VIAGGIO NEL TRAPASSATO REMOTO
LE MURA MEGALITICHE POLIGONALI
DEI MONTI CASTELLONE E GAGLIOLA DI CASTEL MORRONE

Cerchio Magico

 

Sulle colline Castellone e Gagliola della catena dei Monti Tifatini esiste uno dei misteri più suggestivi che si possano immaginare.

La cinta muraria verso Est

Appena alle spalle del monte Tifata, sede dell’antichissimo tempio dedicato a Diana Tifatina sulle cui rovine, nel 1073, fu edificata la bellissima basilica benedettina di S. Angelo in Formis, con importantissimi affreschi in stile bizantino, voluta dall’abate Desiderio di Montecassino, la catena dei colli Tifatini raddoppia per formare la valle di Castel Morrone iniziando proprio dal monte Gagliola e continuando con monte Castellone e via via con altri, per ricongiungersi al lato opposto con il monte S.Michele, teatro dell’epico scontro tra le divisioni Mechel e Bixio il I° ottobre 1860.

Le cime delle due colline, Gagliola –Castellone sono circondate da mura megalitiche poligonali risalenti al VII – VI sec. a.C.

 

 

Questa fortezza fu costruita in una particolare posizione strategica: il monte Gagliola, infatti, si affaccia proprio sulla pianura campana verso la vicinissima Capua antica (l’attuale S.Maria capua Vetere) che, allora, era considerata la maggiore città d’Italia e avendo il fiume Volturno che ne lambisce la base, era considerato la porta e la sentinella della strada diretta verso il Sannio.

Queste mura hanno affascinato molti studiosi, storici ed archeologi, che ancora oggi discettano su pochi assiomi e moltissime incertezze e questo ha alimentato una serie di leggende.

Tanto per cominciare si rimane sbigottiti dalla grandezza dei massi sovrapposti e sorge spontaneo l’interrogativo di come saranno stati accatastati.

Valle del Volturno

La leggenda ha subito risolto il problema narrando di come bellissime e forzutissime fanciulle, al chiaro di luna, vestite di candidi e svolazzanti veli, con regale incedere, trasportassero quei massi sulla testa, leggere e senza alcun sforzo, proprio come facevano le nostre madri quando trasportavano acqua dai pozzi in grosse tinozze o pesanti sacchi di frumento dalla campagna.

Ancora oggi, nella fantasia popolare, le mura megalitiche vengono chiamate "’U MURO RE’ FATE", ("il muro delle fate").

Ma lo studio non può accontentarsi delle leggende.

Sotto il profilo archeologico questo sito è stato visitato e studiato da Lucio Santoro, Giuseppe Guadagno, Adriano La Regina, Antonio Maiuri e soprattutto da Gioia Conta Haller che con un suo saggio dal titolo:
"RICERCHE SU ALCUNI CENTRI FORTIFICATI IN OPERA POLIGONALE IN AREA CAMPANO-SANNITA" – "Valle del Volturno – Territorio tra Liri e Volturno",
si è talmente distinta da meritare una pubblicazione a cura dell’ACCADEMIA DI ARCHEOLOGIA, LETTERE, E BELLE ARTI di Napoli con parole di lode di Alfonso De Franciscis e di Italo Sgobbo.

Sotto il profilo storico ne hanno parlato antichi studiosi come Camillo Pellegrino, Francesco Granata, Vincenzo Esperti ed altri. Più recentemente E.T. Salmom, professore emerito alla Mc Master University in Canada, in un suo bellissimo studio dal titolo "IL SANNIO E I SANNITI".

Raffaele Leonetti, un ricercatore locale, nello scrivere la storia di Castel Morrone dal titolo:
"MORRONE IN TERRA DI LAVORO – DALLE ORIGINI ALLA FINE DEL DUCATO",
riprendendo tutti questi studi e andandosi a rileggere antichissimi storici, primo tra tutti, Tito Livio ed il suo "AB URBE CONDITA LIBRI ", è arrivato a conclusioni assolutamente sorprendenti che, comunque non impegnano la credulità del lettore.

Una cosa è certa: questo luogo è tra i più pregni di fascino e di misteri e chi vi si reca li subisce profondamente.

E, come sempre succede il fascino ed i misteri hanno dato vita a favole e leggende dalle quali è difficilissimo estrapolare la storia.

