Rhodio proprio il 24 aprile e  da Catanzaro, dove era arrivato in giornata proveniente da Squillace.

         Sono processi innovativi nei quali bisogna riconoscere che fu coinvolto attivamente, quale che era la parte prescelta, tutto il ceto culturale, religioso e civile costituente il nucleo dirigente delle tante comunità sparse tra l'Allaro e il Corace e che  una grande parte ebbe a svolgerla probabilmente la stessa nuova famiglia feudale, l'ultima!, dei marchesi De Gregorio, insediatasi a Squillace nel 1755.

         Proprio la famiglia dei De Gregorio, con il marchese capostipite don Leopoldo, Ministro del re a Napoli e Madrid, nonchè ambasciatore dello stesso a Venezia (42); con il figlio di questi il cardinale Emanuele, sul punto di essere eletto Papa alla morte di Leone XII, nel conclave del 1829 che elesse poi Pio VII, ma impedito dal veto dell'Austria avanzato su sollecitazione della Corte di Napoli che accusava l'Eminentissimo di <<troppa mollezza politica>> verso i liberali, con molti dei quali aveva stretti rapporti (43); e con un  nipote di questi, esule e ricercato da Napoli (44), deve essere stata quasi sicuramente al centro di questi avvenimenti, anche perchè sarebbe difficile ipotizzare che personaggi di così alto rilievo politico e istituzionale nella Capitale e a Roma non abbiano avuto qualche pur minima influenza nei territori da essi posseduti.

         Non si spiegherebbe perchè proprio il nostro comprensorio fu tra i più attivi e tra i più esposti nello scontro tra <<giacobini>> e <<realisti>>, con punte estremiste di <<realismo>> in quasi tutti i centri della Diocesi, tra cui soprattutto Borgia, Gasperina e Centrache, dove addirittura i francesi nel 1806  incendiarono e distrussero l'intero paese, e con una Squillace, centro della Diocesi e perciò ragionevolmente la più dotata di personale ecclesiastico numeroso e qualificato, che si trasforma nella maggiore postazione giacobina e repubblicana calabrese e accoglie l'alloggiamento delle truppe francesi (45).

         Fu sotto l'impeto di queste grandi novità che a Squillace nascerà  il 14 febbraio 1783, proprio nei giorni dolenti del terremoto, il <<padre della Rivoluzione italiana>> Guglielmo Pepe (46) e che si insupperanno di idee liberali tantissimi giovani nobili e borghesi i quali pianteranno  in Squillace l'albero della libertà il 3 febbraio 1799 e  creeranno quelle condizioni di fermenti eccezionali, che il Verga immortalerà nel suo giovanile primo romanzo <<I carbonari della Montagna>>, ambientato fondamentalmente a Squillace e da considerare vero spartiacque tra il tracollo della feudalità e il fiorire tumultuoso dei percorsi liberali, unitari e patriottici (47).

         Con questo intenso e generoso apporto,sulle macerie del ter­remoto e delle decrepite strutture medievali,l'era del nuovo mon­do si farà prepotentemente strada anche a Squillace avendo  come simbolo la ricostruzione nel 1796,della più antica e ininterrotta istituzione locale, la Chiesa Cattedrale, di cui, esattamente dopo due secoli, l'amore e  lo sforzo degli squillacesi non apatici o  ignavi ma responsabili e tenaci - quelli per capirci che non han­no mai accettato, anzi hanno sempre remato contro il destino di <<decadenza fatale>>  -  hanno ora il conforto e la gioia di consegnare il completamento del possente edificio alle generazioni del Duemila, alle quali con esso, fidenti nell'avvenire che non tradisca il glorioso passato, si consegna anche il permanere del livello di prestigio, di dignità  e di ruolo che nei millenni la nostra storica Città si è conquistato.

 

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  *  Direttore responsabile del Bollettino

 **  Il testo, abbastanza lungo ed interessante, per il momento è disponibile nei fascicoli del Bollettino.

*** Il prof. Luigi Borgia - che ringraziamo vivamente per questo notevole e prezioso contributo che offre alla ricerca sulla storia feudale di Squillace e per il grande onore che fa alla nostra rivista con il prestigio della sua competenza - è nato nel 1941 in Roma da antica famiglia napoletana  e risiede ad Arezzo.