Vincenzo Esperti, un antico storico casertano colloca in questo luogo l’antichissina città di Plistica che, strano a dirsi, nessun altro reclama:
"Plistica era città situata in Morrone sopra il monte Gagliola, dove al presente si vedono le vestigia delle mura…".

La Conta Haller inserisce questo luogo, senza mai chiamarlo Plistica, in una speciale rete di ben 19 fortificazioni sannite (ma erano molte di più) che si guardavano l’un l’altra a vista, al fine di comunicare con segnali visivi, e che si estendeva fin nel profondo Sannio e fino a S. Vittore nel Lazio, proteggendo tutta la valle del Volturno e tenendo d’occhio anche le strade che venivano da Roma.

Comunque ben cinque chilometri di mura non possono essere state fatte invano.

Le varie tesi sono tutte affascinanti : la città di Plistica o, se si preferisce, la fortezza di monte Castellone – Gagliola fu costruita dai Sanniti in forte espansione come base per la conquista di Capua e Cuma, che furono conquistate rispettivamente nel 423 e 421 a.C., quando ancora Roma non rappresentava né un pericolo, né una minaccia per il Sannio.

Cerchiamo di descriverla questa fortezza: le mura hanno una lunghezza di circa 5 chilometri e racchiudono un’area di oltre 200.000 mq il che dimostra che non poteva trattarsi solamente di un rifugio, ma di una struttura stabile e viva costruita per una popolazione sicuramente numerosa e combattiva.

Le mura, infatti, sono a "terrapieno", ossia senza muretto o merlatura o muri sporgenti con una cintura in piano abbastanza larga da garantire rifornimenti, anche con veicoli, ai difensori ai quali quel sistema garantiva la maggior libertà di azione.

Le cime delle colline Gagliola e Castellone, hanno una altezza rispettivamente di 376 e di405 m. s.l.m. mentre le mura sono costruite ad una quota che va dai 330 ai 340 m., mediamente tra i 50 e i 150 m. al di sotto delle vette.

Sulla cima del Monte Castellone vi è scavato , nella roccia, un pozzo che la Conta Haller chiama "Cisterna" termine che Leonetti non condivide proprio per la sua posizione impossibile a convogliarvi acqua anche piovana e per quanto dice Giuseppe Guadagno in un suo articolo dal titolo:
"SUI CENTRI FORTIFICATI PREROMANI DELL’ALTO CASERTANO",
dove testualmente scrive:
"…la cinta….ingloba tre vette la più alta delle quali ad est (monte Castellone) funge da ARX o ACROPOLI a sua volta segnata da una seconda cinta circolare proprio sulla cima di cui restano tracce ben visibili anche nella fotografia aerea". Questo è significativo poiché l’Acropoli,, come scrive Lucio Santoro in "FORTIFICAZIONI DELLA CAMPANIA ANTICA", oltre ad essere il centro del potere era anche il luogo della custodia degli altari dedicati agli Dei protettori.

Ed anche qui già subentra la leggenda che vuole, in questa "Cisterna", sotterrato un tesoro. C’è chi, ancora oggi, è pronto a giurare di aver visto , sul fondo, con i propri occhi, una pietra squadrata che chiude perfettamente un passaggio segreto. Tutto questo, naturalmente, è corredato da antichissima quanto potentissima maledizione contro eventuali profanatori. Ora una frana provvidenziale ha provveduto a nascondere tutto ed una freccia, tracciata forse dalla stessa Conta Haller, invita ad uno scavo.

Attorno a questa "Acropoli", ancora adesso si trovano una quantità di frammenti di terracotta che attestano una attività quotidiana di una intera popolazione.

 

Dunque non solo fortezza , ma, probabilmente città nel cui territorio non è mai stato fatto neppure un saggio di scavo e, probabilmente, mai più si farà.

Oltre ai cocci di terracotta già segnalati non vi sono pochissimi altri indizi di vita poiché, all’epoca, le strutture abitative, per la quasi totalità, erano capanne che il tempo ha completamente distrutto sicché vengono in mente alcune parole che Platone mette in bocca a Crizia:
" …DEL CORPO RIMANGONO SOLO LE OSSA….TUTTE LE PARTI PIU’ GRASSE E TENERE SONO COLATE VIA E RESTA IL NUDO SCHELETRO DELLA TERRA…"

Comunque Tito Livio ci dice che dopo un periodo di grande importanza, questa città che, nel frattempo aveva assimilato l’influenza della civiltà capuana e romana fu distrutta dagli stessi sanniti per vendicare la distruzione, da parte dei romani, di Saticola città sannitica.