         Funzionario di ruolo nella carriera direttiva dell'Ammini­strazione degli Archivi di Stato, ha diretto l'Archivio di Stato di Arezzo e diverse Sezioni di quello di Firenze, nella quale città, con la qualifica di Sovrintendente Direttore Capo r.e., è attualmente vice Sovrintendente della Sovrintendenza Archivistica per la Toscana.

            Collaboratore alla docenza  nella Scuola locale di Archivi­stica, Paleografia e Diplomatica, in quella per i Diplomi in Archivistica  della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari  dell'Università <<La Sapienza>> di Roma, nonchè  nelle commissioni della lauree in Lettere della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze; Professore a contratto per diversi anni nei corsi integrativi sui problemi dell'Araldica e della Sigillografia, ha insegnato in corsi speciali di formazione, qualificazione e aggiornamento professionale, specialmente per archi­visti di Enti locali e laureati ordinatori di archivi storici.

            E' tra i più accreditati ricercatori  di argomento araldico, sigillografico, genealogico, di diritto nobiliare; relatore in moltissimi convegni e giornate di studio in Italia e all'Estero, membro di diversi Istituti di Cultura, è membro-segretario del Consi­glio direttivo e del Comitato scientifico del <<Comitato di Studi per la Storia dei Ceti Dirigenti della Toscana dal Medioevo alla fine del Granducato>> ed, unitamente al prof. Wipertus Hugo Rudt de Collenberg, ha svolto un'amplissima ricerca sugli esemplari araldici monumentali esistenti in Roma.

            E' uno dei tre araldisti del Corpo della Nobiltà Italiana ed ha al suo attivo oltre sessanta tra saggi, studi e pubblicazioni. 

 

NOTE:

 

(1) -  G.Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae Siciliae  comitis et Roberti Guiscardi Ducis  fratris eius, edizione curata da E.Pontieri in RR.II.SS.

     Roberto il Guiscardo concede intorno al 1057 al fratello Ruggero la metà della Calabria,da Squillace già espugnata,fino a Reggio da espugnare.: <<Concedentes ei medietatem totius Calabriae a iugo montis Nichifoli et montis Sckillacii quod acquisi­tum erat vel quousque Regium essent acquisituri>>, ibidem, I, XXIX, 10-11; Sulla identificazione del monte Nichifoli cfr. Parisi, Noterelle di storia normanna,Torino 1951,12; Sulla con­quista normanna della Calabria cfr. E.Pontieri, I Normanni nell'I­talia Meridionale, I, La conquista, Napoli s.d.;

(2) - Per la vicenda del castellano de Cornay e moglie cfr.: I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da R.Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani, III (1296-70), Napoli 1951, p.198 n.525; cfr. inoltre: G.Galasso, Il Regno di Napoli, Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), Torino-U­TET 1992, pp.32-36-39-41;  Dante, Purgatorio, Canto VII, vv.120-126; G.FIORE, Della Calabria Illustrata, III, Chiaravalle C. 1977, p.185;

(3) - Ernesto Pontieri, Un Capitano della guerra del Vespro:  Pie­tro (II) Ruffo di Calabria, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Anno 1931, Fasc.IV, pp.493-4;

(4) - E.Pontieri, op.cit., p.495;

(5) - Archivio Storico della Calabria, Mileto 1915, III, 1915 p.35; E.Pontieri, Op.cit., p.512;

(6) - <<E con queste a seder bellissim'era,/simile a riguardare ad una dea,/la sposa di colui che la rivera/rosseggiar fè di Lipari,eolea/isola,poi togliendo in guidardone/l'ammiraglia da chi dar la potea>>, in Giovanni Boccaccio, Amorosa Visione, Canto XLIV,vv.19-24, Edizione critica per cura di Vittore Branca, Fi­renze-Sansoni, 1944, p.190 e Commento relativo a pp.625+631; Idem in I Classici Mondadori, Tutte le opere di Giovanni Boccaccio a cura di Vittore Branca, vol.III, Milano A.Mondadori Editore, 1974, vol.III, p.131 e ss. e commento relativo a p.718+731.

     Per l'impresa navale dei napoletani a Lipari del 17 novembre 1339 capitanata da Goffredo Marzano, conte di Squillace, che sbaragliò i siciliani guidati da Giovanni di Chiaramonte, conte di Modica, e che guadagnò allo stesso Goffredo l'incarico prestigioso di Ammiraglio del Regno, cfr.: G.A.Summonte, Historia della Città e Regno di Napoli, Napoli 1748, Tomo Terzo, libro Quarto, p.337;  G.Ga­lasso, Op.Cit., Torino-UTET 1992, p.161.

     Questa Giovannella o Giovanna Ruffo era come si è detto figlia di Giovanni cponte di Catanzaro “già seconda sposa a Goffredo Marzano, conte d’Alife e di Squillace e poi almirante del Regno, e quindi terza a Giovanni dell’Amendolea, stirpe feudale…zia di Niccolò e sorella di Pietro II conte di Catanzaro…ligia al conte d’Angiò, e non peranco sottomèssasi al re Carlo III né alla regina reggente…” (cfr.: G.Battista Moscato, S.Lucido di Cosenza, in Rivista Storica Calabrese, Anno III, fasc. IX e X, S.Lucido 1895, ristampa in Bollettino Calabrese di Cultura e Bibliografia., Anno VII, n… e Anno VIII, n.1/1991, Catanzaro Lido).

(7) - Oldani Mesoraca, Forse due amanti sotterrati vivi, in Gazzetta del  Sud del 19 novembre 1994, p.9;  Salvatore Taverniti, Squillace: straordinario ritrovamento archeologico, in Il Giornale di Calabria del 19 novembre 1994, p.11; Daniele Cristofaro, Due amanti nel Castello, in La Piazza del dicembre 1994, pp-1-5;

(8) - Un rabdomante, oriundo calabrese ma ora residente all'Estero, avrebbe segnalato circa dieci anni fa ad alcuni nostri attendibili concittadini la presenza dei due scheletri, segnalando anche la morte violenta dei giovani soggetti, l'esistenza con  altri oggetti di un pugnale avvolto in una specie di pelle di serpente e l'aggirarsi di misteriosi cani, che la descrizione fattaci ci tenterebbe di avvicinarli ai tre mastini dell'araldica sveva.

(9) - F.Russo, I Francescani Minori Conventuali in Calabria (1217-1982), Catanzaro 1982, p.45;

(10) - G. Lottelli, Squillacij Redivivi, Libro Terzo, cap.VIII, manoscritto del 1694 in Archivio Vescovile Squillace, ora stampato come Squillace dall’età antica all’età moderna ossia “Squillacii redivivi libri IV.” di Giuseppe Lottelli, a cura di Attilio Vaccaro, Rende (Cs), Centro Editoriale Librario, Università degli Studi della Calabria, 1999; A.Ba­rilaro O.P., San Domenico in Soriano, Palermo 1969, pp.23, 25, 234;

(11) - G.Marafioti, Croniche et antichità di Calabria, Padova MDCI, ristampa per Forni-Bologna 1975, p.145;

(12) - D.Martire, Manoscritto del Misaso, inedito, in Biblioteca Comunale di Cosenza, II, I, fol.526r; G.Valente, Storia della Calabria nell'età moderna, Chiaravalle C.1980, I, pp.28-29; V.D'amato, Memorie Historiche della città di Catanzaro, Napoli mdclxx, ristampa per Forni-Bologna 1975, pp.143-44;

(13) - Una spesa <<pro ligoniziatore>> che veniva da Squillace è annotata in alcuni documenti di Messsina del XV secolo e riportata in R. M. Dentici Buccellato, Lavoro e salari nella Sicilia del Quattrocento (La terra e il mare), Estratto dal volume: Artigiani e salariati:il mondo del Lavoro nell'Italia dei secoli XII-XV (Atti Convegno Pistoia del 1981), Bologna 1983, p.17 nota n.53;  Inoltre la presenza di lavoratori di Squillace  per canne da zucchero e anche vigneti e  di tal <<Antonio de Gratiano de Ysquillachi>> in Palermo vengono segnalati da Iris Mirazita, Gente di Calabria in Sicilia nel XV Secolo, pp.343, 346, 348.