Il calvario di Plistica durò un intero anno, dal 314 al 313 a.C.

Antichi testi raccontano di una distruzione sistematica resa ancor più crudele dalla convinzione del tradimento. Pochi riuscirono a salvarsi.
Sulla cima del monte Gagliola furono radunate tutte le persone che non erano riuscite e fuggire e furono tutte sgozzate tanto che , dice una leggenda, si formò un vero e proprio rivolo di sangue che andò ad arrossare le acque del sottostante fiume Volturno.
Da quel momento il luogo venne chiamato, come ancora oggi, "SANGUINITO".

Ma la leggenda popolare racconta anche che il Dio Volturnus, disgustato da tanta ferocia subita dai suoi protetti, pretese dal consiglio degli Dei mano libera nella vendetta che si concretizzò in un’epica alluvione che distrusse buona parte dell’esercito sannita accampato nella sottostante piana di Sarzana; ma nell’ira il Dio si fece scappare di mano la situazione e coinvolse la stessa Capua che ricordò l’evento costruendo la famose "Madri Matute" che stringono tra le braccia, in atto di protezione, i loro numerosi figli. (vedi Museo Campano a Capua).

Per la verità storica, la stessa leggenda è stata applicata anche ai combattimenti che avvennero ai piedi del monte Gagliola nell’83 a.C. tra i legionari di Silla e quelli del console Caio Norbano, nonché ad uno scontro sanguinosissimo tra i beneventani e le truppe del Conte di Sicopoli attorno all’anno 1034, ed infine alla battaglia di Caiazzo del 21 settembre 1860 tra garibaldini e borbonici quando molte camicie rosse persero la vita affogando nelle acque del Volturno nel tentativo di riattraversarlo in seguito alla momentanea sconfitta.

Comunque sulla cima di monte Gagliola, in uno spiazzo del tutto innaturale, un perfetto cerchi di pietre, di una diecina di metri di diametro, affiora appena dalla terra e se ci si pone al centro si subiscono strane sensazioni, vuoi per le vertigini che si avvertono per la forte pendenza della collina, vuoi per il panorama che ti circonda che è veramente pregno di storia antichissima .

Ai piedi di questo colle, infatti, sono passati letteralmente millenni di storia con popoli permanentemente in guerra: dagli eserciti degli Etruschi e dei Sanniti a quelli di Annibale, dalle legioni romane all’esercito di Pirro, dai Longobardi ai Normanni e via via a tutti gli armati dei vari Principi eternamente in guerra fra di loro fino alla battaglia del Volturno tra garibaldini e borbonici del 1860 e perfino all’ultimo conflitto mondiale che ebbe sulla linea del Volturno uno dei punti di maggior resistenza dell’esercito germanico.

Quale meraviglia per il rifiorire di leggende che parlano di stragi crudelissime capaci di tramandare fino ai nostri giorni, nelle menti dei più fantasiosi, i lamento dei feriti e le urla di terrore dei morituri, naturalmente nelle notti più buie e tempestose?

Questo cerchio era, dunque, il luogo della strage? Oppure era un cerchio riservato alle cerimonie sacre o, ancora, un cerchio per pratiche magiche?

Troppi secoli sono trascorsi per poter dare una risposta. Accontentiamoci delle emozioni che si provano visitando quel sito.

Dopo la distruzione Plistica o fortezza di monte Castellone venne abbandonata ed i superstiti si trasferirono all’interno della stessa valle creando un’altra fortezza che, per le sue ridotte dimensione, la memoria storica l’ha tramandata col nome di "Castello".

(Vedi : "Viaggio nel Risorgimento Italiano: Monte Castello – Le Termopili d’Italia")

Nel 312 a.C. i Romani costruirono la via Appia rendendo del tutto inutile la funzione di Plistica deviando per altra zona il percorso per il Sannio.