            La presenza, sempre a metà secolo XV, di un mugnaio girovago <<Cicco di Squillace>> è segnalato da G. Bresc Bautier-H.Bresc nel saggio: Riflessi dell'attività economica calabrese nei documenti siciliani dei secoli XIV e XV, pubblicato in:  Mestieri, Lavoro e Professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggio, Soveria Mannelli 1993, p.230;

            Per l'argomento cfr. anche  G. Galasso, Op.Cit., p.445: Artigiani e <<popolo minuto>>;

(14) - Il segno del <<THAU>> - una figura in forma di croce mancante del braccio superiore, simile alla lettera T - fu imposta agli ebrei, quasi come marchio di riconoscimento, in molti Stati cattolici e nel Regno di Napoli dalla predetta Regina Giovanna II nel 1423: cfr. G. Antonio Summonte, Historia della Città e Regno di Napoli, Napoli 1748, Tomo Terzo, p.592: <<...Diede potestà  al venerabile fra Gio: di Capistrano dell' ordine di S.Francesco, che proibisse a' Giudei del Regno l'usure, & altri misfatti proibiti dalle leggi,costringendoli a portare il segno del Thau, come nel registro del 1423, fol.169...>>.

            Il fatto che Squillace richiedesse e ottenesse dal Principe Federico d'Aragona, poi Re di Napoli, con gli Statuti promulgati in Squillace il 30 settembre 1486, l'estensione anche agli abitanti di religione ebraica di <<tucte le gratie  concesse ad epsa Università>> e che gli stessi fossero sottratti all'obbligo di portare il marchio del <<THAU>> ci sembra un fatto di altissimo va­lore civile  e libertario, oltre che di opportunità pratica con la comunità giudaica locale con cui la città aveva evidentemente un rapporto di ottima convivenza: cfr. il mio Antichi Statuti di Squillace e tracce di autonomismo nella Calabria medievale, in <<Vivarium Scyllacense>> N.2/1990, p.60.

(15) - Archivio Segreto Vaticano, Vaticano Latino N.6190, Parte II, pp.440-441;

(16) – G. Valente, Op.Cit.,II, p.118;

(17) - L. Amabile, Fra' Tommaso Pignatelli. La sua congiura e la sua morte, Napoli 1887, p-13 e ss.;

(18) - L. Volpicella, Epistolario Ufficiale..., in Archivio Storico della Calabria..., cit., I, p.185;

(19) - G.Valente, Op.Cit., I, p.231. Palaforìo era il centro abitato precedente alla fondazone di Borgia, decisa dal Principe di Squillace, Giovan Battista Borgia;

(20) - Ibidem, p.274;

(21) - G. Filangieri, Documenti per le arti e le industrie delle provincie napolitane etc., Napoli 1891, vol.VI, pp.218+463; A. Fran­gipane, Per l'arte in Calabria, in Archivio Storico..., cit., III, pp.7-27;

(22) - G. De Rosa, Storia Moderna, Bergamo 1982, p.142; M. Pretto, Santi e Santità nella pietà popolare in Calabria, Cosenza 1993, I, pp.128ss.e 319ss; L'alluvione di San Martino è posposto al 1627 da G. Moio - G. Susanna, Diario di quanto successe in Catanzaro dal 1710 al 1769, Chiaravalle C.1977, p.244, ma riteniamo più at­tendibile la data del 1620 riferita da padre Lottelli, perchè più diretta;

(23) - G. De Rosa, Op.Cit., p.147;

(24) - Archivio Segreto Vaticano, S.C.Vescovi e Regolari, Sez.Moniale, Positiones 1 luglio 1718;

(25) - G. Lottelli, Op.Cit., lib... cap.VII;

(26) - Archivio Segreto Vaticano, S.Congregazione dei Santi, Squillacen -Processus  Beatificationis  p. Antonimi ab Olivato (Si tratta della copia manoscritta del Processo diocesano svoltosi a Squillace dal 1835 al 1846); Lexicon Cappuccinum, Romae 1951, p.94; P. Ilarino Da MilanoAntonio da Olivadi in Enciclopedia Cattolica, Roma 1949, I, p.1548;

(27) - G. Rhodio, Arresti e scomuniche a Squillace per la Fiera di Sant'Agazio del 1705, in Calabria Letteraria, Anno XI, N.ri.11-12, ottobre-novembre 1963, pp.32-33;

(28) - M. Mafrici, Squillace e il suo Castello nel sistema difensivo calabrese, Oppido Mamertina 1980, p.184;

(29) - Archivio Stato Napoli, Decreto della Curia del Cappellano Maggiore, all'epoca mons.Gennaro Testa, del 14 dicembre 1780; cfr. V.Capialbi, La continuazione dell'Italia Sacra dell'Ughelli per i Vescovadi di Calabria, Squillace, in Archivio Storico  Calabria, cit., I, p.555;

(30) - V. Cabialbi, Op.cit., p. 549. <<Ricciolino>> era il soprannome che il noto pittore Antonio Bruni mise a se stesso e con il quale è meglio conosciuto;

(31) - Archivio Capitolare, in Archivio Vescovile Squillace, Pergamena; cfr.: D. Feudale, Scylacenorum Antistitum accurata series chronologica, Napoli 1782; V. Capialbi, Op.Cit., p. 549;

(32) - G. Donatone, La ceramica di Squillace, Cava dei Tirreni 1986;

(33) - G. Rhodio, Nicola M. dè Leo e altri pittori squillacesi del Settecento, in  Rivista Storica Calabrese, N.S., Anno XIV (1993), N.ri 1-2;

(34) - P. E. Commodaro, La Diocesi di Squillace attraverso gli ulti­mi tre Sinodi 1754-1784-1889, Vibo Valentia 1975, p.252;

(35) - Archivio Comune  Squillace, Deliberazioni del "Reggimento"" municipale dell'anno 1797;

(36) - Cfr. F. M.Agnoli, Gli Insorgenti, Trento 1966; Serrao De Gregori, La Repubblica PartenopeaB. Bongiovanni-L.Guerci, L'albero della Rivoluzione, Torino-Einaudi 1989;

(37) - G. Cingari, Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799, Reg­gio Calabria 1978, p.78;

(38) - P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, IV,_12;

(39) - J. Rambaud, Il processo di G.B.Rhodio (1806), in Archivio Storico Province  Napoletane, Anno XXXIII, Fasc.I, 1908, p.275;

(40) - Ibidem, p.273, nota n.2);

(41) - "Il Monitore", n.18- 29 aprile 1806; cfr.: A. Mozzillo, Cronache della Calabria in guerra (1806-11), I, Napoli 1972, p.261; il pernottamento sarebbe avvenuto secondo il Pepe nel palazzo della prestigiosa famiglia squillacese: <<Giunto in vista della casa paterna... Mi dissero che il re Giuseppe aveva alloggiato in casa nostra...>>, in G. Pepe, Memorie...intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia, Lugano 1847, vol.I, p.194;  

(42) - Cfr. tra l'altro: H. Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Milano 1974; G. Stiffoni, Venezia e Spagna a confronto nei dispacci diplomatici di Leopoldo de Gregorio marchese di Squilla­ce, in Profili di storia veneta (Sec.XVIII-XX), Università Ca' Fo­scari, Venezia 1985, p.7 e ss.; Idem, Gli ultimi anni del marchese di Squillace a Venezia etc., in L'Europa nel XVIII Secolo, Univer­sità di Perugia, Napoli 1991, pp.133 e ss.;

(43) - R. Moscati, Il Governo Napoletano e il conclave di Pio VII, in Rivista Storica del Risorgimento, Anno XX, Apri­le-Giugno 1933, Fasc.II, Roma 1933;

(44) - Cfr. Memoriale dell'Ambasciatore di Napoli a Roma contro il De Gregorio del 7 marzo 1829 in  Archivio Stato Napoli, Casa Rea­le, f.1664 e ss.;

(45) - G. Cingari, Op.Cit., p.200 ss.;

(46) - F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato Unitario, Guglielmo Pepe, Torino 1972, p.44 e ss.;

(47) - G. Verga, I Carbonari della montagna, Milano-Vita e Pensiero 1975;  L. Jannuzzi, Sul primo Verga, Napoli-Loffredo 1988;