Da quella data e per circa un secolo, il luogo venne del tutto ignorato fino al 216 a.C. data della vittoria di Annibale sui Romani a Canne.

Dopo la battaglia Annibale, chiamato espressamente da Capua si trasferì nei dintorni e vi si accampò per ben quattro anni.

Ed a questo punto il balletto degli storici diventa frenetico ubicando l’accampamento di Annibale in punti diversissimi.

Raffaele Leonetti, non soltanto per ragioni campanilistiche, cominciò a studiare la situazione ponendosi una semplice domanda che nessun storico si era posto fino ad allora : "Può un esercito di ben 26.000 fanti, 10.000 cavalieri ed altrettanti cavalli, 37 elefanti e tutti i carriaggi necessari di supporto, sostare in un luogo per ben quattro anni senza lasciare la minima traccia?"

Al Leonetti non pare possibile se non ad una condizione: che l’esercito di Annibale abbia sostato in un luogo già precedentemente fortificato nonché capace di contenere una tale quantità di persone.

Prima di poter dare delle risposte è bene descrivere sommariamente i luoghi:

Capua antica era ubicata dove oggi sta S.Maria Capua Vetere (Vetere significa, appunto, antica). La città, di forma circolare, aveva diverse porte delle quali la principale era quella orientata verso al fiume dalla quale partiva una breve strada che iniziava con un arco trionfale, era ornata da molteplici monumenti e terminava sul fiume dove era stato costruito un porto da dove le navi partivano e arrivavano per i rifornimenti della città . Alla base del monte Tifata, sede del famoso Santuario, vi era una sorgente che alimentava un complesso termale ed un piccolo lago nonché il circo e il famoso anfiteatro che risultano tutti fuori della cinta muraria.

La strada diritta ed ampia che esiste ancora e che collega S. Maria C.V. a S. Angelo in Formis è una di quelle sopravvissute.

Se si guarda bene il disegno di Mons. Costa, in basso a destra, si nota la porta che dà verso il fiume, la strada ricca di monumenti e le strutture del porto sul fiume.

Sul lato sinistro in basso sono disegnate le colline di tutto il territorio tifatino che allora erano tutte indicate con il solo nome di TIFATA.

Un’ultima osservazione: nel disegnare le carte gli antichi usavano capovolgere i punti cardinali per cui per avere un logico orientamento andrebbero capovolte.

Continuando con il Tifata altre risposte ci vengono date direttamente da Livio e da uno dei più grandi studiosi delle "Antichità di Capua" : Camillo Pellegrino. Tito Livio parla solo di una Valle nascosta nel Tifata e Camillo Pellegrino ci spiega il perché. Semplicemente perché all’epoca tutta la zona dei monti Tifatini era denominata Tifata senza una distinzione toponomastica dei vari colli.

Infatti vi sono molte attestazioni in questo senso: Monsignor Costa, Arcivescovo di Capua e studioso di antiche cose, ricostruì una "DESCRIZIONE DELLA CITTA’ DI CAPUA NEL SITO E NEL MODO ANTICO" nella quale è chiaramente spiegato, come del resto ha sottolineato il Granata, che almeno tutto l’attuale gruppo dei monti Tifatini compreso tra il tempio di Diana e quello dedicato a Giove Tifatino posto ai piedi del monte di Caserta Vecchia, (l’attuale Casolla) era indicato semplicemente come TIFATA.

Camillo Pellegrino nel suo "APPARATO ALLE ANTICHITA’ DI CAPUA O VERO DISCORSI DELLA CAMPANIA FELICE" proprio sulla denominazione del Tifata scrive:
"…né in vero di un sol colle fu questo nome, che da’ latini fu usato nel numero del più come usollo Silio… e l’usò anche Livio…."
E ancora :
"…Furono i Tifata…molto colli fra lor vicini che da noi appellarsi IL TIFATA nel numero del meno…".

E sempre il Pellegrino a proposito di Livio:
"…Avverasi questa molteplicità de’ Tifata assai bene nel dire Livio del quale intendiamo, che non fu questo nome di quel colle solo…"

A proposito del campo di Annibale, sempre il Pellegrino:
" …io credo dovette essere all’opposto lato del Tifata….nel lato settentrionale, dove fu un nostro casale appellato Sarzana, assai vicino al fiume Volturno…".
Ed ancora:
"…Tifata monte…anzi più monti di un sol nome in cui i Sanniti ebbero i loro alloggiamenti e poi ve li ebbe Annibale… e dopo di lui Silla.".

Per chi conosce i luoghi sembra la descrizione del monte Gagliola ed ogni dubbio sparisce.

Tanto premesso, vediamo cosa ci dice Tito Livio:
"Gracco impadronitosi del campo nemico….si ritrasse prestamente a Cuma , temendo Annibale che aveva il campo sopra Capua a Tifata…".
E ancora:
" …e benché Annibale desiderasse molto Cuma….si ritirò nel campo all’interno o al di sopra del Tifata…". (Libro XXIII – Cap.36).

Ed infine nel libro XXVI, Livio parlando di Annibale che torna precipitosamente dalla Puglia in aiuto a Capua, dice che giunto in Campania dopo aver espugnato Galatia, sita tra Maddaloni e S.Nicola La Strada, "…si fermò in una valle nascosta dietro il monte Tifata che sovrasta Capua.".

Per Leonetti tutto questo basta e avanza perché l’unica valle nascosta dei monti Tifatini non può essere che quella di Castel Morrone. Infatti una persona non pratica dei luoghi potrebbe agevolmente fare il giro di tutto il complesso del Tifata senza sospettare l’esistenza di una valle al suo interno, perché la valle di Castel Morrone, ancora oggi non è un luogo di transito, ma bisogna raggiungerla di proposito.

Perciò è più che probabile che Annibale trovata una fortificazione già bella e pronta, non solo, ma per di più abbastanza grande da accogliere l’intero suo esercito, abbia deciso di occuparla risparmiando ai suoi soldati un sacco di lavoro per approntare le usuali quanto necessarie opere di difesa.

Un’altra notizia, quasi una riprova, è giunta fino a noi, per memoria storica: il PONTE DI ANNIBALE ,sul Volturno a pochissima distanza dal supposto accampamento.

D’altra parte la stessa idea era venuta al Console romano Fabio Massimo che era stato mandato da quelle parti proprio per sorvegliare Annibale, ma avendo a disposizione una forza impari, si tenne prudentemente a distanza occupando un altro luogo già fortificato situato al di sopra di Alife, l’attuale Monte Cila e quasi dirimpettaio del Monte Castellone Gagliola, all’altro lato del Volturno.

Lo stesso Livio ce lo segnala:
"Fabio….si accampò in un luogo alto e fortificato".
E lo storico Trutta aggiunge sottolineandolo "…ab antiquo", ossia già da antico tempo.

Preferiamo por termine qui al nostro racconto.

Abbiamo volutamente mischiato storia e mito senza neppure tentare una cernita perché quando le memorie emergono dai millenni è inevitabile che si ammantino di mito.

E ben venga il mito se serve a nobilitare la storia!

Merezkowski, uno scrittore russo, nel suo "Atlantide" scrive:
"Le verità… più alte si ammantano di mito in modo che la verità traspaia dalla fiaba, come il corpo dal velo…".

Perciò come è possibile separare, dopo oltre duemilacinquecento anni il Mito dalla storia?

"Se si tentasse questa operazione", continua Merezkowski, " Sarebbe come dividere l’anima dal corpo, e fatalmente si finirebbe per ucciderli entrambi".

Raffaele Leonetti nel suo libro MORRONE IN TERRA DI LAVORO, condivide pienamente il pensiero dello scrittore russo e a noi tutto ciò appare estremamente suggestivo tanto da non tentare alcuna manomissione.


NOTIZIE UTILI

 

BIBLIOGRAFIA:

R. Leonetti: MORRONE IN TERRA DI LAVORO – DALLE ORIGINI ALLA FINE DEL DUCATO

FOTO: Collezione Leonetti e Studio Fotografico Peppe Villano

 

INDICE

VIAGGIO NELLA STORIA VIAGGIO NELLA MEMORIA RITROVATA

VIAGGIO NELLA TRADIZIONE E NEL FOLKLORE

VIAGGIO NELLE VISCERE DELLA TERRA

VIAGGIO NELLA CULTURA

VIAGGIO NEL TRAPASSATO REMOTO

VIAGGIO NEL MEDIOEVO VIAGGIO NEL RISORGIMENTO ITALIANO

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